I libri

Testo

Ovidio - Le metamorfosi

Libro Undicesimo

Mentre con questo canto il poeta di Tracia ammaliava le selve,

l'animo delle fiere, e a sé attirava le pietre,

ecco che le donne dei Cìconi in delirio, col petto coperto

di pelli selvatiche, scorgono Orfeo, dall'alto di un colle,

che accompagnava il suo canto col suono delle corde.

E una di loro, scuotendo i capelli alla brezza leggera,

gridò: "Eccolo, eccolo, colui che ci disprezza!" e scagliò il tirso

contro la bocca melodiosa del cantore di Apollo, ma il tirso,

fasciato di frasche, gli fece appena un livido, senza ferirlo.

Un'altra lancia una pietra, ma questa, mentre ancora vola,

è vinta dall'armonia della voce e della lira,

e gli cade davanti ai piedi, quasi a implorare perdono

per quel suo forsennato ardire. Ma ormai la guerra si fa furibonda,

divampa sfrenata e su tutto regna una furia insensata.

Il canto avrebbe potuto ammansire le armi, ma il clamore

smisurato, i flauti di Frigia uniti al corno grave,

i timpani, gli strepiti e l'urlo delle Baccanti

sommersero il suono della cetra. E così alla fine i sassi

si arrossarono del sangue del poeta, che non si udiva più.

Per prima cosa le Mènadi fecero strage di tutti

gli innumerevoli uccelli, ancora incantati dal canto di Orfeo,

e dei serpenti, delle fiere che erano vanto del suo trionfo.

Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero,

accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno

disorientato dalla luce; e il poeta pareva il cervo

condannato a morire all'alba nell'arena, preda

dei cani che l'assediano sul campo. Nel loro assalto gli scagliano

contro i tirsi, virgulti di foglie non certo creati per questo.

Alcune lanciano zolle, altre rami divelti dagli alberi,

altre ancora pietre. E perché armi al loro furore non mancassero,

alcuni buoi, col vomere affondato, aravano lì quella terra,

e non lontano, preparandosi con molto sudore il raccolto,

muscolosi contadini vangavano le dure zolle;

alla vista di quell'orda, costoro fuggirono abbandonando

i loro attrezzi: disseminati sui campi deserti rimasero

così sarchielli, rastrelli pesanti e lunghe zappe.

Quelle forsennate se ne impossessarono e, fatti a pezzi i buoi,

che le minacciavano con le corna, si gettarono a finire

il poeta che, tendendo le braccia, per la prima volta

parlava al vento e nulla, nulla più ammaliava con la sua voce:

come scellerate lo massacrarono, e da quella bocca, o Giove,

ascoltata persino dai sassi e intesa dai sensi delle fiere,

con l'ultimo respiro, l'anima si disperse nel vento.

Ti piansero afflitti gli uccelli, Orfeo, ti piansero branchi di belve,

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le rocce immobili e le selve che un tempo seguivano il tuo canto:

senza più foglie, spogli, con la chioma rasa, gli alberi

espressero il loro lutto; e si dice che anche i fiumi crebbero

a furia di piangere, e che Naiadi e Driadi indossarono manti

velati di nero, lasciando spiovere sciolti i loro capelli.

Disperse intorno giacciono le membra: capo e lira li accogliesti

tu, Ebro; è un prodigio: mentre fluttuano in mezzo alla corrente,

la lira, non so come, flebile si lamenta, la lingua esanime

mormora un flebile gemito e flebili rispondono le rive.

Trasportati sino al mare, lasciano il fiume della loro patria

per arenarsi a Metimna sulle coste di Lesbo:

qui un feroce serpente si avventa contro il capo che, gettato

su quella spiaggia straniera, è ancora intriso di gocce fra i capelli.

Ma a quel punto Febo interviene e lo blocca mentre si appresta

a mordere, immobilizzando in roccia quelle fauci

spalancate, pietrificandolo, così com'è, a bocca aperta.

Sottoterra scende l'ombra di Orfeo, e tutti riconosce i luoghi

che aveva visto prima; poi, cercandola nei campi dei beati,

ritrova Euridice e la stringe in un abbraccio appassionato.

Qui ora passeggiano insieme: a volte accanto, a volte lei davanti

e lui dietro; altre volte ancora è invece Orfeo che la precede

e, ormai senza paura, si volge a guardare la sua Euridice.

Bacco però non permise che lo scempio rimanesse impunito:

addolorato per la perdita del cantore dei suoi misteri,

sùbito con grovigli di radici inchiodò nelle selve tutte

le donne di Tracia che avevano partecipato al sacrilegio.

Ad ognuna allungò, là dov'era al termine dell'inseguimento,

le dita dei piedi e ne conficcò le punte nella dura terra.

Come un uccello che posa le zampe sulla rete, con astuzia

occultata dal cacciatore, sentendosi preso si dibatte

e agitandosi convulsamente non fa che stringere le maglie,

così ognuna di loro, quando confitta al suolo vi aderì,

atterrita cercava invano di fuggire, ma tenace

la tratteneva la radice, impedendole i movimenti.

Mentre si chiede dove siano le dita, dove i piedi e le unghie,

vede ognuna salire il legno lungo le sue gambe affusolate,

e nel tentativo di battersi la coscia in segno di dolore,

picchia sul legno: e in legno si trasforma pure il petto,

in legno le spalle, e se tu avessi scambiato le braccia protese

per rami veri, non avresti sbagliato nel giudicare.

Non contento di ciò, Bacco abbandonò anche quelle contrade

e con seguaci più miti si recò nei vigneti del suo Tmolo,

vicino al Pactolo, fiume che a quel tempo non era ancora aurifero

e non era fonte di cupidigia per la sua sabbia preziosa.

Lì si radunò il suo solito séguito di Satiri e Baccanti;

mancava solo Sileno. Barcollante per gli anni e il vino,

l'avevano sorpreso i contadini della Frigia e inghirlandato

l'avevano condotto dal re Mida, che dal tracio Orfeo

e dall'ateniese Eumolpo era stato iniziato ai riti di Bacco.

Riconosciuto il vecchio amico e compagno di culto, Mida,

per la felicità del suo arrivo, aveva indetto una gran festa,

in onore dell'ospite, di dieci giorni e dieci notti.

E già in cielo per l'undicesima volta aveva Lucifero

disperso le stelle, quando, raggiante, nelle campagne di Lidia

giunse il re per riconsegnare Sileno al suo giovane pupillo.

Felice d'aver ritrovato il suo maestro, Bacco invitò Mida

a scegliersi un premio: facoltà lusinghiera, ma pericolosa,

perché il re non se ne avvalse con saggezza, dicendo: "Fa'

che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in oro fulvo".

Bacco esaudì il desiderio, sdebitandosi con quel dono, presto

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fonte di guai, ma si rammaricò che non avesse scelto meglio.

Lieto, godendo a suo danno, se ne andò via l'eroe di Frigia

e prese a toccare ogni cosa per saggiare la parola data.

Quasi non credendo a se stesso, staccò dal ramo di un basso leccio

una frasca verdeggiante, e quella diventò d'oro.

Da terra raccolse un sasso e anche quello prese il colore dell'oro.

Tocca allora una zolla: al suo magico tocco la zolla diventa

una pepita d'oro; coglie aride spighe di grano:

un raccolto d'oro; stringe un frutto colto da un albero:

lo si direbbe un dono delle Espèridi; se poi accosta

le dita in cima a uno stipite, quello appare tutto sfolgorante.

Persino quando si lava le mani in acqua limpida,

quell'acqua, fluendo dalle sue mani, potrebbe ingannare Dànae.

Immaginando d'oro ogni cosa, non riesce più a nascondere

le sue speranze. E mentre esulta, i servi gli apparecchiano

la tavola, imbandendola di vivande e pane tostato.

Ma, ahimè, ora, come tocca i doni di Cerere

con la mano, quei doni diventano rigidi; se poi

avidamente cerca di lacerare coi denti una vivanda,

appena l'addenta una lamina d'oro ricopre la pietanza;

mischia ad acqua pura il vino del suo benefattore Bacco:

oro liquido gli avresti visto colare in bocca.

Sgomento per quell'inattesa sciagura, ricco e povero insieme,

vuol sottrarsi all'opulenza e odia ciò che aveva un tempo sognato.

Tanta abbondanza non può sedargli la fame, arida di sete

gli arde la gola e, come è giusto, è tormentato dall'odio per l'oro.

E allora, levando al cielo le mani e le braccia brillanti, esclama:

"Perdonami, padre Bacco, ho peccato, ma abbi compassione,

ti scongiuro, liberami da questa fastosa indigenza!".

Mite è il verdetto divino: poiché riconosce d'aver sbagliato,

Bacco lo rende com'era, annullando il dono concesso per obbligo.

E gli dice: "Perché tu non rimanga invischiato nell'oro

mal desiderato, rècati al fiume vicino alla grande Sardi

e cammina in senso contrario alla corrente, verso i gioghi

del monte, finché tu non giunga alla sorgente, e lì,

dove sgorga più intensa, poni il capo sotto gli zampilli

della fonte e lava insieme al corpo la colpa".

Il re ubbidì andando sotto l'acqua: l'aurifera facoltà

colorò la corrente e dal corpo umano passò al fiume.

Ancor oggi le rive, assorbito il germe di quell'antica vena,

si ergono dure e pallide con le loro zolle impregnate d'oro.

Tediato dalla ricchezza, Mida viveva in campagna e tra i boschi,

onorando Pan, che ha la sua dimora negli antri dei monti.

Ma era sempre un essere grossolano e per la testa gli passavano

tali sciocchezze che, come innanzi, gli avrebbero attirato guai.

Dominando dall'alto la vastità del mare, ripido si erge

in altezza il monte Tmolo e con le sue pendici estese, da un lato

si spinge sino a Sardi, dall'altro sino alla minuscola Ipepe.

Qui Pan, un giorno che, vantando alle tenere ninfe i propri carmi,

modulava sulle canne della zampogna un'aria di canzone,

osò spregiare, a suo paragone, la musica di Apollo,

e così giunse (Tmolo come giudice) a una sfida, ahimè, rischiosa.

Assiso sulla sua montagna, il vecchio giudice scostò

gli alberi dalle orecchie; cinse la sua chioma cerulea soltanto

di quercia e con qualche ghianda che pendeva intorno alle tempie;

quindi, rivolto al dio delle greggi, disse: "Il giudice è pronto:

si cominci". E Pan si mise a suonare la sua rustica zampogna,

incantando col suo canto selvaggio Mida, che per caso

gli era accanto. Quand'ebbe finito, il sacro Tmolo rivolse il volto

verso quello di Febo e tutto il bosco ne seguì lo sguardo.

Febo, col capo biondo cinto dall'alloro del Parnaso,

sfiorava il suolo con un mantello sfolgorante di porpora,

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e con la sinistra reggeva la cetra tempestata di gemme

e intarsiata d'avorio; nell'altra mano teneva il plettro.

La sua posa rivelava l'artista. E allora col pollice esperto

fece vibrare le corde con tanta dolcezza che, affascinato,

Tmolo invitò Pan a dare vinta dalla lira la sua zampogna.

Il verdetto del venerato monte fu approvato

da tutti; eppure Mida, lui solo, lo biasimò,

definendolo ingiusto. Il dio di Delo non si rassegnò

che quelle stolide orecchie conservassero forma umana,

e così gliele allungò, ricoprendole di peli grigi,

e le rese mobili alla base, perché potessero agitarsi.

Umano rimase il resto: in quell'unica parte fu lui punito,

ritrovandosi con le orecchie di un pigro asinello.

Nel tentativo di nascondere quella vergogna,

Mida cercò di coprire le tempie con una tiara purpurea.

Ma il servo, che era solito tagliargli con la lama i capelli

troppo lunghi, le vide, e smanioso di divulgare la notizia,

non osando rivelare la deformità che aveva scoperto,

eppure non riuscendo a tacere, si appartò e, scavata una buca,

con un filo di voce, mormorando, riferì alle viscere

della terra che razza di orecchie aveva visto al padrone.

Poi seppellì il segreto rivelato, coprendo com'era prima

il terreno, e occultata quella buca, se ne andò alla chetichella.

Ma in quel luogo cominciò a spuntare una fitta macchia

di canne tremule, che in capo a un anno fu tutto un rigoglio

e tradì il seminatore: agitata dalla brezza, riferiva

le parole sepolte, divulgando che orecchie aveva il padrone.

Vendicatosi così, il figlio di Latona lasciò il monte Tmolo

e, volando nell'aria limpida, si fermò prima dello stretto

di Elle, la figlia di Nèfele, nella terra di Laomedonte.

A destra del Sigeo e a sinistra del profondo mare Reteo

c'è un antico altare consacrato al tonante nume degli oracoli.

Da lì Febo vede Laomedonte che sta erigendo le mura

di Troia, appena fondata, e vede che la grande impresa procede

con sovrumana fatica e richiede non poche risorse.

E allora, col nume del tridente e delle profondità marine,

assume sembianze umane e, pattuito un compenso in oro,

edifica le mura per il monarca di Frigia.

L'opera è finita: ma il re nega d'aver concordato un compenso e,

per colmo di perfidia, alla menzogna aggiunge lo spergiuro.

"La sconterai!", gridò il nume del mare e scatenò

cumuli d'acqua contro le spiagge di quell'avara Troia,

inondò la regione come fosse un mare, e ai contadini

tolse ogni loro avere, seppellendo i campi sotto i flutti.

E questa pena non fu sufficiente: pretese anche che la figlia

del re fosse data a un mostro marino. Legata a uno scoglio, Esìone

fu salvata da Ercole, che poi pretese i cavalli promessigli

in premio. Ma come gli venne negato il compenso per l'impresa,

assalì ed espugnò le mura di Troia, due volte spergiura.

E fra i guerrieri, Telamone non ritornò senza onori:

ottenne che sua fosse Esìone. Peleo invece era già famoso

per aver sposato una dea, e se era fiero di suo nonno,

non meno lo era del suocero, poiché se non era il solo ad essere

nipote di Giove, il solo era ad avere in moglie una dea.

A Teti infatti l'anziano Pròteo aveva predetto: "O dea dell'onda,

spòsati: sarai madre di un giovane, che nel pieno delle forze

supererà le gesta del padre e di lui sarà detto più grande".

Allora Giove, perché il mondo nulla avesse più grande di sé,

sebbene in petto covasse una fiamma tutt'altro che tiepida

per la marina Teti, evitò d'accoppiarsi a lei,

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e dispose che suo nipote, il figlio di Èaco, lo sostituisse

come amante e si unisse in matrimonio con la vergine del mare.

C'è, nell'Emonia, un'insenatura che s'incurva in forma di falce;

due bracci si stendono avanti e lì, se più profondo fosse il mare,

vi sarebbe un porto; ma l'acqua copre appena il fondo della rena.

La spiaggia è compatta, così che tracce non vi restano,

e non ritarda la marcia o la rende incerta per alghe celate.

A ridosso c'è una macchia di mirti, piena di bacche cangianti,

e al centro una grotta, che non si sa se sia opera di natura

o scavata ad arte (ma è più probabile questo). Qui tu venivi

spesso, Teti, tutta nuda, guidando in groppa il tuo delfino.

Fu qui che Peleo, mentre giacevi vinta dal sonno,

ti sorprese e, poiché tu non cedesti alle sue preghiere, tentò

di violentarti, avvinghiandosi con entrambe le braccia al tuo collo.

E sarebbe riuscito nell'intento, se tu, ricorrendo

alle tue arti, non ti fossi trasformata di continuo;

ma ora tu eri un uccello, e un uccello lui stringeva;

ora eri un albero robusto, e lui a un albero stava aggrappato.

La terza forma che tu assumesti fu quella di tigre striata:

questa volta, atterrito, Peleo sciolse dal corpo le braccia.

E allora si mise a pregare gli dei del mare, spargendo vino

sui flutti, offrendo visceri d'agnello e vapori d'incenso,

finché Pròteo, l'indovino di Càrpato, in mezzo ai gorghi gli disse:

"Figlio di Èaco, l'amplesso che desideri tu l'otterrai;

basta solo che, quando riposa in quell'antro tenebroso,

tu l'avvinca, senza che se ne accorga, con funi ben strette.

E non sorprenderti, se assume l'apparenza di cento figure:

stringila, qual che sia, finché non riassuma il suo vero aspetto".

Così disse Pròteo, nascondendo il volto nell'acqua

e lasciando che i flutti coprissero le sue ultime parole.

Il sole era al tramonto e col suo carro inclinato sfiorava ormai

il mare d'Esperia, quando la bella Nereide, lasciati

gli abissi dell'oceano, entrò nel suo consueto rifugio.

Appena Peleo aggredì il suo corpo immacolato,

lei mutò forma e forma, finché non sentì le membra

immobilizzate e le braccia divaricate ai suoi lati.

Gemendo, allora disse: "Non è senza l'aiuto di un dio che vinci",

tornò ad essere Teti e a lui si arrese. L'eroe l'abbracciò,

esaudì le sue brame e la rese madre del grande Achille.

Padre felice, felice marito, se tu, Peleo, non avessi

commesso il delitto di sgozzare Foco, d'ogni favore

avresti goduto. Ma per esserti macchiato di sangue

fraterno, fosti cacciato di casa e trovasti rifugio in terra

Trachinia. Qui senza violenza, senza stragi, regnava Ceìce,

che, nato da Lucifero, recava in volto tutto lo splendore

di suo padre; ma in quell'epoca, irriconoscibile e triste,

piangeva la perdita del proprio fratello. Il figlio di Èaco,

quando arrivò, stanco per il proprio travaglio e il lungo viaggio,

lasciati non lontano dalle mura, in una valle ombrosa,

gli armenti e le greggi che portava con sé, entrò in città

seguito da pochi compagni. Poi, non appena fu ammesso

alla presenza del sovrano, offrendo supplichevole

un ramoscello d'ulivo fasciato di bende, spiegò chi era

e di chi fosse figlio. Nascose solo la propria colpa,

mentendo sulla causa dell'esilio, e chiese di trovare asilo

in città o in campagna. E il re di Trachine con voce affabile

così gli rispose: "Anche la gente comune può godersi i beni

che offre il paese, Peleo: il nostro regno non è inospitale.

A questa disponibilità aggiungi i tuoi meriti: sei famoso

e discendi da Giove. Non dilungarti in preghiere:

avrai tutto ciò che vuoi e qualunque cosa vedi,

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puoi dirla in parte tua. Volesse il cielo che tu vedessi di meglio!".

E piangeva. Peleo e i suoi compagni chiesero

quale fosse la causa di tanto dolore e lui così rispose:

"Forse quell'uccello, che vive di rapina e tutti gli altri uccelli

atterrisce, voi credete che abbia avuto sempre le penne:

era un uomo un tempo e, tanto è stabile l'indole, già allora

era intrepido, fiero in guerra e pronto alla violenza;

si chiamava Dedalione, nato come me da colui

che desta l'aurora ed esce per ultimo dal cielo.

Io ho il culto della pace e sempre ho cercato d'averla per me

e mia moglie; a mio fratello invece piaceva il rischio della guerra.

Col suo valore sottomise re e popoli;

ora, mutato com'è, sgomina le colombe di Tisbe.

Aveva una figlia, Chìone, che per la sua bellezza eccezionale

aveva già da ragazza, a quattordici anni, mille pretendenti.

Tornando per caso Febo dalla sua Delfi,

e il figlio di Maia, Mercurio, dalla cima del Cillene,

insieme la videro e insieme se ne accesero.

Febo rimanda alle ore della notte il progetto di possederla,

ma l'altro non tollera indugi e tocca le labbra della fanciulla

con la bacchetta ipnotica. A quella magia lei si addormenta

e subisce la violenza del nume. La notte cosparge il cielo

di stelle: Febo si trasforma in vecchia e coglie piaceri già colti.

Quando la gestazione ebbe compiuto il suo dovuto corso,

dal seme del dio alato nacque un fanciullo astuto,

Autòlico, in grado di commettere qualsiasi furfanteria,

sempre pronto a mutare il nero in bianco e il bianco

in nero, degno erede della furbizia paterna.

Da Febo invece (Chìone infatti mise al mondo due gemelli)

nacque Filammone, un genio nel canto e nella cetra.

Ma a Chìone che giovò aver partorito due gemelli, esser piaciuta

a due numi, aver per padre un guerriero e come nonno

un astro lucente? Non nuoce molte volte anche la gloria?

A lei nocque di certo, visto che pretese d'anteporsi a Diana,

criticandone la bellezza. E quella, inferocita

e sconvolta dall'ira, le gridò: "Ti piacerò coi fatti!".

In un lampo curvò l'arco, scoccò con la corda una freccia

e con la sua punta trapassò quella lingua criminale.

Tacque la lingua: più non consentiva voce o impulsi di parole;

lei cercava di parlare, ma col suo sangue si perse la vita.

Ahimè, che strazio, angosciato, provai nel mio cuore di zio

e quante parole di conforto non dissi a mio fratello!

Ma lui le accoglieva come uno scoglio accoglie il mormorio

del mare, piangendo senza respiro la perdita della figlia.

Quando poi ardere la vide sul rogo, quattro volte cercò

di gettarsi tra le fiamme; quattro volte fu trattenuto,

e allora sconvolto si diede alla fuga, precipitandosi

a testa bassa, come un giovenco punzecchiato dai calabroni,

nel deserto dei campi. E già sembrava che corresse più veloce

di un essere umano, come se ai piedi avesse le ali.

Nessuno poté raggiungerlo e, per smania d'uccidersi,

in un lampo salì sulla vetta del Parnaso. Quando dall'alto

di una rupe si gettò giù, Apollo ne ebbe compassione:

lo mutò in uccello e con ali, apparse all'improvviso, lo sostenne

in volo; gli diede becco adunco e curvi artigli per unghie,

e, col coraggio antico, una forza eccezionale rispetto al corpo.

Ora è uno sparviero, a nessuno bene accetto, che infierisce

contro tutti gli uccelli e, come soffre, fa soffrire gli altri".

Mentre il figlio di Lucifero, Ceìce, narra la storia

prodigiosa di suo fratello, ecco che arriva di corsa e ansimante

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Onètore, un guardiano delle mandrie di Peleo, e grida:

"Peleo, Peleo, sciagura immensa devo riferirti!".

Peleo gli intima di parlare, qualunque sia la notizia,

e anche Ceìce pende impaurito da quelle labbra tremanti.

E lui racconta: "Avevo spinto i buoi stanchi in seno alla riva,

quando il sole, a metà del suo corso, giunto altissimo in cielo,

vedeva dietro di sé tanta strada quanta ne vedeva avanti.

E gli animali in parte si erano accosciati sulla bionda rena

guardando coricati l'ampia distesa del mare,

in parte a passi lenti si aggiravano vagando per la spiaggia;

altri nuotavano tenendo il collo levato fuori dell'acqua.

Vicino al mare c'è un tempio che non risplende d'oro e marmi,

ma sorge in mezzo all'ombra dei fitti tronchi di un bosco antico.

È sacro a Nèreo e alle Nereidi. Che si tratti di dei del mare

me l'ha detto un marinaio, mentre sul lido stendeva le reti.

Accanto c'è una palude, chiusa intorno da fitti salici,

una palude formata d'acqua marina che ristagna.

Lì con grande fragore e strepito, terrorizzando tutto il luogo,

balza fuori dalla macchia palustre una belva mostruosa, un lupo

con le fauci micidiali coperte di bava e imbrattate

di sangue, con gli occhi iniettati di fiamme corrusche.

Per rabbia e fame si sfrena come una furia, ma è per rabbia

che si fa più feroce. Non si cura solo del proprio digiuno,

di placare la sua spaventosa fame uccidendo qualche bue,

ma colpisce tutta la mandria e tutta, implacabile, la distrugge.

E anche qualcuno di noi, ferito dal suo morso mortale,

rimane ucciso mentre cerca di difendersi. Spiaggia, battigia

e palude rimbombano di muggiti e sono rossi di sangue.

Ma un delitto è perdere tempo, non sono permesse indecisioni:

prima che tutto sia perduto, tutti quanti insieme, avanti,

le armi prendiamo, le armi, e tutti insieme diamogli la caccia".

Così dice il mandriano, ma Peleo non si turba per la perdita:

memore del suo delitto, intuisce che questa disgrazia

è un omaggio reso all'ombra di Foco dalla Nereide sua madre.

Il re dell'Eta ordina ai suoi d'indossare le armature e di prendere

armi d'assalto, e si accinge a partire insieme a loro.

Ma, richiamata dal trambusto, ecco che accorre Alcione,

sua moglie, così com'è, con i capelli ancora in disordine,

ed anzi lì li scompiglia, si getta al collo del marito

e con parole e lacrime lo scongiura d'inviare soccorsi

senza parteciparvi e di salvare insieme la vita d'entrambi.

E a lei il figlio di Èaco: "Giusta e commovente paura, o regina,

ma non temere: la vostra offerta mi basta per esservi grato;

non voglio che si prendano le armi contro un mostro inaudito:

pregare la divinità del mare intendo". C'era un'alta torre

con in cima un fuoco, àncora di salvezza per le navi in pericolo.

Salgono lassù, e da lì vedono con sgomento

la spiaggia disseminata di buoi morti e la belva

micidiale lorda di sangue sul muso e sul lungo pelo.

Allora Peleo, tendendo le mani dalla riva al mare aperto,

prega la cerulea Psàmate di placare la sua ira

e d'essergli propizia. Ma lei non si piega alla voce implorante

del figlio di Èaco; è Teti che, intercedendo per il marito,

ne ottiene il perdono. Il lupo però, eccitato dal gusto

del sangue, benché richiamato, insiste in quell'orribile massacro,

finché, mentre azzanna il collo di una giovenca dilaniata,

lei non lo muta in marmo. Eccetto il colore, conserva

l'aspetto che aveva: ed è proprio il colore di pietra che rivela

come ormai non sia più un lupo e non si debba più temerlo.

Tuttavia il destino non permette che il profugo Peleo

si fermi in questa terra: vagando, l'esule giunge fra i Magneti

e solo qui, grazie ad Acasto d'Emonia, si purga del delitto.

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Intanto Ceìce, turbato e col cuore sgomento

per i prodigi subiti dal fratello e che al fratello seguirono,

volendo, come un mortale, per conforto consultare un oracolo,

si accinge a partire per il santuario di Claro: inaccessibile,

per colpa dell'empio Forba e dei Flegi, era infatti quello di Delfi.

Prima, però, confida a te il suo progetto, o fedelissima

Alcione: subito un gelo ti penetra nelle ossa

e un pallore quasi identico a quello del legno di bosso

ti sbianca il volto, diluvi di lacrime ti bagnano le guance.

Tre volte tenta di parlare, tre volte il pianto riga il suo viso,

finché con voce rotta dai singhiozzi, così, spinta dall'affetto,

geme: "Quale mia colpa ha stravolto, amore mio, la tua mente?

Dove mai è finito il bene che prima tu mi volevi?

Puoi dunque andartene tranquillamente abbandonando Alcione?

Desideri darti a lunghi viaggi? Lontana ti sarei più cara?

M'auguro che per terra sia la strada: almeno proverò dolore,

sì, ma non paura; soffrirò, certo, ma senza troppo timore.

È il mare che mi sgomenta, la vista delle sue tristi distese:

anche poco fa ho visto sulla spiaggia rottami di naufragi

e quante volte ho letto nomi su tombe prive di corpo!

E non lasciarti sedurre da folle fiducia al pensiero che Eolo,

il figlio di Ippota è tuo suocero, in grado di imprigionare

la violenza dei venti e di placare il mare quando vuole.

Una volta che, scatenati, i venti s'impossessano del mare,

nulla più gli è vietato, e non c'è terra o uno specchio di mare

che rimanga affidabile: sconvolgono in cielo le stesse nubi

e con mischie selvagge ne sprigionano fuochi abbaglianti.

Quanto più li conosco (e li conosco bene, perché li vedevo

bambina in casa di mio padre), più li ritengo temibili.

Ma se non c'è preghiera, marito mio, che possa distoglierti

dal tuo proposito e sei proprio deciso a partire,

portami con te! Almeno saremo travagliati insieme

e non dovrò temere che la sofferenza; insieme subiremo

ciò che vorrà il destino, insieme solcheremo il vasto mare!".

A questo sfogo e pianto della figlia di Eolo, si commuove

il suo celeste marito: non nutriva per lei minor passione.

Ma non volendo rinunciare all'idea del viaggio per mare

e allo stesso tempo esporre anche Alcione ai suoi pericoli,

si sforza in mille modi di confortare quel cuore impaurito.

Non riesce però a convincerla e allora aggiunge per calmarla

queste parole, le uniche alle quali il suo amore si rassegna:

"Certo per noi eterna è qualsiasi assenza, ma io ti giuro

sul fuoco di mio padre, che se il fato m'accorderà di tornare,

farò ritorno prima che la luna colmi due volte il suo disco".

Quando con questa promessa le accese la speranza del rimpatrio,

ordina che una nave sia tratta dall'arsenale, spinta in mare

e armata senza indugio di tutto punto per la navigazione.

A quella vista, quasi presagendo il futuro, di nuovo

Alcione rabbrividisce, scoppiando in un pianto dirotto,

lo stringe fra le braccia e, disperata, con voce afflitta, alla fine

'Addio' gli dice e con tutto il corpo si accascia al suolo.

E ora, mentre Ceìce vorrebbe indugiare, i marinai

in doppia fila traggono i remi verso il petto robusto,

fendendo i flutti con ritmo uniforme. Alcione leva gli occhi

umidi di pianto e vede il marito, che in piedi sul bordo

della poppa le fa per primo dei segni agitando

la mano, e risponde a quei cenni. Quando dalla riva s'allontana

e l'occhio non riesce più a distinguere i volti, lei,

finché può, segue con lo sguardo lo scafo che fugge. E quando

anche questo, ormai troppo distante, non si distingue più,

fissa ancora la vela che ondeggia sulla cima dell'albero.

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Quando poi svanisce anche questa, corre angosciata a gettarsi

sul letto vuoto della sua stanza. Ma letto e stanza le rinnovano

il pianto, rammentandole quanta parte di sé le manchi.

La nave era ormai uscita dal porto e il vento agitava le sàrtie:

i marinai ritirano i remi sospendendoli alle murate,

issano i pennoni in cima all'albero e spiegano

tutte le vele perché accolgano le folate del vento.

Solcando i flutti, la nave era giunta più o meno

a metà della rotta e la terra delle due sponde era lontana,

quando sul far della notte il mare cominciò a biancheggiare

di gonfi cavalloni e l'Euro impetuoso a soffiare più violento.

"Ammainate i pennoni, ammainateli in fretta" grida

il comandante, "e avvolgete intorno all'asta tutta la vela."

Così comanda, ma la tempesta incombente rende vano l'ordine:

il frastuono del mare non permette d'udirne la voce.

E tuttavia alcuni da sé si affrettano a ritirare i remi,

altri a rinforzare le paratie o a sottrarre le vele al vento;

e v'è chi scarica l'acqua imbarcata, rigettando il mare in mare,

chi abbassa in fretta i pennoni. Ma mentre senz'ordine si lavora,

minaccioso cresce il fortunale e da ogni parte impetuosa

si scatena la furia dei venti, sconvolgendo il mare in burrasca.

Anche il comandante ha paura e ammette lui stesso di non sapere

quale sia la situazione, cosa si debba ordinare o vietare:

tanto grande è il pericolo che supera persino la perizia.

Senza uguali è il frastuono: urla di uomini, stridio di sàrtie,

scrosci di onde che si abbattono su altre onde, tuoni in cielo.

Il mare si gonfia di flutti, sembra raggiungere il cielo

e investire di schizzi persino la cappa delle nubi,

ed ora sollevando dal fondo la bionda rena

prende il suo colore, ora è più nero dell'acqua dello Stige,

poi a volte si distende e biancheggia in un fruscio di spuma.

Anche la nave di Trachine è coinvolta in questa sorte

e ora, portata in alto, sembra che dalla vetta di un monte

guardi giù nelle valli sino in fondo all'Acheronte,

ora, caduta sul fondo con l'arco del mare che la circonda,

sembra dai gorghi infernali guardare in alto il cielo.

Spesso investita al fianco dai marosi manda un gran fragore,

e percossa rimbomba cupa come una rocca squassata

e smantellata da un ariete di ferro o da una balestra.

E come, con violenza accresciuta dallo slancio, contro le lance

e le armi protese si avventano inferociti i leoni,

così i marosi, spinti dalla furia delle raffiche, si avventano

contro l'ossatura della nave e in altezza tutta la sovrastano.

Ormai cedono i cunei e, spogliate del rivestimento di pece,

si allargano le commessure, offrendo un varco ai flutti micidiali.

Ecco che dalle nubi squarciate scrosciano diluvi di pioggia,

e si direbbe che il cielo intero crolli nel mare

e che il mare gonfiandosi salga sino a invadere il cielo.

Sotto gli scrosci grondano le vele e con l'acqua che cade

dal cielo si mischia quella del mare. Non brilla una stella;

tempesta e tenebre raddoppiano la foschia della notte.

Ma la squarciano i fulmini, incendiandola di luci

coi loro bagliori, e le onde divampano ai lampi di quelle fiamme.

Ormai i flutti irrompono dentro lo scafo della nave

e come il soldato più prode dell'intero suo reparto,

dopo avere assalito invano e più volte i bastioni che difendono

una città, alla fine vi riesce e infiammato d'amore di gloria

solo tra mille balza sulle mura e le conquista,

così, dopo che nove volte ondate hanno percosso le fiancate,

la decima, ergendosi ancora più immane, avventa la sua furia

e assalta senza tregua la nave allo stremo, finché, scavalcate

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le paratie, si abbatte entrobordo e l'espugna.

E mentre ancora una parte di mare tenta d'assalirla,

un'altra è già dentro. I marinai, tutti, sono in preda al panico,

come in preda al panico è la città, quando una parte del nemico

scalza le mura dall'esterno, mentre un'altra occupa già l'interno.

La maestria non serve, il coraggio vien meno ed ogni flutto

che arriva sembra irrompere scavando morte.

Chi piange, chi è inebetito, chi chiama beati coloro

che avranno sepoltura, chi supplica, fa voti agli dei

e implora aiuto tendendo invano le braccia al cielo

che non si vede. Quello si sovviene di fratelli e genitori,

questo della casa e dei figli, ognuno di ciò che ha lasciato.

Si angoscia Ceìce per Alcione, sulle labbra di Ceìce

non c'è che Alcione, solo lei vorrebbe avere accanto, ma è felice

che sia lontana. Vorrebbe girarsi verso i lidi della patria,

volgere un ultimo sguardo verso la propria casa,

ma dove sia, l'ignora: tanto vertiginosamente ribolle

il mare e tanto è nascosto il cielo dall'ombra che diffondono

le nubi, al punto che la notte appare doppiamente fonda.

Sotto l'assalto impetuoso della bufera l'albero si spezza,

si spezza anche il timone, e l'onda si solleva tronfia, vittoriosa

sulla sua preda, e ricadendo guarda dall'alto le onde ai suoi piedi,

poi piomba giù di schianto, violentissima, come se uno svellesse

dalla base e rovesciasse in mare aperto l'intero Pindo

o tutto l'Ato, e con l'urto e il suo peso sommerge sul fondo

la nave, e con lei quasi tutto l'equipaggio, che, travolto

e coperto dai gorghi, più non torna a galla

e perde, ahimè, la vita. Gli altri si aggrappano ai resti,

ai relitti della nave. Ceìce stesso si regge a un rottame

con la mano che stringeva lo scettro, e invoca, ahimè invano,

suocero e padre. Ma il naufrago, più di tutti, ha sulla bocca

Alcione, la sua sposa: la rivede, pensa a lei,

spera che i flutti sospingano il suo corpo davanti agli occhi suoi,

che il suo cadavere sia tumulato dalle sue mani amorose.

Mentre nuota, ogni volta che i flutti gli permettono d'aprir bocca,

chiama Alcione lontana e ne mormora il nome anche sott'acqua.

Ed ecco che fra i marosi s'inarca un picco d'acqua nera,

si frange e schiantandosi gli sommerge il capo e lo travolge.

Rimase buio Lucifero, senza che si potesse distinguerlo,

quel mattino: poiché dal cielo non gli era permesso

d'assentarsi, aveva velato il suo volto di fitte nubi.

Intanto la figlia di Eolo, all'oscuro di quella immane sciagura,

contava le notti e già preparava con impazienza le vesti

che Ceìce avrebbe indossato e quelle che lei avrebbe portato

al suo ritorno, nel quale, vanamente ahimè, confidava.

E a tutti gli dei offriva devota il suo incenso,

ma più di tutti onorava Giunone, andando davanti all'altare

del suo tempio a pregare per il marito, che più non era,

perché stesse bene, perché tornasse sano e salvo,

perché non s'innamorasse di nessun'altra. E di tante preghiere

quest'ultima era la sola che potesse avverarsi.

Ma la dea non sopportò a lungo d'esser pregata per un morto

e, per allontanare dal suo altare quelle mani luttuose:

"Iride," disse, "fedelissima mia messaggera,

rècati immediatamente alla reggia soporifera del Sonno

e digli di mandare ad Alcione un sogno, che con l'immagine

di Ceìce morto le riveli ciò che è accaduto in realtà".

Così disse, e Iride, indossato il suo manto di mille colori,

descrivendo un arco nel cielo, andò come le era stato ordinato

alla dimora del re, che è nascosta sotto una coltre di nubi.

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Dove stanno i Cimmeri c'è una spelonca dai profondi recessi,

una montagna cava, dimora occulta del pigro Sonno,

nella quale con i suoi raggi, all'alba, al culmine o al tramonto,

mai può penetrare il sole: dal suolo, in un chiarore incerto

di crepuscolo, salgono senza posa nebbie e foschie.

Qui non c'è uccello dal capo crestato che vegli e chiami

col suo canto l'aurora; e non rompono, col loro richiamo,

il silenzio cani all'erta od oche più sagaci dei cani.

Non si ode suono di fiere o di armenti, non di rami mossi

da un alito di vento, non si ode alterco di voci umane.

Vi domina silenzio e quiete. Solo da un anfratto della roccia

sgorga un rivolo del Lete, la cui acqua scivola via

mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno.

Davanti all'ingresso dell'antro fiorisce un mare di papaveri

e un'infinità di erbe, dalla cui linfa l'umida Notte attinge

il sopore per spargerlo sulle terre immerse nel buio.

In tutta la casa non v'è una porta, perché i cardini girando

non stridano; nessuno sta di guardia sulla soglia.

Al centro della grotta si alza un letto d'ebano imbottito

di piume del medesimo colore e coperto di un drappo scuro,

dove con le membra languidamente abbandonate dorme il nume.

Tutto intorno giacciono alla rinfusa, negli aspetti più diversi,

le chimere dei Sogni, tante quante sono le spighe nei campi,

le fronde nei boschi, o quanti i granelli di sabbia spinti sul lido.

Quando la vergine vi entrò, scostando con le mani i Sogni

per poter passare, al fulgore della sua veste s'illuminò

la sacra dimora, e il nume, schiudendo a malapena gli occhi

appesantiti dalla sonnolenza, e ancora ancora ricadendo,

con il mento che ciondoloni gli sbatteva in alto contro il petto,

riuscì finalmente a scuotersi e, sollevandosi sul gomito,

le chiese, avendola riconosciuta, perché mai fosse venuta.

E lei: "Sonno, quiete d'ogni cosa, Sonno, dolcissimo fra i numi,

pace dell'animo, che disperdi gli affanni e rianimi

i corpi oppressi dal lavoro e li ritempri per nuove fatiche,

ordina a un Sogno, che sappia imitare forme vere,

di recarsi a Trachine, la città di Ercole, e presentarsi

ad Alcione con le sembianze di Ceìce, come appare un naufrago.

Lo comanda Giunone". E appena ebbe assolto la missione,

Iride se ne andò, perché più non resisteva al potere

soporifero del luogo: come sentì la sonnolenza invaderle

le membra, fuggì via risalendo l'arco dal quale era venuta.

Allora il Sonno dalla marea dei suoi mille figli

destò Morfeo, un talento nell'assumere qualsiasi sembianza.

Nessun altro più abilmente di lui è in grado d'imitare

l'incedere che gli si chiede, l'espressione e il timbro della voce;

in più vi aggiunge il modo di vestire e le parole che distinguono

quell'individuo. Ma imita soltanto le persone, mentre invece

c'è un altro figlio che diventa fiera, uccello o lunghissima serpe:

gli dei lo chiamano Ícelo, Fobètore i comuni mortali.

Ve n'è poi un terzo, Fàntaso, che si distingue per valentia

diversa: si trasforma con l'inganno in terra, roccia,

acqua o tronco, insomma in qualsiasi cosa inanimata.

Alcuni appaiono di notte a re e condottieri,

altri si aggirano tra la gente del popolo.

Il venerando Sonno tralasciò tutti questi e fra tanti figli

scelse appunto il solo Morfeo per eseguire gli ordini recati

dalla figlia di Taumante. Poi, risciogliendosi in molle languore,

reclinò il capo, sprofondando nelle coltri del suo letto.

Senza fare con le sue ali il minimo brusio, Morfeo volò

attraverso le tenebre e in breve tempo giunse nella città

dell'Emonia; qui, spogliato il suo corpo delle penne,

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si trasformò in Ceìce e, assuntone l'aspetto,

livido, cadaverico, senza uno straccio addosso,

si mise davanti al letto dell'infelice Alcione. Madida

sembrava la sua barba e fradici, grondanti d'acqua i suoi capelli.

Poi, chinandosi sul letto, col viso inondato di lacrime,

così disse: "Riconosci Ceìce, moglie mia infelicissima?

O forse la morte mi ha sfigurato? Guardami: mi vedrai, sì,

ma in luogo di tuo marito ne troverai soltanto l'ombra.

A nulla sono valse, Alcione mia, le tue preghiere:

morto sono. Non illuderti ch'io possa tornare: è un'utopia.

Gravido di nubi, l'Austro ha sorpreso la mia nave

sul mare Egeo e soffiando violento l'ha investita e poi distrutta.

I flutti hanno riempito la mia bocca che invano gridava

il tuo nome. Non ti annuncia questa sciagura un messaggero

ambiguo, queste che senti non sono vaghe voci:

sono io, proprio io, morto annegato, a rivelarti la mia sorte.

Suvvia, àlzati, versa le tue lacrime, vèstiti a lutto,

non lasciarmi andare, senza compianto, nel vuoto del Tartaro!".

E Morfeo impiegava una voce che lei non poteva non prendere

per quella del marito; e anche le parve che versasse

lacrime vere e che la mano avesse di Ceìce il gesto.

Nel sonno Alcione si mise a gemere, a lacrimare,

agitò le braccia e, cercando di abbracciare quel corpo, abbracciò

l'aria ed esclamò: "Aspetta! Dove mai fuggi? Andremo insieme!".

Turbata dalla propria voce e dal fantasma del marito,

si riscosse dal sonno, guardandosi intorno se chi le era apparso

fosse ancora lì. Richiamati dalle grida, i servitori

erano accorsi con un lume. Lei non trovandolo in nessuno luogo,

si percosse il viso con le mani, dal petto si stracciò la veste

e se lo ferì. Senza nemmeno scioglierli, si strappò i capelli,

e alla nutrice che le chiedeva il perché di tutto quel dolore:

"Alcione non è più, no, non è più!" gridò. "È morta

col suo Ceìce. Risparmiate le parole di conforto!

È perito in un naufragio! L'ho visto, l'ho riconosciuto,

e, mentre si allontanava, gli ho teso la mano per trattenerlo.

Era un'ombra, ma un'ombra inconfondibile, quella di mio marito!

No, non aveva, se proprio vuoi saperlo, il suo solito

volto, e il suo incarnato non aveva più lo splendore di un tempo.

Pallido e nudo, così l'ho visto, ahimè, e coi capelli

ancora bagnati: strappando lacrime qui stava, qui,

proprio qui!", e si mise a cercare se ne fosse rimasta traccia.

"Questo, questo temevo, quasi lo sentisse il cuore,

per questo ti pregai di non lasciarmi, di non affidarti ai venti!

Ma poiché verso la morte partivi, come vorrei che con te

m'avessi portato! Un bene per me sarebbe stato se con te

fossi venuta! Non un solo istante della vita

avrei passato senza di te e non saremmo morti separati.

Ora lontano sono morta, lontano son travolta dai flutti

e senza esserci il mare m'inghiotte. Avrei davvero un cuore

più spietato del mare, se cercassi di protrarre ancora

la mia vita e lottassi per sopravvivere a così gran dolore!

Ma io non lotterò, non ti lascerò solo, sventurato,

e almeno ora ti accompagnerò. Se non un'urna, nel sepolcro

ci unirà almeno un epitaffio; se non toccherò con le mie ossa

le tue, toccherò almeno il nome tuo col mio!".

Altro non le permise il dolore; in ogni parola s'insinuava

il pianto e dal suo cuore sbigottito uscivano profondi i gemiti.

Era il mattino. Uscì di casa per recarsi alla spiaggia e riandò

mesta al luogo da dove aveva assistito alla sua partenza.

Mentre lì indugiava, dicendo: "Qui sciolse gli ormeggi,

qui, su questa spiaggia, mi baciò prima di partire",

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e mentre, al richiamo dei luoghi, ricordava ogni singolo evento

e scrutava il mare, vide fluttuare in lontananza a filo d'acqua

qualcosa che sembrava un corpo. All'inizio non si capiva bene

che cosa fosse, ma quando l'onda l'ebbe sospinto più vicino e,

malgrado la distanza, apparve chiaro che si trattava di un corpo,

lei, pur non sapendo chi fosse, davanti al naufrago si commosse

e come se piangesse uno sconosciuto: "Ahimè, chiunque tu sia,

misero te e tua moglie, se ne hai una", disse. Spinto dai flutti

quel corpo si avvicinò ancora, e quanto più lo guardava

tanto più la sua mente si smarriva. E ormai così vicino

è alla riva che, osservandolo, lei può riconoscerlo:

era il marito. "È lui!" grida e a un tempo si lacera

viso chioma e veste, e tendendo le mani tremanti

verso Ceìce, mormora: "Così, carissimo marito mio,

così a me, sventurato, ritorni?". Sul mare si ergeva un molo:

costruito dall'uomo, frangeva i flutti in arrivo,

fiaccando in anticipo l'impeto dell'acqua.

Lei vi balzò sopra. Fu un prodigio che vi riuscisse; ma volava,

e battendo l'aria leggera con ali appena spuntate,

sfiorava, patetico uccello, la superficie del mare,

e volando, la sua bocca, ormai ridotta a un becco sottile,

stridendo emise un suono lamentoso che sembrava pianto.

Quando poi raggiunse il corpo muto ed esangue,

abbracciando quelle care membra con le sue nuove ali,

vanamente col duro becco le coprì di freddi baci.

Sentì Ceìce quei baci o fu solo per l'ondeggiare del mare

se parve che sollevasse il viso? La gente non sa dirlo.

Ma lui li sentì, e alla fine, per pietosa grazia degli dei,

si mutarono entrambi in uccelli. Il loro amore rimase,

legandoli al medesimo destino, e il patto nuziale fra loro,

ormai uccelli, non si sciolse. Si accoppiano, generano,

e per sette sereni giorni, nella stagione invernale,

Alcione cova in un nido a picco sull'acqua.

Allora si placa l'onda del mare: Eolo rinchiude i suoi venti

e non li lascia uscire, per offrire bonaccia ai nipoti.

Un vecchio, guardandoli volare insieme sulla distesa

del mare, loda quell'amore serbato sino alla fine.

Un suo vicino, o forse lui stesso, chissà, dice: "Anche questo,

che vedi staccarsi dall'acqua, spinto da due zampe

rattrappite" e indicava uno smergo dal lungo collo,

"è di stirpe regale. I suoi ascendenti, se vuoi

dalle sue origini scendere man mano sino a lui,

sono Ilo, Assàraco, Ganimede che fu rapito da Giove,

l'antico Laomedonte e Priamo che ebbe in sorte gli anni estremi

del regno di Troia. Fratello di Ettore, costui,

se non gli fosse capitato un fatto singolare in giovinezza,

forse sarebbe diventato non meno famoso di Ettore,

sebbene questo fosse nato dalla figlia di Dimante,

mentre si dice che Èsaco fu partorito di nascosto ai piedi

dell'ombroso Ida da Alessìroe, figlia del fiume Granico.

Odiando le città, viveva appartato, lontano dallo sfarzo

della reggia, sui monti, in campagne senza pretese,

e solo di rado veniva a Troia per qualche assemblea.

Ma certo non aveva un cuore rozzo e inaccessibile all'amore:

dopo averla spesso intravista nel folto dei boschi, un giorno

colse la figlia di Cebrene, Esperie, che sulla riva paterna

faceva asciugare al sole i capelli sciolti sulle spalle.

Appena se ne accorse, la ninfa fuggì, come fugge atterrita

una cerva il fulvo lupo o un'anatra di fiume il rapace

che lontano dallo stagno l'ha sorpresa. L'eroe troiano

l'insegue e l'incalza, un fulmine lui per amore, lei per paura.

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Ma ecco che un serpente, nascosto tra l'erba, morde alla fuggitiva

un piede col dente adunco, lasciandole nel corpo il suo veleno.

Con la vita si spegne anche la fuga. Disperato, lui abbraccia

quel corpo esanime: "Oh, come mi pento d'averti inseguita!

Ma non prevedevo il rischio e non volevo vincere a questo prezzo.

In due ti abbiamo ucciso, sventurata: il serpente con la ferita,

io creando l'occasione", grida. "Ma il più colpevole sono io,

e per confortarti della tua morte, la mia morte ti offrirò!".

Disse e da una rupe corrosa ai piedi dallo scrosciare dei flutti,

si gettò in mare. Ne ebbe pietà Teti, che lo sostenne attenuando

la caduta e, mentre ancora galleggiava lo rivestì di piume;

così la morte tanto sospirata non gli fu concessa.

S'indignò l'innamorato d'esser costretto contro voglia a vivere,

che s'impedisse all'anima di uscire dalla sua misera sede

come bramava; e con le nuove ali spuntategli sulle spalle,

si alzò in volo, per lasciarsi cadere nuovamente in acqua.

Le penne attutiscono la caduta. Infuriato Èsaco si tuffa

a capofitto in profondità, cercando e cercando di morire.

L'amore l'ha smagrito: sottili fra le giunture

sono le sue zampe, sottile il collo, e distante dal corpo è il capo.

Ama l'acqua, e il suo nome, smergo, è tale perché vi si immerge".