I libri

Testo

Omero - Odissea

Libro Primo

Musa, quell'uom di multiforme ingegno

Dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra

Gittate d'Ilïòn le sacre torri;

Che città vide molte, e delle genti

L'indol conobbe; che sovr'esso il mare

Molti dentro del cor sofferse affanni,

Mentre a guardar la cara vita intende,

E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

Ricondur desïava i suoi compagni,

Ché delle colpe lor tutti periro.

Stolti! che osaro vïolare i sacri

Al Sole Iperïon candidi buoi

Con empio dente, ed irritâro il nume,

Che del ritorno il dì lor non addusse.

Deh! parte almen di sì ammirande cose

Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

Già tutti i Greci, che la nera Parca

Rapiti non avea, ne' loro alberghi

Fuor dell'arme sedeano e fuor dell'onde;

Sol dal suo regno e dalla casta donna

Rimanea lungi Ulisse: il ritenea

Nel cavo sen di solitarie grotte

La bella venerabile Calipso,

Che unirsi a lui di maritali nodi

Bramava pur, ninfa quantunque e diva.

E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,

La destinata dagli dèi stagione

Del suo ritorno, in Itaca, novelle

Tra i fidi amici ancor pene durava.

Tutti pietà ne risentìan gli eterni,

Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno

Prima non si stancò, che alla sua terra

Venuto fosse il pellegrino illustre.

Ma del mondo ai confini e alla remota

Gente degli Etïòpi (in duo divisa,

Ver cui quinci il sorgente ed il cadente

Sole gli obbliqui rai quindi saetta)

Nettun condotto a un ecatombe s'era

Di pingui tori e di montoni; ed ivi

Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.

In questo mezzo gli altri dèi raccolti

Nella gran reggia dell'olimpio Giove

Stavansi. E primo a favellar tra loro

Fu degli uomini il padre e de' celesti,

Che il bello Egisto rimembrava, a cui

Tolto avea di sua man la vita Oreste,

L'inclito figlio del più vecchio Atride.

«Poh!» disse Giove, «incolperà l'uom dunque

Sempre gli dèi? Quando a se stesso i mali

Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco,

E la stoltezza sua chiama destino.

Così, non tratto dal destino, Egisto

Disposó d'Agamennone la donna,

E lui, da Troia ritornato, spense;

Benché conscio dell'ultima ruina

Che l'Argicida esplorator Mercurio,

Da noi mandato, prediceagli: "Astienti

Dal sangue dell'Atride, ed il suo letto

Guàrdati di salir; ché alta vendetta

Ne farà Oreste, come il volto adorni

Della prima lanuggine e lo sguardo

Verso il retaggio de' suoi padri volga".

Ma questi di Mercurio utili avvisi

Colui nell'alma non accolse: quindi

Pagò il fio d'ogni colpa in un sol punto».

«Di Saturno figliuol, padre de' numi,

Re de' regnanti», così a lui rispose

L'occhiazzurra Minerva: «egli era dritto

Che colui non vivesse: in simil foggia

Pera chïunque in simil foggia vive!

Ma io di doglia per l'egregio Ulisse

Mi struggo, lasso! che, da' suoi lontano,

Giorni conduce di rammarco in quella

Isola, che del mar giace nel cuore,

E di selve nereggia;:isola, dove

Soggiorna entro alle sue celle secrete

L'immortal figlia di quel saggio Atlante,

Che del mar tutto i più riposti fondi

Conosce e regge le colonne immense

Che la volta sopportano del cielo.

Pensoso, inconsolabile,

l'accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli

Parolette carezzalo, se mai

Potesse Itaca sua trargli dal petto:

Ma ei non brama che veder dai tetti

Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,

E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.

Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?

Grati d'Ulisse i sagrifici, al greco

Navile appresso, ne' troiani campi,

Non t'eran forse? Onde rancor sì fiero,

Giove, contra lui dunque in te s'alletta?»

«Figlia, qual ti lasciasti uscir parola

Dalla chiostra de' denti?» allor riprese

L'eterno delle nubi addensatore:

«Io l'uom preclaro disgradir, che in senno

Vince tutti i mortali, e gl'Immortali

Sempre onorò di sacrifici opìmi?

Nettuno, il nume che la terra cinge,

D'infurïar non resta pel divino

Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse

Dell'unic'occhio vedovò la fronte,

Benché possente più d'ogni Ciclope:

Pel divin Polifemo, che Toòsa

Partorì al nume, che pria lei soletta

Di Forco, re degl'infecondi mari,

Nelle cave trovò paterne grotte.

Lo scuotitor della terrena mole

Dalla patria il disvia da quell'istante,

E, lasciandolo in vita, a errar su i neri

Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo

Che l'infelice rieda; e che Nettuno

L'ire deponga. Pugnerà con tutti

Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno.»

«Di Saturno figliuol, padre de' numi,

De' regi re,» replicò a lui la diva

Cui tinge gli occhi un'azzurrina luce,

«Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada,

Ché non s'invìa nell'isola d'Ogige

L'ambasciator Mercurio, il qual veloce

Rechi alla ninfa dalle belle trecce,

Com'è fermo voler de' sempiterni

Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?

Scesa in Itaca intanto, animo e forza

Nel figlio io spirerò, perch'ei, chiamati

Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli

Que' proci baldi, che nel suo palagio

L'intero gregge sgòzzangli, e l'armento

Dai piedi torti e dalle torte corna.

Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,

Acciocché sappia del suo caro padre,

Se udirne gli avvenisse in qualche parte,

Ed anch'ei fama, vïaggiando, acquisti.»

Detto così, sotto l'eterne piante

Si strinse i bei talar d'oro, immortali,

Che lei sul mar, lei su l'immensa terra

Col soffio trasportavano del vento.

Poi la grande afferrò lancia pesante,

Forte, massiccia, di appuntato rame

Guernita in cima, onde le intere doma

Falangi degli eroi, con cui si sdegna,

E a cui sentir fa di qual padre è nata.

Dagli alti gioghi del beato Olimpo

Rapidamente in Itaca discese.

Si fermò all'atrio del palagio in faccia,

Del cortil su la soglia, e le sembianze

Vesti di Mente, il condottier de' Tafî.

La forbita in sua man lancia sfavilla.

Nel regale atrio, e su le fresche pelli

Degli uccisi da lor pingui giovenchi

Sedeano, e trastullavansi tra loro

Con gli schierati combattenti bossi

Della Regina i mal vissuti drudi.

Trascorrean qua e là serventi e araldi

Frattanto: altri mescean nelle capaci

Urne l'umor dell'uva e il fresco fonte.

Altri le mense con forata e ingorda

Spugna tergeano, e le metteano innanzi,

E le molte partìan fumanti carni.

Simile a un dio nella beltà, ma lieto

Non già dentro del sen, sedea tra i proci

Telemaco: mirava entro il suo spirto

L'inclito genitor, qual s'ei, d'alcuna

Parte spuntando, a sbaragliar si desse

Per l'ampia sala gli abborriti prenci,

E l'onor prisco a ricovrar e il regno.

Fra cotali pensier Pallade scorse,

Né soffrendogli il cor che lo straniero

A cielo aperto lungamente stesse,

Dritto uscì fuor, s'accostò ad essa, prese

Con una man la sua, con l'altra l'asta,

E queste le drizzò parole alate:

«Forestier, salve. Accoglimento amico

Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima

Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo».

Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa

Minerva. Entrati nell'eccelso albergo,

Telemaco portò l'asta, e appoggiolla

A sublime colonna, ove, in astiera,

Nitida, molte dell'invitto Ulisse

Dormiano arme simìli. Indi a posarsi

Su nobil seggio con sgabello ai piedi

La dea menò, stesovi sopra un vago

Tappeto ad arte intesto; e un varïato

Scanno vicin di lei pose a se stesso.

Così, scevri ambo dagli arditi proci,

Quell'impronto frastuon l'ospite a mensa

Non disagiava, e dell'assente padre

Telemaco potea cercarlo a un tempo.

Ma scorta ancella da bel vaso d'oro

Purissim'onda nel bacil d'argento

Versava, e stendea loro un liscio desco,

Su cui la saggia dispensiera i pani

Venne a impor candidissimi, e di pronte

Dapi serbate generosa copia;

E carni d'ogni sorta in larghi piatti

Recò l'abile scalco, ed auree tazze,

Che, del succo de' grappoli ricolme,

Lor presentava il banditor solerte.

Entraro i proci, ed i sedili e i troni

Per ordine occuparo: acqua gli araldi

Diero alle mani, e di recente pane

I ritondi canestri empièr le ancelle.

Ma in quel che i proci all'imbandito pasto

Stendean la man superba, incoronaro

Di vermiglio licor l'urne i donzelli.

Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,

Pago del bere il natural talento,

Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo

Che gli ornamenti son d'ogni convito.

Ed un'argentea cetera l'araldo

Porse al buon Femio, che per forza il canto

Tra gli amanti sciogliea. Mentr'ei le corde

Ne ricercava con maestre dita,

Telemaco, piegando in vêr la dea,

Sì che altri udirlo non potesse, il capo,

Le parlava in tal guisa: «Ospite caro,

Ti sdegnerai se l'alma io t'apro? In mente

Non han costor che suoni e canti. Il credo:!

Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi

Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra

Giacciono a imputridir sotto la pioggia,

O le volve nel mare il negro flutto.

Ma s'egli mai lor s'affacciasse un giorno,

Ben più che in dosso i ricchi panni e l'oro,

Aver l'ali vorrebbero alle piante.

Vani desìri! Una funesta morte

Certo ei trovò, speme non resta, e invano

Favellariami alcun del suo ritorno;

Del suo ritorno il dì più non s'accende.

Su via, ciò dimmi, e non m'asconder nulla:

Chi? di che loco? e di che sangue sei?

Con quai nocchier venìstu, e per qual modo

E su qual nave, in Itaca? Pedone

Giunto, per alcun patto io non ti credo.

Di questo tu mi contenta: nuovo

Giungi, o al mio genitor t'unisce il nodo

Dell'ospitalità? Molti stranieri

A' suoi tetti accostavansi; ché Ulisse

Voltava in sé d'ogni mortale il core».

«Tutto da me», gli rispondea la diva

Che cerùleo splendor porta negli occhi,

T'udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,

Figliuol d'Anchìalo bellicoso, e ai vaghi

Del trascorrere il mar Tafî comando.

Con nave io giunsi e remiganti miei,

Fendendo le salate onde, vêr gente

D'altro linguaggio, e a Temesa recando

Ferro brunito per temprato rame,

Ch'io ne trarrò. Dalla città lontano

Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,

Nella baia di Retro il mio naviglio.

Sì, d'ospitalità vincol m'unisce

Col padre tuo. Chieder ne puoi l'antico,

Ristringendoti seco, eroe Laerte,

Che a città, com'è fama, or più non viene;

Ma vita vive solitaria e trista

Ne' campi suoi, con vecchierella fante,

Che, quandunque tornar dalla feconda

Vigna, per dove si trae a stento, il vede,

Di cibo il riconforta e di bevanda.

Me qua condusse una bugiarda voce,

Fosse il tuo padre di Itaca, da cui

Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti

L'illustre pellegrin, no, non comparve,

Ma vivo, e a forza in barbara contrada,

Cui cerchia un vasto mar, gente crudele

Rattienlo: lo rattien gente crudele

Vivo, ed a forza in barbara contrada.

Pur, benché il vanto di profeta, o quello

D'augure insigne io non m'arroghi, ascolta

Presagio non fallace che su i labbri

Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo

Non rimarrà della sua patria in bando,

Lo stringessero ancor ferrei legami.

Da quai legami uom di cotanti ingegni

Disvilupparsi non sapria? Ma schietto

Parla: sei tu vera sua prole? Certo

Nel capo e ne' leggiadri occhi ad Ulisse

Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,

Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,

Sciogliesse anch'ei su le cavate navi,

Io, come oggi appo il tuo, così sedea

Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.

D'allora io non più lui, né me vid'egli».

E il prudente Telemaco: «Sincero

Risponderò. Me di lui nato afferma

La madre veneranda. E chi fu mai

Che per se stesso conoscesse il padre?

Oh foss'io figlio d'un che una tranquilla

Vecchiezza côlto ne' suoi tetti avesse!

Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice

Degli uomini la vita, ospite, io deggio».

«Se ad Ulisse Penelope», riprese

Pallade allor dalle cilestre luci,

«Ti generò, vollero i dèi che gisse

Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.

Garzon, dal ver non ti partir: che festa,

Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?

Convito? Nozze? Genial non parmi

A carco di ciascun mensa imbandita.

Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,

Che mirarlo, e non irne in foco d'ira,

Mal può chïunque un'alma in petto chiuda».

Ed il giovane a lui: «Quando tu brami

Saper cotanto delle mie vicende,

Abbi che al mondo non fu mai di questa

Né ricca più, né più innocente casa,

Finché quell'uomo il piè dentro vi tenne.

Ma piacque altro agli dèi, che, divisando

Sinistri eventi, per le vie più oscure,

Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.

Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto

Non fôra il lagrimar, s'ei presso a Troia

Cadea pugnando, o vincitor chiudea

Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.

Alzato avriangli un monumento i Greci,

Che di gloria immortale al figlio ancora

Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe

Ignobilmente per lo ciel rapiro:

Perì non visto, non udito, e al figlio

Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.

Ché lui solo io non piango: altre e non poche

Mi fabbricaro i numi acerbe cose.

Quanti ha Dulichio e Samo e la boscosa

Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,

Ciascun la destra della madre agogna.

Ella né rigettar può, né fermare

Le inamabili nozze. Intanto i proci,

Da mane a sera banchettando, tutte

Le sostanze mi struggono e gli averi;

Né molto andrà che struggeran me stesso».

S'intenerì Minerva, e: «Oh quanto», disse,

«A te bisogna il genitor, che metta

La ultrice man su i chieditori audaci!

Sol ch'ei con elmo e scudo, e con due lance

Sul limitar del suo palagio appena

Si presentasse, quale io prima il vidi,

Che, ritornato d'Efira, alla nostra

Mensa ospital si giocondava assiso,

(Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,

Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,

Onde le frecce unger volea, veleno

Che non dal Mermerìde, in cui de' numi

Era grande il timor, ma poscia ottenne

Dal padre mio, che fieramente ammollo)

Sol ch'ei così si presentasse armato,

De' proci non sarìa, cui non tornasse

Breve la vita e il maritaggio amaro.

Ma venir debba di sì trista gente

A vendicarsi o no, su le ginocchia

Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,

Vuolsi l'arte pensare. Alle mie voci

Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbi,

De' Greci i capi a parlamento invita,

Ragiona franco ad essi e al popol tutto,

Chiamando i numi in testimonio, e ai proci

Nelle lor case rientrare ingiungi.

La madre, ove desìo di nuove nozze

Nutra, ripari alla magion d'Icario,

Che ordinerà le sponsalizie, e ricca

Dote apparecchierà, quale a diletta

Figliuola è degno che largisca un padre.

Tu poi, se non ricusi un saggio avviso

Ch'io ti porgo, seguir, la meglio nave

Di venti e forti remator guernisci,

E, del tuo genitor molt'anni assente

Novelle a procacciarti, alza le vele.

Troverai forse chi ten parli chiaro,

O quella udrai voce fortuita, in cui

Spesso il cercato ver Giove nasconde.

Proa vanne a Pilo, e interroga l'antico

Nestore; Sparta indi t'accolga, e il prode

Menelao biondo, che dall'arsa Troia

Tra i loricati Achivi ultimo giunse.

Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,

Benché dolente, sosterrai. Ma, dove

Lo sapessi tra l'ombre, in patria riedi,

E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni

Rendigli, qual s'addice, onor funébri,

E alla madre presenta un altro sposo.

Dopo ciò, studia per qual modo i proci

Con l'inganno tu spegna, o alla scoperta;

Ché de' trastulli il tempo e de' balocchi

Passò, ed uscito di pupillo sei.

Non odi tu levare Oreste al cielo,

Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,

Che il genitor famoso aveagli morto?

Me la mia nave aspetta e i miei compagni,

Cui forse incresce questo indugio. Amico,

Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,

Converti in opre: d'un eroe l'aspetto

Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni

Forte ne' dì futuri anco il tuo nome».

«Voci paterne son, non che benigne»,

D'Ulisse il figlio ripigliava, ed io

Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.

Ma tu, per fretta che ti punga, tanto

Férmati almen, che in tepidetto bagno

Entri, e conforti la dolce alma, e lieto,

Con un mio dono in man, torni alla nave:

Don prezïoso per materia ed arte,

Che sempre in mente mi ti serbi; dono

Non indegno d'un ospite che piacque».

«No, di partir mi tarda», a lui rispose

L'occhicerulea diva. «Il bel presente

Allor l'accetterò, che, questo mare

Rinavigando, per ripormi in Tafo,

T'offrirò un dono anch'io che al tuo non ceda».

Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza

Infondendogli e ardire, e a lui nel petto

La per sé viva del suo padre imago

Ravvivando più ancora, alto levossi,

E veloce, com'aquila, disparve.

Da maraviglia, poiché seco in mente

Ripeté il tutto, e s'avvisò del nume,

Telemaco fu preso. Indi, già fatto

Di se stesso maggior, venne tra i proci.

Taciti sedean questi, e nell'egregio

Vate conversi tenean gli occhi; e il vate

Quel difficil ritorno, che da Troia

Pallade ai Greci destinò crucciata,

Della cetra d'argento al suon cantava.

Nelle superne vedovili stanze

Penelope, d'Icario la prudente

Figlia, raccolse il divin canto, e scese

Per l'alte scale al basso, e non già sola,

Ché due seguìanla vereconde ancelle.

Non fu de' proci nel cospetto giunta,

Che s'arrestò della dedalea sala

L'ottima delle donne in su la porta,

Lieve adombrando l'una e l'altra gota

Co' bei veli del capo, e tra le ancelle

Al sublime cantor gli accenti volse:

«Femio», diss'ella, e lagrimava, «Femio,

Bocca divina, non hai tu nel petto

Storie infinite ad ascoltar soavi,

Di mortali e di numi imprese altere,

Per cui toccan la cetra i sacri vati?

Narra di quelle, e taciturni i prenci

Le colme tazze vôtino; ma cessa

Canzon molesta che mi spezza il cuore,

Sempre che tu la prendi in su le corde;

Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna

Provossi, invase, mentre aspetto indarno

Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo

Del suo nome la Grecia, e ch'è il pensiero

De' giorni miei, delle mie notti è il sogno.»

«O madre mia», Telemaco rispose,

«Lascia il dolce cantor, che c'innamora,

Là gir co' versi, dove l'estro il porta.

I guai, che canta, non li crea già il vate:

Giove li manda, ed a cui vuole e quando.

Perché Femio racconti i tristi casi

De' Greci, biasmo meritar non parmi;

Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,

Tanto più loro aggrada ogni canzone.

Udirlo adunque non ti gravi, e pensa

Che del ritorno il dì Troia non tolse

Solo ad Ulisse: d'altri eroi non pochi

Fu sepolcro comune. Or tu risali

Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,

Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche

Commetti, o madre, travagliar di forza.

Il favellar tra gli uomini assembrati

Cura è dell'uomo, e in questi alberghi mia

Più che d'ogni altro; però ch'io qui reggo».

Stupefatta rimase, e, del figliuolo

Portando in mezzo l'alma il saggio detto,

Nelle superne vedovili stanze

Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome

Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.

Finché inviolle l'occhiglauca Palla,

Sopitor degli affanni, un sonno amico.

I drudi, accesi, via più ancor che prima,

Del desìo delle nozze a quella vista,

Tumulto fean per l'oscurata sala.

E Telemaco ad essi: «O della madre

Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,

Diletto dalla mensa or si riceva,

Né si schiamazzi, mentre canta un vate,

Che uguale ai numi stessi è nella voce.

Ma, riapparsa la bell'alba, tutti

Nel Foro aduneremci, ov'io dirovvi

Senza paura, che di qua sgombriate;

Che gavazziate altrove; che l'un l'altro

Inviti alla sua volta, e il suo divori.

Che se disfare impunemente un solo

Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo

Gli abitatori invocherò, né senza

Fiducia, che il Saturnio a colpe tali

Un giusto guiderdon renda, e che inulto

Tinga un dì queste mura il vostro sangue».

Morser le labbra ed inarcar le ciglia

A sì franco sermon tutti gli amanti.

E Antinoo, il figliuol d'Eupìte: «Di fermo

A ragionar, Telemaco, con sensi

Sublimi e audaci t'impararo i numi.

Guai, se il paterno scettro a te porgesse

Nella cinta dal mare Itaca, Giove!

«Benché udirlo», Telemaco riprese,

«Forse Antìnoo, t'incresca, io nol ti celo:

Riceverollo dalla man di Giove.

Parrìati una sventura? Il più infelice

Dal mio lato io non credo in fra i mortali

Chi re diventa. Di ricchezza il tetto

Gli splende tosto, e più onorato ei vanne.

Ma la cinta dal mare Itaca molti

Sì di canuto pel, come di biondo,

Chiude, oltre Antìnoo, che potran regnarla,

Quando sotterra dimorasse il padre.

Non però ci vivrà chi del palagio

La signorìa mi tolga, e degli schiavi,

Che a me solo acquistò l'invitto Ulisse».

Eurìmaco di Pòlibo allor surse:

«Qual degli Achei sarà d'Itaca il rege,

Posa de' numi onnipossenti in grembo.

Di tua magion tu il sei; né de' tuoi beni,

Finché in Itaca resti anima viva,

Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,

Chi è quello stranier? Dond'ei partissi?

Di qual terra si gloria e di qual ceppo?

Del padre non lontan forse il ritorno

T'annunzia? o venne in questi luoghi antico

Debito a dimandar? Come disparve

Ratto! come parea da noi celarsi!

Certo d'uom vile non avea l'aspetto».

«Ah», ripigliò il garzon, «del genitore

Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!

Giungano ancor novelle, altri indovini

L'avida madre nel palagio accolga;

Né indovin più, né più novelle io curo.

Ospite mio paterno è il forestiere,

Di Tafo, Mente, che figliuol si vanta

Del bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera».

Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo

La calata dal ciel dea riconobbe.

I proci, al ballo ed al soave canto

Rivolti, trastullavansi, aspettando

Il buio della notte. Della notte

Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro

Negli occhi il sonno ad accettar n'andàro.

Telemaco a corcarsi, ove secreta

Stanza da un lato del cortil superbo

Per lui costrutta, si spiccava all'aura,

Salse, agitando molte cose in mente.

E con accese in man lucide faci

Il seguiva Euriclèa, l'onesta figlia

D'Opi di Pisenór, che già Laerte

Col prezzo comperò di venti tori,

Quando fiorìale giovinezza in volto:

Né cara men della consorte l'ebbe,

Benché temendo i coniugali sdegni,

Del toccarla giammai non s'attentasse.

Con accese il seguìa lucide faci:

Più gli portava amor ch'ogni altra serva,

Ed ella fu che il rallevò bambino.

Costei gli aprì della leggiadra stanza

La porta: sovra il letto egli s'assise,

Levò la sottil veste a sé di dosso,

E all'amorosa vecchia in man la pose,

Che piegolla con arte, e alla caviglia

L'appese, accanto il traforato letto.

Poi d'uscire affrettavasi: la porta

Si trasse dietro per l'anel d'argento;

Tirò la fune, e il chiavistello corse.

Sotto un fior molle di tessuta lana

Ei volgea nel suo cor, per quell'intera

Notte, il cammin che gli additò Minerva.