Testo

Luciano di Samosata

Caronte, o gli osservatori.

Ermes. Oh! perché ridi, o Caronte? Come hai lasciato il battello, e sei salito su la terra? quassù tu non ci suoli aver faccende.

Caronte. Avevo gran voglia, o Ermes, di vedere che c’è nella vita, che vi fanno gli uomini, e che piangono d’aver perduto quando discendon tra noi; ché nessuno trapassa senza pianto. Però anch’io, come il giovane tessalo,1 ho chiesto a Ade licenza di lasciare la barca per un sol dì, e son venuto alla luce del sole. Ora t’ho incontrato proprio a punto; ché io ci son nuovo, e spero che tu mi guiderai e mostrerai ogni cosa, ché ci sei pratico.

Ermes. Non ho tempo, o barcaiuolo mio: vado per una faccenda commessami lassù da Zeus per la terra. Egli è collerico e temo, se io ritardo, che ei non mi dia il castigo di rimaner sempre tra voi al buio, o non mi faccia il giuoco che già fece a Efesto, mi pigli per un piè e mi getti giù dalle case celesti, sicché zoppicando farei anch’io ridere gli Dei servendoli da coppiere. 2

Caronte. Ed avrai cuore di vedermi errare alla ventura su la terra, tu che mi sei amico e compagno, e tragittiamo insieme le anime? Eppure, o figliuolo di Maia, dovresti ricordarti che io non t’ho fatto mai né aggottare né vogare; che tu ti sdrai su la coperta, e russi, quantunque abbi un bel paio di spalle; o se trovi qualche morto chiacchierino, te la chiacchieri per tutta la traversata; ed io, tutto che vecchio, co’ due remi in mano, i’ vogo io solo. Deh, per quanto ami tuo padre, o Ermessuccio mio, non mi lasciare; mostrami quel che si fa nella vita, non farmene tornar con le pive nel sacco senza aver niente veduto. Se tu m’abbandoni io sarò come un orbo, che al buio e senza guida, inciampa ad ogni passo: così la luce mi abbaglia. Fammi questo favore, o Cillenio, ed io te ne sarò sempre obbligato.

Ermes. Questa faccenda mi farà aver delle busse: già vedo che per compenso di averti guidato non mi mancherà qualche cazzotto. Pure ti vo’ contentare: per un amico si fa tutto. Ma vedere ogni cosa per punto non è possibile, o navicellaio mio; che ci vorrieno anni assai. E poi io sarei messo al bando da Zeus, come fuggitivo; e tu non potendo fare l’uffizio che la Morte t’ha dato, recheresti danno al regno di Ade, non tragittando i morti per molto tempo: ed Eaco il portinaio si sdegnerebbe non buscando neppure un obolo. Onde io penso di mostrarti così sopra sopra le cose che ci sono.

Caronte. Pensa tu il meglio, o Ermes; io non ho veduto mai niente della terra, e ci son forestiero.

Ermes. Insomma, o Caronte, bisogna trovare un’altura, donde tu vegga giù ogni cosa. Se tu potessi salir meco in cielo, non avrei questa briga ora: di là scorgeresti tutto:
ma giacché non è permesso a chi sta sempre fra le ombre di montare nella reggia di Zeus, dobbiamo adocchiare qualche alta montagna.

Caronte. Ti ricordi, o Ermes, ciò che soglio dirvi io quando navighiamo? Se il vento gagliardo dà di traverso nella vela, e l’onda si solleva, voi, che non sapete, mi dite:
ammaina la vela, allenta la scotta, abbandonati al vento: ed io che vi rispondo? Zitti, so io che debbo fare. Così tu, fa’ quello che tu credi meglio, che ora se’ tu il piloto: ed io, come si conviene ai passeggeri, debbo tacere ed ubbidire ai tuoi comandi.

Ermes. Dici bene: saprò anch’io che fare, e troverò qualche alta cima che farà per noi. Saria buono il Caucaso;
no, il Parnaso è più alto: l’Olimpo più di tuttadue. Oh; a riguardar l’Olimpo mi viene una buona idea: ma tu devi aiutarmi.

Caronte. Di’ pure: ed io t’aiuterò come posso.

Ermes. Il poeta Omero dice che i figliuoli d’Aloeo, che erano anche due e fanciulli ancora, una volta vollero sradicare il monte Ossa, e lo posero sovra l’Olimpo, e più sovra il Pelio, credendo così di farsi una bella scala per montare al cielo. Quei fanciulli eran due temerari, ed ebbero una buona castigatoia; ma noi, che non vogliamo far male agli Dei, perché anche noi non rotoliamo e poniamo montagne sopra montagne per farci una vedetta più alta?

Caronte. E potremo, o Ermes, noi due prendere e sollevare Ossa e Pelio?

Ermes. Perché no, o Caronte? e credi che noi possiamo meno di quei due fanciulli, noi che siamo dei?

Caronte. No: ma parmi cosa impossibile, e di fatica immensa.

Ermes. Va’, sei un ignorante, o Caronte, e non hai estro poetico. Quel valente uomo d’Omero in due versi ci fa salire in cielo, ammucchiando agevolmente le montagne. Oh, ti pare cosa incredibile; eppure tu certamente sai che Atlante porta il mondo su le spalle, ed egli solo ci sostiene tutti quanti. E forse hai udito ancora che Eracle mio fratello, per far riposare un poco il povero Atlante, una volta si pose egli quel peso addosso.

Caronte. L’ho udito cotesto: ma se è vero, o no , lo sai tu ed i poeti.

Ermes. Verissimo, o Caronte. E per qual cagione uomini sapienti direbbono una bugia? Via, facciamo un po’ di leva a monte Ossa prima, come ci dicon le parole del nostro architetto Omero:
E poni Ossa sul Pelio frondoso.
Vedi come riusciam nell’opera facilmente e poeticamente? Ora vi salgo, per vedere se basta così, o se dobbiamo sovrapporvi altro. Bah! siamo ancor giù appiè del cielo: a levante appena pare la Ionia e la Lidia; a ponente non più che l’Italia e la Sicilia; a settentrione le sole contrade sino all’Istro; e a mezzodì, Creta pare e non pare. Dobbiam trasportarvi, o barcaiuolo, anche l’Oeta, e forse anche il Parnaso.

Caronte. Sia pure: ma bada che la macchina non sia troppo fragile, alzandola ad un’altezza smisurata; e che noi cadendo con essa non facciamo cattiva prova dell’architettura d’Omero, rompendoci il capo.

Ermes. Non temere: tutto sarà saldissimo. Trasportiamo l’Oeta, rotoliamo il Parnaso. Ecco, io risalgo: ora va bene:
vedo tutto; sali anche tu.

Caronte. Stendimi la mano: non è poco per me salire su questa gran macchina.

Ermes. Tu volevi vedere il mondo, o Caronte: ma non si può tutto vedere, e niente patire. Tieniti fermo alla mia mano, e bada di non mettere il piè su qualche sdrucciolo. Oh, se’ sopra anche tu: e giacché il Parnaso ha due cime, sediamo tu sovra una, io sovra un’altra. Or gira gli occhi intorno, e mira ogni cosa.

Caronte. I’ vedo molta terra, e un gran lago che la circonda, e montagne, e fiumi maggiori di Cocito e di Piriflegetonte, e gli uomini molto piccoli, e certe loro topaie.

Ermes. Sono città quelle che tu prendi per topaie.

Caronte. Sai, o Ermes mio, che abbiam fatto un buco nell’acqua a trasportar qui il Parnaso con tutto il fonte Castalio, e l’Oeta, e le altre montagne ?

Ermes. E come?

Caronte. Io non distinguo niente da questa altezza. Non volevo vedere io le città solamente e le montagne, come in una pittura, ma gli uomini e ciò che fanno e ciò che dicono, come facevo testé quando mi hai incontrato che ridevo, e mi hai dimandato perché ridevo. Avevo udito una cosa piacevole assai.

Ermes. E quale?

Caronte. Uno invitato a cena da un amico pel dimani, Verrò senza meno, disse: e mentre parlava, un tegolo, non so come, staccasi dal tetto, gli cade in capo, e l’ammazza. Io ridevo perché colui non poteva adempiere alla sua promessa. Parmi dunque ch’io debba discendere per meglio vedere e udire.

Ermes. Sta’ cheto: ci rimedierò io, e ti darò subito una vista acutissima con alcune parole incantate d’Omero. E quando avrò recitato le parole, ricordati che devi sbirciar tutto bene e chiaro.

Caronte. Di’ pure.

Ermes. La caligin che gli occhi ti copriva
Io la disperdo, acciò tu ben conosca
E i numi ed i mortali.
Che è? vedi ora?

Caronte. Meravigliosamente. Linceo è cieco rispetto a me. Ora spiegami ogni cosa, e rispondi alle mie domande. Ma vuoi ch’io ti domandi co’ versi d’Omero, per mostrarti che Omero lo so anch’io?

Ermes. E donde l’hai appreso tu povero barcaiuolo?

Caronte. Oh, non parlar male dell’arte. mia. Ché io quando lo tragittai dopo la sua morte, l’udii cantar molti versi, e d’alcuni me ne ricordo ancora. Che burrasca allora patimmo! Egli si mise a cantare una canzone infausta ai naviganti, onde Poseidone adunò le nubi, sconvolse il mare agitandolo col tridente come con una mestola, suscitò tutte le procelle: il mare gorgogliava sotto le parole: le ondate, e l’oscurità eran sì grandi che per poco la nave non ci andò sossopra: egli si mareggiò e vomitò molti versi con tutta Scilla, Cariddi, e il Ciclope. Era naturale dunque che di quel gran vomito mi fosse restato qualche cosa. Ma dimmi
Chi è quel grande, sì membruto e forte, Che tanto sovra gli uomini s’innalza Di tatto il capo e delle late spalle. 3

Ermes. È Milone, l’atleta di Crotone: i Greci lo applaudiscono perché s’ha levato in collo un toro, e lo porta per mezzo lo stadio.

Caronte. Quanto più giustamente applaudirebbero me, che tra poco t’afferrerò Milone e te lo getterò nel battello, quando ei verrà tra noi atterrato dalla Morte, invincibile atleta che gli darà un gambetto quando ei meno se l’attende? Piangerà egli allora ricordando queste corone e questi, applausi: ora va superbo perché porta in collo un toro. Ma che? pensa egli che dovrà morire?

Ermes. Come pensare ora alla morte egli si giovane e si vigoroso?

Caronte. Lasciamolo stare: riderem di lui quando farà il tragitto, e non avrà forza di sollevare non che un toro, un moscherino. Ma dimmi, ancora: Chi è quest’altro d’aspetto sì grave? alle vesti non par greco.

Ermes. È Ciro figliuol di Cambise, che ha tolto l’impero ai Medi e l’ha dato ai Persi: testé ha domato gli Assirii, s’è insignorito di Babilonia; ed ora si prepara contro la Lidia, acciocché, vinto Creso, diventi signore del mondo,

Caronte. E Creso dov’è ?

Ermes. Riguarda li, in quella gran fortezza di triplice muraglia, quella è Sardi: e ve’ Creso sdraiato sovra un letto d’oro, che ragiona con l’ateniese Solone. Vuoi udire che dicono?

Caronte. Oh, si.

Creso. «O forestiero ateniese, tu hai vedute le ricchezze
» che io ho, e i tesori, e il vasellame d’oro, e tutte l’altre
» grandezze mie: or dimmi, chi credi tu che sia il più felice
» tra gli uomini? »

Caronte. Che risponderà Solone?

Ermes. Non dubitare: risponderà nobilmente.

Solone. «O Creso, ben pochi sono i felici; io, fra quanti ne so, stimo che furono felicissimi Cleobi e Bitone, i figliuoli della sacerdotessa d’Argo.

Ermes. Parla di quei due giovani morti ultimamente, poi che si aggiogarono sotto il cocchio della madre, e la trassero sino al tempio.

Creso. Bene: abbiano questi la prima felicità: chi sarà secondo?

Solone. Tello ateniese, che visse puro, e morì per la » patria.

Creso. Ed io, o insolente, io non ti sembro felice?

Solone. Non lo so ancora, o Creso se non giungi al fine della vita, perché la sola morte ci può far giudicare se uno è vissuto felice sino al suo termine.

Caronte. Bravissimo, o Solone, che non ti se’ dimenticato di noi, e credi che solo presso alla mia barca si debba giudicare di questo. Ma quei messi, dove li manda Creso? e che portano su le spalle?

Ermes. Son mattoni d’oro che ei manda in dono ad Apollo Pizio, per certi oracoli che tra breve lo rovineranno: egli è pazzo degli oracoli.

Caronte. Oh, quello è l’oro, che splende, che luccica, che ha quel color giallo ardente? Ora lo vedo la prima volta, avendone udito sempre parlare.

Ermes. Quello, o Caronte, di che tanto si parla, e che tanto si cerca.

Caronte. Eppure io non vedo a che è buono, se non a pesare su le spalle di chi lo porta.

Ermes. Non sai quante guerre per esso, ed insidie, e furti, e spergiuri, e uccisioni, e lunghe navigazioni, e traffichi, e catene, e servitù.

Caronte. Per esso, che non è molto differente dal rame? Io conosco il rame, perché sai, o Ermes, ch’io riscuoto l’obolo da ciascuno che tragitto.

Ermes. Si, ma il rame se ne trova molto, e però è men ricercato: l’oro è raro, e lo cavano a molta profondità: ma anche esso è dalla terra, come il piombo e gli altri metalli.

Caronte. Che grande sciocchezza è questa degli uomini, amare tanto una cosa gialla e pesante.

Ermes. Almeno Solone pare che non l’ami, come tu vedi; e si ride di Creso e delle sue barbare Spampanate: ma parmi che voglia dirgli qualche cosa: ascoltiamolo.

Solone. «Dimmi, o Creso, credi tu che Apollo abbia bisogno di cotesti tuoi mattoni d’oro?

Creso. Altro! In Delfo ei non ha offerta come questa.

Solone. Dunque tu credi che il dio sarà lietissimo di avere tra gli altri doni, anche mattoni d’oro?

Creso. e Come no?

Solone. O Creso, tu fai il cielo molto povero se ci si dovrà, mandar l’oro dalla Lidia, quando gli Dei né vorranno.

Creso. E dove ci saria tant’oro quanto n’è tra noi?

Solone. Dimmi: e ferro ve n’è in Lidia?

Creso. Poco.

Solone. E vi manca il meglio.

Creso. Come! meglio il ferro dell’oro?

Solone. Se mi rispondi senz’andare in collera, lo vedrai.

Creso. Domanda, o Solone.

Solone. Chi è da più, chi custodisce o chi è custodito?

Creso. Certo chi custodisce.

Solone. Dunque se Ciro, come alcuni dicono, verrà contro la Lidia, tu farai d’oro le spade ai soldati, o ti » bisognerà il ferro allora?

Creso. Il ferro.

Solone. E se non te ne provvederai, l’oro tuo verrà in » mano dei Persiani.

Creso. Ehi tu, parla bene.

Solone. Non sia mai questo: ma tu devi riconoscere che il ferro è migliore dell’oro.

Creso. E mi consigli di offrire a Dio mattoni di ferro, e far ritornare quelli d’oro?

Solone. Ei non ha bisogno neppure del ferro: ma o rame, o oro, o altro che gli mandi, sarà un giorno una bella preda, e un buon guadagno per altri; pei Focesi, poi Beozi, pei Delfi stessi, per un tiranno, o per un ladro; che il Dio si briga poco delle ricchezze tue.

Creso. Tu sempre fai guerra alle mie ricchezze, e me le invidi.

Ermes. O, Caronte, il Lidio non sa acconciarsi alla Verità e a quel libero parlare: e gli pare una cosa strana che un uomo povero non abbia paura di dirgli franco il suo sentimento. Eppure tra breve si ricorderà di Solone, quando fatto prigioniero da Ciro, dovrà montar su la pira. Poco fa ho udito Cloto leggere i destinati di ciascuno, e in essi era scritto che Creso sarà prigione di Ciro, e Ciro morrà per mano di quella Messageta lì. Vedi quella donna scita, montata sovra quel cavallo bianco?

Caronte. Si.

Ermes. Ella è Tomiri, che troncherà la testa a Ciro, e la metterà in un otre pieno di sangue. Vedi pure quel giovanetto figliuolo di Ciro? Egli è Cambise, che regnerà dopo suo padre, e disfatto molte volte ed errante in Libia e in Etiopia, infine morirà pazzo, dopo di avere ucciso il dio Api.

Caronte. Oh, davvero è da ridere! Ed ora chi ardiria di guardar pure in viso a costoro che si tengono tanto superiori agli altri? chi crederia che tra poco uno sarà prigione, e un altro avrà il capo in un otre di sangue? E chi è colui, o Ermes, che va vestito di porpora e cinto del diadema, ed a cui il cuoco restituisce l’anello trovato in corpo ad un pesce? Oh, anche egli d’un isola signor, tra i re s’imbranca?

Ermes. Hai fatta una bella parodia, o Caronte. Tu vedi Policrate tiranno di Samo, che ora si tiene beatissimo: ma anche costui dal suo furbo servitore Meandro sarà dato in mano al Satrapo Oreta, che lo farà crocifiggere: e così in un attimo, da questa felicità piomberà nell’ultima miseria. Anche questo l’ho udito da Cloto.

Caronte. Bene, o Cloto, da brava: crocifiggili, troncane le teste, acciocché veggano che sono uomini: ma fa’ che s’innalzino molto, affinchè caschino da più alto con più dolore. Io poi riderò allora squadrandoli ad uno ad uno nudi nel battello, senza porpora, senza tiara, senza letto d’oro.

Ermes. E questo è il fine di costoro. Guarda ora la moltitudine, o Caronte: chi naviga, chi guerreggia, chi litiga, chi coltiva la terra, chi presta ad usura, chi accatta.

Caronte. Io vedo un diverso affaccendarsi e un affannarsi grande: le città come alveari; ciascuno v’ ha il suo pungiglione, e punge chi gli sta vicino: pochi, come vespe, menano e rubano i più deboli. Ma questo sciame invisibile agli uomini, che vola sovra di loro, che è?

Ermes. Sono, o Caronte, le speranze, i timori, le sciocchezze, i piaceri, le avarizie, le ire, gli odi, ed altre passioni. Tra queste la sciocchezza si mescola con essi, ed è come loro cittadina; stanno anche in mezzo a loro lo sdegno, e l’odio, e la gelosia, e l’ignoranza, e la diffidenza, e l’avarizia. Il timore e le speranze volano più su: il timore talvolta piombando su di loro, li percuote e li sommette; le speranze van roteando su i loro capi, e quand’uno crede proprio d’afferrarle, se ne volano e lo lasciano a bocca aperta, come Tantalo laggiù che si vede fuggir l’acqua. E se aguzzi gli occhi, vedrai più su le Parche che filano a ciascuno il suo fuso, dal quale tutti pendono per sottilissimi fili. Li vedi quei fili come di ragno, pe’ quali tutti sono sospesi ai fusi?

Caronte. Veggo sovra ciascuno un sottil filo, ma spesso aggroppato questo con quello, e quello con un altro.

Ermes. Appunto, o nocchiero: perché è destinato che questi sia ucciso da quello, e quello da un altro; che costui sia erede di colui che ha il filo più corto, ed un altro di costui: questo vogliono significare quei groppi. Vedi dunque come tutti pendono da un debole filo: costui tratto tanto in su, tra poco cadrà, spezzandosi il filo che non può più tenere il peso, e farà giù un gran tonfo: ma quest’altro sollevato poco dalla terra, se cadrà, non farà rumore, e appena chi gli sta vicino si accorgerà della sua caduta.

Caronte. Oh che cose ridicole, o Ermes.

Ermes. Eppure tu non sai a mezzo quanto sono ridicole, o Caronte: massime quando gli uomini sono in gran faccende, nel bello delle speranze, e viene Mona Morte e li scopa. Ella manda molti messi ed ambasciatori, il freddo, la febbre, la tisi, la polmonite, il coltello, i ladri, la cicuta, i giudici, i tiranni: ma nessuno di questi è ricevuto dagli uomini quando stanno bene: quando poi cadono, allora gli ahi, ahi! uh , uh! ohimè, ohimene! Se pensassero ch’ei sono mortali, e che passano in breve tempo, lascerebbon la terra, come si lascia un sogno, ci vivrebbono con più senno, morrebbono con meno affanni. Ma perché sperano che il bene presente abbia sempre a durare, quando viene il messo e li chiama, e li strascina legati con una febbre e con una tisi, si dibattono e non vogliono andare, perché non s’aspettavano d’essere schiantati così. Che non farebbe egli colui che fabbricandosi accuratamente la casa, e dando fretta agli operai, venisse a sapere che egli non la vedrà compiuta, e che appena postovi il tetto, se ne andrà, lasciandola ad un erede che se la godrà, ed egli non vi avrà fatto nemmeno un desinare?
E costui, che è tutto lieto perché sua moglie ha partorito un figliuol maschio, ed invita gli amici alla festa,e pone al bimbo il nome del padre, se sapesse che questo bimbo a sett’anni gli morirà, credi tu che avrebbe tanta gioia ora che gli è nato? La gioia è perché ei guarda ad uno felice pel figliuol suo, al padre dell’atleta vincitore in Olimpia; ma il suo vicino che accompagna il figliuolo al sepolcro, ei nol vede; e però non pensa a che debol filo è sospeso il suo. Quei che litigano pe’ confini d’un podere, vedi quanti sono, e quanti ammassano ricchezze; poi, prima di goderle, son chiamati da quei messi ed ambasciatori che t’ ho detto.

Caronte. Vedo ogni cosa, e tra me penso: che dolcezza trovano questi nella vita? e di qual bene son privati che la rimpiangono tanto? Se si pon mente ai re, che son tenuti essi i più felici (lasciamo da banda l’instabilità ed il capriccio della fortuna), si troverà che essi hanno assai più di amarezze, che di dolcezze, e sono sempre in mezzo a timori, agitazioni, odi, insidie, sdegni, adulazioni; fuori de’dolori, delle malattie, delle passioni che regnano sovr’essi come su gli altri. E se la condizion loro è si trista, figurati quella dei privati. le voglio dirti, o Ermes, a che mi paiono simili gli uomini, e tutta la vita loro. Hai veduto mai le bolle che si levan nell’acqua sotto la cascata d’un torrente? quelle bollicine che compongono la schiuma? Alcune di esse son piccine e subito si rompono e vaniscono; ed alcune durano un poco più, confondendosi con altre crescono e gonfiano molto, e infine scoppiano anch’esse, che nessuna può durare. Cosi è la vita degli uomini. Fortuna soffia, e tutti si levano, qual più, qual meno; chi per poco serba quel breve gonfiore, chi come si leva, si posa: tutti debbono rompersi e svanire.

Ermes. M’hai fatto un paragone, o Caronte, non inferiore a quello che fa Omero tra gli uomini e le foglie.

Caronte. Eppure, o Ermes, vedi che fanno, e come contendono tra loro per aver signorie, e onori e possessioni, e tante altre cose che pur dovranno lasciare, e scendere tra noi non portando seco altro che un obolo. Vuoi tu, giacché siamo su quest’altura, ch’io gridando a gran voci li ammonisca di cessare da fatiche vane, e di vivere avendo sempre la morte innanzi agli occhi, dicendo: O stolti, a che v’affaticate tanto? smettete, che la vita è breve, e niente di quello che ora tanto vi piace è eterno, niente porta seco chi muore, ma ci vien nudo: la casa, il campo, l’oro è tutta roba altrui, e muta sempre padrone. Se io gridassi loro così, non credi tu ch’io farei gran pro agli uomini, e che diventeriano più sennati?

Ermes. O mio Caronte dabbene, tu non sai come l’ignoranza e l’errore li hanno ridotti. Neppur con un succhiello foreresti loro le orecchie, che l’hanno turate con la cera, come fece Ulisse ai compagni per timore che udissero il canto delle Sirene. Come potrebbono ascoltarti, se anche gridassi a scoppiarne? Quel che Lete fa ai morti, l’ignoranza fa ai vivi. Ben pochi sono quelli che non hanno la cera negli orecchi, che si piegano alla verità, che veggon chiare le cose e conoscono quali esse sono.

Caronte. E se gridassi a costoro?

Ermes. Per dir che? ciò che già sanno? è soverchio. Li vedi come vanno solitari, come ridono delle cose umane, e infastiditi di esse, si sono già deliberati di fuggir la vita, e venirsene tra noi? Sono odiati perché riprendono l’altrui stoltezza.

Caronte. Fatevi cuore, o generosi. Ma sono ben pochi, o Ermes.

Ermes. Anche pochi bastano. Ma discendiamo ora.

Caronte. Deh, dimmi un’altra cosa sola, o Ermes; e poi mi avrai detto e mostrato tutto: fammi vedere i luoghi dove ripongono i morti per seppellirli.

Ermes. Li chiamano sepolcri, tombe, avelli. Vedi innanzi alle città quei rialti, quelle colonne, quelle piramidi? colà depongono i morti e serbano i cadaveri.

Caronte. Oh, e perché quelli coronan di fiori le pietre, e le spargono d’unguento? perché quegli altri, innalzato il rogo innanzi al rialto e cavata una fossa, bruciano tante vivande, e nella fossa versano vino, e acqua melata ancora, come mi pare?

Ermes. Non so, o navicellaio, che giovi questo a quei di laggiù: ma gli uomini credono che le anime ritornino sulla terra, e che faccian quasi un banchetto volando intorno al fumo, odoroso delle vivande, e che bevano l’acquamelata che è nelle fosse.

Caronte. Come, come? bere e banchettare quei teschi spolpati ? Bah! ma sono sciocco io che dico questo a te che ogni giorno ne conduci tanti: tu lo sai se chi scende sotterra può più risalire. Oh saria il bello spasso, o Ermes, per me che ho tante faccende, se dovessi non solo menarli laggiù, ma rimenarli ancora su quando avesser voglia di bere. O sciocchi che siete, a non sapere da quale barriera son separati i morti dai vivi, quai leggi sono tra noi, e come
Sepolti ed insepolti sono eguali.
Iro mendico, e il regnatore Atride;
Tersite, e il figlio della bella Teti
Tutti son morti, dispolpati teschi.
Nudi e digiuni vanno insieme errando
Su prati d’asfodelo. 4

Ermes. Per Eracle! tu me lo sverti tutto Omero. Ma giacché me ne fai sovvenire, voglio mostrarti la tomba d’Achille. La vedi là sul mare? quello è il Sigeo troiano. Quella d’Aiace è di rimpetto su la proda del Reteo.

Caronte. Non sono grandi queste tombe, o Ermes. Ma mostrami quelle città famose, di cui ho udito tanto parlare laggiù, Ninive di Sardanapalo, e Babilonia, e Micene, e Cleona, e specialmente Troia: che mi ricorda di averne tragittati tanti che venivan da Troia, che per dieci anni non tirai a riva la barca né la racconciai.

Ermes. Ninive, o barcaiuolo mio, è distrutta, non ne resta vestigio, non si sapria dire dov’era. Babilonia è quella, la turrita, con la cerchia delle grandi mura, e tra poco anch’essa sarà invano cercata come Ninive. Micene poi e Cleona mi vergognerei a mostrartele, e specialmente Troia; che tu forse ammazzeresti Omero, ricordandoti con che pompose parole ei le descrive. Fiorirono un tempo, ed ora son morte anch’esse; perché, o navicellaio, le città muoiono come gli uomini; e quel che è più mirabile, muoiono gl’interi fiumi: in Argo non rimane neppure il letto del fiume Inaco.

Caronte. Oh! perché, o Omero, davi quegli epiteti sperticati, il sacro Ilio dalle larghe piazze, la ben costrutta Cleona? Oh, chi son quelli che mentre noi parliamo, fanno guerra? e perché s’ammazzano fra loro?

Ermes. Sono Argivi e Lacedemoni: e quel mezzo morto è Otriade capitano di Sparta, che sovra un trofeo scrive col suo sangue la vittoria.

Caronte. E perché, o Ermes, si fanno guerra?

Ermes. Per quel campo sul quale combattono.

Caronte. Folli! che non sanno che se anche ciascuno di loro possedesse tutto il Peloponneso, appena otterrebbe da Eaco un piede di luogo. Un tempo altri lavoreranno questo campo, e dalla profonda terra solleveranno con l’aratro anche le rovine del trofeo.

Ermes. E questo è il mondo. Ma discendiamo ora, e riponiamo le montagne ai luoghi loro, e torniamo io per la mia commissione, tu alla barca. Tosto ci rivedremo, e ti menerò i morti.

Caronte. Tu m’hai fatto un gran bene, o Ermes, ed io me lo scriverò nel cuore: per te ho cavato qualche frutto da questa mia peregrinazione. O poveri uomini, e di questo v’occupate voi? Re, mattoni d’oro, ecatombe, battaglie; e a Caronte non pensa nessuno.

NOTE:

1 Questi è Protesilao. Vedi il dialogo 23 de’ Morti.

2 Allude ai versi d’Omero in fine del primo libro dell’Iliade.

3 Con questi versi Priamo additando Aiace ad Elena, le domanda chi egli sia.

4 Parodia di vari luoghi d’Omero.