Testo

La risalita di colapesce.
capitolo primo

L'autore ha voluto condividere con miti3000 il primo capitolo del suo libro.
restiamo in attesa di altre scritture

Capitolo 1 - il mercato

«Ora ora i pigghiaru!»

L’afa di mezzogiorno si faceva sentire sotto la tendopoli di ombrelloni arrangiati e teloni laceri, in un tutt’uno di caldo, ressa e mosche. La massa di clienti era stipata come il pesce sui banconi, a cui qualcuno già invidiava la fine felice su un letto di ghiaccio tritato. Non si potevano biasimare, dunque, gli sciami di insetti confusi che si gettavano ora sugli uni ora sugli altri, senza disdegnare uno spuntino sull’immondizia accumulata sul marciapiede.
«Vaddati ch’è bella! Ancora viva è!»
Scalpiccio disordinato e mannaie sui ceppi.
Tutto era immerso in un’atmosfera fumosa, astratta, bucata a tratti da sottili strisce di luce che penetravano le coperture dei tetti, facendo danzare un pulviscolo luccicante. E questo solo a livello delle minuscole viuzze, perché a fissare l’interno dei singoli chioschi era come gettare uno sguardo in un fondale marino: vi era di sicuro qualcosa in quell’oscurità, all’opera su fornelli e calderoni ribollenti di profumi paurosi, attraendo inesorabilmente la curiosità e la fame.
Difatti vi era lo stesso smembramento di pesce in quelle cucine improvvisate promosse a osterie.

Tra quelle fila di schiene, gli operai in pausa se ne stavano immobili e sporchi come scogli, solo una interrompeva la compattezza della scogliera, più piccola delle altre. Era quella di un ragazzo, seduto anche lui al bancone, con le gambe a ciondolare giù dallo sgabello. Messo lì ad appisolarsi, sorreggendosi la testa con entrambe le mani nel disperato tentativo di non farla sbattere sul bancone.

Quando alle sue spalle sentì come un’ombra, poi una carezza, impercettibile. Trasalì e si girò di botto per la sorpresa, ritrovandosi a tuffare il viso in una cascata di capelli biondi.

«Ma come sei contento di rivedermi, Cola!»

Si divincolò a malincuore da quel groviglio color oro per cercare il viso che gli stava parlando. E fu ancora peggio.

«Principessa…»

«Sì sono io, che fai, non mi riconosci? Parla più forte, c’è troppo rumore qui.»

«Sei troppo bella…»

«Cosa? Non ti sento!»

«Dico che ho delle costardelle! Si muovono ancora, ci fai una frittura niente male.»

«Cucinare? Io?!»

E scoppiò a ridere in faccia al pescatore che la seguiva a stento, impacciato.

«Ah! Niente costardelle? E allora che ci fai qui?»

«Cercavo te, e cosa sennò?»

«Sì certo, come no!»

Parola di Principessa! Che fai, non mangi?»

«Mi è passata la fame, stavo andando via.»

Fece per battere in ritirata ma la biondina non voleva saperne di mollarlo. Attraverso il mercato lurido e chiassoso, era così fuori posto da sembrare che la folla dovesse sparire attorno a lei, inghiottita in un’aura di balsamo per capelli. Cola non chiedeva altro che sprofondarci, in quel buco nero di profumo, ma anche per questo scappava spaventato, per non finirci disintegrato.
«Dove te ne vai ora?»
«Non ho molto altro da vendere. Torno a casa, che fai mi segui?»

Altro gorgheggio ilare.
All’esterno la luce accecante non voleva saperne di lasciare andare le retine, mentre le sirene cercavano di coordinare l’emersione dei pescherecci sulla banchina a forza di ululati lancinanti.
Cola si dava da fare per caricare il suo Scecco e rifornirlo di carburante, tutto con Principessa sempre alle costole, a ronzargli attorno con quel sorrisino nervoso stampato sulla faccia.
«Beh si può sapere che vuoi?»
«Non ti è rimasto più niente?»
«No, ho finito tutto la settimana scorsa, perché non vai dai tuoi amichetti dei Denari?»
«Dai Cola, lo sai che la tua è la migliore.»
«Infatti. E ora è finita.»
«E che possiamo fare?»
«Oh ma allora non mi stai a sentire! Ti ho detto che l’ho finita, ora.!»
«Ah e dillo, quanto ci voleva? Vabbè, arrivederci.»
Cola stette a guardarla correre via, lontano dal mercato, pensando per un attimo a chissà cosa avrebbe fatto per racimolare i soldi. Una principessa come lei ridotta a chiedere l’elemosina. Ma poi principessa di che? Non glielo aveva mai chiesto. Era certo che se davvero fosse stata una principessa non avrebbe fatto la fame a cui era ridotta perennemente. Doveva forse sentirsi in colpa per la fame che provava, di proposito, qualcun altro? Piuttosto meglio fare qualcosa per la sua, di fame. Caricò il resto della merce sul velivolo e sfrecciò alla volta della locanda.

Il locale era quasi vuoto a quell’ora, l’oste gli venne incontro, accogliendolo con familiarità.
«Ancora che ti fai aspettare. Ni fai stari cu pinseri! Si fannu sti cosi?»
«Salutiamo Grifone, è rimasto qualcosa?»
«Non te lo meriteresti però...»
Prese posto a un tavolo in fondo. Poco dopo lo raggiunse la moglie dell’oste con un enorme piatto di pesce freddo.
«Donna Mata, continuo a dirti che sei sprecata con quel barbone nero che ti porta dietro.»
«Meglio con un pescatore da quattro soldi come te? Povero e pazzo, senza contare quello che vendi sottobanco.»
«Non sono pazzo!»
«È proprio quello che direbbe un pazzo.»
«Avanti, allora, dottoressa-ostessa mettimi alla prova» più mangiava e più prendeva gusto allo scherzo, perdendo metà delle parole fra un boccone e l’altro.
«Come dici, scusa?»
«Meppimi al... pova.»
«Bene.»

Test psichiatrico

Paziente n°1

«Nome?»

«Cola.»
«Cognome?»

«Cola.»
«Data di nascita?»

«Sono maggiorenne, giuro agente!»br /> «Occupazione?»

«Pescatore, rivenditore di sostanze a scopo ricreativo… suono anche il marranzano.»

«Per lavoro il marranzano?»

«Ci manchiria.»
«Sogni, desideri, ambizioni?»

«Prendere più pesce.»
«Che tecnica usa nella pesca?»

«Chiamo il pesce e lui entra nella rete.»
«Funziona?»

«Non mi rispondono.»br /> «Educati!»

«Brava gente i pesci.»
«Finito!

Firma, addì ecc…
Cordiali saluti.»

«Quando avrò i risultati?»
«Ora: non c’è speranza.»

capì di aver finito solo quando la forchetta tintinnò a vuoto sul fondo del piatto. Nel frattempo anche Grifone si era unito al suo tavolo sedendosi proprio di fronte.
«Come vanno le cose al mercato?»
«Potrebbero andare meglio: la polizia non ci lascia respirare.»
«Danno fastidio a qualcuno?»
«A nessuno in particolare, ma fanno spesso storie con tutti, a chi perché è in ritardo con il pagamento dell’area, a chi per la sosta sui moli, ogni tanto a qualcuno vengono sequestrate partite di merce.»
«E tu che ne pensi?»
«Dico che cercano di far vedere che comandano loro.»
«Questa gente crede di poter fare quello che vuole a casa nostra. Mi toccherà richiamarli, di nuovo.» «Ti ringrazio Grifone, per fortuna c’è ancora qualcuno che pensa a noi poveri, umili, onesti, bistrattati, miseri lavoratori.»
«A vatinni!»

Risero entrambi.


Era sera inoltrata e il quartiere Risa lo accolse con la sua aria da grande cortile, o da patio, un’estensione di un’unica abitazione collettiva.
All’incrocio dei due mari, la sua casa faceva parte delle centinaia di palafitte che si sviluppavano dalla costa verso il mare, sui relitti arrugginiti di un gigantesco traliccio affondato. Ma forse chiamarle case è dire tanto, in quanto si trattava di scatole di lamiera impossibili da abitare durante il giorno, quando il sole le trasformava in forni, cosa sfruttata, per altro, per seccare il pesce dai pescatori che ci vivevano dentro, ma solo a sera. Perché non fare di necessità virtù insomma? Specialmente nella disgrazia di potersi permettere solo una stiva del genere.

Rientrato nella sua topaia, Cola si richiuse la porta alle spalle con tutte le serrature di cui disponeva: una sedia contro la maniglia, per poi spogliarsi completamente, giusto per attenersi ai costumi da solfara. Fissò per un attimo la sua figura sulla superficie lucida del frigorifero, qualcosa del suo mestiere era impresso in ogni dettaglio del suo corpo: dai lunghi capelli incolti, alla pelle conciata dal sole e dalla salsedine. Ma era l’odore del mare quello che non lo abbandonava mai, come un’aura emanata dal suo corpo e che ora sembrava stamparsi sullo specchio. O forse era solo la condensa. Si mise all’opera, tirò fuori i vari ingredienti e li ammonticchiò sul tavolaccio: era riuscito a ottenere una piccola partita di gelsi neri da un amico dell’ufficio sequestri. Prese qualche minuto per sistemare tutto in bell’ordine e a portata di mano, come a riordinarsi i pensieri. La cucina richiede tempi precisi e aveva ormai per regola fissa di non accendere il fuoco se non prima di essere rigorosamente organizzato. Cominciò lavando i piccoli frutti violacei, per poi pestarli in una ciotola con del succo di limone. Nel frattempo mise a scaldare acqua e zucchero, mescolando di continuo. Infine unì la purea facendo amalgamare il tutto, riponendolo a congelare. Una volta pronto, non avrebbe dovuto far altro che nasconderlo nei pagliericci di neve vulcanica, per poterlo spedire in giro senza destare sospetti.

Finì di preparare la Morgana che era notte fonda, aveva perso la cognizione del tempo, per questo ritenne una buona idea mettersi a suonare il marranzano nell’attesa. Lo strumento era gettato sopra un amplificatore, proprio accanto alla sua amaca, niente più che una vecchia rete da pesca. Lo aveva fatto apposta, per solidarietà al pescato, una specie di pietosa comunione fra il cacciatore e la preda. Vi si tuffò dentro, allungò il braccio, afferrò lo strumento e, dopo averlo osservato per un lungo secondo, lo appoggiò alle labbra e ne staccò un’unica nota come metallo liquido. Con una singola ondata gli arrivò all’orecchio, e continuò sopra la sua testa facendo risuonare il tetto di lamiera. Rimase a gustarsi quella sensazione finché non si prosciugò, in silenzio al centro del suo cervello. Solo dopo, come ogni volta, attaccava lo spinotto all’amplificatore e cominciava a suonare a occhi chiusi.

Dopo del tempo indeterminato tornò in sé, alla sua baracca, e all’allucinogeno che stava ghiacciando nel frigorifero. Un assaggio di controllo era doveroso, quindi si armò di cucchiaino e aprì lo sportello per rimescolare la droga: la consistenza era quasi perfetta. Al che fece per portarne una cucchiaiata alla bocca, ma proprio allora sentì battere con violenza alla porta.
«FED! Polizia di ronda, aprite!»
Per la paura richiuse lo sportello così forte che per poco non si staccava un paio di falangi, piegando orribilmente il povero cucchiaino.
Con la sua migliore nonchalance andò ad aprire: era nudo, ma la cosa gli tornò in mente solo guardando le smorfie schifate dei due agenti.
«Non avete dei pantaloni voi bestie? O vi sentite più vicini al vostro ambiente naturale così?»
«Fa caldo. A casa mia sto come mi pare e piace.»
«Affari tuoi, ma devi anche fare tutto questo rumore?»
«Io la chiamo musica.»
«A quest’ora è tutto rumore, e noi non abbiamo voglia di lavorare per portarti in caserma, siamo intesi?» Mordendosi la lingua, Cola assentì e lasciò perdere, richiuse la porta e tese l’orecchio ai passi che si allontanavano sul pontile.

Tutta quella agitazione gli aveva fatto passare il sonno, tanto valeva togliersi lo sfizio del tutto con Morgana. Tirò fuori una ciotola nella quale una miriade di minuscoli cristalli scuri lo aspettavano languidi. Buttò giù un paio di cucchiaiate senza neanche guardare: il freddo intenso, morbido e granuloso, era una boccata di vita in quel forno di tugurio. Tracannò il resto per raggiungere l’effetto desiderato, continuando ad assaporare quel ghiaccio in discesa verso il suo stomaco. Poi spostò la ciotola per allungare le braccia sul tavolo, a capo chino. Morgana non si fece attendere, cominciando a intorpidirgli la fronte e le tempie, poi il freddo lo avvolse, congelandogli i pensieri con un dolore che gli trapassava il cranio; si strinse la testa fra le mani, c’era qualcosa che non andava stavolta: invece di salire, il gelo prese a scendere giù per il collo facendogli ronzare le orecchie, finché non perse il contatto del legno sotto i gomiti e il sedere.


(Tratto da “la risalita di Colapesce”)

Giuseppe Staiti