Sulla scena sono due servi che fanno la guardia dinanzi alla porta di casa.
(Scuote l'altro servo, che si è addormentato)
Che ti prende, Xantia, disgraziato?
Mi esercito a evadere la guardia di notte.
La tua schiena ne risentirà, credo. Non sai che razza di mostro custodiamo?
Lo so; ma per un po' vorrei dimenticarmelo.
A tuo rischio. Ma una certa dolcezza sonnolenta sta calando a me pure sugli occhi.
Sei fuori di te? O deliri come un coribante?
Ho sonno, per via di Bacco.
Già, anch'io me lo coltivo, Bacco. Poco fa un sonno terribile come un guerriero persiano è mosso all'attacco delle mie palpebre; e ho fatto un sogno stupefacente.
Anch'io ne ho fatto uno mai visto. Ma dimmi prima il tuo.
Un'aquila grandissima calava sulla piazza e con gli artigli rapiva un serpe loricato, che aveva lo scudo di bronzo, e lo portava alto nel cielo; e Cleonimo poi lo gettava via.
Cleonimo è proprio come quello dell'indovinello. «Qual è l'animale», si chiederà nei banchetti, che in terra, in cielo, in mare, getta lo scudo?».
Povero me, che guaio mi preannuncerà questo sogno?
Non ti preoccupare: non sarà poi nulla di terribile.
A me invece pare terribile, che un uomo getti via i suoi attrezzi. Ma adesso raccontami il tuo sogno.
È una cosa importante: interessa la nave dello stato.
Cominciamo dalla carena, allora.
Mi sembrava nel primo sonno di vedere un gregge di pecore sedute in assemblea sulla Pnice, avvolte nei loro mantelli e con un bastone in mano. Le arringava una balena vorace, con una voce da troia isterica.
Ahi!
Che c'è?
Basta, non dir altro: questo sogno puzza terribilmente di cuoio marcio.
Poi, la balena maledetta prese una bilancia e si mise a pesare del grasso.
È un grassatore, povero me, e vuol fare a pezzi il popolo.
Là vicino stava Teoro seduto per terra, ma sul collo aveva la testa di una gazza. E Alcibiade, che ha un difetto di pronuncia, diceva, rivolto a me: «Guarda Teoro; ha la testa di cazza».
Perfetto, questo difetto di pronuncia.
Ma non è una cosa strana, questo Teoro che ha la testa di un uccello?
Ottima cosa, invece.
Come?
Come? da uomo che era, ha preso d'improvviso l'aspetto di un uccello. Non è segno sicuro che volerà via come un uccello, e si toglierà dai coglioni?
Ma io me lo affitto per due oboli, un interprete di sogni così bravo!
Ora voglio dire agli spettatori l'argomento di questa commedia, premettendo poche parole. Non aspettatevi da noi nulla di troppo importante, ma neppure buffonerie prese in prestito da Megara. Non si vedranno qui gli schiavi che da un paniere gettano noci agli spettatori, né Eracle che resta senza pranzo. Ma neppure attaccheremo ancora Euripide, e se Cleone ha avuto successo - per pura fortuna - non lo faremo un'altra volta a pezzi. Abbiamo invece una piccola storia di buon senso, non troppo astrusa per voi, ma più ingegnosa di una farsa volgare. Il nostro padrone, un pezzo d'uomo che in questo momento sta di sopra, e dorme sul tetto, ci ha ordinato di fare la guardia a suo padre: lo ha chiuso in casa, in modo che non possa uscire. Il padre è affetto da una malattia stranissima, che non verrebbe in mente a nessuno, e nessuno neanche se la sognerebbe, se non glielo dicessimo noi. Provatela a indovinare.
(Guardando tra il pubblico)
Aminia, figlio di Pronape, pensa che sia maniaco dei dadi. Ma è una sciocchezza: gli attribuisce la sua malattia. Però di una mania si tratta, effettivamente. Vedo Sosia che si rivolge a Dercilo: soffre, dice, della mania del bere. Neanche per idea: questa è una malattia da persone per bene. Nicostrato di Scambonide dice che è la mania dei sacrifici, o degli ospiti, che si chiama filossenia. Ma no, Nicostrato, filosseno non può essere, perché Filosseno è solo un culattone. Sono tutte chiacchiere, e da voi non troverete la soluzione: se volete saperla, state zitti e vi dirò che razza di malattia è. Ha la mania dei tribunali, come nessuno al mondo, ama fare il giudice e piange se non siede in prima fila. Di notte, non vede un briciolo di sonno; se appena chiude gli occhi, la sua mente vola dritta alla clessidra. E per l'abitudine di tenere in mano le pietruzze per votare si alza tenendo strette tre dita, che sembra voglia fare un'offerta di incenso per la luna nuova. E se vede scritto su qualche porta «Amo Demo» (Il figlio di Pirilampe), va a correggere «Amo le denunce». Se il gallo canta verso sera, subito lo accusa di essersi fatto corrompere dai magistrati sotto inchiesta per svegliarlo in ritardo. Appena finita la cena, grida che gli si portino le scarpe; poi quando è arrivato, naturalmente si addormenta all'alba prima di cominciare, appoggiato alla colonna come un'ostrica. Col suo carattere bilioso, vota sempre per la condanna di tutti, e così torna a casa con le unghie impiastricciate di cera, che pare un'ape o un calabrone. Ha tanta paura che gli vengano a mancare le pietre per il voto, che si tiene in casa una spiaggia intera. Questa è la sua follia; e per quanto ammonito (come dice il poeta), si ostina a voler fare il giudice. Ora l'abbiamo chiuso sotto chiave e lo sorvegliamo, che non scappi; perché il figlio non può soffrire questa sua mania. Prima ha cercato di convincerlo con le buone a non mettersi il mantello e a non uscire di casa, ma lui non ne voleva sapere. Gli ha fatto fare lavacri e purificazioni: niente. Lo ha sottoposto ai riti dei coribanti, ma lui è scappato con il tamburello ed è piombato a fare il giudice al Tribunale Nuovo. Visto che questi rimedi non servivano, lo ha portato ad Egina e lo ha fatto dormire una notte nel tempio di Asclepio. Ma ecco che spunta di nuovo alle porte del tribunale: era ancora buio. Da allora non l'abbiamo più fatto uscire; lui cercava di evadere per i doccioni e i buchi, ma noi dove c'era un'apertura la tappavamo con degli stracci; lui piantava chiodi nel muro e come un gracchio saltava fuori. Infine abbiamo steso nell'atrio le reti tutt'intorno, e montiamo la guardia. Il vecchio si chiama Filocleone, il figlio Bdelicleone: ed è persona dai modi bruschi e superbi.
(Dall'alto)
Xantia e Sosia, dormite?
Ahimè.
Che c'è?
Bdelicleone si è alzato.
Uno di voi corra qui subito! Mio padre si è infilato nel forno e, chiuso là dentro, si agita come fosse un topo.
(Al 1º servo)
Bada al buco dell'acquaio, che non scappi di là.
(Il 1º servo esce; al 2º servo)
E tu non perdere d'occhio la porta.
Senz'altro.
Per Posidone, che è questo rumore nel camino?
(Nel comignolo appare Filocleone)
E tu chi sei?
Io? Sono fumo che vola via.
Fumo? E, sentiamo un po', di che legno?
Di sico...moro.
Il più acre dei fumi, perdio! Vuoi andartene in malora? Dov'è il coperchio? Rientra, che ora ci metto sopra un altro asse. E ora prova a cercare qualche altro marchingegno! Ma certo sono disgraziato come ce n'è pochi se d'ora in poi mi chiameranno pure figlio del fumo.
Sta spingendo la porta.
E tu reggila bene, con forza. Ora arrivo a darti una mano anch'io. Bada alla sbarra di noce, che non se la rosicchi.
(Dietro la porta)
Che fate? Mi volete lasciare andare in tribunale, maledetti? Se no, Dracontide sarà assolto.
Ti dispiacerebbe?
Il dio di Delfi mi diede un tempo questo responso; che sarei morto di colpo, il giorno che un imputato fosse assolto.
Per Apollo, che razza di vaticinio!
Ti supplico, lasciami andare; se no, schiatto.
Per Poseidone, assolutamente no.
Allora roderò la rete coi denti.
Ma se non ce li hai!
Povero me, come posso ammazzarti? Datemi una spada, subito, o meglio ancora una tabella di voto.
(Entra Bdelicleone)
Quest'uomo finirà col combinare un guaio grosso.
Ma no, voglio solo andare a vendere l'asino, col suo basto. Siamo al primo del mese.
E non posso venderlo io?
Non bene come me.
Meglio di te.
D'accordo, fai uscire l'asino.
Con questa finta, sta di sicuro inventando una scusa, perché lo si lasci uscire.
Ma non c'è niente da fare; mi ero ben accorto che stava tramando qualcosa. Vado dentro io e faccio uscire l'asino, in modo che il vecchio non faccia capolino di nuovo.
(Esce e rientra con l'asino, sotto la pancia del quale è nascosto Filocleone)
Asino, perché piangi? Perché ti portano a vendere? Cammina, presto. Perché gemi, come se portassi un qualche Odisseo?
Veramente lo porta proprio, qualcuno che gli si è infilato sotto.
Cosa? Guardiamo un po'. Questo che è? Dimmi, tu chi sei?
Nessuno.
Nessuno? E da dove vieni?
Da Itaca. Sono figlio di Tela...mone.
Caro il mio Nessuno, non te la caverai facilmente. Tiralo fuori, presto. Ma guarda dove s'era nascosto, il maledetto. Mi sembri tutto un animale da... corte.
Se non mi lasciate in pace, faremo la guerra.
E perché?
Per l'ombra dell'asino, come suol dirsi.
Sei una bella canaglia, uno sfrontato!
Una canaglia io? Io sono buonissimo; te ne accorgerai se mangi la pancetta... di vecchio giudice.
Su, dentro; e riporta in casa l'asino.
(Rientrando)
Cleone, colleghi giudici: aiuto!
(Chiude la porta)
Ora che la porta è chiusa, puoi strillare quanto ti piace.
(Al 2º servo)
Tu, ammucchia delle pietre davanti alla porta, e chiudi con la sbarra. Fai rotolare il mortaio grande e appoggialo alla trave, presto!
Povero me, da dove m'è cascata in testa questa tegola?
È stato un topo, forse.
Ma che topo: è stato un giudice di tetto, che sta cercando di svignarsela tra le tegole.
Povero me, ora mi diventa un passero, e vola via. Dov'è la rete? Via, via! Perdio, è più facile assediare Scione che mio padre.
Be', ora l'abbiamo cacciato dentro, e non c'è pericolo che ci scappi. Potremmo fare un sonnellino?
Macché; tra un po' arrivano i giudici, colleghi di mio padre, che vengono a chiamarlo.
Che dici? Ma se è ancora notte fonda.
Ti assicuro che sono in ritardo, oggi. In genere lo vengono a chiamare in piena notte, con le lucerne, e cantando vecchi e dolci motivi di Frinico, che servono da richiamo.
Bene; se è necessario, li prenderemo a sassate.
BD. Già, ma la razza dei vecchi, se la si stuzzica, è come un nido di vespe: hanno sotto i lombi un pungiglione acutissimo e con quello colpiscono, e saltano, urlano, attaccano come scintille.
Non ti preoccupare: se ho pietre a sufficienza, disperderò il vespaio dei giudici.
(Bdelicleone e il servo tornano a dormire, entra il Coro dei vecchi, accompagnato dai ragazzi)
Avanti, cammina, coraggio. Sei lento, Comia: per Zeus, una volta non facevi così, ma scattavi come un guinzaglio di cane; e ora Carinade cammina più svelto di te. Tu dicci, Strimodoro di Contile, il migliore di tutti noi: Evergide, Cabete di Flia, dove sono? È tutto qui, ahimè, ciò che ci resta di quella giovinezza, quand'eravamo a Bisanzio e facevamo la guardia, insieme. Una volta, andando in giro di notte, portammo via di nascosto il mortaio alla panettiera, lo rompemmo e ci cuocemmo i lupini. Su, facciamo presto, oggi è la volta di Lachete; tutti dicono che ha un alveare di quattrini. E il nostro patrono, Cleone, ci ha detto ieri di venire presto, con provviste di rabbia per tre giorni; dobbiamo punirlo delle sue colpe. Affrettiamoci dunque, amici miei, prima che venga giorno. Muoviamoci, e perlustriamo bene con la lanterna da tutte le parti, che non ci venga tra i piedi qualche sasso, e ci faccia male.
Papà, sta attento al fango.
Prendi da terra un fuscello, e smoccola la lucerna.
Ma no, lo faccio col dito.
Ma chi t'ha insegnato a toccare il lucignolo col dito, con tanta scarsità di olio che c'è, stupido? Già, quando tocca ricomprarlo, e a caro prezzo, non è a te che rode.
(Il corifeo picchia il ragazzo)
Perdio, se ci fate la lezione a suon di botte, spegniamo le lucerne e ce n'andiamo a casa, noi. E tu resterai al buio, a camminare nel fango come un pulcino.
In verità, io punisco gente assai più importante di te. Ma, a pestarlo coi piedi, questo mi pare fango. Non c'è dubbio; pioverà tra poco, quattro giorni al massimo. C'è muffa sui lucignoli, e quando c'è muffa capita sempre un acquazzone. Del resto per i frutti tardivi c'è bisogno d'acqua, e anche che soffi la tramontana. Ma che cosa è successo al nostro collega che abita in questa casa, che ancora non si è unito a noi? Prima, non occorreva tirarlo fuori, ma era sempre il primo della fila, cantando le canzoni di Frinico, perché gli piace la musica. Amici, fermiamoci qui e chiamiamolo fuori; se sente il nostro canto, per il piacere uscirà fuori della porta.
str.
Perché il vecchio non sta fuori, sulla soglia, e non ci risponde? Ha perso le scarpe, o battuto un piede nel buio, gli si è gonfiata una caviglia? Un attacco d'ernia, forse? Lui era il più aspro di tutti noi, e non si lasciava convincere; quando lo supplicavano, chinava la testa e diceva: «è come cuocere un sasso».
ant.
Non sarà per quell'uomo di ieri, che ci è sfuggito con l'imbroglio, sostenendo di essere un amico del popolo, e che per primo lui aveva svelato ciò che accadeva a Samo? Forse per il dolore è a letto con la febbre; capacissimo! Su, coraggio, alzati, non essere arrabbiato, non ti rodere. Oggi ci arriva tra le mani un grand'uomo, di quelli che hanno venduto la Tracia, fallo a pezzi!
(Al ragazzo)
Muoviti, ragazzo, andiamo.
str.
Papà, se ti chiedo una cosa, me la dai?
Ma sì, che vuoi di bello? I dadi, penso.
No, papà; mi piacciono più i fichi.
Neanche se t'impicchi.
E allora non ti accompagno più.
Ma io con uno stipendio da fame devo comprare da mangiare per tre, la farina e la legna. E tu vieni fuori coi fichi!
ant.
Ma allora, se l'arconte non convoca il tribunale, con che cosa mangeremo? Vedi una qualche via d'uscita, o la solita «via col vento»?
Ahimè, a dire il vero non so proprio da dove salterà fuori il pranzo, quest'oggi.
Perché mi hai partorito, madre infelice?
Per darmi il fastidio di mantenerti.
E questa borsa, allora, è un ornamento inutile.
Ahimè, ahimè, non ci resta che il pianto.
(Si affaccia Filocleone)
Amici miei, da tanto tempo sento la vostra voce da questo buco, e mi struggo. Non posso cantare con voi; che farò? Mi fanno la guardia, perché voglio venire con voi in tribunale, e fare del male a qualcuno. Ma tu Zeus, signore dei tuoni, fammi diventare fumo, come lo sono Prossenide e il figlio di Sello, quel mucchio di vane bugie. Signore, compatisci la mia pena, e fammi la grazia: distruggimi presto, col fulmine ardente, e soffiami via lontano, gettami in una salamoia calda. O trasformami in pietra, ma che sia di quelle su cui si fa il conto dei voti.
str.
Chi ti tiene rinchiuso, e t'impedisce di uscire? Parla, dillo agli amici.
Mio figlio. Ma non gridate. Dorme qui vicino; abbassate la voce.
Ma perché ti fa questo? E che scusa ha tirato fuori?
Non mi lascia fare il giudice, non mi lascia fare del male; è disposto a farmi fare la bella vita; ma sono io che non voglio.
Questo ha osato il maledetto demagogo? Dev'essere perché hai svelato la verità sulla faccenda delle navi. Non avrebbe il coraggio di dirlo, se non fosse un cospiratore. Ma ora è tempo che tu pensi un nuovo disegno, che ti permetta di scendere di nascosto da lui.
E quale? Cercate voi; per me sono pronto a tutto: ho tanta voglia di girare in mezzo agli avvisi, col voto.
Non c'è un buco che tu possa allargare da dentro, e uscire travestito, come l'ingegnoso Odisseo?
È tutto sbarrato; buchi non ce n'è, neppure da far passare un moscerino. Bisogna trovare qualcos'altro. Ma buchi niente, neanche nella groviera.
Ti ricordi quando sotto le armi rubasti quegli spiedi e ti gettasti giù dal muro, sveltissimo? Fu alla presa di Nasso.
Lo so, ma che c'entra? Da allora è tutto cambiato. Ero giovane, valido nel rubare, forte, e nessuno mi faceva la guardia: potevo svignarmela tranquillo. Ora ci sono uomini armati in assetto di guerra che sorvegliano le uscite: e questi due sulla porta mi tengono d'occhio con gli spiedi in mano, come una gatta che ha rubato la carne.
ant.
Ma su, trova anche ora un rimedio, al più presto; è già l'alba, amico mio.
Il meglio è ancora rodere le corde; e Core mi perdoni.
Questa è una scelta da uomo deciso a salvarsi. Forza con le mascelle.
Questo pezzo l'ho già rosicchiato. Ma non gridate; e attenti che Bdelicleone non se ne accorga.
Non avere paura; se apre bocca gli faccio mangiare il fegato e prendere la fuga alla svelta: imparerà a rispettare le leggi degli dèi.
Ora attacca la fune alla finestra, legati e calati giù, col cuore pieno di Diotaiuti.
Ma se quei due se ne accorgono, e cercano di ripescarmi e riportarmi dentro, voi che farete?
Corriamo in tuo aiuto, chiamando a raccolta i nostri cuori, duri come querce; e nessuno potrà tenerti chiuso: questo faremo!
Agirò dunque, perché ho fiducia in voi; ma se mi capita qualcosa, rendetemi esequie ed onore di pianti; e seppellitemi sotto il cancello del tribunale.
Non aver paura, non ti succederà niente. Coraggio, calati; ma prima invoca gli dèi della tua stirpe.
Eroe Lico, mio vicino di casa: tu, come me, godi delle lacrime e dei gemiti degli imputati; e proprio per questo, per sentirli, hai preso dimora qui; solo tra gli eroi hai voluto stare vicino a chi piange. Abbi pietà di me, salva il tuo vicino, e io prometto che non piscerò e non scorreggerò più nel tuo recinto.
(Dall'alto, al servo)
Sveglia.
Che c'è?
Mi è parso di sentire in giro una voce. Non è che il vecchio sia scappato, per caso?
Scappato no, ma si è legato a una corda e sta calandosi giù.
(A Filocleone)
Maledizione che fai? Scendi?
(Al servo)
Tu, sali dall'altra parte, subito; picchialo con le frasche, fagli cambiare rotta.
Voi tutti, che avete intentato cause quest'anno, Smicitione, Tisiade, Cremone, Feredipno; che aspettate a venirmi in soccorso, prima che mi riportino dentro?
str.
Di', che aspettiamo a scatenare la nostra collera, come quando qualcuno stuzzica un vespaio? Ecco subito è teso il pungiglione acuto, la nostra arma.
(Si tolgono i mantelli)
Prendete subito i mantelli, ragazzi, correte, gridate, andate a dire a Cleone che venga di persona, contro uno sciagurato, nemico della patria, che sostiene che non si devono fare processi.
(Entra Bdelicleone)
Amici miei, state a sentire come stanno le cose. Non gridate.
Fino al cielo, anzi.
Tanto, io non lo lascio andare.
Ma è una cosa tremenda, una tirannia vera e propria. O patria, o Teoro odioso agli dèi, o qualunque altro adulatore ci governa!
Padrone, lo vedi? Hanno il pungiglione.
Già con quello hanno fatto a pezzi in processo Filippo, il discepolo di Gorgia.
Anche te faremo a pezzi. Tutti da questa parte e fuori il pungiglione. Diamogli addosso in ordine compatto, pieni di rabbia e di coraggio; impari che razza di vespaio è andato a stuzzicare.
Ce la vedremo brutta, se facciamo a botte; quei pungiglioni mi fanno una gran paura.
(A Bdelicleone)
Lascialo andare: se no, ti troverai a invidiare il guscio delle tartarughe.
Su dunque, amici giudici, vespe furiose: colpiteli con rabbia al culo, agli occhi, alle dita, tutt'intorno.
Aiuto! Mida, Frigio, Masintia, prendetelo e non lasciatelo andare; se no, resterete senza pranzo, e in ceppi. È un rumore di foglie, e nulla più.
Se non lo lasci andare, ti pianteremo qualcosa nel corpo.
Cecrope, eroe dai piedi di serpente, sopporti che sia vittima di barbari, ai quali le ho suonate di santa ragione, un tempo?
Certo, la vecchiaia è piena di guai. Guarda per esempio questi due che hanno afferrato a forza il loro vecchio padrone, e si sono scordati le giubbe, le tuniche, i berretti che comprava per loro. E d'inverno badava che non avessero i geloni ai piedi. Ma non hanno pudore, né rispetto, neppure per le scarpe di un tempo.
Ma mi vuoi lasciare libero, bestiaccia? Non ricordi quando ti ho colto a rubare l'uva e ti ho legato a un ulivo e frustato a regola d'arte, che facevi invidia a guardarti? Ma tu non hai nessuna riconoscenza.
(Al 1º Servo)
Lasciatemi andare voi due, prima che venga mio figlio.
Per tutto questo la pagherete cara, e presto. Saprete allora qual è il carattere di uomini come noi, giusti e iracondi, con la faccia feroce.
Dai, Xantia: caccia di casa le vespe.
È quello che sto facendo.
E tu soffocale con un gran fumo.
Via, via; ve ne volete andare? Alla malora!
Picchia col bastone. E per fascina getta sul fuoco Eschine, il figlio di Sellartio.
Lo sapevo che prima o poi vi buttavamo fuori.
ant.
Sì, ma non ci saresti riuscito così facilmente, se avessero ingoiato i carmi di Filocle.
Non è chiaro per la povera gente che la tirannide s'insinua di nascosto, dal momento che tu, sciagurato che porti i capelli come Aminia, ci vuoi togliere le leggi che ci ha date la città, e senza alcuna ragione, senza neppure una scusa, vuoi governare da solo?
Ma non potremmo discutere tra noi, senza risse e grida, e venire a un accordo?
Discutere con te, nemico del popolo e fautore della monarchia, amico di Brasida, che porti vesti con le frange, e ti fai crescere la barba?
Quasi quasi sarebbe meglio lasciar perdere mio padre, piuttosto che dover battagliare ogni giorno con tanti malanni.
Non sei nemmeno al prezzemolo e alla ruta (wenti che bel modo di dire); quello che patisci ora è niente: vedrai quando sarà l'accusatore a rovesciarti addosso queste stesse parole, e a incriminarti per cospirazione.
Per gli dèi, ve ne volete andare? O è deciso che io debba tormentarvi ed essere tormentato per tutta la giornata?
No certo, finché resta qualcosa di noi; in questo modo tu ti prepari alla tirannide.
Già, per voi, qualunque sia l'accusa, grande o piccola, tutto è tirannide e tutto è cospirazione. In cinquant'anni non ne ho sentito neppure il nome, e ora è a più buon mercato del pesce in salamoia, tanto la parola circola per la piazza. Metti che qualcuno non voglia sardine, e compri degli scorfani: ecco subito il venditore di sardine, lì accanto, che borbotta: «costui sta facendo provviste per farsi tiranno». E se uno chiede una cipolla da mettere insieme alle alici, l'erbivendola lo guarda di traverso e fa: «Una cipolla, vuoi? Ma allora vuoi farti tiranno, e pensi che Atene sia in obbligo di fornirti il condimento?».
Ieri a mezzogiorno una puttana, perché le avevo chiesto di cavalcarmi, s'arrabbiò a morte, e mi chiese se quest'amore per l'ippica non voleva dire mirare al potere di Ippia.
È questo che amano sentire; e se io voglio che mio padre si liberi dalla smania molesta di alzarsi presto e farsela con sicofanti e tribunali e viva invece un'esistenza tranquilla come Morico, subito lo faccio perché sono un cospiratore e ambisco alla tirannide.
Proprio così; quanto a me neanche il latte di gallina preferirei alla vita che tu mi vuoi togliere: non mi piacciono le anguille, né le sogliole; invece mi mangerei volentieri un processino affogato in casseruola.
È l'abitudine che te li fa piacere. Ma se vuoi startene zitto e ascoltare quel che dico, capirai che stai facendo un grosso sbaglio.
È uno sbaglio fare il giudice?
Non vedi che ti pigliano in giro, quelli che tu adori? Sei un servo, e non te ne accorgi.
Smetti di parlare di servitù: al contrario, io comando a tutti.
No; credi di comandare, e sei servo. Avanti, spiegami quale profitto ricavi dal governo dello stato.
Grandissimo; e chiamo costoro ad arbitri della questione.
Sta bene.
(Ai servi)
Lasciatelo andare.
Datemi una spada; se sarò sconfitto dai tuoi argomenti, mi ci getterò sopra.
E se non ti attieni al giudizio degli arbitri?
Che non possa più bermi il mio salario in onore del dio!
str.
Tu che sei il nostro campione, devi dire qualcosa di originale, perché si veda...
(Ai servi)
Portatemi subito tutto l'occorrente per scrivere.
(A Filocleone)
Perché si veda che cosa, a sentir voi?
Non parlare come questo ragazzo. Tu vedi quale prova ti attende: sono in gioco i valori più alti, e lui vuole vincere
(Dio ne scampi!)
Tutto quello che dice me lo voglio segnare, per ricordarmelo.
Ma dite, se mio figlio mi vince nella disputa?
La turba dei vecchi non conterà più niente; ci prenderanno in giro per le strade dicendo che siamo scartoffie giudiziarie buoni solo a portare rami d'ulivo. Ma tu, che ti accingi a difendere tutto il nostro potere, coraggio, metti alla prova la tua lingua.
Subito, fin dall'inizio, dimostrerò che il nostro potere non è inferiore ad alcuno. Chi è più felice, più beato di un giudice, più temuto e vezzeggiato anche nella vecchiaia? Innanzitutto, la mattina, appena alzato dal letto, ci sono pezzi grossi che mi aspettano ai cancelli del tribunale. Non faccio tempo ad avvicinarmi che qualcuno mi tende la mano molliccia, che ha rubato denaro pubblico. Si chinano e mi supplicano gemendo: «Abbi pietà di me, padre mio, se anche a te è mai capitato di rubare esercitando una carica o facendo il furiere nell'esercito». E costui neanche saprebbe che io sono al mondo, se non fosse che la volta prima l'ho già... assolto.
Bisogna che me la segni, questa faccenda delle suppliche.
Una volta entrato, quando le preghiere mi hanno fatto sbollire l'ira, di tutto quello che ho detto non ne faccio niente, ma sto a sentire cosa dicono per essere assolti. Quali piaggerie non si trova ad ascoltare un giudice? C'è chi piange miseria e ai guai veri ne aggiunge altri, finché non riesce a pareggiare i miei. Chi racconta un aneddoto, o una favola d'Esopo, chi fa dello spirito, nella speranza che io rida e deponga la collera. Se non ci lasciamo convincere, tirano fuori i bambini, tenendoli per mano, maschi e femmine. E io sto a sentire. Belano a capo chino, mentre il padre mi prega come un dio, tremando, di assolverlo per amor loro dall'accusa: «se ti piace la voce dell'agnello, abbi pietà di mio figlio; se ami lo squittio della topina, dà retta a mia figlia». E noi, allora, cominciamo ad allentare la rabbia. Non è un grande potere questo? Non significa essere superiori alle ricchezze?
Voglio scrivere anche il secondo punto: «essere superiori alle ricchezze». Ora dimmi: quale profitto ricavi dal governo della Grecia?
Quando i ragazzi passano la visita ci godiamo lo spettacolo dei loro genitali. Se l'imputato, fa conto, è Eagro, non lo assolviamo prima che ci abbia recitato il più bel pezzo della Niobe. Se un flautista vince una causa, si mette la museruola e saluta a suon di musica l'uscita della corte. Se nel testamento un padre affida a qualcuno la figlia ereditiera, noi mandiamo a farsi fottere il testamento e il sigillo messovi sopra con tanta pompa e la ragazza la diamo a chi ci persuade con le suppliche. E di tutto questo non dobbiamo rendere conto a nessuno. Nessun potere sta alla pari del nostro.
Questa sì, tra tutte quelle che hai detto, è una grossa cosa, e t'invidio; mandare a farsi fottere l'ereditiera, però, non è una bella cosa.
Quando il consiglio e il popolo sono incerti su una faccenda importante, si vota di rinviare i colpevoli ai giudici. Allora Evatlo e il grande Cleonimo, quel ruffiano che ha gettato lo scudo, giurano che non ci abbandoneranno, che combatteranno sempre per il popolo. In assemblea non c'è verso di riportare la maggioranza se non si propone insieme di sciogliere i tribunali dopo la discussione della prima causa. E Cleone, che governa a forza di urli, noi soli non ci sbrana, ma anzi ci protegge, ci porta in palmo di mano e ci scaccia le mosche. Tu, a tuo padre non hai mai fatto niente del genere. E Teoro - che è persona non meno importante di Eufemio - con la spugna e il catino in mano ci pulisce le scarpe. Guarda dunque quali vantaggi mi vuoi togliere. E dicevi che eri in grado di dimostrare la mia condizione di schiavo!
Va bene, sfogati con le parole; la smetterai prima o poi con questa ostentazione di potere, e allora farai la figura del culo che non si riesce a lavare.
Dimenticavo il meglio: quando torno a casa col salario tutti mi fanno feste (per i quattrini); prima mia figlia mi lava e profuma i piedi, mi vezzeggia, si china a baciarmi, mi chiama «papà caro», e con la lingua mi pesca in bocca le monete. Mia moglie mi coccola, mi offre una focaccia, e insiste, sedendosi accanto a me: «mangia questo, mangia quest'altro». E io sono tanto contento di non dover dipendere da te e dal dispensiere, che mi serve il pranzo mugugnando e imprecando, per paura di dovermi preparare qualcos'altro. Questo è il mio baluardo contro i mali, questo il mio scudo contro i dardi. Se tu non mi vuoi dare da bere, io mi sono portato un'anfora a forma d'asino, piena di vino; e mi servo da me; lui, a bocca aperta, raglia alla faccia della tua brocca, e lancia una scorreggia di guerra. Non è vero che il mio potere è grande, e non inferiore a quello di Zeus, dal momento che mi considerano come Zeus? Se strepitiamo, i passanti dicono: «Zeus, come tuona il tribunale!». Se scagliamo i nostri fulmini, tutti fanno scongiuri e si cacano sotto, anche ricchi e persone autorevoli. E anche tu mi temi; sì, pe r Demetra, mi temi. E a me venga un colpo se ho paura di te.
Mai si è sentito parlare così chiaro e bene.
ant.
Lui credeva di vendemmiare in una vigna abbandonata; però sapeva bene che io sono bravissimo a parlare.
Come hai spiegato ogni cosa, senza dimenticare nulla! A sentirti parlare mi esaltavo; e mi pareva di essere giudice nelle isole dei beati, tanto era il piacere delle tue parole.
Come si agita, non è più in sé.
(A Bdelicleone)
Oggi credo che assaggerai la frusta.
(A Bdelicleone)
Bisogna che tu tessa trame di ogni genere, per essere assolto. Chi non parla come voglio io, è difficile che riesca a placarmi.
Per te è il momento di cercarti una mola nuova di zecca per macinare la mia collera, se non hai argomenti da portare.
È davvero difficile, e richiede un ingegno superiore a quello del poeta comico, guarire una malattia antica, radicata nella nostra città. Ma tu, padre nostro, figlio di Crono...
Non venire a parlarmi di padri, fammi il piacere! Se non dimostri alla svelta che io sono servo, non scamperai alla morte, anche se dovessi essere escluso dai banchetti nei sacrifici.
Stammi a sentire, papà, spiana un poco la fronte. Calcoliamo alla buona, senza fare conti precisi, ma sulla punta delle dita, quant'è la somma dei tributi che ci versano le città alleate. Poi, a parte, le tasse, le decime, i depositi, le miniere, i mercati, i porti, le rendite, le confische. Il totale è all'incirca di duemila talenti. Togli ora il salario annuale dei seimila giudici (di più non ce n'è): sono centocinquanta talenti.
Come? Il nostro salario non è neanche il dieci per cento delle entrate?
Eh no.
E il resto dove va a finire?
A quelli che dicono: «mai tradirò le masse ateniesi; combatterò per il popolo, sempre». Questi sono i padroni che tu ti scegli, lasciandoti raggirare dalle loro parole. Loro si fanno corrompere dalle città alleate a cinquanta talenti per volta, minacciando e spargendo il terrore. «Pagate il tributo, o tuonerò sulla vostra città, la raderò al suolo». Intanto, tu sgranocchi contento le briciole del potere. E gli alleati, vedendo che la massa della popolazione vive dello stipendio da giudice e non ha niente di buono da mettere sotto i denti, ti calcolano quanto il voto di Conno, mentre a loro portano in dono pesce marinato, vino, tappeti, formaggio, miele, sesamo, cuscini, coppe, mantelli, corone, collane, tazze e ogni ben di dio. E quelli che tu governi, dopo che molto hai sofferto per mare e per terra, non ti danno nemmeno un capo d'aglio per condire il pesce.
È vero, per Dio; giusto ieri l'aglio l'ho dovuto chiedere in prestito a Eucàride. Però mi dai noia, senza dimostrare la mia schiavitù.
E non è una schiavitù intollerabile che questi occupino tutte le cariche, loro e i loro adulatori stipendiati? E tu ti accontenti di tre oboli, e te li sei sudati, remando, combattendo, assediando le città nemiche. Ma quello che più mi dispiace, è che tu ti muovi agli ordini di questi; ti arriva il figlio di Chèrea, che è un ragazzotto scostumato, che cammina a gambe larghe e sculetta così (imita il gesto); e ti impone di arrivare puntuale per la causa. «Chi di voi arriverà dopo il segnale, non avrà i tre oboli». Lui però la sua dracma come avvocato la piglia anche se arriva in ritardo; e quando l'imputato porta la sua bustarella, la spartisce con qualche magistrato par suo e in due si danno da fare per sistemare la faccenda; come quando si sega, che uno tira e l'altro aiuta. Intanto tu resti a bocca aperta a guardare il cassiere, e non vedi quello che succede.
Questo mi fanno? Che dici! Mi turbi le viscere, mi conquisti la mente; insomma, non so più cosa mi fai.
Pensa un po': tu e tutti quanti potreste essere ricchi, e invece vi fate prendere in giro, non so come, dai demagoghi. Sei padrone di molte città, dal Ponto alla Sardegna; ma non ne ricavi niente, a parte quel misero stipendio che ti danno. E te lo danno come l'olio sulla lana, goccia a goccia, l'indispensabile per sopravvivere. Ti vogliono povero, e il perché te lo dico io: perché tu conosca il padrone, e quando lui fa un fischio e ti aizza contro un nemico, tu gli salti addosso più rabbioso. Se invece volessero il bene del popolo, non ci vorrebbe nulla; ci sono mille città che ci pagano tributo: basterebbe imporre ad ognuna di pensare al sostentamento di venti cittadini; ecco che ventimila uomini vivrebbero mantenuti a carne di lepre, a colostro e caglio, cinti di corone: una vita degna di Atene e della vittoria di Maratona. Ora invece sembrate raccoglitori di olive, e andate dietro a chi vi paga il salario.
Che mi succede? Una specie di torpore mi prende la mano, non riesco a reggere la spada. Non ho più forze.
Quando hanno paura per sé, sono pronti a promettervi l'Eubea e cinquanta medimni di grano a testa. Ma quanto a darli davvero, non ne hanno mai distribuiti più di cinque, e a fatica, un po' alla volta, e d'orzo per giunta, inventandosi che eri straniero. Questa è la ragione per cui ti tengo chiuso; volevo mantenerti io e non farti prendere in giro da questi buffoni. E sul serio, voglio soddisfare i tuoi desideri, tranne che darti il latte... di cassiere.
Era un saggio chi disse: «non giudicare mai prima di avere sentito gli argomenti di tutt'e due le parti». Hai vinto di gran lunga, questo è il mio parere. Lascio cadere la mia ira, e i bastoni pure. Quanto a te, mio caro compagno e coetaneo,
str.
dai retta a queste parole, non essere sciocco, né troppo duro e ostinato. L'avessi io un parente o un amico che mi desse di questi consigli! C'è un dio che ti assiste in questa faccenda, un dio benevolo, è chiaro. E tu collabora, accetta.
Io lo nutrirò dandogli tutto quello che va bene per un vecchio; pappette da leccare, un mantello soffice, una pelliccia, una puttana che gli massaggi i lombi e l'arnese. Ma sta zitto, non spiaccica parola: questo non mi piace.
ant.
No, si rimprovera da sé per la sua passata pazzia. Ora ha capito e segna come errore tutte le volte che non ha dato retta ai tuoi consigli. Ma ora forse ti ascolterà e rinsavirà, cambiando atteggiamento per il futuro. Ti darà retta, insomma.
Ahimè.
Che gridi?
No, non mi promettere nulla di ciò. Una cosa sola desidero: essere là, dove l'araldo proclama: «chi ancora non ha votato? Si alzi». Vorrei essere in piedi accanto all'urna; vorrei votare, fosse pure per ultimo. Coraggio, anima mia. Dove sei? «Lascia, selva tenebrosa»... Per Eracle, meglio rinunciare a cogliere in flagrante quel ladro di Cleone, sedendo in giudizio.
Papà, in nome degli dèi, dammi retta.
In che? Tutto quello che vuoi, tranne una cosa sola.
Quale?
Che io rinunci a fare il giudice. Di questo giudicherà la morte, prima che ti dia retta.
Se questo è il tuo piacere, facciamo così: non andare più in tribunale; resta in casa e giudica i servi.
Ma su che cosa? Che sciocchezze sono?
Sui medesimi argomenti che trattavi là. Metti che la guardia abbia aperto la porta di nascosto; le infliggerai una semplice marchetta. È quello che facevi in tribunale tutti i giorni; ma lo farai con più logica. Se il tempo è buono, giudichi sedendo all'aperto, al sole; se nevica, sedendo presso al fuoco. E se si mette a piovere, tu rientri in casa; e se pure ti svegli a mezzogiorno, non c'è un presidente che ti lascia fuori dai cancelli.
Questo mi piace.
Inoltre, se gli avvocati la tirano troppo in lunga, non rimani a soffrire la fame, senz'aver altro da mordere che te stesso... e il difensore.
Ma come farò a giudicare rettamente la causa, come facevo un tempo, mentre mastico?
Anzi, meglio di prima. Non si dice che quando i testimoni sono falsi, i giudici riescono a capire bene la causa, solo se ne masticano molto?
Hai ragione; non mi hai detto però ancora chi mi darà lo stipendio.
Io.
Benissimo. Tanto più che così lo prenderò per conto mi o, e non insieme ad altri; come quando quel burlone di Lisistrato mi ha fatto uno scherzo ignobile; l'altro giorno riscuote una dracma insieme a me; va a cambiarla al mercato del pesce e mi rifila tre squame di muggine. Io, prendendole per oboli, me le caccio in bocca. Avverto un odore spaventoso e le sputo fuori. Ma gli ho fatto causa!
E come si è difeso?
Dicendo che ho uno stomaco di struzzo e ha aggiunto: «Fai presto a digerire il denaro».
Vedi che anche in questo ci guadagni.
E come! Fa come vuoi.
Aspetta: vado a prenderti tutto l'occorrente.
(Esce)
Ma guarda un po', come si realizzano gli oracoli! Avevo sentito dire una volta che gli Ateniesi un giorno avrebbero fatto i processi nelle loro case, e che ognuno nell'ingresso si sarebbe costruito un piccolo tribunale, come i tempietti di Ecate che stanno dappertutto, davanti alle porte.
(Rientra Bdelicleone)
Ecco qui, ti serve altro? Ti porto tutto quello che ho promesso, e in più altra roba. Se hai bisogno di pisciare, il pitale sta appeso al chiodo, qui vicino.
Buona idea: per un vecchio è il rimedio che ci vuole contro la stranguria.
Ed ecco il fuoco; c'è sopra a cuocere un passato di lenticchie, se ne hai voglia.
Bene anche questo; così anche quando ho la febbre, prendo lo stesso il mio salario e senza muovermi di qui mi mangio le lenticchie. Ma il gallo perché me lo portate?
Perché se tu ti addormenti durante un'arringa di difesa, lui di lassù canta e ti sveglia.
Va tutto bene; ma vorrei ancora una cosa.
Che cosa?
Se puoi portarmi fuori l'immagine di Lico.
Eccolo qui, c'è anche lui in persona.
Eroe, nostro signore, come sei tremendo a vedere!
Tale e quale Cleonimo.
Eppure, eroe qual è, non ha gli arnesi... da battaglia.
Se ti fossi insediato un po' più in fretta, avrei già chiamato la causa.
Chiamala, sono pronto da un bel po'.
Vediamo un po' quale causa gli si può chiamare per prima. Chi ha combinato qualche guaio in casa? La serva tracia, ieri, ha fatto bruciare la pentola.
Fermo, che per poco non mi fai morire. Ti metti a chiamare una causa senza la sbarra, lo strumento più sacro di tutti, per noi!
Non c'è, per Zeus.
Corro in casa a prenderla, subito.
(Esce)
Ma guarda che cosa terribile è l'abitudine!
(Entra un servo)
Maledizione, che si debba mantenere un cane del genere!
Che c'è?
Il cane Ladrete poco fa è piombato in cucina, ha rubato una forma di cacio siciliano, e se l'è fatta fuori.
(Al servo)
Ecco quale sarà la prima causa da introdurre a mio padre. E tu farai l'accusatore.
Io no, ma c'è l'altro cane che vuol sostenere lui l'accusa, se si farà il processo.
Allora, portameli qui tutti e due.
Sarà fatto.
(Esce, rientra in scena Filocleone)
E questa che è?
La gabbia per i porcellini di Estia.
L'hai rubata al tempio?
No; il fatto è che voglio mettere in gabbia qualcuno. Su, introduci l'imputato. Già intravedo una multa.
Aspetta, ti porto gli avvisi e gli atti di accusa.
(Esce)
In malora! È un tormento per me, il tempo che perdi. Io già volevo tracciare un solco nel mio possesso.
(Rientrando)
Ecco qui.
Chiama la causa.
Bene. Chi è il primo?
Maledizione, che seccatura. Ho dimenticato di prendere le urne.
(Fa per rientrare in casa)
Dove corri?
A prendere le urne.
Ma no; ho qui pronte queste ciotole.
Bene; allora c'è tutto quello che serve, tranne la clessidra.
(Indicando il pitale)
E questo che è? Non va bene come clessidra?
Bisogna dire che provvedi a tutto, in modo conforme alle nostre usanze.
Qualcuno porti subito il fuoco, il mirto, l'incenso: per prima cosa invocheremo gli dèi.
Anche noi tra libagioni e preghiere facciamo voti felici per voi, che nobilmente dopo la battaglia e la rissa vi siete messi d'accordo.
str.
Per prima cosa si faccia silenzio.
Febo Apollo, Pizio, fa che ciò che si compie davanti a questa porta si compia con buona fortuna. Fa che possiamo liberarci dai nostri vagabondaggi. Io Pean.
Signore Agieo, nostro vicino, guardiano del mio atrio, accetta questo nuovo rito, che si inaugura oggi per mio padre. Fa che receda dal suo carattere duro come la quercia, e sul suo animo versa del miele, come sul vino cotto; che d'ora in poi sia mite verso gli uomini e gli ispiri simpatia l'accusato più dell'accusatore; pianga alle suppliche, e smetta la bile, e tolga l'ortica alla sua indole.
ant.
Anche noi, per quanto già detto, innalziamo voti e preghiere per la nuova carica.
(A Bdelicleone)
Ti vogliamo bene da quando abbiamo visto che tu ami il popolo come nessun altro tra i giovani.
Se fuori c'è ancora qualche giudice, che entri. Una volta cominciate le arringhe, non potrà più entrare nessuno.
Chi è l'imputato?
(Entrano i due cani)
Eccolo.
Come lo si fotte!
Do lettura dell'atto d'accusa: «Il cane di Cidatene accusa Ladrete, cane di Essone, di essersi mangiato da solo il formaggio siciliano. Pena proposta: un collare di legno di sicomoro».
Macché collare! Piuttosto una morte da cane, come suol dirsi, solo che lo si riconosca colpevole.
L'accusato Ladrete è presente.
Sciagurato, che faccia da ladro! Come digrigna i denti; pensa di fregarmi, è chiaro. E l'accusatore, il cane di Cidatene?
Bau bau.
È presente.
Uhm, è un altro Ladrete, questo qui.
Però è bravo ad abbaiare...
E a leccare le pentole.
Silenzio, siediti. E tu, sali la tribuna e pronuncia l'arringa d'accusa.
(Intanto, io mi verso il passato, e me lo mangio.)
Avete udito, giudici, qual è l'accusa contro costui. I crimini più spaventosi ha commesso, contro di me e contro i marinai. Nascosto in un angolo, si è fatto fuori il formaggio siciliano, abboffandosi nell'ombra.
Ma certo, per Zeus: questo disgraziato mi ha appena ruttato in faccia un tremendo odore di formaggio.
E a me nulla, nonostante le mie richieste. Ora se non ha dato niente a me che sono cane, come potrà mai far del bene a voi?
Ma neanche a me ha dato niente, che pure sono uomo pubblico. È una testa calda... non meno di queste lenticchie.
Per gli dèi, papà, non giudicare prima di avere sentito tutte e due le parti.
Ma qui la faccenda è chiara; parla da sé.
Non lo assolvete, no: è l'uomo, tra tutti i cani, di gran lunga il più ingordo: pensate che ha fatto il periplo attorno al mortaio e si è masticato tutta la crosta... delle città.
Col mastice? E pensare che io non ne ho neppure abbastanza per riparare l'orcio.
Per questo dovete punirlo, e anche perché una siepe sola non può mantenere due... ladri. Fate che io non abbia abbaiato a vuoto. Se no, non lo farò più.
Ohibò, di che delitti lo accusa! È il furto fatto persona; non pare anche a te, caro il mio gallo? Lui annuisce. Ma il presidente dov'è finito? Voglio il pitale.
Prendilo da te. Ora chiamo i testimoni a discarico: il piatto, la grattugia, il pestello, la graticola, la pentola e tutti gli altri utensili da cucina. Ma tu ancora stai pisciando; vuoi sederti?
Se è per questo, lui si cacherà addosso, oggi.
Quando la smetterai di essere duro e bisbetico verso gli imputati, e di mostrargli i denti?
(A Ladrete)
E tu sali sulla tribuna, e difenditi. Perché taci?
Perché non ha niente da dire, chiaramente.
Mi sembra che gli sia successo quello che una volta capitò a Tucidide, quando fu messo sotto accusa, che di colpo fu preso da una paralisi alle mascelle. Scendi, allora; parlerò io in tua difesa. È assai difficile, giudici, prendere le difese di un cane calunniato; ma tuttavia parlerò. Ladrete è un buon cane, e dà la caccia ai lupi.
È un ladro e un cospiratore.
Nossignore: è il migliore tra i cani d'oggigiorno, ed è capace di sorvegliare molte pecore.
A che serve, se poi si ruba il formaggio?
A che serve? Combatte per te, ti custodisce la porta e in ogni altro compito è eccellente. E se ha rubato, perdonalo; non è istruito, non gli hanno insegnato a suonare la cetra.
Sarebbe meglio che non gli avessero neanche insegnato a leggere e a scrivere; così non falsificava i conti.
Ma insomma, sta a sentire i testimoni. Tu, grattugia, sali la tribuna e parla forte. Tu eri la dispensiera. Ora, dicci chiaramente: quello che ti davano lo grattugiavi per i soldati? Dice di sì.
E dice il falso.
Orsù, abbi pietà degli afflitti. Il qui presente Ladrete mangia anche teste e lische di pesce, e non sta mai fermo. Quell'altro sa solo montare la guardia alla casa, da fermo. E chi entra a portare qualcosa, deve dargli la sua parte. Se no, morde.
Ohibò, cos'è questa maledetta mollezza che mi piglia? Mi si insinua una sorta di malore, e mi sto lasciando convincere.
Padre, ve ne supplico, abbiate pietà di lui, non lo rovinate. Dove sono i bambini? Su, venite avanti, poverini e pregate, supplicate, balbettate, piangete.
Scendi, scendi, scendi, scendi.
Scenderò. Anche se questo «scendi» ha ingannato in passato molte persone. Ma via, scenderò lo stesso.
Al diavolo, mi fa male mangiare, ho le lacrime agli occhi; ne ho prese troppe, di lenticchie.
Allora l'accusato è assolto?
Non si può sapere.
Su, papà; vai dalla parte dell'urna benigna; prendi il voto, chiudi gli occhi e buttalo là dentro. Assolvilo, via.
Neanche per idea; neanch'io sono istruito e non mi hanno insegnato a suonare la cetra.
Allora vieni, che ti accompagno per la via più breve.
Questa è la prima urna?
Sì.
Allora depongo il voto qui dentro.
(L'ho fregato. L'ha assolto senza volerlo)
. E ora vuotiamo le urne.
Com'è andata a finire?
Ora vediamo.
(Vuota le urne)
Sei stato assolto, Ladrete.
(Filocleone sviene)
Papà, papà, che ti succede? Presto, dell'acqua. Su, torna in te.
Dimmi dunque: davvero è stato assolto?
Certo.
Sono finito.
Ma no, non te la prendere, tirati su.
Come potrò rendere conto a me stesso di avere assolto un imputato? Che sarà di me? Perdonatemi, dèi venerati: l'ho fatto senza volerlo, e contro mio costume.
Non te la prendere, papà. Io ti nutrirò sontuosamente, ti porterò dappertutto, a cene, banchetti, processioni. Così passerai lietamente il resto dei tuoi giorni; e quell'imbroglione di Iperbolo non ti piglierà più per il culo. Coraggio, andiamo.
E sia, se così dev'essere.
(Entrano in casa)
Addio, andate dove volete, e siate felici. E voi, masse innumerevoli, badate a quanto di buono stiamo per dirvi, che non vada perduto. Ma questo succederebbe con gente rozza, non con voi.
Ora fate attenzione, se amate la schiettezza. Il poeta desidera rivolgere un rimprovero a voi spettatori. Dice che l'avete trattato ingiustamente, lui che per il passato vi aveva fatto tanto bene: in principio non apertamente, ma aiutando di nascosto altri poeti. Come il profeta Euricle si è insinuato nel ventre di altri e vi ha versato un mare di spirito. Poi invece è uscito allo scoperto, e affrontando i rischi in prima persona si è messo alle redini della propria musa, non più di quella altrui. Salito in grande fama e onorato tra voi come nessun altro mai lo è stato, può dire di non essere insuperbito, di non essersi montato la testa; e tanto meno è andato a far baldoria per le palestre; e se qualcuno in lite con l'amante si è rivolto a lui per farlo prendere in giro nella commedia, non gli ha mai dato ascolto, serbando un animo retto per non fare della sua musa una ruffiana. Quando cominciò a rappresentare le sue commedie, non se la prese con gente dappoco, ma con impeto erculeo attaccò i più potenti, e subito dall'inizio entrò in guerra contro la belva dai denti aguzzi, con gli occhi come quelli di Cinna, che folgoravano, e intorno cento teste di sciagurati adulatori gli leccavano il capo; una voce di torrente in tempesta, un odore di foca; i coglioni sporchi di Lamia e il culo di cammello. Alla vista del mostro non ebbe paura e non si lasciò corrompere, ma continua a combattere ancora per voi. L'anno scorso si è scagliato contro incubi e febbri che di notte soffocano i padri e strozzano i nonni, e chinandosi sui letti della gente tranquilla ammucchiano giuramenti, denunce, testimonianze; così che molti balzano in preda al terrore e si precipitano dal polemarco. E voi che avete trovato un tale difensore, un tale liberatore della patria, l'altro anno l'avete tradito il poeta; proprio quando seminava le sue idee più nuove non le avete comprese e le avete stroncate sul nascere. Eppure lui, tra una libagione e l'altra, giura per Dioniso che nessuno ha mai sentito una commedia migliore. È una vergogna per voi non averla capita subito; ma i saggi il poeta non lo stimano meno per questo, anche se, proprio mentre stava oltrepassando i rivali, ha visto infrangersi le sue intenzioni. Per l'avvenire, amici miei, amate ed onorate di più quei poeti che ricercano qualcosa di nuovo; conservate il loro pensiero, riponetelo nelle casse assieme ai cedri. Se farete così, i vostri abiti avranno per tutto l'anno un buon odore d'intelligenza.
str.
Noi che una volta eravamo valenti alle danze e valenti in battaglia, e soprattutto in questo coraggiosissimi... Così era un tempo, lontano. Ora è trascorso, e questi capelli fioriscono più bianchi dei cigni. Eppure anche da questi resti bisogna trarre una forza giovanile. Io credo che questa vecchiaia valga assai più dei riccioli di molti giovani, e molto più della loro aria da rottinculo.
Se qualcuno di voi spettatori nel vederci si meraviglia che abbiamo la vita sottile come quella di una vespa e chiede cosa significhi il pungiglione, glielo spiegheremo facilmente, «anche se prima non ne sapeva nulla». Noi che portiamo questa appendice siamo i soli veri Attici autoctoni, razza arditissima che ha salvato la città in guerra, quando il barbaro la incendiò e soffocò nel fumo, sperando di distruggere a forza i nostri vespai.
Subito accorremmo, «armati di lancia e scudo», li affrontammo in battaglia, imbevuti di rabbia acuta; l'uno accanto all'altro, per l'ira ci mordevamo le labbra. E le frecce nemiche nascondevano il cielo, ma verso sera, con l'aiuto di un dio, li respingemmo: una civetta, prima della battaglia, era volata sulle nostre file. Poi li inseguimmo, infilzandoli nei loro calzoni come tonni; e fuggivano, colpiti alle ciglia e alle gote. Cosicché presso i barbari anche oggi si suol dire che non c'è nulla al mondo più coraggioso di una vespa attica.
ant.
Ero davvero terribile allora, non avevo paura di nulla; così navigando sulle triremi abbiamo disperso i nemici. Non ci importava di parlar bene, né di fare il mestiere del sicofante; ma solo remare, più forte che si poteva. Così prendemmo tante città dei Medi. È grazie a noi che si riscuotono quegli stessi tributi che i giovani d'oggi rubano.
Se ci osservate con attenzione vedrete che per modo e genere di vita siamo simili alle vespe. Innanzitutto, non c'è animale più iracondo e irritabile, quando viene stuzzicato. Ma anche in tante altre cose ci comportiamo come loro.
Sciamiamo a gruppi, come negli alveari, nei pressi dell'arconte, o degli Undici, o dell'Odeon. Ci stringiamo fitti alle mura, chini a terra, o ci muoviamo a stento come larve nelle loro celle. Per necessità di sostentamento, ci diamo da fare in tutti i modi; ed è pungendo gli altri, senza guardare in faccia a nessuno, che ci guadagnamo la vita. Però anche tra noi ci sono parassiti senza pungiglione, che aspettano in panciolle, senza far niente, e godono il frutto della nostra fatica.
Questo è il dolore più grande: che un imboscato intaschi il nostro stipendio, uno che per la patria non ha mai toccato remo, né lancia, e non ha neanche vesciche sulle mani. In breve, a me pare che, per l'avvenire, chi non ha il pungiglione non debba avere nemmeno i tre oboli.
(Entrano Filocleone e Bdelicleone)
No, finché sono vivo non smetterò mai questa veste, che sola mi ha salvato sul campo di battaglia, quando ci attaccò violentemente il gran Borea.
Insomma, non vuoi proprio star bene.
Ma non è star bene questo. L'altro giorno mi sono abboffato di frittura e ho dovuto passare i tre oboli al lavandaio.
Ma proviamolo almeno! Ti sei pure affidato a me per il tuo bene.
Che vuoi che faccia?
Togliti il mantello e al suo posto indossa questa tunica.
Val proprio la pena di mettere al mondo dei figli e di allevarli! Questo qui ora mi vuole soffocare.
Ma sta zitto e mettitela addosso.
Che malanno è questo, per tutti gli dèi?
La chiamano veste persiana, o caunaca.
A me pare una pelliccia di Timetide, veramente.
È perché non sei mai stato a Sardi, altrimenti la conosceresti. Ma ora vedi che è?
No, però mi pare che assomigli allo zaino di Morico.
Macché: è roba tessuta ad Ecbatana.
Come? A Ecbatana fanno trippe di lana?
Ma che dici? Questa roba la tessono i barbari, e costa un occhio della testa; pensa che questa tunica si è fatta fuori come niente un talento di lana.
Allora, piuttosto di caunaca, meglio chiamarla fottilana.
Su, per piacere, sta fermo mentre la indossi.
Povero me, mi ha ruttato in faccia un fiotto caldo, la maledetta!
Te la metti, sì o no?
No.
Senti...
Se è proprio necessario, mettimi addosso un forno, piuttosto.
E va bene, ti aiuto io a metterla addosso.
(Al servo)
Tu vai pure.
Bisognerebbe che tu procurassi un forchettone.
Per farne che?
Per tirarmi fuori, prima che sia lessato.
Ora togliti quelle scarpe orrende, e mettiti queste, spartane.
Io dovrei accettare di mettermi le calzature nemiche?
Proprio così; fatti coraggio, e metti piede sul suolo spartano.
Ma è violenza bella e buona questa che tu mi fai, facendomi mettere piede in terra nemica.
Forza, anche l'altro piede.
Questo no; c'è un dito che è risolutamente antispartano.
Lo devi fare, non c'è verso.
Povero me, che in vecchiaia non avrò geloni!
Sbrigati a metterle. Poi camminerai come i ricchi, con gusto ed eleganza.
Guardami, come cammino. A quale dei ricchi somiglio, nell'andatura?
A un foruncolo impiastrato d'aglio.
Ho voglia di sculettare.
Ma saprai poi fare discorsi corretti, alla presenza di persone colte e intelligenti?
Ma sì.
E che diresti, per esempio?
Un sacco di cose: che Lamia, quando la presero, scorreggiò; che Cardopione...
No, non favole; cose di tutti i giorni, domestiche, quali si dicono sempre.
Ah sì; di domestico potrei raccontare questo: c'era un a volta un topo e una gatta...
Sciocco maleducato (come disse Teogene insultando lo spazzino): tra gente per bene ti metti a parlare di topi e di gatte?
E di che dovrei parlare?
Di cose importanti. Per esempio, di quando sei andato in ambasceria insieme con Androcle e Clistene.
E quando mai? Una volta sola, a Paro, e anche allora non ci guadagnai che due oboli.
Potresti raccontare di come Efudione si batté con onore al pancrazio contro Asconda, pur essendo vecchio e canuto: aveva buoni fianchi, e buone braccia, e dei pettorali massicci.
La smetti di dire sciocchezze, per piacere! Ti pare che il pancrazio lo facesse col pettorale?
Così dicono quelli che la sanno lunga. Ma dimmi un'altra cosa: se ti trovi a bere da un ospite, cosa potresti raccontare di te, l'episodio più ardito della tua giovinezza?
L'episodio più ardito... ah sì, quando rubai i pali delle viti ad Ergasione.
Sei la mia morte. Ma che pali! Piuttosto di' di quando inseguivi un cinghiale o una lepre, o facevi la corsa delle fiaccole: insomma, vedi di scovare una qualche impresa.
Ora ci sono: da ragazzo perseguii per ingiurie il famoso corridore Faillo, e gli diedi due voti di distacco.
Basta. Ora stenditi qui e incomincia ad imparare come si partecipa a un banchetto in società.
Come debbo sdraiarmi? Dimmi, presto.
Con eleganza.
Così?
Assolutamente no.
Allora come?
Stendi le ginocchia, e, con gesto atletico, sdraiati mollemente sui tappeti. Poi loda qualche oggetto di bronzo, guarda il tetto; ammira la tappezzeria della sala. Ecco frattanto l'acqua per le mani; portano le mense; dopo la cena ci si lava e si fanno libagioni.
Ma, te lo stai sognando, questo banchetto?
C'è una flautista che suona. I convitati sono Teoro, Eschine, Fano, Cleone; e accanto a lui un forestiero, il figlio di Acestore. Attento a cantar bene!
Dici? Meglio dei Diacri.
Lo vedremo subito: metti che io sia Cleone; e per prima cosa canto la canzone di Armodio. Sta a sentire: «Non ci fu mai uomo in Atene...».
Tanto furfante e tanto ladrone!
Questo vuoi fare? Ma ti stordirà a forza di urli; ti minaccerà di morte, di rovina, d'esilio.
Se lui minaccia, io canterò a mia volta: «Tu che aspiri al sommo potere, distruggerai la città: la sua sorte è sospesa a un filo».
E quando Teoro, seduto ai piedi di Cleone, gli prende la mano e canta: «ora che hai sentito la storia di Admeto, ama le persone oneste», tu che rispondi?
Cantando: «Non si può fare la volpe, né essere amico di tutti».
Poi toccherà ad Eschine figlio di Sello, persona di buon gusto e sapiente. Lui canterà: «Ricchezza e salute a me e a Clitagora, tra i Tessali».
Le abbiamo sparate ben grosse, tu ed io.
Ora ne sai abbastanza. Andiamo a pranzo da Filoctemone. Tu, ragazzo, Criso, porta il pranzo: vogliamo ubriacarci, finalmente.
Questo no; ubriacarsi non va bene: dal vino nascono botte, sassate, porte rotte, e alla fine si pagano i conti della sbornia.
No, se ti trovi in mezzo a gente perbene. Basta chiedere scusa all'offeso, o raccontare una storiella spiritosa, esopica o sibaritica, di quelle che si imparano ai banchetti. Se tu volgi la cosa in ridere, il tuo avversario ti lascia andare, e se ne va anche lui.
Ne devo imparare molte di storielle, allora, se voglio non pagare i guai che combinerò.
Su, andiamo: niente ci deve trattenere.
(Escono)
str.
Ho spesso creduto di essere abile, e mai sciocco; ma più furbo è Aminia, figlio di Sello, della tribù dei Lunghi Capelli. Una volta l'ho visto mangiare con Leagora, ma mica mele o melograne. Una fame degna di Antifonte. Ha fatto anche un'ambasceria in Tessaglia e là stava coi «miserabili», miserabile lui più di tutti. Beato Automene, quanto sei fortunato ad avere figli abilissimi nel loro mestiere! Prima di tutto il grande citaredo, uomo sapiente e caro a tutti, adorno di tutte le grazie. Poi l'attore: difficile dire quanto è bravo. Infine Arifrade, il più bravo di tutti: di lui il padre giura che senz'averlo imparato da nessuno, per scienza naturale, lecca meglio di chiunque, al bordello.
Alcuni dicevano che ero sceso a patti, quando Cleone mi attaccava e vessava in tutti i modi. In verità mi diede davvero una bella strigliata, e tutti ridevano a vedermi spellare e a sentirmi strillare. Nessuno si preoccupava di me, e tutti aspettavano solo se in mezzo ai guai sparavo qualche battuta di spirito. Vedendo ciò, mi sono messo a fare la scimmia: ora però il palo ha imbrogliato la vite.
(Entra un servo)
Beate le tartarughe, che hanno una corazza; tre volte beate, che hanno un riparo sui fianchi. Bella idea è stata quella di coprirveli, e coprirvi la schiena. Io invece sono più di là che di qua, a forza di bastonate.
Che c'è, piccolo? Quando si viene picchiati si è sempre piccoli, anche se gli anni sono tanti.
Quel vecchio era un malanno incontrollabile; il più ubriaco tra i convitati. E sì che c'erano Ippillo, Antifonte, Licone, Lisistrato, Teofrasto, e tutto il giro di Frinico. Ma il più prepotente di tutti era lui, e di gran lunga. Prima s'abboffa di ogni grazia di dio, poi salta, balla, scorreggia, sghignazza come un asino rimpinzato d'orzo, e mi picchia robustamente, gridando: «ragazzo, ragazzo!» Lisistrato gli fece allora questo paragone. «Mi sembri, vecchio mio, un barbaro arricchito, e un usciere che scappa nella paglia». In risposta lui strilla che Lisistrato gli pare una cavalletta con le ali mozze, o anche Stenelo senza i suoi arnesi. Tutti applaudono, meno Teofrasto che, da persona raffinata, storce la bocca. Allora il vecchio apostrofa proprio lui: «Dimmi un po', perché fai tanto il superbo e lo schizzinoso, mentre non sei che un buffone e un ruffiano, volta volta al servizio di chi ha fortuna?». Così li aggrediva uno dopo l'altro con scherzi grossolani, aggiungendo discorsi senza senso, e sconvenienti. Quando è ben bene ubriaco, torna a casa; ma sulla strada
si mette a picchiare tutti quelli che incontra. Eccolo che arriva barcollando. Io scappo prima di prenderne altre.
(Esce; entra Filocleone seguito dalla flautista e inseguito da molta gente)
In alto le fiaccole, e fate largo; l'avranno a che fare con me, questi che mi vengono dietro. Se non ve ne andate affanculo, disgraziati, vi riduco in cenere con questa torcia.
Domani ce la pagherai, anche se ora sei così baldanzoso. Verremo in massa a farti causa.
Causa? Roba vecchia, la vostra. Di cause non voglio più neanche sentirne parlare, lo sapete.
(Indica la ragazza)
Questa qui è la roba che mi piace; e le urne a farsi fottere. Te ne vuoi andare? Il giudice dov'è? Fuori dai piedi! Vieni, su, piccolo scarabeo d'oro; reggiti con la mano a questa fune: tienti forte, sta attenta che è fradicia; però, le piace essere massaggiata. Hai visto come sono stato bravo a portarti via, quando stavi per ciucciarti gli invitati? Perciò, mostrati grata a questo cazzo. Ma già lo so che non gli sarai grata per niente, anzi lo imbroglierai e lo piglierai in giro; lo stesso lavoro lo devi avere già fatto con molti. Ma se tu sei gentile con me, io, quando mio figlio sarà morto, ti riscatterò e ti terrò come concubina, topina mia. Ora non posso disporre delle mie sostanze, perché sono giovane e sorvegliato a vista. Mi fa la guardia mio figlio, un tipo bisbetico e tirchio da fare schifo. Teme che mi rovini; d'altra parte bisogna capirlo: sono padre unico. Eccolo qua che arriva di corsa, ce l'ha con noi, mi pare. Prendi subito la torcia e resta ferma: lo voglio beffare a morte, come lui ha fatto con me, prima dei misteri.
Ehi tu, puttaniere decrepito, mi sembri maturo per la bara, ormai. Ma non te la caverai tanto facilmente.
Te lo mangeresti volentieri, un processo sotto aceto!
Non ti vergogni di portar via la flautista dal banchetto, e sfottere per di più?
Che flautista? Che vai cianciando, che sembri cascato da una tomba?
La Dardanide, che è con te.
Questa? È una fiaccola che brucia in piazza, dedicata agli dèi.
Ma che fiaccola!
Sì, non vedi come è scanalata?
E quella roba nera là in mezzo?
Pece che cola, chiaramente.
Questo, sarà un culo, sì o no?
È un nodo del legno che sporge.
Ma che nodo e nodo!
(Alla ragazza)
Tu, vieni qui.
Che vuoi fare?
Prenderla e portarla via. Tanto, sei fradicio e non ce la fai.
Stammi a sentire. A Olimpia, una volta che ero in ambasceria, ho visto Efudione lottare brillantemente con Asconda, pur essendo ormai vecchio. E alla fine con un pugno il vecchio abbatté il giovane. Perciò bada che non ti faccia gli occhi pesti.
Per Zeus, l'hai imparata bene, la lezione di Olimpia.
(Entrano una donna e Cherefonte)
(A Cherefonte)
Aiutami, te ne prego, in nome degli dèi: questo è l'uomo che mi ha rovinata. Mi ha colpito con la torcia, e mi ha fatto rovesciare dieci oboli di panini, più altri quattro.
Lo vedi cosa combini? Il vino ti procurerà noie e processi.
Ma neanche per idea! La faccenda si sistema con qualche storiella spiritosa. Ci metteremo d'accordo.
No, per le due dee, non la passerai liscia con Mirria, figlia di Ancilione e di Sostrata, dopo avere distrutto la mia roba.
Stammi a sentire: ti racconto una bella storia.
Ma valla a raccontare a un altro!
Una sera Esopo tornava a casa da un banchetto quando ecco che una cagna sfrontata e ubriaca gli abbaia contro. E lui: «Cagna, cagna, se potessi vendere la tua mala lingua per un po' di grano, faresti un affare».
Mi pigli in giro? Chiunque tu sia, ti denuncio agli ispettori del mercato per danneggiamento della mia merce. E prendo a testimone il qui presente Cherefonte.
Ma no, sta a sentire se ti garba questa: «Una volta gareggiavano Laso e Simonide; e Laso disse: "me ne strafotto"».
Ah sì?
Quanto a te, Cherefonte, mi hai giusto l'aria di chi assiste una femmina giallastra, una sorta di Ino sospesa ai piedi di Euripide.
(Escono la donna e Cherefonte, entra un altro uomo, anche lui accompagnato da un testimone)
Eccone un altro che viene a farti causa, anche lui col suo testimone.
Povero me! Ti denuncio per violenze, vecchio.
Per violenze? No, per carità, non denunciarlo: pagherò io per lui il risarcimento, la somma che vuoi, e te ne sarò anche grato.
Volentieri mi metterò d'accordo con lui. Riconosco di averlo picchiato e preso a sassate.
(All'uomo)
Vieni qui: vuoi metterti nelle mie mani per la somma da pagare, e poi restiamo buoni amici, o vuoi fissarla tu stesso?
No, fissala tu; non ho voglia di processi, né di noie.
Una volta un Sibarita cadde dal carro e si ruppe la testa; di cavalli non era per niente pratico. Sopraggiunse un amico e gli disse: ognuno faccia il mestiere suo. E perciò tu corri dal medico.
Eccone un'altra delle solite.
(Al testimone)
Ricordatela, questa risposta.
Ascolta, non scappare. A Sibari, una volta, una donna ruppe un vaso, così.
(lo picchia)
(al testimone)
Ti chiamo a testimone anche di questo.
Appunto: il vaso si prese un testimone, e fece causa. Ma la donna disse: «Se lasciavi perdere le testimonianze e ti compravi invece una buona benda, facevi assai meglio».
Fai pure il prepotente; ce la vedremo quando l'arconte chiamerà la causa.
No per Demetra, qui non ci resti più: ti porto via.
Che fai?
Che faccio? Ti porto dentro: se no, tra poco, non ci saranno più testimoni a disposizione dei querelanti.
Una volta Esopo, a Delfi...
Me ne strafotto.
... fu accusato di avere rubato una coppa del dio. E lui raccontò che uno scarabeo...
Sarai la mia morte, tu e i tuoi scarabei!
(Rientrano in casa)
str.
Invidiamo il vecchio per la sua fortuna: è cambiato nel carattere bisbetico, e nel modo di vita. Ora che ha conosciuto un mondo diverso, si darà tutto alla mollezza e al piacere. Forse non vorrebbe: è difficile staccarsi dalla propria natura, che uno possiede da sempre. Eppure a molti è capitato, a confronto con le idee di altri, di cambiare costumi.
ant.
Molta lode, da parte mia e di tutti i saggi, avrà Bdelicleone, per il suo affetto filiale e la sua intelligenza. Non ho mai conosciuto persona più amabile: i suoi modi mi piacciono, mi fanno impazzire. Su ogni punto ha vinto la disputa, e ha dato a suo padre una vita più degna.
(Entra un servo)
Per Dioniso, un dio ha rovesciato sulla nostra casa guai a non finire. Il vecchio, dopo avere bevuto e ascoltato il flauto, fuor di sé dalla contentezza si è messo a ballare e non la smette: sono quelle danze vecchie che faceva Tespi, ai suoi tempi. Dice che con queste danze mostrerà sul momento che i tragici di oggi sono dei rimbambiti.
(Entra Filocleone)
Chi siede alla porta del cortile?
Eccolo che arriva, il nostro malanno.
Spalancate le porte. Incomincia la danza.
La pazzia, vorrai dire.
Nello slancio si torcono i fianchi, muggiscono le narici, scricchiolano le ossa.
Beviti dell'elleboro.
Frinico se ne sta rannicchiato come un gallo...
Tra un po' ti prendono a sassate.
E lancia la gamba verso il cielo.
Ti si sta spaccando il culo.
Pensa ai cazzi tuoi. Ora dentro alle mie membra le ossa girano leggere. Non va bene?
Cose da matti.
Ora bandisco una gara e invito i miei rivali. Se qualche tragico sostiene di essere abile alle danze, venga qui, e balli con me. C'è qualcuno?
(Entra un danzatore)
Uno solo.
Chi è lo sciagurato?
Il figlio di Carcino, il mezzano.
Me lo mangio vivo; lo faccio fuori a forza di pugni armoniosi. Non vale niente, nel ritmo.
Sta attento, che ne arriva un altro dei figli di Carcino, suo fratello.
Ma allora ne faccio provvista!
Di granchi sì: è arrivato anche l'altro figli o di Carcino.
E questo che è, che striscia verso di noi?
Un gambero; è il più piccolo della famiglia, l'autore di tragedie.
Beato te per la tua figliolanza, Carcino! Che stormo di scriccioli ballerini ci è piovuto addosso! Ma io devo scendere in gara con loro. E tu prepara per loro una salamoia, se riesco vincitore.
Su, facciamo tutti largo, perché possano volteggiare liberamente dinanzi a noi.
str.
Orsù, magnanimi figli del mare, fratelli dei gamberi, balzate sulla sabbia, sulla riva del mare infecondo,
ant.
volgete intorno l'agile piede, scalciate alla maniera di Frinico; che gli spettatori vedano scattare le gambe in alto, e restino a bocca aperta. Gira, balla in cerchio, percuotiti il ventre, butta al cielo le gambe, in un vortice. E il signore del mare striscia in avanti, deliziato dalle danze dei suoi figli. Se vi piace, ballando, portateci presto fuori; questo nessuno l'ha mai fatto; licenziare danzando un coro di commedia.
(Escono tutti)