Testo

Luciano di Samosata

XV. Il pescatore o i risuscitati.

Socrate. Dagli, dagli a questo ribaldo! scagliate sassi, dategli con piote, dategli con cocci: accoppatelo coi bastoni questo scellerato: non lo fate sfuggire. A te, o Platone, dagli: e tu, o Crisippo, anche tu. Assaltiamolo tutti: serriamo gli scudi:
Le bisacce stringiamo alle bisacce, e i bastoni ai bastoni: è nemico comune; ci ha offesi tutti. E tu, o Diogene, mena la tua brava mazza, come una volta: non dare indietro: facciamogli pagar la pena delle sue calunnie. E che? voi vi ristate, o Epicuro, o Aristippo? questo sconviene:
Siato prodi, o sapienti, e ricordate
Della vostr’ira impetuosa.

Stringilo più da presso, o Aristotele. Bene: è presa la belva. Ci sei capitato, o malvagio! or ora saprai chi son quelli che hai offesi. In che modo ora lo puniremo? Inventiamo una morte lunga, affinchè tutti ce ne possiam saziare: ei meriterebbe che ciascuno di noi gli desse sette volte la morte.

Platone. Per me, io dico crocifiggiamolo.

Un filosofo. Sì, e prima flagelliamolo.

Altro filosofo. Caviamogli tuttaddue gli occhi.

Terzo filosofo. Innanzi tutto strappiamogli la lingua.

Socrate. E tu, che ne dici, o Empedocle?

Empedocle. Precipitiamolo nei crateri dell’Etna, e così impari a non oltraggiare chi è da più di lui.

Platone. Saria meglio che, come Orfeo o Penteo,
Perisca sotto i sassi minuzzato, e ciascuno di noi se ne prendesse un pezzo.

Luciano. No, no: deh, per Giove dio de’supplicanti, non m’uccidete.

Socrate. È deciso: non ci scapperai più. Sai tu come dice Omero?
Non v’è patto tra gli uomini e i leoni.

Luciano. Ed io vi supplicherò con Omero. Forse voi rispetterete i suoi versi che io vi reciterò, e non mi ucciderete.
Salvatemi la vita, io non son tristo,
E vi darò riscatto prezioso,
E rame, ed oro, che anche ai saggi piace.

Platone. E noi ti possiamo rispondere anche con versi di Omero. Odi:
Dacché a man ci venisti, o detrattore,
Non pensare a fuggir, né far promesse.

Luciano. Ohimè, misero! non mi giova Omero, che era mia maggiore speranza. Ricorro ad Euripide: mi salvasse egli!
Deh non m’uccider, che nefanda cosa
È tor la vita a un supplicante.

Platone. E questo non è anche d’Euripide?
Non è mal che mal soffra chi mal fece.

Luciano. Dunque ora per vane parole mi uccidete?

Platone. Sì, per Giove, egli stesso dice:
Le lingue che sfringuellano,
E che le leggi sprezzano
Han fine deplorabile.

Luciano. Or bene, giacché ad ogni modo volete uccidermi, ed io non trovo alcuna via di scampo, deh, ditemi almeno chi siete voi, e che grande offesa io vi ho fatta, ché voi siete sì fieramente sdegnati con me, e mi menate a morte?

Platone. Che offesa hai fatta a noi? domandane a te stesso, o malvagio, ed a quel tuo bello scritto, nel quale calunni Filosofia, e fai tanti dispregi a noi, mettendo all’incanto, come in un mercato, uomini sapienti, e, quel che più è, liberi. Però sdegnati, siamo venuti su a punirti (avendone chiesto permesso a Plutone) Crisippo che è questi, ed Epicuro, ed io Platone, e quegli Aristotele, e Pitagora che è colui che si tace, e Diogene, e tutti quelli che tu hai lacerati in quella tua scrittura.

Luciano. Respiro: voi non mi ucciderete più se saprete chi sono stato io per voi. Gettate via i sassi: ma no, riteneteli; li userete contro chi merita d’esser lapidato.

Platone. Tu la pigli a gabbo: tu oggi devi morire, e fra poco
Per il mal che facesti tu sarai
D’ un guarnello di sassi rivestito.

Luciano. Eppure, o carissimi filosofi, io più di tutti gli altri meriterei lodi da voi, perché io mi sono educato nelle vostre scuole, sono a voi affezionato, son vostro ammiratore, e, se posso dirlo, sono lo strombettatore delle vostre dottrine: e se m’ucciderete, sappiate che voi ucciderete uno che s’è tanto sbracciato per voi. Badate dunque di non fare come i filosofi presenti, di non parere ingrati, irosi, sconoscenti verso chi vi ha fatto bene.

Platone. O impudenza! Dobbiamo anche ringraziarti delle ingiurie? Forse credi di parlare a servi, e di darci a intendere che son benefizi e favori quegl’insulti che tu ci fai in quella briaca scrittura?

Luciano. Ma dove, ma quando io vi ho insultati? insultarvi io, che sempre ho ammirata Filosofia, ho lodato a cielo voi, e tengo sempre fra mani le opere che ci avete lasciate? Queste stesse cose ch’io dico, donde, se non da voi, io le ho prese, cogliendo, come ape, il pia bel fiore vostro? Gli uomini che le ascoltano e le lodano riconoscono ciascun fiore, da chi e come io l’ho colto: pare che lodino me che n’ho fatto un mazzolino, ma il vero è che lodano voi, che siete un giardino di svariati e bellissimi fiori, per chi sa coglierli, sceglierli, e acconciamente disporli insieme. Ed uno che ha ricevuto si gran bene da voi, potria mai parlar male di voi che lo avete beneficato, e lo fate essere quello che egli è? Saria più ingrato di Tomiri che sfidò al canto le Muse che gli avevano insegnato a cantare, e di Eurito che contese il vanto del saettare ad Apollo che gli aveva messo l’arco in mano.

Platone. Ecco stile di oratore! Egli è tutto il contrario, e tu più ti scopri non pure malvagio sfacciato, ma ingrato ancora: perché avendo ricevuto da noi quel tuo arco, tu lo rivolgi contro di noi; noi siamo il solo bersaglio delle tue saette, e di mille ingiurie che ci scagli addosso. Questo merito abbiamo da te, perché ti abbiamo aperto quel giardino, e ti abbiam lasciato cogliere i fiori, ed empirtene il seno. Onde specialmente per questo tu sei degnissimo di morire.

Luciano. Vedete? la collera vi fa dimenticar la giustizia. Eppure io non avrei mai creduto che un Platone, un Crisippo, un Aristotele e tutti voi altri veniste a tanta collera, anzi mi pareva che voi soli ne doveste esser lontani. Ma almeno, o bravi filosofi, non mi uccidete senza giudizio e senza difesa. Questa era massima vostra, che non si deve usare la forza e la violenza, ma con la giustizia sciogliere le differenze, dando a ciascuno il diritto di dir sue ragioni. Scegliete un giudice, accusatemi o tutti, o chi tra voi vorrete: ed io mi difenderò dalle colpe che mi date. E poi se sarò chiarito colpevole, ed il giudice mi condannerà, mi terrò la pena meritata, e voi non farete alcuna violenza : ma se dopo che avrò reso stretto conto di me, sarò trovato innocente ed irreprensibile, e i giudici mi rimanderanno assoluto; voi volgerete la collera vostra contro chi v’ ha ingannati ed aizzati contro di me.

Platone. Sì: il cavallo vuole il piano: affinché tu imbrogli i giudici, e te la svigni: ché tu sei oratore, ed avvocato, e scaltrito in tutte le trappolerie del foro. E chi vuoi per giudice? a chi, se non con doni, come voi usate di fare, persuaderai di dare un’ingiusta sentenza in tuo favore!

Luciano. Non vi date pensiero per questo. Né io vorrei un giudice sospetto e dubbio, e che mi vendesse il suffragio. Vedete: io fo mio giudice Filosofia stessa, e voi stessi.

Platone. E chi ti accuserà, se noi giudicheremo?

Luciano. Voi stessi sarete e accusatori e giudici: niente, neppure questo io temo: che ho ragioni da vendere, e difesa ricchissima.

Platone. O Pitagora, o Socrate, che faremo? Pare che costui non domandi cosa ingiusta, volendo essere giudicato.

Socrate. Non possiamo altro che incamminarci pel tribunale, e, presa Filosofia con noi, ascoltare le costui discolpe. Veramente noi non dobbiamo negar la difesa, come fan gli uomini bestiali e feroci che si fanno il diritto con le mani loro. Daremmo buono in mano ai nostri calunniatori, se noi, che vantiam tanto la giustizia, facessimo morire un uomo senza lasciarlo parlare. E che potrò dire io di Anito e di Melito miei accusatori, e di quei giudici, se costui morirà senza che per lui sia scorsa una gocciola d’acqua nell’ampolla?

Platone. Parli da savio, o Socrate: andiam dalla Filosofia: ella giudicherà, e noi staremo al suo giudizio.

Luciano. Cosi va bene, o sapientissimi: questo è secondo le leggi. Intanto serbate i sassi, come v’ho detto, che serviranno dopo la sentenza. Ma dove troverem Filosofia? Io non so dove ella abiti. Eppure sono andato su e giù tanto tempo cercandone la casa, per poterle parlare. Incontravo certuni ravvolti in mantelli e con lunghe barbe, che dicevano di tornare appunto da lei; io li credevo, e, dov’è, dove non è? essi non ne sapevano più di me: e, o non mi rispondevano per non chiarirsi bugiardi, o m’indicavano una porta per un’altra:
onde finora m’è stato impossibile di trovar quella casa benedetta. Spesso andando da me a caso, o, come son forestiero, seguendo una guida, io giunsi innanzi a certe porte, e credei di averla proprio trovata, argomentandone da una gran folla che entrava ed usciva, tutta di uomini gravi, composti, e cogitabondi all’aspetto. Cacciatomi tra costoro, entrai anch’io, e vidi una donnetta che non m’aveva l’aria schietta, benché s’avesse acconciata la persona alla semplice e senza ornamenti: m’accorsi subito che non le stavan tanto male quei capelli che parevan negletti, né le pieghe della veste erano tutte a caso; e che quella sua trascuratezza era fina accortezza per comparire bella. Le si vedeva in volto un po’di belletto, aveva parole e fare di cortigiana: agli amatori che la lodavano per bellezza, sorrideva, se le offrivano doni, subito li prendeva: se eran ricchi, se li faceva seder vicino; se poveri, neppur li guardava. Spesso mentr’ella sbadatamente si discopriva, io le vidi collane e monili d’oro massiccio. Vedendo tutto questo, subito me ne tornai, compiangendo quei miseri che si fan tirare da lei non pel naso ma per la barba, e, come Issione, abbracciano una nube invece di Giunone.

Platone. Hai detto il vero: non è facile trovar la sua porta, né tutti la conoscono. Ma non è mestieri andar noi a casa sua: l’aspetteremo qui nel Ceramico, quando ella ci verrà tornando dall’Accademia, per passeggiar nel Pecile. Questa è usanza sua ogni di: anzi, eccola che viene. Vedi quella donna di modesto portamento, quella degli occhi soavi, quella che va piano perché va pensosa?

Luciano. Ne vedo molte simili al portamento, all’andare, alle vesti. Eppure una tra esse dev’esser la vera Filosofia.

Platone. Ben dici, ella si mostrerà al parlare.

Filosofia. Oh, che è ciò! come quassù Platone, Crisippo, Aristotele, e tutti gli altri, proprio i capi delle mie dottrine? Perché di nuovo in vita? Vi si è fatto qualche male laggiù? Mi parete sdegnati. E chi è costui che menate preso? forse un violatore di sepolcri, un omicida, un sacrilego?

Platone. Si, il più empio di tutti i sacrileghi; il quale ha osato parlar male di te, o santissima Filosofia, e di tutti quanti noi, che abbiamo lasciato ai nostri posteri quello che imparammo da te.

Filosofia. E voi v’accendete in tanto sdegno che uno sparli di voi? Voi sapete quante ne ha dette a me la Commedia nelle feste di Bacco: eppure io le voglio bene, e la tengo per amica, e non mai l’ho accusata in giudizio, né sono andata a rimproverarla, ma l’ho lasciata scherzare a suo modo, e come è usanza in quelle feste. Io so che per beffe nessuna cosa scema di suo pregio; anzi per contrario, quel che è bello, come l’oro che esce di sotto al bulino, splende più vivo e più lucente. Or voi come siete divenuti cosi irosi e intolleranti? e perché tenete costui alla gola?

Platone. Abbiam chiesto permesso di questo solo giorno, e siam venuti a punir costui di quel che ha fatta. Ci sono stati contati tutti i vituperi che egli ha detti di noi pubblicamente.

Filosofia. E però volete farlo morire così senza difesa? Pare ch’egli voglia dir qualche cosa.

Platone. Così no: ma ce ne rimettiamo a te in tutto: e tu, se vuoi, finirai questo piato.

Filosofia. E tu che ne dici?

Luciano. Non desidero altro, o regina Filosofia, perché tu sola potrai chiarir la verità. Quanto ho detto e pregato per farmi giudicare da te !

Platone. Ora, o malvagio, la chiami regina, ora; e poco fa ne hai fatto uno straccio di questa Filosofia, mettendola all’incanto sovra un teatro, e vendendone le sette due oboli l’una.

Filosofia. Badate che forse costui non ha sparlato della Filosofia, ma di quei ciurmadori che prendendo il nostro nome, fanno molte ribalderie.

Luciano. Lo saprai tosto, se vorrai udire la mia difesa.

Filosofia. Andiam su l’Areopago, o meglio su la rocca stessa, ché di lassù scoprirem largamente tutto quello che accade nella città. Voi intanto, o amiche, passeggiate nel Pecile: tornerò a voi, decisa la lite.

Luciano. Chi sono esse, o Filosofia? anch’esse paiono molto modeste.

Filosofia. Quella robusta è la Virtù, quell’altra è la Temperanza con la Giustizia: innanzi ad esse cammina la Scienza: e quella che mezzo si asconde, e pare e non pare, è la Verità.

Luciano. Non vedo costei.

Filosofia. Quella bellissima, non la vedi? quella nuda, che sempre sfugge e sguizza?

Luciano. La vedo ora appena. Ma perché non meni anche queste affinché sia più pieno e intero il consesso? Io voglio che la Verità monti in ringhiera, e sia l’avvocata mia.

Filosofia. Sì. Seguiteci anche voi altre. Non v’incresca di giudicare una sola causa. In essa si tratterà del fatto nostro.

Verità. Andate voi, che io non ho bisogno di udir niente: già so come sta la cosa.

Filosofia. Ma, importa a noi, o Verità, che tu venga a giudicare con noi, affinchè ci spieghi ogni cosa.

Verità. Ed io ci verrò con queste due ancelle a me affezionatissime.

Filosofia. Queste, e quante altre vuoi.

Verità. Venite con noi, o Libertà e Franchezza: vediamo di salvare questo poveretto, che ci ama tanto, e che per un’ingiusta cagione corre grave pericolo. Tu poi, o Convinzione, rimanti qui.

Luciano. Deh no, o regina. Venga ed essa ed altre ancora. Io non ho a combattere con belve, ma con uomini superbi, difficili a convincere, e che nelle argomentazioni trovan sempre pronte le scappatoie: onde la Convinzione è necessaria.

Filosofia. Necessarissima dunque: ed è meglio se prendi anche la Dimostrazione.

Verità. Seguiteci tutte: giacché pare che tutte siete necessario nel giudizio.

Aristotele. Vedi, o Filosofia: ei cerca di farsi amica la Verità contro di noi.

Filosofia. O Platone, o Crisippo, o Aristotele, temete forse che per lui la Verità dica una bugia?

Platone. Non questo: ma egli è astuto assai ed entrante, e potrebbe persuaderla del falso.

Filosofia. Non temete: un’ingiustizia non si farà, essendo qui la Giustizia stessa. Dunque andiamo. Ma dimmi tu, che nome hai?

Luciano. Io? Parlachiaro, figliuol di Parlavero, della tribù de’ Persuasori.

Filosofia. E di che patria?

Luciano. Siro, o Filosofia, di quelle parti presso l’Eufrate. Ma ciò che monta? Io so che molti di questi miei avversari, per patria non sono men barbari di me; ma l’ingegno e la scienza loro non eran cose di Soli, di Cipro, di Babilonia, o di Stagira. E poi per te non dovria esser da meno chi è barbaro per lingua, purché ti paia di aver mente diritta e giusta.

Filosofia. Dici bene: abbi dunque per non fatta la dimanda. Ma quale è la tua arte? questo debbo saperlo.

Luciano. Io sono odiatore degl’impostori, dei furfanti, dei bugiardi, dei superbi; odiatore di tutta la razza dei malvagi, che son moltissimi, come sai.

Filosofia. Per Eracle! tu hai per mano un’arte molto odiosa.

Luciano. Dici bene: e vedi quanti nemici ho, e quanti pericoli per cagion sua. Ma io so anche benissimo l’arte contraria a questa, dico quella che ha il principio dell’amore. Io sono amatore del vero, del bello, del semplice, e d’ogni cosa che merita amore. Ma per pochissimi io trovo ad esercitar quest’ arte, e la contraria per moltissimi: onde corro pericolo di disimparar l’una per manco d’esercizio, e di riuscir troppo nell’altra.

Filosofia. Eppure non devi: perché uno è il principio e di questa e di quella arte: onde non le dividere; giacché è una, e pare che sieno due.

Luciano. Tu la intendi meglio di me, o Filosofia: pure io sono così fatto che odio i malvagi, ed amo e lodo i buoni.

Filosofia. Oh, eccoci giunti: qui sotto questo portico del tempio di Minerva faremo il giudizio. O Sacerdotessa, preparaci i seggi, intanto che noi adoreremo la Dea.

Luciano. O Atena signora della città, aiutami da questi superbi che io combatto: ricordati dei loro spergiuri che tu odi ogni dì, e delle cose che fanno, e che tu sola vedi abitando su questa rocca. Ora è tempo di farne vendetta. Se mai tu mi vedessi sopraffatto dal numero maggiore delle fave nere, getta la tua nell’urna, e salvami.

Filosofia. Eccoci seduti, e pronti ad ascoltare i vostri ragionamenti. Voi scegliete tra voi uno che vi parrà migliore a farla da accusatore: raccogliete tutti i capi d’accusa e le prove: perché non potete parlar tutti insieme. Tu, o Parlachiaro, dirai le tue ragioni dipoi.

Risuscitati. Chi dunque sarà il più atto fra noi a quest’accusa?

Crisippo. Tu, o Platone, perché tu, sia di pensieri mirabili e di bel parlare tutto attico, grazioso e persuasivo, sia d’intelletto e d’accorgimento per convincere con opportune dimostrazioni, tu di ogni cosa hai dovizia: onde prendi la difesa di questa causa, e parla per tutti noi. Ricordati ora, e raccogli quanto mai dicesti contro Gorgia, e Polo, e Prodico, ed Ippia, che costui è più pericoloso di quelli. Spargevi le tue ironie, e quelle calzanti e frequenti interrogazioni: e, se vi cape, mettivi ancora che il gran Giove agitando pel cielo l’alato suo cocchio, sdegnerebbesi se costui non fosse punito.

Platone. No: scegliamo piuttosto un parlatore veemente, o questo Diogene, o Antistene, o Crate, o pure te stesso, o Crisippo. Or non è tempo di bello stile e forbito, ma di quegli argomenti che stringono, e che s’usan nel foro: perché Parlachiaro è avvocato.

Diogene. Bene, l’accuserò io: e non credo dover parlare molto a lungo. E poi io sono stato offeso più di tutti, ché ieri fui venduto per due oboli.

Platone. O Filosofia, Diogene parlerà per tatti. E tu, o valoroso, ricordati che in quest’accusa sei nostro rappresentante, e devi riguardare non pure a te, ma a tutti noi. Se abbiam qualche differenza nelle nostre dottrine, tu non parlarne ora, né dire qual dottrina è più vera: ma solamente ti muova a sdegno quel che ha patito Filosofia tanto ingiuriata e diffamata nelle scritture di Parlachiaro. Lascia le sette e le differenze che sono fra noi: siam tutti filosofi; e per questo carattere comune or devi combattere. Pensa che noi abbiam commesso a te solo ogni cosa, ed a te sta il farci o rispettare, o credere quali ci ha mostrati costui.

Diogene. Non dubitate: non tralascerò nulla, parlerò per tutti. E se anche Filosofia si lasciasse svolgere alle costui parole, e con quell’indole sua dolce e mite volesse rimandarlo assoluto, ci penserò io: gli mostrerò che non indarno noi portiamo il bastone.

Filosofia. Bastone no: convincerlo col ragionamento, sì. Ma sbrigati: l’acqua è già versata per te; e tutto il tribunale ti riguarda attentamente.

Luciano. Gli altri seggano, o Filosofia, e sieno giudici insieme con voi: Diogene solo mi accusi.

Filosofia. E non temi tu il suffragio di tali giudici?

Luciano. No: io voglio vincere con tanti più suffragi.

Filosofia. Da magnanimo. Sedete voi: e tu, o Diogene, parla.

Diogene. Quali uomini fummo noi nella vita nostra, tu il sai molto bene, o Filosofia, e non accade parlarne: ché, per tacere di me stesso, chi mai non conosce cotesto Pitagora, e Platone, ed Aristotele, e Crisippo, e quanto bene essi hanno fatto al mondo? E tutto che siamo stati tali, questo scelleratissimo Parlachiaro che offese ci ha fatto ora vi dirò. Questi che in sua prima età si diede al mestier d’avvocato, come ci dice, lasciati i tribunali e certa gloria acquistata nel foro, tutta la sottigliezza dell’ingegno aguzzato nelle aringhe ha rivolta contro di noi,e non rifina d’insultarci, chiamandoci impostori e furfanti, e persuadendo la gente a deriderci e sprezzarci come dappochi. Anzi già egli ha fatto odiare da molti e noi e te, o Filosofia, mettendo in canzone le tue dottrine come baie ed inezie, e recitando con riso beffardo i più santi precetti che tu ci hai insegnati: onde gli ascoltatori gli batton le mani e lo lodano, e noi ne siam vituperati. Così fatto è il popolo: applaude a chi lo fa ridere con le beffe e con gli scherni, massime quando ne vanno in pezzi le cose che paion più sacre: così un tempo applaudiva ad Aristofane ed Eupolide, che per derisione misero questo Socrate su la scena, e gli fabbricarono addosso le più strane commedie. Almeno costoro contro un solo uomo si presero questo ardire, e nei Baccanali, quando v’è certa licenza, e pare che gli scherzi ed i motti faccian parte della festa, e piacciano al Dio ch’è amico del riso. Ma costui, invitate molte elette persone, con in mano un suo grosso libro lungamente meditato, preparato, e pieno di bestemmie, legge a gran voce le più brutte calunnie contro Platone, Pitagora, Aristotele, Crisippo, contro me, contro tutti, senza che vi sia la licenza d’una festa, senza aver ricevuto da noi male alcuno; perché gli si potria pur perdonare se lo facesse per vendetta e provocato da noi. E quello che più ci cuoce è che egli, facendo questo, copresi del tuo nome, o Filosofia; ha tirato dalla sua il Dialogo, che era già amico nostro, ed ora gli tiene il lazzo contro di noi: ha carrucolato anche Menippo nostro compagno a far le scene con lui, e darci spesso la baia: onde questi solo non è con noi, e non lo accusa, ed è traditore della causa comune. Per tutti questi fatti egli ben merita una pena. E che potrà egli rispondere, avendo lacerate le cose più sante innanzi a tanti testimoni? I quali saria bene che lo vedessero anche punito, affinché a nessuno venga più la voglia di spregiar Filosofia. Tacere e tenersi queste ingiurie non saria moderazione, ma viltà somma e dappocaggine. E quest’ultimo smacco che ci ha fatto come si può sopportare? A guisa di schiavi ci espone in vendita in una bottega, ci fa strombettare dal banditore, ci vende alcuni a caro prezzo, alcuni per una mina attica, e me, vedi lo scelleratissimo! me per due oboli: e quanti l’udirono se ne risero. Questo ha colmo il sacco: e noi siamo risuscitati, e da te vogliamo vendetta di queste bruttissime offese.

Risuscitati. Benissimo, o Diogene. Hai parlato per tutti: hai detto tutto, e come andava detto.

Filosofia. Cessate dagli applausi. Si versi l’acqua per l’accusato. Or tocca a te, o Parlachiaro: or l’acqua scorre per te: incomincia.

Parlachiaro. Eppure non di tutte le colpe Diogene mi ha accusato, o Filosofia, ma non so perché ne ha tralasciate molte e le più gravi. Tanto io temo di negare quello che ho detto, o di scendere a giustificarmene, che, se v’é qualche cosa che egli ha taciuta o che io non ho detta prima, voglio dirla ora per giunta: ché così saprai chi sono quelli ch’io ho messi all’incanto, ed ho offesi chiamandoli impostori e furfanti. Badate solamente a questo, se io dirò il vero di essi. Che se le mie parole avran sapore di forte e di agro, non è giusto di biasimar me che scopro un male, ma quelli che lo fanno. Non sì tosto io mi fui accorto di tutte le magagne che stanno necessariamente con gli oratori, degl’inganni, delle menzogne, dell’impudenza, degli schiamazzi, delle contese e di mille altre loro sozzure, che io volsi loro le spalle, e corsi a cercare i beni che tu prometti, o Filosofia; credendomi, come da tempestoso pelago, entrare in tranquillo porto, e poter vivere sotto la tua protezione il rimanente dei giorni miei. E poiché pure assaggiai le vostre dottrine, fui compreso di dovuta ammirazione per te, e per tutti quei filosofi che sono legislatori della vita ottima, e porgono la mano a chi vuol giungere ad essa, ammonendolo delle cose più belle e più utili, affinché non isvii e non cada nell’errore, ma fiso riguardando alle regole stabilite da voi, secondo esse moderi e conformi la sua vita: la qual cosa oh quanti pochi tra noi oggi fanno! Ma vedendo molti presi non da amore di sapere, ma sol da boria di parere sapienti, far le viste d’essere uomini dabbene, serbando certe pubbliche apparenze che son facili a tutti ad imitare, la barba dico, l’andare, e il mantello; e con la vita poi e con le opere contraddire all’abito che indossano, fare tutto il contrario di quello che voi facevate, e disonorare la dignità di filosofi, io me ne sdegnai grandemente. Questo parvemi come se un molle ed infemminito istrione facesse in una tragedia la parte di Achille, di Teseo, o di Eracle, e invece di camminare e parlar da eroe facesse lo svenevole sotto sì nobil maschera. Neppure ad Elena o a Polissena potrebbe piacere costui, benché similissimo a loro: or che sdegno ne avrebbe Eracle, il gran vincitore? pensomi che a vedersi fatto una femminella da costui, stritolerebbe a colpi di clava l’istrione e la maschera. Simili oltraggi io vidi fatti a voi da questi istrioni, e non potetti patire tanta vergogna, che queste scimmie ardissero mettersi la maschera degli eroi; o imitassero l’asino di Cuma, il quale coperto della pelle d’un leone, e credendosi divenuto leone, con un gran menare di ragghi spauriva i Cumani che nol conoscevano: finché un forestiere, che conosceva bene e gli asini ed i leoni, lo scoprì e lo cacciò con buone bastonate. Ma quel che più mi sdegnava, o Filosofia, era che quando gli uomini vedevano un malvagio di questi far qualche turpitudine o ribalderia, tutti senz’altro ne incolpavan Filosofia, e Crisippo, e Platone, e Pitagora, o altro, di cui il vero colpevole spacciava il nome e la dottrina; e dalla rea vita di costui si faceva reo giudizio anche di voi, che eravate morti da tanto tempo. Nessuno ricordava più che uomini eravate stati in vita, ma vedevano bene quel malvagio darla per mezzo a tutte le lascivie e le ribalderie; onde vi mettevano in un fascio con lui, vi laceravano, vi condannavano, e nessuno vi difendeva. Questo io non potetti patire, smascherai quegl’impostori, e li mostrai ben diversi da voi. E voi che però dovreste onorarmi, voi mi trascinate innanzi a un tribunale! Dunque se io vedo un iniziato con le parole o coi gesti svelare i misteri delle Dee, ed io me ne sdegno e lo riprendo, son io per voi un malvagio? No, certamente. Gli Agonoteti sogliono far flagellare l’istrione che vestito da Atena, da Poseidone, o da Zeus, non rappresenta bene e convenientemente questi iddii; i quali non si sdegnano punto che uno, che s’ha messa la maschera loro e va vestito delle insegne loro, sia dato a mano dei frustatori, anzi credo che debbano aver piacere a vederlo frustato, dappoiché non rappresentar bene la parte di un servo o di un nunzio, non è gran fallo; ma abbassare la dignità di Zeus o di Eracle innanzi agli spettatori, è cosa tanto abominabile quanto è turpe. E questa è un’altra cosa stranissima, che molti di costoro conoscono esattamente le vostre dottrine, ma pare che le studino e le imparino per fare puntualmente il contrario nella vita loro. Tutte quelle massime che essi ripetono, doversi spregiar le ricchezze e la gloria, stimar utile il solo onesto, non lasciarsi vincere dall’ira, non curarsi dei ricchi e parlar loro come ad eguali; tutte queste massime son belle e sagge, e molto mirabili; ma costoro le insegnano a prezzo, innanzi ai ricchi allibiscono, innanzi all’oro apron tanto di bocca, son più ringhiosi dei botoli, più paurosi dei lepri, più lusinghieri delle scimmie, più lussuriosi degli asini, più rapaci dei gatti, più schiamazzatori dei galli. Meritamente dunque sono derisi, perché fanno il contrario di quello che dicono: s’affollano e si pigiano innanzi le porte dei ricchi; cercano i conviti dove è più gente, e quivi sfrontatamente adulano, sconvenevolmente s’empiono il sacco, paion sempre scontenti della loro porzione, e fanno stomaco tra i bicchieri filosofando a sproposito, e rigettando tutto il vino. Intanto gli sciocchi che stanno a tavola se ne ridono, e sputano Filosofia che alleva questa razza immonda. Con una fronte invetriata,ciascun d’essi dice non aver bisogno di nulla, grida che il solo ricco è il sapiente: e indi a poco viene, e ti chiede, e sdegnasi se non gli dai: come se uno vestito da re con la tiara ed il diadema in capo, e con tutte le altre insegne regali, cercasse la limosina dai più poveri di lui. Quando costoro hanno bisogno, ti sciorinano una diceria che tutto debb’esser comune, che la ricchezza è cosa indifferente: che è l’oro e l’argento? non differisce dai ciottoli che stanno sul lido: ma quando un antico compagno o un amico intimo va da loro per un bisogno a chiedere un picciolo aiuto, ammutiscono, non hanno, non sanno, ritrattano il loro detto: e tutte quelle belle parole su l’amicizia, su la virtù, su l’onesto se ne vanno non so dove, se ne volano, veramente volubili parole, che ogni mattina dicono nelle scuole per combattere con le ombre. Ti sono amici sino ad un punto, sino a che non ci va di mezzo la borsa: se si mostra loro un obolo, è rotta la pace, finita per sempre ogni pratica, i libri dimenticati, sparita la virtù: paiono un branco di cani, tra quali se getti un osso, vi si lanciano tutti, si mordon tra loro, e a chi l’ ha rapito prima tutti abbaiano dietro. Si dice che una volta un re d’Egitto insegnò a certe scimmie ballare la danza pirrica: e questi animali, che sanno imitare benissimo le azioni degli uomini, presto impararono, e covertate di porpora e mascherate diedero lo spettacolo della danza; il quale piacque per qualche tempo, finché uno spettatore ghiribizzoso avendo in seno alcune noci, le gettò in mezzo ad esse: le scimmie, come le videro, scordaron la danza, e tornate scimmie, ruppero le maschere, e squarciaron le vesti azzuffandosi tra loro per le noci: la danza fu disordinata, e il teatro si smascellò dalle risa. Così fanno anche costoro: queste scimmie io ho frustate, e non cesserò mai di frustare, togliendo loro la maschera e mettendo la mitra. A voi poi, ed a quelli che son simili a voi (ché ci sono, sì, ci sono alcuni che veramente amano Filosofia, e serbano le vostre leggi), io non sarei si pazzo da dire a voi minima ingiuria o villania. E che potrei dirvi io? Siete vissuti voi forse come questa canaglia nemica degli Dei, e meritevole d’essere scopata? E voi, o Pitagora, o Crisippo, o Platone, o Aristotele, ditemi, che han che fare questi con voi? in che la vita vostra è somigliante alla loro? In fede mia, la scimmia imita Eracle. Forse perché portano barbe, perché spacciano filosofia, perché hanno il volto arcigno, però dobbiamo assomigliarli a voi? Saria meno male se avessero un po’ di garbo nell’imitarvi: ma piuttosto l’avvoltoio imiterà l’usignolo, che costoro i filosofi. Ho detto in mia difesa le cose che dovevo: e tu, o Verità, sii testimone ai giudici se esse son vere.

Filosofia. Allontanati, o Parlachiaro: anche più in là. Che farem noi? Che vi pare di quel che ha detto quest’uomo?

Verità. Per me, o Filosofia, mentr’egli parlava avrei voluto star nascosta sotterra: tanto son vere le cose che ha dette. Nell’udirlo annoverar tutte quelle vergogne, io riconoscevo quelli che le fanno, e pensavo: Questo conviene al tale, il tale ha fatto questo, il tale altro ha fatto quest’altro. Li ha mostrati quali sono, li ha dipinti al vivo, ne ha ritratti non pure i corpi, ma le anime al naturale.

Temperanza. Ed io, quanto mi sono arrossita, o Virtù?

Filosofia. E voi, che ne dite?

I Risuscitati. Che altro, se non scioglierlo dall’accusa, e scriverlo nel novero de’ nostri amici e benefattori? A noi è intervenuto come ai Trojani, i quali sforzarono un cantore a cantare, e quei cantò loro la rovina di Troia. Canti egli dunque, e canzoni questi nemici degli Dei.

Diogene. Ed io, o Filosofia, lodo questo uomo dabbene, ritratto le accuse che gli ho date, e lo voglio per amico.

Filosofia. Sta bene. Avvicinati, o Parlachiaro. Ti assolviamo dall’accusa a pieni suffragi; e sappi che da ora innanzi sei nostro.

Parlachiaro. Ho vinto la prima: or farò la seconda preghiera in stile tragico e più conveniente.
O grande, alma Vittoria,
Questa mia vita io t’offero,
E tu sempre incoronami.

Virtù. Versiamo la seconda tazza agli Dei: citiamo a comparir qui anche quelli, affinché abbiano pena degl’insulti che ci fanno. E Parlachiaro li accuserà.

Parlachiaro. Ben dicesti, o Virtù. Onde tu, o Sillogismo figliuol mio, affacciati su la città, e fa’ l’appello dei filosofi.

Il Sillogismo. Udite, zitti. Che i filosofi montino su la cittadella a render conto di sé innanzi la Virtù, Filosofia, e la Giustizia.

Parlachiaro. Vedi? Pochi ci convengono, avendo capito il bando. Temono la Giustizia, ma la maggior parte non hanno tempo, e stanno attorno ai ricchi. Se vuoi che vengano tutti, fa’ il bando così, o Sillogismo.

Filosofia. No: fallo tu, o Parlachiaro, come vuoi tu.

Parlachiaro. Son pronto. Udite, silenzio. Tutti quelli che dicono d’esser filosofi, e quelli che credono di meritar questo nome, vengano su la cittadella dove si fa un donativo. Si daranno a ciascuno due mine, e una schiacciata di giuggiolena. Chi ci porterà una gran barba avrà per giunta un pane di fichi secchi. Nessuno ci porti né modestia, né giustizia, né temperanza; ché le non son necessarie se non ci sono. Ma cinque sillogismi sono indispensabili, che senza sillogismi non ci è filosofi.
E stanno io mezzo due talenti d’oro,
Che si daranno a chi fra tutti il vanto
Del più valente battaglier riporti.

Oh , oh! che folla monta a furia, poiché han pure udito le due mine. Quelli pel Pelasgico, questi pel tempio di Asclepio, molti per l’Areopago, altri salgono pel sepolcro di Talo, ed alcuni mettono le scale al tempio di Castore e Polluce. Come s’arrampicano! che ronzio! come s’aggroppano a guisa di sciame d’api, per dirla con Omero: di qua sono assai molti, e di là
Nessun li conteria, che sono quante
Le foglie e i fior che primavera adduce.

In un attimo s’è piena la cittadella! che rombazzo fanno per chi siede i primi: dappertutto bisacce, barbe, adulazione, impudenza, bastoni, ghiottoneria, avarizia, sillogismi. Quei pochi venutici al primo bando sono spariti e confusi nella gran folla, e non si posson distinguere per la simiglianza comune dell’aspetto. Questo sta male assai, o Filosofia, e taluno si potrja lagnare di te, che non hai posto loro un segno che li distingua; ché questi impostori la sanno più lunga, e spesso passano per veri filosofi.

Filosofia. Attendi un altro poco. Per ora riceviam costoro.

Platonici. A noi Platonici tocca prima il donativo.

Pitagorici. No: a noi Pitagorici, che Pitagora fu prima.

Gli Stoici. Voi scherzate i primi noi che siamo della Stoà.

Peripatetici. Niente affatto: quando c’è danari, siamo innanzi a tutti, noi del Peripato.

Epicurei. A noi Epicurei dateci le schiacciate ed i fichi secchi: e per le due mine aspetteremo ultimi di tutti.

Accademici. Dove sono i due talenti? Spettano a noi Accademici che siamo i più battaglieri fra tutti.

Gli Stoici. Non quando vi stiamo a fronte noi Stoici.

Filosofia. Cessate le dispute, e voi, o Cinici, non urtate gli altri, ponete giù i bastoni. Sappiate che per altro siete stati chiamati: io che son Filosofia, costei che è la Virtù, e questa la Verità, giudicheremo ora chi sono i veri filosofi. Quelli che nella vita loro saran trovati conformi alle nostre dottrine, avranno la felicità in dono, e saran riconosciuti per ottimi: ma gl’impostori, che non han punto che fare con noi, avran la pena che si addice ai malvagi ed ai guastamestieri che fanno quello che non sanno. Ma che? voi fuggite a rompicollo per la china? La cittadella è spazzata: vi sono rimasti pochi che non temono il nostro giudizio. Raccogliete, o servi, quella bisaccia che un cinico ha gittata nel fuggire. Vediam che v’è dentro: forse lupini, qualche libro, e pan di crusca.

Parlachiaro. No: ma vedi, oro, unguenti, uno specchio, e i dadi.

Filosofia. Bravo, o valentuomo: questi erano gli strumenti dei tuoi studii? con questi credevi potere sparlare di tutti, e fare il maestro agli altri?

Parlachiaro. E tutti così. Ma voi ci dovete trovare un modo per far cessare questa incertezza, e far distinguere, quando s’incontran costoro, chi sono i buoni e chi i cattivi. E questo spetta a te, o Verità, a trovarlo, per non farti accoppar dalla Bugia, e nella tua semplicità non lasciarti ingannar da’ ribaldi vestiti da dabbenuomini. Verità. Se vi pare, darem questo ufficio a Parlachiaro, che abbiam conosciuto per dabbenuomo, affezionato nostro, e tuo grande ammiratore, o Filosofia. Egli prenderà a compagna la Convinzione, ed andranno da tutti quelli che si dicon filosofi; chi sarà trovato legittimo e vero figliuolo della Filosofia, sia coronato d’ulivo e chiamato nel Pritaneo: se s’abbatterà in un furfante di questi (e son tanti) mascherato da filosofo, gli strappi il mantello, gli rada la barba sino alla pelle con le cesoie con cui si tondono i becchi, gl’imprima un marchio su la fronte, o con un ferro rovente gli stampi fra le due sopracciglia la figura di una volpe o d’una scimmia.

Filosofia. Bene, o Verità. La prova, o Parlachiaro, sia come quella che fa l’aquila dei suoi aquilotti al sole: non già, provare anche costoro facendoli riguardar nel sole, ma metti innanzi ad essi oro, gloria, piaceri: chi li guarda con disprezzo e senza commuoversi, egli è desso, coronalo d’ulivo: chi vi tien l’occhio fiso, e stende la mano all’oro, bruciagli la fronte, rasa prima la barba, come s’è detto.

Parlachiaro. Cosi farò, o Filosofia: e tu vedrai tosto moltissimi marchiati della volpe o della scimmia, e pochi coronati. Intanto, se voi volete, io ricondurrò qui alcuni di quelli.

Filosofia. Come? ricondurrai quei che son fuggiti?

Parlachiaro. Si: purché la Sacerdotessa voglia prestarmi per poco la lenza e l’amo, che il pescator del Pireo appese in voto.

La Sacerdotessa. To’, ed anche la canna, acciocché tu abbi tutto.

Parlachiaro. Fammi il favore intero, o Sacerdotessa: dammi dei fichi secchi, e un pochetto d’oro.

La Sacerdotessa. Prendi.

Filosofia. Che pensa di fare costui?

Sacerdotessa. Ha innescato l’amo coi fichi e con l’oro, e sedutosi su l’orlo della rocca, l’ha gettato a pescar nella città.

Filosofia. Che fai, o Parlachiaro? vuoi tu pescar le pietre nel Pelasgico?

Parlachiaro. Taci, o Filosofia, e aspetta la pesca. O Poseidone, re dei pescatori, e tu, o bella Anfitrite, mandateci molti pesci. Ma zitti, vedo un gran lupo marino, o piuttosto un’orata.

Convinzione. No, è un pesce gatto, che viene all’amo con la bocca aperta. Fiuta l’oro, s’avvicina, l’ha morso, è preso: tiriamo.

Parlachiaro. Aiutami anche tu, o Convinzione, a tirar la lenza. È sopra. Or dimmi, chi sei tu, o bellissimo tra i pesci. È un pesce cane questo. Caspita, e che denti! E come? sei stato preso al lecco intorno a questi scogli dove speravi di rimbucarti ? Ma ora tenendoti sospeso dalle branchie, ti mostrerò a tutti. Caviamogli l’esca e l’amo. All’amo non c’ è più nulla: i fichi secchi e l’oro se l’ha già inghiottiti.

Diogene. Faglieli vomitare, per Zeus! affinchè adeschiamo gli altri.

Parlachiaro. Sta bene. Ma dimmi, o Diogene, conosci chi è costui? è de’ tuoi egli?

Diogene. Niente affatto.

Parlachiaro. Be’: e di che prezzo lo fai? Io testé lo stimai due oboli.

Diogene. È troppo. Non saria chi mangiarlo, è brutto, ha la carne tigliosa, non val nulla. Gittalo a rompersi il collo su i scogli. Tirane un altro, getta l’amo. Ma bada, o Parlachiaro, che la canna non si pieghi troppo e si spezzi.

Parlachiaro. Non temere, o Diogene, non pesano, e son leggieri più delle acciughe.

Diogene. Son ciuchi, per Zeus! Tira su.

Parlachiaro. Ve’, vedi quest’ altro piattone, come un pesce spaccato a mezzo, come una sogliola! corre all’amo con tanto di bocca: l’ha ingoiato, è preso: venga su.

Convinzione. Chi è egli ?

Diogene. Ei dice che è di Platone.

Platone. Anche tu, o ribaldo, corri all’oro?

Parlachiaro. E che ne faremo, o Platone?

Platone. Su i scogli anch’esso.

Diogene. Getta l’amo per un altro.

Parlachiaro. Ne vedo venire uno bellissimo, per quanto discerno nel fondo, con la pelle screziata e il dorso listato di colori d’oro. Lo vedi, o Convinzione? quello che m’ ha l’aria di Aristotele, quello è. S’era avvicinato, ed ora se ne va roteando. Si guarda intorno; ritorna; apre la bocca; è preso: tiriamolo.

Aristotele. Non mi dimandar di lui, o Parlachiaro: io non so chi sia. Parlachiaro. Dunque anch’ esso giù su i scogli, o Aristotele. Ma vedo una torma di pesci, tutti d’un colore, spinosi, bruttissimi d’aspetto, e più aspri a toccare dei ricci. Ci vorria proprio una rete, ma non c’è. Basterebbe se ne prendessimo uno: eh, il più ardito darà certo nell’amo.

Convinzione. Getta la lenza; ma se credi, assicuravi bene l’amo, affinchè non la rompa coi denti ingoiando l’oro.

Parlachiaro. È giù. O Poseidone, mandami tosto una buona pesca. Caspita! si azzuffano per l’esca: alcuni stanno a rodere intorno al fico, ed altri si sono attaccati all’oro. Bene: ne abbiamo uncinato uno grosso. Or dimmi tu, che nome hai? Ma che sciocco son io, a voler far parlare un pesce, che son tutti muti! Dimmi tu, o Convinzione, chi sarebbe il maestro di costui.

Convinzione. Crisippo.

Parlachiaro. Capisco ora perché correva all’ oro. O Crisippo, dimmi, per Atena, conosci tu costoro? insegnasti tu a loro di fare quello che fanno?

Crisippo. Con questa dimanda tu mi offendi, o Parlachiaro, che credi che questo canagliume appartenga a me.

Parlachiaro. Tu se’ generoso, o Crisippo. Questo andrà giù con gli altri; è pieno di lische, e c’è paura che, mangiandolo, qualcuna si possa attraversar nella gola.

Filosofia. Basta di questa pesca, o Parlachiaro: che tra tanti qualcuno potrebbe portarsi via l’oro e l’amo; e tu dovresti pagarlo alla Sacerdotessa. Onde noi andiamo a passeggiare: voi altri è tempo d’andarvene, per non trapassare il giorno concessovi. Voi due poi, o Convinzione e Parlachiaro, andate un po’ attorno, e coronate o marchiate costoro, come v’ho detto.

Parlachiaro. Così faremo, o Filosofia. Io vi saluto, o i migliori degli uomini. Noi, o Convinzione, scendiamo giù, ed eseguiamo quello che ci è stato commesso. Ma dove ci converrà andar prima? comincerem dall’Accademia, o dalla Stoà?

Convinzione. Cominciam dal Liceo.

Parlachiaro. È tuttuno: ti so dire che dovunque andremo, poche fronti avremo a coronare, molte a marchiare.