Testo

Luciano di Samosata

LVI. Encomio Della Mosca.

La mosca non è il più piccolo dei volatili, se si paragona alle zanzare, ai tafani, e ad altri più tenui insetti; ma di tanto è maggiore di questi, di quanto è minore dell’ape. È alata non come gli altri, che hanno piume per tutto il corpo, e penne più forti per volare, ma come i grilli, le cicale e le api. Ha le ali d’una membrana tanto più delicata delle altre, quanto una veste indiana è più sottile e morbida d’una greca; e di color cangiante, come i pavoni, se si guarda bene quando si compiace di sciorinarle al sole.
Vola non come i pipistrelli sbattendo l’ali continuamente, né come i grilli a salto, né come le vespe con violenza e stridore, ma piegasi facilmente per ogni verso che vuole nell’aere.
Ed ha ancora un’altra cosa, che non vola in silenzio, ma fa un certo suono, non acerbo come quello delle zanzare e dei tafani, non ronzante come delle api, non pauroso e minaccioso come delle vespe, ma di tanto più melodioso, di quanto il flauto è più soave della tromba e dei cembali.
Dell’altre parti del corpo la testa piccolissima è attaccata al collo, e gira intorno, e non è fissa come quella dei grilli; gli occhi sporti in fuori, e molto simili al corno; il petto ben formato, donde si spiccano i piedi, non molto stretti come quei delle vespe; il ventre è munito anch’esso, come una corazza, di larghe fasce e di squame.
Si difende non con la coda, come la vespa e l’ape, ma con la bocca, e la proboscide, che ha come quella dell’elefante, e con la quale si pasce, e piglia, e si attacca, e ci ha come una ciotoletta alla punta: da questa esce un dente, con cui punge, e poi beve il sangue: beve anche il latte, ma il sangue le è dolce, ed ella non fa punture molto dolorose.
Ha sei piedi, e cammina con soli quattro, usando de’ due davanti come di mani: ed è bello vederla camminare su quattro piedi, portante tra le mani sollevata qualche briciola, proprio a guisa umana e come facciamo noi.
Nasce non così come è, ma prima verme, da cadaveri di uomini e d’altri animali; indi a poco spicca i piedi, mette l’ali, e di rettile diventa volatile: ingravida, e partorisce un picciol verme, che dipoi è mosca.
Vivendo in compagnia degli uomini, nella stessa casa, alla stessa mensa, si ciba di ogni cosa, tranne l’olio, che è la sua morte, se ne beve.
Ed essendo di corta vita (che brevissimo spazio l’è assegnato a vivere), vuole stare sempre in piena luce, e farvi tutti i fatti suoi.
La notte sta cheta, e non vola, né ronza, ma per paura si raccoglie e non si move.
Di accorgimento posso dire che ne mostra assai quando sfugge il suo insidiatore e nemico, il ragno; il quale l’apposta, ed essa lo guarda di fronte, declinando l’assalto, per non essere presa nelle reti, né cader tra le branche di quell’animaletto.
Del suo coraggio e della sua forza non dobbiamo parlar noi; ma il più magnifico dei poeti Omero, volendo lodare un fortissimo eroe, non lo paragona per forza al leone, al pardo, al cinghiale, ma alla mosca, per l’ardire e l’intrepidezza e la perseveranza del suo assalto: e dice ardire non temerità; ché scacciata, dic’egli, non vassene, ma pur torna al mordere.
Tanto si compiace di lodare la mosca, che non una volta sola né in poche parole fa menzione di lei, ma spesso, ed il verso si abbellisce quando ne ricorda.
Ora descrive uno sciame di mosche che vola sul latte: ed ora quando Pallade svia la saetta da Menelao acciocché non lo colga in parte vitale, rassomigliandola ad una madre che veglia sul suo pargoletto dormente, ei porta un’altra volta la mosca per paragone.
E dice anche bellamente che esse vanno in serrate frotte, e i loro sciami chiama genti.
Tanto poi è gagliarda che quando morde, trapassa non pure la pelle dell’uomo, ma del bue ancora e del cavallo, e fa male all’elefante entrandogli, tra le rughe, e con la sua proboscide, secondo la sua grandezza, offendendolo.
Nel mescolarsi e congiungersi sono liberissime: e il maschio non come i galli monta e scende subito, ma resta molto tempo a cavallo alla femmina; ed ella porta il marito, e insieme volano per l’aria così congiunti senza che il volo li disturbi.
Se le mozzi il capo, la mosca vive molto col resto del corpo, e respira.
Ma la più gran cosa che è nella sua natura voglio dirla io, perché mi pare che Platone questa sola cosa trascurò nel suo discorso su l’immortalità dell’anima.
La mosca morta, sparsavi cenere sopra, risuscita, si rigenera, e rivive un’altra vita da capo; cosa da persuadere tutto il mondo che l’anima anche delle mosche è immortale, perché ella ritorna, e riconosce, e suscita il corpo, e fa volare la mosca; e cosa che fa tenere per vera la favola di Ermotimo di Clazomene, il quale aveva una specie di anima che spesso lo lasciava, e se n’andava pe’ fatti suoi, poi tornava, rientrava nel corpo, e faceva rizzare Ermotimo.
La mosca oziosa e scioperata fruisce delle fatiche altrui, e da per tutto trova mensa imbandita: le capre sono munte per lei, l’ape lavora per lei come per gli uomini, e i cuochi per lei condiscono le più savorose vivande, che ella assaggia prima dei re, e aggirandosi su le mense, banchetta con loro e gusta di ogni cosa.
Covo o nido non fa in un luogo, ma col vagante volo va errando di qua e di là, a guisa degli Sciti, e dovunque la notte la sorprende, quivi fa casa e letto.
Intanto all’oscuro non fa niente, come ho detto, né facendo cosa suole nascondeva, né crede turpe ciò che fa in piena luce.
Conta la favola che una volta c’era una donna chiamata Mosca, assai bella, ma ciarliera, chiacchierina, e canterina, e rivale della Luna, che tutte e due erano innamorate d’Endimione.
E poi perché quando il garzone dormiva ella lo svegliava continuamente ruzzando, cantando, ballando, quei se ne sdegnò, e la Luna che l’odiava la mutò in mosca: e però essa ora rompe il sonno a tutti quei che dormono, ricordandosi ancora di Endimione, e specialmente ai più giovani e più delicati.
E quel suo mordere, e quel suo desiderio di sangue non è ferocia, ma segno di amore che porta ai giovani, dei quali ella gode come può, e ne sfiora la bellezza.
Fu ancora negli antichi tempi una donna di questo nome, poetessa, molto bella e savia.
Ed un’altra cortigiana famosa in Atene, della quale il comico poeta diceva:
Questa Mosca gli ha morso proprio il cuore.
Così la comica leggiadria non isdegnò, e la scena non ributtò il nome della mosca: né i genitori hanno a vergogna di chiamare così le loro figliuole.
Anzi con grande lode la Tragedia ricorda della mosca in quei versi:
Oh che brutta vergogna! Anche la mosca Con forte petto salta addosso all’uomo, Ghiotta di sangue, e voi uomini armati, Voi sbigottir delle nemiche lance!
Avrei molte cose a dire di Mosca la Pitagorica, se la sua istoria non fosse nota a tutti.
Ci sono ancora alcune mosche assai grandi, che alcuni chiamano soldatesche, ed altri canine: fanno un asprissimo ronzio, ed hanno un volo velocissimo; vivono lungamente, e durano tutto l’inverno senza cibo, standosi attaccate specialmente alle soffitte.
Una cosa è meravigliosa in queste, che esse fanno insieme e da maschio e da femmina, e montano ciascuna alla sua volta, come quel figliuolo di Afrodite e di Ermes, che aveva doppia natura e doppia bellezza.
Molto altro avrei da dire, ma basta qui, per non fare, come dice il proverbio, d’una mosca un elefante.