Testo

Isocrate ateniese1
L'encomio d'Elena2

Sonovi alcuni, che molto s'insuperbiscono, se un argomento inusitato, e fuori della comune opinione trattato avendo, arrivano a dir qualche cosa tollerabilmente intorno al medesimo, e vanno invecchiandosi, altri col dire, che non è mai possibile proferir menzogna, senza che sia contrastata3, nè poter darsi intorno allo stesso subbietto due ragionamenti diversi: altri affermando, che la fortezza d'animo4, la sapienza, e l'equità sono una sola, e medesima cosa; e che nessuna di queste virtù abbiamo dalla natura, ma che l'arte sola per ogni cosa richiedesi; altri fra risse totalmente s'esercitano, le quali siccome a niente giovano, così agli Uditori solamente capaci sono di recar pregiudizio. Comechè però io vedessi, che sì fatte inezie a' giorni nostri introdotte sono nell'eloquenza, e che costoro per la novità de' ritrovamenti vanno fastosi, non ho mai voluto in me stesso far di loro concetto alcuno. Chi ora è così indietro nell'erudizione, il quale non sappia, che5 Protagora, e tutti gli altri Sofisti6 de' tempi suoi, piene appunto di tali, e di più intricate cose le loro opere ne hanno lasciate? Come mai alcuno tacerà di Gorgia7, il quale osò dire niente affatto esservi di quelle cose, che sono, o di Zenone8, il quale si sforzò di mostrare, che le medesime possibili cose impossibili sono, o di Melisso9, il quale, come se fossero un solo tutto10, s'accinse a provare l'infinita moltitudine delle prodotte cose. Ma non ostante, che loro ad evidenza si mostri, quanto facile è il macchinar bugie sovra ciò, che alcun s'è proposto; molto ancor più su questo loro assunto si fermano, quando al contrario da parte lasciando que' loro paradossi, i quali sebben con parole intesi sono a convincere gli altri, sono tuttavia essi pure già da lungo tempo per lor natura atterrati, avrebber dovuto in traccia andare del vero, e intorno ad azioni, che alla vita civile appartengono, gli Uditori ammaestrare, e nella pratica delle medesime esercitargli, riflettendo, che meglio è certo l'aver qualche idea conveniente delle cose giovevoli, che delle inutili acutamente disputare, e benchè di poco avvanzar gli altri nelle cose grandi, che assai nelle picciole, e donde il vivere umano veruna utilità non ricava. Il vero è, che niente hanno essi più a cuore, che d'avvantaggiare11 a spese de' giovanetti. La qual cosa può loro agevolmente ottenere quell'amore, che hanno alle contese, e alle risse. Perciò coloro, a cui niente importa de' privati, e de' pubblici affari, trovano assai piacere in queste dispute, comechè del tutto vuote di giovamento. Può dunque al più concedersi d'una tal maniera di pensare perdono a' giovani, che in ogni cosa il più superfluo, e il più mostruoso costantemente appetiscono. Giusto è però. che sien ripresi coloro, che fan professione d'insegnare ad altri, perciocchè muovono accuse a chi cerca d'ingannar ne' contratti, recando torto alla giustizia co' loro discorsi, ed essi frattanto più gravi mancamenti commettono. E in verità il pregiudizio, che apportan coloro, è ristretto a straniere, e determinate persone, ma questi son cagione d'assai nocumento a' loro stessi familiari. E a tanto han fatto crescere la libertà di mentire, che già alcuni vedendo il giovamento, che costoro ne traggono, ardiscon di scrivere, che più degna d'essere invidiata è la vita de' mendici, e de' fuggitivi, che quella degli altri uomini. Così pensano di persuadere, che se nelle cose false essi trovan materia di ragionare, con maggiore abbondanza, e facilità vi riusciranno nelle cose buone, ed oneste. Io però son di parere, che non v'abbia maniera più ridicola, che quella di voler col mezzo di tali discorsi far credere, che in loro sia perizia delle civili cose, quando di ciò, che promettono, a lor vien fatto di recar qualche dimostrazione. In verità chiunque vuol mostrar12 di sapere, e di facondo Oratore fa professione, non ha da proccurarsi onore in quelle cose, che furono dagli altri Greci13 neglette, ma in quelle, a cui tutti indirizzano le loro dispute, e rendersi in tal guisa della volgar gente migliori. Essi però fanno in quella maniera appunto, che farebbe colui, il quale presumesse d'essere il più robusto fra gli Atleti, scendendo a quello steccato, in cui verun altro non si degnasse di seguitarlo. Qual mai, a dir vero, tra gli uomini di buon senno prenderà a lodare le avversità? Ma ella è cosa evidente, che costoro a questo passo ricorrono per debolezza d'ingegno: giacchè in quest'opere loro una sola condotta ritrovasi, niente difficile ad essere e ritrovata, ed imparata, e seguita; quand'al contrario i comuni ragionamenti, che degni sien di fede, e verisimili, solo da molte idee, ed osservazioni appena intelligibili hanno origine, e son condotti: e tanto più malagevolmente riescono, quanto è più disastroso il mantenere gravità dell'usare cavillazioni, e dello scherzare il discorrere seriosamente. Eccone un argomento fortissimo. A costoro, che scelto hanno di lodar l'api, e i sali, e simili cose, non mai parole mancarono. Ma chi delle cose buone, ed oneste, approvate dagli altri, e degli uomini per virtù eccellenti a favellare s'è accinto, molto meno ha potuto dire di ciò, che l'argomento chiedeva. Che non è opera del medesimo ingegno il parlar degnamente nell'un genere, e nell'altro; ma le picciole cose più di leggieri si possono co' ragionamenti adeguare, e per lo contrario è difficile alla grandezza aggiungere dell'altre cose. Massimamente, che in que' soggetti, che per se medesimi han lustro, è ben raro, che si trovi cosa a dire da altri non prima detta, ma negli umili, e da poco tutto è singolare, quanto ne vien sulle labbra. Per la qual cosa io lodo colui, che d'Elena14 ha scritto, sopra quanti altri mai han fatto pompa di ben ragionare. Certo egli d'una tal Donna ha fatto menzione, che molto eccellente e per la schiatta, e per la bellezza, e per la gloria si rese. Sebbene anch'egli in una benchè picciola cosa ha mancato. Poichè dicono, che proponendo egli di scrivere gli Encomj15 d'essa, una difesa pubblicata ha piuttosto delle cose da essa fatte. Nè già impresa è questa del medesimo genere, e della medesima natura, ma la faccenda va tutta all'opposto, convenendosi difesa a quelle cose, le quali hanno in se qualche taccia d'essere ingiuste, ed encomio a coloro, che in qualche prerogativa sono eccellenti. Perchè non sembri però. ch'io voglia fare ciò, che pure è facilissimo, riprendere altrui, e non far mostra del mio, sforzerommi anch'io di favellarne, senza far conto delle cose da altri toccate. Sarà dunque principio del mio ragionamento il principio della di lei prosapia. Molti per verità furono i Semidei, che nacquer da Giove, ma di questa sola femmina egli credè convenevole di chiamarsi Padre. E avvegnachè sommo affetto egli portasse al figliuolo d'Alcmena, tanto più di questo ha voluto, che fosse Elena onorata, quanto a lui diede la forza, con cui tutto potesse il possibil eseguire, e a questa la beltà concesse, che solita è di dar legge alla forza medesima. Comprendendo però, che lo splendore, e l'eccellenza non dalla quiete, ma dalle guerre, e da' pericoli nascono, e volendo non solamente i corpi loro alla divinità sublimare, ma conceder loro l'immortalità eziandio del nome, fece la vita d'Ercole tutta infervorata per le stragi, e pe' disastri, e la natura d'Elena avvenente formò, e tale, che ad ottenerla nascessero d'ogni parte contese. E Teseo16 primieramente, detto figliuolo d'Egeo, ma in verità da Nettun generato17, vedendola non per anco d'età fiorita, ma superiore ad ogn'altra nel volto, tanto dalla bellezza di lei si lasciò vincere, comechè a vincer altri assuefatto, che, avendo amplissima Patria, e securissimo regno, non pensò col possedimento di sì rari beni, che fosse giusto di vivere, senz'aver con essa soggiorno. Laonde non potendo senza volontà di quelli, a cui era soggetta, arrivare a possederla, conciossiacosachè aspettassero eglino e l'età della Figlia, e la risposta da Delfo18; niente curandosi Teseo del regno di Tindaro19, e disprezzando la forza di Castore, e di Polluce20, e di tutti i gravi pericoli, che pur da Sparta gli potevan venire, nessun conto facendo, per forza rapitala, ad Afidne d'Attica la condusse, e tanto si mostrò grato a Piritoo partecipe21 del rapimento, che volendo egli sposare la figliuola di Giove, e di Cerere, chiamato Teseo in compagnia22 per discendere all'inferno, dopochè questi non potè altramente dissuaderlo, in faccia d'una certa, ed evidente disgrazia, si contentò d'accompagnarvelo, stimando, che tal mercede a' meriti di lui si dovesse, e alla pericolosa società intrapresa, di non ricusare qualunque cosa, che da lui venissegli ordinata. Che se colui, il quale a tanto arrivò, fosse uno della volgar gente, e da non apprezzarsi tra gli uomini eccellenti, non sarebbe così chiaro, se questo discorso fosse piuttosto Encomio d'Elena, ovvero accusa di Teseo. Ma egli è pur vero, che tra gl'illustri personaggi alcun si trova di fortezza privato, altri di sapere, ed altri di qualche simile prerogativa; questo solo però di niente bisognoso ritroveremo dalla natura formato, ma d'ogni parte ripieno d'acquistata virtù. Io stimo pertanto opportuno dovermi intorno ad esso più lungamente diffondere, giudicando, che maggior fede saranno per acquistarsi i lodatori d'Elena, se mostreranno, che più maravigliosi degli altri furono gli amanti, e ammiratori della medesima. Di quelle cose certamente, che a' tempi nostri arrivarono, possiamo anche noi colle nostre private opinioni avvalorare il giudizio. Non così delle antiche, nelle quali fa duopo, che noi andiamo d'accordo con ciò, che scrissero gli Oratori di quell'età. Ora io posso produrre per una bellissima testimonianza di Teseo, che nato essendo a' tempi d'Ercole un'invidiabile gloria, e pari23 a quella dell'altro, egli ha di se stesso lasciata. Imperciocchè non solo egualmente nell'armi pensarono d'illustrarsi, ma eziandio a' medesimi istituti s'appigliarono, all'agnazione loro ben convenienti. Nati eglino da due Fratelli, uno da Giove, e l'altro da Nettuno, fraterne, per dir così, ebbero ancora le lor passioni; posciachè soli, fra quanti furon da prima, come atleti si formarono pronti a difendere la vita degli uomini: sicchè ne avvenne, che l'uno pericoli incontrò maggiori, e più celebri, l'altro più utili, ed uffiziosi a' congiunti. Comandò a quello Eurialo di condur vacche da Eritea24, di portare gli Esperj pomi, di rubar 25 Cerbero, ed altre tali fatiche, niente all'umana società profittevoli, ma tutte di pericolo a lui stesso. E Teseo già fatto di sua ragione tali giostre intraprese, onde o de' Greci, o almeno di sua Patria fosse giudicato Benefattore, e 'l Toro da Nettuno26 mandato, distruttore di quel Paese, contro del quale nessun ardiva affrontarsi, solo colla robustezza delle mani superando, da gran timore, e da grande angustia tutti liberò della Grecia gli abitatori. E dopo ciò fattosi de' Lapiti27 alleato, e contra i Centauri di doppia natura l'esercito conducendo, che trionfanti e per la celerità, e per la forza, e per l'ardire a qual Città davan sacco, a quale eran per darlo, a qual minacciavanlo, egli in guerra vincendogli, fiaccò loro le corna dell'ingiurioso orgoglio, e non molto di poi tutta la schiatta loro sulla terra distrusse. A questi tempi vedendo condotti ad un mostro educato in Creta28, nato da Pasifae figlia del Sole, giusto il solito tributo della nostra Città, quattordici bambini, accompagnati dal popol tutto ad una morte evidente, ed ingiusta, e vedendogli piangere ancor vivi, cotanto se ne sdegnò, che piuttosto credette di dover morire, che vergognosamente vivere Arconte29 d'una Città, che pur sofferìa di pagare a' nemici un così miserabil tributo. Entrato egli a parte della navigazione, superò da prima quella natura mista d'uomo30, e di toro, e tal robustezza avente, quale appunto conviensi ad un composto di questi corpi, di poi i salvati bambini a' lor genitori restituì, liberando la Città in tal guisa dall'empio, gravoso, e inevitabil Decreto. Ma io dubito intanto a qual consiglio appigliarmi. Perciocchè giunto alle azioni di Teseo, e d'esse a parlar cominciando, non ho coraggio d'abbandonar l'impresa, e di passar sotto silenzio la crudeltà di Scirone31 e di Cervione32, e d'altri tali, contro di cui fattosi egli Antagonista, a molte, e tutte grandi calamità i Greci sottrasse. Ma d'altra parte io mi sento fuor de' termini traspostato, e temo, che sembri ad alcuni, ch'io abbia maggior cura di lui, che di quella stessa, da me fatta segno del mio ragionare. Dunque dall'una, e dall'altra di queste ragioni angustiato, molte cose lascerò da parte in grazia di coloro, che mal volentieri le sentirebbero: e 'l rimanente proccurerò d'accennare colla maggior brevità, che mi fia possibile. Ora per accordar a lor qualche cosa, ed appagare in parte me stesso, tenterò di non restare al di sotto di chi è pur solito invidiare, e non far conto di ciò, che alcun dice. Teseo adunque mostrò fortezza in quell'opere, nelle quali solamente se stesso a' pericoli assoggettò; mostrò di saper l'arte della guerra in quelle pugne, che unito a tutta la Città intraprese; mostrò divozione verso gli Dii nelle suppliche d'Adrasto33 e de' Figliuoli d'Ercole34.

Posciachè gli uni in battaglia superati avendo, a quelli del Peloponneso la perdonò: e gli altri estinti sotto Cadmea volle ad onta de' Tebani restituire, perchè fossero seppelliti. Mostrò eziandio qualche altra virtù, per cagion d'esempio prudenza non pure nelle predette cose, ma in quelle eziandio, che al regolamento appartenevano della Patria. Imperciocchè osservando, che alcuni Cittadini stanchi di servire s'industriavano di comandare, che alcuni rendevano la vita altrui piena d'incomodi, e di perigli, mentr'essi vivevan sempre in timore, e che sforzati erano di combattere contr'a gente nemica, e straniera coll'ajuto de' Cittadini stessi, o con truppe d'altro Paese contro degli stessi Cittadini; che di più spogliavano i templi de' Numi, che i migliori del popolo uccidevano, che diffidavano delle persone più familiari, e che niente più vivevan essi d'animo tranquillo di quello facessero i condannati a morte, fortunati all'apparenza, ma in realtà più d'ogni altro dolenti, giacchè più trista cosa non v'ha, che viver sempre in timore d'esser ucciso da' suoi domestici, e non meno dover guardarsi da' Custodi, che dagli insidiatori, egli tutto ciò osservando, e giudicati costori non Principi, ma peste della Città, diede a vedere, che più agevole ad un medesimo tempo è il comandare, e non esser di peggior condizione degli altri Cittadini, che ad una stessa legge ubbidivano. E in primo luogo la dispersa Città, e in varie Ville divisa, tutta unita rendendo, cotanto illustrò, che da quel tempo fino a' dì nostri si mantenne la maggior della Grecia. E formatala di poi comune Patria, liberando gli animi del popolo dalle primiere angustie, fece, che a tutti nella contesa delle onorevoli Cariche aperta fosse la strada, credendo, che in egual modo egli avrebbe lor sovrastato, se in esercizio si fossero mantenuti, come se neghittosi rimasti fossero. Di più comprendendo più soavi esser gli onori, che da persone d'eccelso merito, di quelli, che da persone assoggettate derivano, tanto s'astenne di far qualche cosa ad onta de' Cittadini, che anzi risolse di costituire il popolo Padrone della Repubblica, mentr'essi al contrario lui solo credettero degno di comandare, ben persuasi, che più fedele, e più comune stata sarebbe la di lui monarchia, che il popolare di lor governo. Che non era egli già di tal natura, che comandasse altrui la fatica, ed egli intanto alle delizie s'abbandonasse: ma suoi faceva prima i pericoli, e cogli altri tutti ne divideva i vantaggi. E così amato da ognuno chiuse i bei giorni, senza vedersi da veruno insidiato. Nè per conservarsi il principato ebbe duopo ricorrere a straniere potenze, ma sempre ebbe d'intorno satelliti per benevolenza de' Cittadini. Signor del popolo per l'autorità, eguale agli altri per sua generosità. Tanto veramente a norma delle leggi, e con tanta onestade la Città nostra governò, che ancora un vestigio è rimasto ne' nostri istituti della di lui mansuetudine. Ma la virtuosa cotanto, e prudente figlia di Giove come non è forza lodare, ed onorare, e molto più eccellente de' posteri tutti giudicare? Più fedel testimonio in verità non abbiamo, nè Giudice possiam trovare più adatto, intorno alle prerogative d'Elena, dello stesso giudizio di Teseo. Ma perchè non si creda, che per iscarsezza d'encomi io me la passi con sì fatta figura, per cui abusandomi della gloria d'un uomo solo, le lodi imprenda di lei, voglio altresì nelle cose, che rimangono a dire, alquanto intrattenermi. Dopo la discesa di Teseo all'inferno, ritornando Ella in Isparta, ed in età già pronta alle nozze, tutti que' che regnavano allora, potenti nelle Città, si conformarono a Teseo nel discernimento del di lei merito. Imperciocchè avendo eglino la facoltà di prender Donne considerate le prime nelle loro Città, niente curandosi delle nozze in Patria, vennero a questa coll'animo di sposarla. Nè deliberato ancora, chi dovesse a lei congiungersi, e comune essendo per anco la fortuna di ciascheduno, siccome d'altra parte evidente una vicina guerra tra loro, tutti d'accordo si dieron parola di prestarsi vicendevole ajuto in caso, che alcuno pensato avesse di soverchiare chi ne fosse giudicato degno, avvisandosi ognuno di provvedere in tal guisa a se stesso, avvegnachè tutti, a riserva d'un solo, ingannati fossero da una privata speranza. Nè alcun di loro andò lontano dal vero intorno alla comune opinione, che d'essa avevano concepita. Poichè quindi a non molto, insorta sul punto di bellezza fra Dee contesa, della quale fu Alessandro figliuol di Priamo Giudice costituito, e promettendogli Giunone l'impero dell'Asia tutta, la vittoria nelle guerre Minerva, e Venere le nozze d'Elena, come un pieno giudizio non poteva prender de' corpi, abbagliato dalla presenza di quelle Dive, fu obbligato ad esser Giudice de' doni promessi, e a fronte d'ogn'altra cosa scelse la dimora con Elena, non pel diletto solo, che quindi ne avrebbe tratto, ancorchè ciò al parere d'alcuni savj è una cosa di molt'altre più desiderabile; ma egli ebbe in animo di farsi, e d'esser chiamato parente di Giove. Così con questa elezione si persuase, che molto più onesto fosse, e considerabile sì fatto onore, che 'l regno d'Asia, che i grandi Principati, che le potenze, le quali talvolta dagli uomini di nessun conto son possedute; quand'al contrario veruno de' posteri non avrebbe mai potuto reputarsi degno d'una tal Donna. Bensì comprendeva, che maggior bene non avrebbe potuto a' suoi figlj lasciare, che apprestar loro cagion di vantarsi, d'esser eglino per canto paterno, e materno da Giove discesi. Conosceva, che l'altre fortune sarebbero con celerità svanite, ma che la nobiltà sarebbe loro eternamente rimasa. Vedeva, che questa elezione vantaggio a tutta la stirpe recato avrebbe, ma gli altri doni sarebbono al più durati fino all'età de' suoi figlj. I quai sentimenti poi da nessuna mente aggiustata a lui, furono rimproverati, ancorchè tra coloro, i quali sull'apparenza delle azioni si fermano, e niente passano avanti coll'immaginazione all'esito delle cose fosservi alcuni, che si facevan beffe di lui, mostrando di leggieri il poco lor senno dalla natura delle maldicenze, che adoperavano. Come mai per verità più ridevoli potean rendersi, che giudicando i loro discernimenti più acuti di quell'ingegno, che ad una sì alta impresa fu da' Numi trascelto? Nè già è da credersi, che sovra la detta contesa abbiano a qualunque del popolo dato autorità di giudicare, ma egli è ben manifesto, che tutt'ebbero quella sollecitudine d'appoggiarsi ad un ottimo Giudice, che pur mostrarono in così ardua impresa d'avere. Egli è dunque mestieri di considerare chi egli fosse, e di conoscerlo non dalla passion delle Dee, che vinte rimasero, ma dalla scelta, che tutte d'accordo ferono del di lui giudizio. Poichè non è da stupirsi, se talora da più potenti persone a torto riceve calunnie chi non peccò. Ma che un mortale sia a parte d'un tanto onore, quanto è quello d'esser fatto giudice di Dee, questo non può altramente, che ad un uomo di singolar talento, avvenire. Io mi stupisco pertanto, che alcuno disapprovato abbia l'elezion da lui fatta di vivere con quella Donna, in grazia di cui già molti Semidei avevan voluto morire. O come piuttosto egli non sarebbe stato di poco giudizio, se vedendo le Dee tra loro in contesa per la bellezza, egli la bellezza sprezzata avesse, e non giudicato esser questa il maggiore di tutti i doni, intorno a cui comprendevale sì fortemente appassionate? E chi mai le nozze d'Elena non avrebbe curate, il di cui rapimento cotanta indegnazione cagionò a' Greci, quanta, se tutta la Grecia destrutta fosse, e tanta superbia a' Barbari, quanta, se di tutti noi altri si fossero impadroniti. E' però assai chiaro ciò, che gli uni e gli altri ebbero in mente: imperciocchè essendosi per molte ingiurie scambievolmente provocati, sul rimanente fecero tregua, e guerra per questa sola intrapresero, non pure per la grandezza dello sdegno, ma eziandio per la lunghezza del tempo, e per la moltitudine degli apparati35, quale per anco non era avvenuta. E benchè gli uni colla restituzione d'Elena sene sarebbero agevolmente liberati, e gli altri non facendone stima sarebbero nel rimanente del tempo securamente vissuti, nessun di loro ciò volle, ma quelli sopportarono in pace di veder le Città atterrate, e saccheggiato il Paese, prima che farne restituzione. Questi poi elessero d'invecchiare nell'altrui terreno, e di non più vedere i lor figlj, piuttosto che abbandonandola fare alla Patria ritorno. Nè già a tanto s'accinsero per guerreggiare in favor d'Alessandro, o di Menelao, ma quelli per l'Asia tutta, questi per tutta l'Europa, giudicando, che dovunque il bel corpo di lei soggiornasse, più fortunato il Paese sarebbene divenuto. Anzi non solamente i Greci, e' Barbari tanto presero per lei amore alle fatiche, e a questa spedizione, ma i Numi stessi, che risparmiare i loro Figlj non vollero da' combattimenti d'intorno a Troja: che sebben Giove prevedesse il rio destin di Sarpedone36 l'aurora di Mennone37, Nettun di Cigno38, e Teti d'Achille39, cogli altri però gli armarono, e unitamente alla guerra mandarongli, stimando, che più bella impresa farebbero morendo in battaglia per la Figlia di Giove, che vivendo lontani da' pericoli, che potevano per lei incontrare. E quale ragione di farsi maraviglia del destin de' Figlj, come se i Numi stessi molto maggiore, e più grave combattimento non avessero impreso mercè di lei, che nell'azione40 contro de' Giganti? Poichè contr'ad essi unitamente tutti pugnarono, e in difesa di questa contro di se medesimi rivolsero l'armi. Rettamente pertanto la pensarono i Numi, ed io co' lor sentimenti posso ragionevolmente il mio discorso ingrandire: che in verità Ella fu a parte di moltissima beltà, la più venerabile, la più onorevole, la più41 divina cosa del Mondo. Ed è ben facile concepirne il valore: imperciocchè v'hanno assai cose, che appariscono d'onor più degne, che non quegli uomini, i quali a parte sono o della fortezza, o del sapere, o della giustizia. Ma in persone, che di beltade affatto scarseggiano, nulla ritroveremo, che ad amarle c'inviti: ed ogni cosa pur merita d'essere disprezzata, che in sè medesima idea di bellezza non abbia, e la virtù per questo solo al sommo grado s'innalza, ch'essa è il più bello di qualsivoglia ornamento. Forse alcuno potrà comprendere, quando d'ogn'altro bene pregevole sia la beltà, dalla stessa disposizione, per cui a ciascuno de' begli oggetti siam tratti. Vediamo in realtà, che di qualunque altra cosa, che in uso abbiamo, da noi solo si cerca di conseguire il possesso, nè intorno alla medesima da verun'altra maggior passione è l'animo nostro agitato. Ma l'affetto alle cose belle è nato con noi, e tanto ha maggior forza d'obbligare la nostra volontà, quanto in se stessa ha la cosa più merito. Invidia portiamo a coloro, che o nel sapere, o in altre doti sono eccellenti, quando ogni giorno allettati non siamo co' benefizj, e quasi ad amargli obbligati. Ma delle belle persone tantosto al primo incontro amici noi siamo, e sole, quasi altri Dii, non ci stanchiamo di venerarle, e più soave ne sembra ad esse ubbidire, che ad altri dar legge; più grati lor ci mostriamo, se molto comandano, che se per avventura nulla affatto c'impongono. Laonde se altri mai è ad alcun'altra virtù consecrato, noi siam avvezzi di motteggiarlo, e adulator lo chiamiamo: Ma coloro, che servono alla beltà noi giudichiamo pur essere uomini egualmente gentili, che industriosi. E tanta pietà, e tanta cuea abbiamo della bellezza, che se alcuno tra' suoi avvenenti posseditori il fiore imprudentemente ne prostituisce, più ancora siam soliti d'ingiuriarlo, che non facciam per chiunque osa sugli altrui corpi peccare. Ma chi sa conservare la propria avvenenza, rendendola, qual cosa sacra, da qualunque macchia lontana, questo in ogni tempo onoriamo, come se dell'intiera Città fosse egli benefattore. Ma che bisogno v'ha mai, ch'io mi trattenga in accennare l'opinioni degli uomini? Giove stesso onnipossente in altre cose il suo potere mostrò, ma verso la bellezza umiliatosi, non è poi schivo di volgere intorno ad essa gli affetti. Sembianza prese una volta d'Amfitrione42, per venire ad Alcmena. In pioggia d'oro43 a Danae s'accostò; e rifugio fatto Cigno44 al seno di Nemesi: Il qual aspetto nuovamente prendendo si fe' marito di Leda45. Talchè ben sempre con arte, non mai per forza apparisce d'aver egli simiglievoli nature assunte. Tanto adunque, più che da noi, è preferita la bellezza da loro, che per fino alle peccanti lor Donne son soliti di perdonarla, quand'hanno in volto bellezza. E molte alcuno potrà mostrare delle immortali Dee, che vinte furono da beltà mortale, così lontane di ciò recarsi a disdoro, o di tenere le lor passioni celate, che a guisa d'imprese leggiadre voller piuttosto vederle da altri celebrate, che messe in silenzio. Ecco di ciò, che s'è detto un argomento incontrastabile. Molto più persone noi ritroviamo fatte immortali per la bellezza, che per l'altre virtù tutte, delle quali tanto più Elena fu eccellente, quanto ancor più d'ogn'altra 46 ebbe avvenente l'aspetto. E per dir vero non solamente fu Ella partecipe47 dell'immortalità, ma una potenza eguale a quella degli Dii ottenendo, ridusse in primo luogo all'esser de' Numi i Fratelli48, , comechè già dal Fato raggiunti. Desiderando poi, che fede acquistasse dagli uomini il lor cangiamento, tali a lor diede manifesti segni d'amore, onde fossero salute a coloro, che in mezzo a' pericoli del mare49 piamente gli avessero invocati. Oltre a ciò tanto fu grata a Menelao per le fatiche, e disastri a suo riguardo da lui sostenuti, che già estinta la schiatta tutta de' Nipoti di Pelope, e lui medesimo a mali irremediabili già soggiacente, non solamente a quelle calamità sottrasse, ma Dio da mortale facendolo, e suo assessore, per tutta la posterità poi trasselo a seco convivere, e della famiglia di lui fece sì, che la Spartana Città, conservatrice dell'antichissime cose, rendesse co' fatti testimonianza. E ben tuttavia nel distretto di Terapne in Laconia, santi sagrifizj s'innalzan loro co' riti paterni, non come ad Eroi, ma come a due Deità supreme. Anche al Poeta Stesicoro50 fece ella mostra del suo potere, quando sul cominciar d'un'Oda, bestemmiato avendo contro di lei, s'alzò in un tratto privo degli occhi. Nè prima per di lei grazia la vista riacquistò, che della cagione accorgendosi di suo sventura, non avesse con opposto canto sanato l'errore. Dicono di più alcuni fra' partigiani d'Omero, che presentatasi a lui di notte, ordin gli diede di far menzion di coloro, che sotto Troja andaron per lei coll'esercito, volendo, che la lor morte più che la vita degli altri fosse invidiata. E che il Poema di lui tanto leggiadro poi fosse, e tanto nominato da tutti, cagione essere stato in parte l'artifizio d'Omero, e in parte il merito di lei. Come pertanto capace e di prender vendetta, e di recar benefizio, egli è convenevole, che co' presenti a lei dedicati, e co' sagrifizj, e in altre guise o la plachi, o l'onori, chi vuol in opere rendersi singolare; che i Filosofi tentino di qualche cosa produrre non indegna di sì alto subbjetto; che a lei finalmente queste primizie consacri un uomo dato alle lettere. Sebbene molto più di quanto ho accennato è il numero delle cose da me tralasciate. Diede Elena impulso al ritrovamento dell'arti, e alla scoperta de' Filosofici arcani; ed a lei, e alla guerra Trojana tanti vantaggi dobbiam riferire, che pur sentiamo; e da lei ragionevolmente la cagion riconoscere, per cui di servire a' Barbari non siam costretti. Ritroverem senza dubbio, che sol per questa i Greci s'unirono, e contro de' Forestieri l'esercito mossero, e cominciò allora l'Europa ad ergere monumenti ad onta dell'Asia, del che tanta mutazione a noi avvenne, che, se prima di quell'età degni eran fatti i più infelici tra' Barbari di comandare alle Greche Città, e Danao51 dall'Egitto fuggendo Argo occupò, e regno in Tebe Cadmo52 Sidonio, e quei di Caria53 le nostre Isole abitarono, e di tutto il Peloponneso54 Pelope figliuol di Tantalo ottenne l'impero; dopo di quella guerra cotanto la gente nostra avvantaggiò, che furon da noi55 tolte a' Barbari e grandi Città, e sterminato Paese. S'altri dunque con saggio consiglio non dubiteranno d'illustrare il mio assunto, avran cose oltre alle dette, ond'Elena esaltare, e molti potranno tessere in lode di lei eleganti, e nuovi ragionamenti.

Traduzione dal greco di Angelo Teodoro Villa (1753)