Ho scelto per voi:
Mercurio, estroso nipote di Atlante,
che svelando la parola e l'armonia dei gesti
hai col tuo genio ingentilito le abitudini
primitive degli uomini,
ti voglio cantare, messaggero di Giove
e degli dei, ideatore della lira,
che sai nascondere con lo scherzo di un furto
tutto ciò che ti piace.
Cosi Apollo il giorno che ti stordiva bambino
di minacce, perché rendessi le mandrie sottratte
con l'inganno, vistosi derubato anche
delle frecce, scoppiò a ridere.
Ancora: sotto la tua guida, uscendo da Troia
col suo riscatto, Priamo eluse l'arroganza
degli Atridi, le sentinelle dei mirmídoni,
tutto l'esercito nemico.
In luoghi di letizia tu riconduci le anime
dei giusti e con la verga d'oro come un gregge
guidi la folla delle ombre, tu caro agli dei
del cielo e dell'Averno.
Mentre su un legno d'Ida il pastore malfido
rapiva per mare la sua ospite Elena,
Nèreo in una calma fastidiosa fermò
il fluire dei venti, per predirgli
il suo destino crudele.
'Con triste augurio
tu conduci in patria una donna, che la Grecia
in forze ti richiederà, decisa a infrangere
le nozze e l'antico regno di Priamo.
Ahimè, quanto sudore sovrasta cavalli
e uomini! Quanti lutti arrechi alle genti
di Troia! Già Pallade prepara il suo elmo,
l'ègida, il carro e tutta la sua rabbia.
Forte dell'appoggio di Venere, ti pettini
i capelli, per il piacere delle donne
alterni alla cetra le tue canzoni amabili,
ma invano: nel tuo talamo d'amore
non potrai evitare il peso delle lance,
la punta delle frecce, lo strepito, e Aiace
che t'insegue; solo alla fine, ahimè, la polvere
lorderà i tuoi capelli profumati.
Non vedi sulle tue spalle incombere Ulisse,
che stermina la tua gente, non vedi Nestore?
T'incalza impavido Teucro, t'incalza Stènelo,
che è guerriero valente e infaticabile
auriga, quando occorre guidare i cavalli.
Imparerai anche a conoscere Merione.
Ed ecco Diomede che, piú forte del padre,
smania con crudeltà di ritrovarti,
ma tu, come un cervo che dimentica l'erba
se vede un lupo sull'altro versante, tu
fuggirai per viltà ansimando a testa alta:
non avevi questo promesso a Elena.
Per l'ira di Achille differirà l'armata
la fine di Troia e delle donne troiane;
ma all'ultimo inverno fissato dal destino
il fuoco arderà le case di Pèrgamo.'
La madre crudele di ogni amore,
il figlio di Sèmele tebana
e un desiderio inquieto m'inducono
a destare i fuochi sopiti nel mio cuore.
Mi brucia il candore di Glícera
che risplende piú chiaro del marmo,
mi brucia la sua grazia impudica
e il viso di un'ambiguità struggente.
Per possedermi Venere ha lasciato Cipro
e non sopporta che io canti gli sciti
o l'irruenza dei parti sui cavalli in fuga
o altro che non sia l'amore.
Qui ponete, ragazzi, un altare
di erbe vive e fronde sacre, l'incenso
e una coppa di vino dell'anno passato:
compiuto un sacrificio, verrà piú mite.
Cantate Diana, tenere fanciulle,
e voi, ragazzi, Apollo a chiome sciolte
e Latona, passione
dell'altissimo Giove.
La dea, fanciulle, che venera i fiumi
e il gelido Àlgido, l'Erimanto
oscuro, il verde Crago
dove sorgono i boschi;
e voi, ragazzi, con uguali lodi
vantate Tempe e Delo, dove nacque
Apollo, che sull'omero
porta faretra e lira.
Alle preghiere, proteggendo il popolo
e Cesare, rovescerà la guerra
e la fame, la peste
su britanni e persiani.
Regina di Pafo, di Cnido, Venere,
lascia la tua Cipro e vieni in questa casa
graziosa, dove tra fumi d'incenso
Glícera t'invoca.
E con te accorrano il figlio amoroso,
le Grazie senza veli, le Ninfe, Mercurio
e questa, cosí noiosa senza te,
la giovinezza.
Cosa può chiedere un poeta offrendo una coppa
di vino nuovo all'altare di Apollo?
cosa implorare? Non le messi ricche
che maturano in Sardegna,
gli armenti cosí invidiabili della Calabria
infuocata, non l'oro o l'avorio dell'India,
non i campi che il Liri, fiume silenzioso,
con acque tranquille corrode.
Lascia che con la falce poti le viti di Cales
chi le ebbe dalla fortuna e che in calici d'oro
si beva i vini barattati con unguenti
il mercante arricchitosi,
credi, col favore degli dei, se piú di una volta
l'anno può solcare senza pericolo le acque
dell'oceano.
Io mi nutro di olive,
di cicoria, di malve leggere.
Concedimi dunque, Apollo, che in buona salute
goda di quanto possiedo e, ti prego,
con mente lucida: non voglio trascinare
muto una vecchiaia deforme.
M'invitano: se all'ombra senza altri pensieri
con te ho scherzato, ispirami, lira, un canto
che per noi possa sopravvivere nel tempo,
tu che da Alceo
fosti intonata per la prima volta, Alceo,
il guerriero che in armi o sulla riva umida
dove gettato dalla tempesta attraccò
la nave, Alceo
cantava Bacco, le Muse e con loro Venere,
il fanciullo che sempre l'accompagna e Lico,
quel giovane bellissimo, capelli neri,
occhi piú neri.
O lira, che orni il braccio di Apollo, lira,
che allieti i conviti di Giove, dolce balsamo
ai nostri affanni, assistimi quando ti chiamo
per il tuo rito.
Tiepido e incostante cultore degli dei,
mentre, tronfio di una folle dottrina, vado
errando, a voltare le vele
sono costretto e a riprendere la rotta
abbandonata, perché dio padre, che sempre
fende le nubi col fuoco dei lampi, ora
nel cielo sereno ha lanciato
in volo col cocchio i cavalli tonanti,
e tremano il massiccio della terra, i fiumi
che scorrono, lo Stige, l'orribile e odiato
antro di Tènaro, il confine
di Atlante. La divinità può mutare
l'infimo in sommo, avvilire chi è al vertice,
mettendo in luce ciò che è oscuro; e la fortuna
con acuto stridore a forza
strappa all'uno la tiara, all'altro la dona.
O dea, che governi la tua amata Anzio,
che sai dalla loro condizione piú vile
sollevare gli uomini e la superbia
dei nostri trionfi trasformare in lutti,
con preghiera piena d'affanno nel suo campo
t'invoca il contadino in miseria e sul mare
di Càrpato, regina delle acque,
chiunque in nave di Bitinia lo sfidi.
Nella loro ferocia ti temono i daci,
i nomadi sciti, città e nazioni, e il Lazio
bellicoso e le madri di re barbari;
ti temono i tiranni avvolti di porpora
all'idea che con piede oltraggioso tu abbatta
le loro colonne svettanti e che in tumulto
il popolo chiami alle armi i timidi,
alle armi, e infranga l'autorità loro.
Innanzi a te sempre va la necessità
e nella mano di bronzo reca implacabile
chiodi da trave, cunei e non le mancano
spranghe resistenti e piombo liquefatto.
Ti onorano la speranza e la fede, rara,
velata di bianco, e la loro compagnia
non ti negano, se mutato aspetto
lasci irritata le case dei potenti.
Il volgo infido e la spergiura meretrice
ti voltano invece le spalle e da ogni parte,
per sottrarsi al tuo giogo, si disperdono
i falsi amici, che han dato fondo a un otre.
Ma tu salva Cesare, che sta per marciare
contro i britanni ai confini del mondo, e salva
i nostri giovani, perché divengano
nel golfo indiano il terrore dell'oriente.
Ahimè, l'atrocità delle ferite inferte
ai fratelli! Quale mai delitto evitammo
nel nostro cinismo? quale empietà
lasciammo intentata? Da quale si astenne
la gioventú per devozione? quali altari
rispettò? Volesse il cielo che contro gli arabi
e i massàgeti su fiammante incudine
tu ritemprassi l'arme nostra spuntata!
Su rupi solitarie io ho visto, credetemi
miei posteri, Bacco che insegnava a cantare
e coi satiri dai piedi di capra
e orecchie aguzze, le ninfe che apprendevano.
L'anima, sí, trepida ancora di stupore
e, con Bacco in cuore, si abbandona al tumulto
della gioia. Risparmiami, risparmiami,
Bacco, che atterrisci col tuo tirso fatale.
Ora posso cantare le Tíadi sfrenate
e la fonte del vino, il latte che si gonfia
in ruscelli, e tornare con la mente
al miele che stilla dagli alberi cavi;
posso cantare della tua divina sposa
il serto assunto fra le stelle, di Penteo
la reggia sradicata da rovina
e la terribile fine di Licurgo.
Tu guidi i fiumi, calmi dei barbari il mare,
tra i fumi del vino su colline remote
intrecci ai capelli di donne trace,
senza danno per loro, un nodo di vipere.
Tu, quando con fatica tentò la scalata
l'empia schiera dei Giganti ai regni del Padre,
con l'orrenda mascella del leone
e con le tue unghie ricacciasti Reto:
malgrado, piú portato alle danze, agli scherzi
e al gioco, tu fossi ritenuto inadatto
al combattimento, desti a noi prova
d'essere abile sia in pace che in guerra.
E ornato di un corno d'oro t'ammirò Cerbero
senza recarti offesa, dimenando mite
la coda e al tuo ritorno ti lambí
con quelle sue tre lingue i piedi e le gambe.
Odio l'estraneità degli uomini e la fuggo.
Sia fatto silenzio! per vergini e fanciulli
io, sacerdote delle Muse, canto
poesia che prima non fu udita mai.
Sul loro gregge grava il potere temibile
dei re, ma su questi grava quello di Giove
che, in gloria per aver vinto i Giganti,
con un cenno solo muove l'universo.
Accade che in solchi piú estesi d'altri un uomo
ordini i suoi alberi, che per candidarsi
scenda in campo chi piú nobile ha il sangue,
che gareggi chi è migliore per costumi
e fama, che abbia un uomo séguito maggiore
di clienti: con imparzialità il destino
estrae a sorte infimi ed illustri:
agita un'urna fonda il nome di tutti.
A chi, sul capo scellerato, inesorabile
pende la spada non procureranno gusto
piacevole i banchetti siciliani,
non daranno il sonno il canto degli uccelli
o il suono della cetra. Dolcemente invece
il sonno predilige le umili case
dei contadini, le pendici ombrose
o le valli dove spirano gli zefiri.
Chi sogna in cuor suo solo ciò che gli basta
non diventa ansioso per il mare in burrasca,
la furia di Arturo quando tramonta
o quella del Capretto quando si leva,
né per le vigne flagellate dalla grandine,
per la delusione del podere, che addebita
ora alle piante, alle piogge, o alle stelle
che bruciano i campi, ora all'inverno crudo.
I pesci avvertono che si restringe il mare
per le dighe di macigni gettati al largo:
con una folla di operai le colmano
pietra su pietra l'impresario e il padrone
infastidito dalla terraferma. Ma
con le dighe salgono timore e minacce,
e un cupo affanno s'abbarbica al bronzo
della nave, segue a spalla il cavaliere.
Ora se un marmo frigio o l'uso della porpora
piú splendente degli astri, la vite falerna
o un profumo orientale non sollevano
chi è prostrato dal dolore, perché mai,
seguendo i nuovi costumi, dovrei erigere
un grand'atrio con stipiti da fare invidia?
perché dovrei cambiare con ricchezze
piú impegnative la mia valle sabina?
Il giovane temprato dall'aspra milizia
dovrà imparare a soffrire in pace i disagi
della povertà, a incalzare con l'asta,
come furia a cavallo, i parti feroci,
a vivere all'aria aperta e in mezzo ai pericoli.
Scorgendolo in guerra dalle mura nemiche
la consorte del tiranno avversario
e la vergine in procinto di sposarsi
sospireranno: 'Ahimè, possa non provocare
mai il principe promesso, ignaro com'è
di battaglie, quel leone intoccabile,
che un'ira sanguinaria spinge alla strage'.
Dolce e dignitoso è morire per la patria:
la morte raggiunge anche l'uomo che fugge
e non risparmia le gambe tremanti
o le spalle della gioventú imbelle.
La virtú, che ignora ripulse vergognose,
risplende tutta d'incontaminati onori
e non afferra o depone le scuri
per arbitrio del favore popolare.
La virtú, schiudendo il cielo a chi meritevole
è d'immortalità, apre un varco interdetto
e a volo abbandona la compagnia
della plebe, le paludi della terra.
Un premio spetta anche a chi nella discrezione
ha fede: non permetterò che insieme a me
sotto lo stesso tetto viva chi
rivela gli arcani misteri di Cerere e
che salpi con il mio battello. Spesso Giove,
offeso, all'iniquo accomuna l'innocente,
ma è raro che la Pena, benché zoppa,
si lasci sfuggire il ribaldo che fugge.
Discendi dal cielo e qui col tuo flauto intona
un canto solenne, Calliope mia regina,
o, se vuoi, con la tua voce squillante
o con le corde della cetra di Febo.
Udite, udite? o una dolce follia m'inganna?
Mi sembra di udire, mi sembra di vagare
nella foresta sacra, dove amene
scorrono le acque e spirano le brezze.
Sul Vulture d'Apulia, sfuggito al controllo
di Pullia, mia nutrice, e sommerso dal sonno
dopo il gioco, colombe misteriose
mi ricopersero, fanciullo, di frondi
novelle; e gli esseri, che in cima all'Acerenza,
nei boschi bantini o nella pianura fertile
della bassa Forenza hanno il nido,
si meravigliavano che io dormissi
protetto dalle vipere nere e dagli orsi,
coperto da fasci d'alloro sacro e mirto,
come fossi un bambino coraggioso
che avesse la protezione degli dei.
E vostro, Camene, vostro io sono, che salga
sull'erta sabina o m'incanti la frescura
di Preneste, la collina assolata
di Tivoli o il cielo limpido di Baia.
Amato dai vostri cori e dalle sorgenti
non mi diedero morte la rotta a Filippi
dell'armata, l'albero maledetto,
l'onda sicula di capo Palinuro.
Finché voi sarete con me affronterò,
navigando senza alcun timore, la furia
del Bosforo o, avventurandomi a piedi,
l'arena infuocata delle spiagge assire;
visiterò i britanni che uccidono gli ospiti,
i còncani che s'inebriano di sangue equino,
e incolume raggiungerò i geloni
armati di faretra, il fiume di Scizia.
Voi nell'antro pierio confortate l'eccelso
Cesare, che ai suoi travagli vuol porre termine
dopo aver ritirato le coorti,
sfinite dalla guerra, nella città;
voi lo istruite, dandogli miti consigli
e di darglieli godete. Sappiamo come
chi governa la terra inerte, il mare
battuto dai venti, le città, e regge
incontrastato e imparziale signore i regni
d'oltretomba, gli dei e la turba degli uomini,
abbia annientato, scagliando i suoi fulmini,
l'immane rivolta degli empi Titani.
Un grande terrore avevano incusso a Giove
quella gioventú audace, irta di braccia,
e i due fratelli che all'Olimpo ombroso
si sforzavano di sovrapporre il Pelio.
Ma che cosa avrebbero potuto Tifeo,
il forte Minante e Porfirione dal volto
minaccioso o ancora Reto ed Encèlado,
che spavaldo scaglia gli alberi divelti,
rovinando contro lo scudo risonante
di Pallade? Da un lato si pose Vulcano
pronto alla guerra, dall'altro Giunone
e Apollo, dio di Pàtara e Delo, fermo
a non deporre piú l'arco dalle sue spalle,
lui che alla pura fonte di Castalia lava
i suoi capelli sciolti e nella macchia
abita di Licia o nel bosco in cui nacque.
La forza insensata crolla al suo stesso peso;
quella governata da saggezza gli dei,
che odiano tutti i violenti dediti
a ogni sorta di delitti, la coltivano.
E testimoni delle mie parole sono
il gigante dalle cento mani e il famoso
Orione, che nell'insidiare Diana
fu domato dalla freccia della vergine.
Sparsa sopra i suoi figli mostruosi, la Terra
si angoscia che dal fulmine nell'Orco squallido
siano stati cacciati: mai la furia
del fuoco consuma l'Etna che li copre,
mai cessa l'avvoltoio, che ha in custodia l'empio,
di rodere all'intemperante Tizio il fegato,
e innumerevoli catene legano
l'innamorato Pirítoo senza posa.
Ligio ai tuoi insegnamenti Anfione col canto
smosse le pietre, Mercurio, e allora tu, lira,
che con l'accordo di sette corde sai trarre
musica dal tuo guscio,
un tempo privo di parola e d'armonia,
ora gradito alle mense dei ricchi e ai templi,
ispirami un canto che lusinghi l'orecchio
della scontrosa Lide:
simile a una puledra gioca scorrazzando
in mezzo ai campi e non vuole che la si tocchi,
ignara com'è dell'amore e ancora acerba
per l'assalto di un uomo.
Tigri e selve tu puoi indurre a seguirti, lira,
e nel loro corso puoi fermare i ruscelli;
lo stesso Cerbero, che la reggia infernale
custodisce, cedette
alle tue blandizie, anche se come alle Furie
cento serpi difendono il suo capo e un alito
mortifero dalla sua bocca con tre lingue
esce insieme alla bava.
Persino Issione e Tizio atteggiarono il volto
contro voglia al sorriso, e secca per un attimo
rimase l'urna, mentre le figlie di Danao
addolcivi col canto.
Pensa, Lide, alla pena inflitta per il crimine
di quelle vergini e alla botte sempre vuota,
perché in basso dal fondo l'acqua si dilegua,
e al destino che attende
anche nell'aldilà presto o tardi i colpevoli.
Empie: è mai possibile delitto piú atroce?
empie: come si può uccidere uno sposo
a colpi di pugnale?
Una sola fra tutte, in onore del fuoco
nuziale, seppe splendida mentire al padre
traditore, e famosa per l'eternità
la vergine rimase.
'Alzati', mormorò al suo giovane marito,
'alzati, che sonno mortale non ti venga
da chi non temi; fuggi, fuggi questo suocero,
le mie sorelle infami:
come leonesse imbattutesi in vitelli,
dilaniano, ahimè, i loro mariti; io no,
piú mite non ti ferirò e non ti terrò
chiuso in questa prigione:
mi stringa pure mio padre in dure catene,
se per pietà ho salvato da morte il marito,
ed oltre il mare mi releghi nelle terre
lontane di Numidia.
Ma tu va', dove i tuoi passi e i venti ti portano,
finché propizi sono Venere e la notte;
va' con buona sorte, e sul mio sepolcro incidi
un lamento in memoria.'
Fonte Bandusia, luce di cristallo,
con vini dolci e corone di fiori
domani ti consacrerò un capretto
che al primo gonfiore delle corna
già fantastica contese d'amore
e non può credere che arrosserà,
spensierato figlio del gregge,
le tue acque gelide di sangue.
Non sfiorata dall'arsura violenta
dell'estate, tu un fresco delizioso
sai offrire alle pecore smarrite,
ai tori sfiniti dall'aratro.
E sempre si ricorderà il tuo nome,
se ora canto le querce che crescono
su quella rupe, dove tra le fessure
scendono mormorando le tue acque.
O Fauno, che ogni ninfa rincorri per amore,
sui campi assolati della mia terra
cammina leggero e allontanati quieto
dai piccoli del gregge,
se a fine d'anno ti sacrifico un capretto
e la tazza, che accompagna l'amore, è ricolma
di vino e l'antico altare avvolto
di fumo odoroso.
Per la tua sagra il cinque di dicembre
giocano fra l'erba tutti gli animali
e nella valle, liberati i buoi, il villaggio
si distende in festa;
fra agnelli indifferenti si aggirano i lupi
e in tuo onore il bosco si copre di foglie;
battendo a ritmo la terra maledetta
gli uomini danzano felici.
Vergine dei monti, delle selve, divina,
che invocata tre volte assisti le giovani
nei dolori del parto e le togli alla morte,
dea con tre volti,
tuo è questo pino che domina la villa:
ogni anno che viene gli offrirò con gioia
il sangue di un cinghiale che nasconde
tra i denti l'insidia.
Colmo di te dove m'involi,
Bacco? In quali boschi, in quali grotte, rapito
dal nuovo estro, mi conduci?
In quali antri m'udranno porre la gloria
immortale del grande Cesare
in mezzo alle stelle e nel consiglio di Giove?
Parole sublimi dirò,
finora inespresse. Cosí, guardando l'Ebro,
la Tracia candida di neve
e il Ròdope battuto dal piede dei barbari,
sui monti stupisce la Menade
nella veglia, come me che, oltre la siepe,
m'incanto alla vista di lidi
e di boschi deserti. Signore di Naiadi
e di Menadi, che hanno forza
di svellere gli alti frassini con le mani,
no, nessun tono basso e misero,
non userò lingua mortale. Dolce, dolce
rischio, Leneo, seguire un dio,
che di pampini verdi le tempie si cinge.
Amando riamato ogni donna, con l'onore
delle armi sono vissuto finora:
oggi, terminata questa guerra,
appendo la lira e le armi alla parete
che guarda il fianco sinistro di Venere
marina. Qui, qui ponete le torce
luminose e gli archi e le leve
che tante porte hanno minacciato.
O dea, che difendi la felicità
di Cipro e le dolci stagioni di Menfi,
mia regina, batti con la tua sferza
almeno una volta quest'arrogante Cloe.
Presagio infausto d'uccello notturno, cagna
gravida, lupa fulva che scende dai colli
di Lanuvio, e volpe con tutti i suoi figli
inseguano i maligni;
e un serpente, che attraversa come una freccia
la strada, spaventando i cavalli, interrompa
il loro viaggio: per chi mi sta a cuore io
previdente farò
dalla parte del sole levare in volo
coi miei voti un corvo augurale, prima che
alle paludi torni l'uccello col segno
della pioggia imminente.
Sia tu felice, Galatea, dove sei
o vuoi vivere, ma ricordati di me;
e il picchio sinistro o la cornacchia errabonda
non fermino il tuo passo.
Guarda però in quale sentore di tempesta
tramonta Orione: so bene cosa significa
il buio sull'Adriatico e come ingannino
gli squarci che apre il vento.
Possano le mogli e i fanciulli dei nemici
subire il cieco impeto dell'austro al sorgere,
l'agitarsi del mare tenebroso e il fremito
delle spiagge ai suoi colpi.
Cosí temeraria Europa abbandonò il fianco
niveo al toro ingannatore e si fece pallida
al brulicare di mostri e a tutti i pericoli
che sono in mezzo al mare.
Mentre prima era intenta a cogliere nei prati
i fiori, che intrecciava per le ninfe in serti,
ora nel velo della notte non vedeva
altro che stelle e flutti.
Quando infine toccò Creta, forte di cento
città: 'Padre, padre mio', disse, 'ora che piú
non merito, travolta dalla mia follia,
pietà e il nome di figlia,
dove mai mi trovo? Lieve è una sola morte
per la colpa d'una vergine. Piango insonne
la mia vergogna o di me, pura d'ogni macchia,
si prende gioco un'ombra
vana che, fuggendo dalla porta d'avorio,
mi crea un sogno? Solcare la vastità
del mare o cogliere fiori appena sbocciati:
per me cos'era meglio?
Se mai in mano alla mia ira fosse dato
quel toro infame, che tanto ho amato, col ferro
lo dilanierei e tenterei di spezzare
le sue corna mostruose.
Senza pudore ho abbandonato i miei Penati,
senza pudore faccio attendere la morte.
Se qualche dio m'ascolta, mi faccia vagare
nuda in mezzo ai leoni.
Prima che le mie guance perfette si guastino
per inedia e si perda di questo mio frutto
il succo, voglio che le tigri mi divorino
bella come qui sono'.
E di lontano il padre incalza: 'Vile Europa,
perché non t'uccidi? Impiccandoti a quest'orno
con la cintura, che a proposito hai con te,
puoi spezzare il tuo collo.
O se per morte preferisci scogli aguzzi
e rupi, coraggio, abbandonati alla furia
della tempesta: non vorrai filare lana
per chi gode di te
e cadere in mano a una padrona straniera,
tu che da un re sei nata'.
Presente ai lamenti
era Venere, che sogghignava, e con l'arco
allentato suo figlio.
Poi, durato a sufficienza il gioco, le disse:
'Frena l'ira, frena la foga di battaglie,
quando il toro del tuo odio ti porgerà
le corna da spezzare:
dell'invincibile Giove tu sei la sposa.
Smetti di singhiozzare e impara a sostenere
il tuo grande destino: una parte del mondo
da te prenderà nome'.
Torni a muovermi guerra, Venere,
dopo tanta tregua? Pace, ti prego, pace.
Non sono piú quello che in grazia
a Cínara ero un tempo. Smettila, madre
crudele d'ogni dolce amore,
di piegare al tuo tenero volere chi
è indurito dai cinquant'anni:
va' dove ti blandisce l'invito dei giovani.
Volando in uno sfavillio
di cigni, miglior piacere tu troverai
nella casa di Paolo Massimo,
se cerchi un cuore da bruciare alla tua fiamma.
Nobile, bello, difensore
ispirato di chi s'angustia per le accuse,
giovane di mille risorse,
porterà ovunque le insegne della tua parte,
e il giorno che potrà beffarsi
per sua forza di tutti i doni del rivale,
sulle rive dei laghi albani
nel tempio di cedro t'inalzerà una statua.
Lí ti circonderà il profumo
dell'incenso e al suono della lira, del flauto
berecinzio o a quello che emette
la zampogna t'allieteranno i nostri canti;
lí due volte il giorno ragazzi
e fanciulle in fiore batteranno la terra
al ritmo dei Salii col piede
candido in lode della tua divinità.
Io non ho donna, né fanciullo,
né speranza ingenua d'amore ricambiato
e a gara piú non amo bere
o cingermi di fiori a primavera il capo.
Ma perché, perché mai allora,
Ligurino, una lacrima indugia sul volto?
perché se parlo, e so parlare,
la voce mia s'incrina in un silenzio afflitto?
La notte nei sogni t'afferro
mio, mio, o t'inseguo mentre indifferente
voli come un lampo sull'erba
di Campo Marzio e in mezzo ai vortici del fiume.
Chi tu vedesti un tempo nascere,
Melpòmene, nella dolcezza dei tuoi occhi,
non diverrà famoso pugile
nei tornei istmici, né sul cocchio dei greci
lo porteranno alla vittoria
cavalli ardenti, e, ornato del lauro d'Apollo
per aver spento la minaccia
di re ambiziosi, la strategia del comando
non l'inalzerà al Campidoglio;
ma le acque generose che scorrono a Tivoli
e le chiome folte dei boschi
imporranno il suo nome nel canto d'Eolia.
I figli di Roma, regina
delle città, stimano giusto ch'io sia posto
con i poeti che essi amano,
e il morso dell'invidia già si fa piú lieve.
Pièride, che il suono armonioso
dell'aurea lira accordi, tu che se volessi
anche ai pesci muti potresti
dare il canto del cigno, tutto questo è un dono
che mi prodighi, se un passante
può additarmi a tutti come il poeta lirico
di Roma; e se ho ispirazione,
se piaccio, sempre che piaccia, il merito è tuo.
Febo, che hai fatto intendere la tua vendetta
per l'incredibile vanto ai figli di Niobe,
all'insidioso Tizio e ad Achille, che quasi
riuscí a vincere Troia
(guerriero grandissimo, a te solo inferiore,
figlio di Tetide marina, si accaniva
con la sua asta contro le torri dei dàrdani
facendole tremare,
eppure come un pino colpito dal morso
di una scure o un cipresso divelto dal vento,
cadde a terra disteso piegando il suo collo
nella polvere l'Ilio;
chiuso nel cavallo, che fingeva un'offerta
a Minerva, non avrebbe sorpreso in festa
i troiani e le danze per disgrazia liete
della corte di Priamo:
a viso aperto avrebbe orrendamente arso
nel fuoco acheo i bambini che ancora devono
imparare a balbettare e quelli nascosti
nel ventre della madre,
se, vinto dalle preghiere tue e di Venere
amata, il padre degli dei alla fortuna
d'Enea non avesse concesso mura erette
con piú felice auspicio);
Febo, dio giovinetto, che lavi i capelli
nel fiume Xanto e al canto di Talia hai legato
gli accordi della cetra, difendi l'onore
della nostra camena.
A Febo devo questa ispirazione, a Febo
devo l'arte del canto e il nome di poeta.
Fiore delle vergini, fanciulli che avete
illustri genitori
e vivete protetti dalla dea di Delo,
che con l'arco abbatte le linci e i cervi in fuga,
al battito della mia mano rispettate
questo ritmo di Lesbo,
cantando com'è rito il figlio di Latona
e l'astro lucente della notte, che cresce
di splendore e feconda le messi, veloce
nel volgere dei mesi.
La sposa dirà: 'L'inno che piacque agli dei
ho cantato sui ritmi di Orazio, il poeta,
al tempo in cui ci furono restituite
le feste secolari'.
Ai miei amici, Censorino, vorrei donare
per cortesia coppe e qualche bronzo prezioso,
vorrei donare tripodi, come i premi al valore
dei greci; e tu da me avresti i doni piú belli,
se la mia ricchezza consistesse in quelle arti,
che furono l'orgoglio di Parrasio e di Scopa,
maestri nel raffigurare uomini e dei,
l'uno con limpidi colori, l'altro col marmo.
Ma io non ho questo potere, né tu hai cuore
o gusto di desiderare quelle delizie.
La poesia è la tua gioia e poesia posso
donarti, determinando anche il suo valore.
No, le iscrizioni incise sulle lastre di marmo,
che dopo la morte rendono un soffio di vita
ai grandi condottieri, o la minaccia di Annibale
respinta costringendolo in un lampo a fuggire
tra gli empi incendi appiccati dai cartaginesi,
non svelano meglio della musa salentina
la gloria di colui che, dopo aver sottomessa
l'Africa, al suo ritorno in patria ne assunse il nome:
se le carte tacessero delle tue imprese,
non ne avresti compenso. Chi saprebbe del figlio
d'Ilia e di Marte, se con ostilità il silenzio
avesse coperto tutti i meriti di Romolo?
Virtú, amore e voce sublime di poeti
hanno strappato Èaco all'acqua dello Stige
e lo consacrano nelle isole felici.
All'uomo degno la Musa evita la morte
e l'inalza al cielo. Cosí l'inesausto Ercole
partecipa ai sospirati banchetti di Giove,
i figli di Tíndaro, mutati in stelle chiare,
strappano ai gorghi del mare le navi in pericolo,
e Bacco, con le tempie incoronate di pampini
verdi, conduce i nostri voti all'esito loro.