La scena è in Tebe, davanti al palazzo reale.
Antigone e Ismene escono dal palazzo sulla strada. Parlano.
Ci apparteniamo, Ismene, occhi di sorella. Edipo, lascito d'umiliazioni... Ne sai tu una, e quale, che non farà matura, Zeus, per la nostra coppia d'esistenze? No, no. Non esiste strazio, errore cieco ovunque, non c'è piaga, barbarie, che non abbia visto, e veda, io, radici d'umiliazioni tue, e mie. Oggi nuovamente. Parlano di ordini assoluti, fatti gridare per la gente a Tebe da lui, dal generale, in queste ore. Che sarà? Hai sentito anche tu? Forse no, forse a te è oscura la manovra d'odio che umilia chi è più tuo.
A me non è arrivata voce, Antigone, dei nostri, serena, o lacerante, da quel gran vuoto, due fratelli morti nello stesso giorno, incrocio di ferite, e noi due sole. L'armata argiva è via, sulle strade, in queste ore buie. Non so altro. Niente che m'accresca dentro festa, o pianto.
Avevo visto chiaro. E t'ho chiamata fuori casa, allo scoperto, per un fatto: devi capirmi tu, sola.
Che fatto? Qualcosa t'abbuia, un'idea. Traspare.
La fossa, non capisci? Fratelli, tutti e due... Creonte esalta quello, e ha profanato l'altro. Tutti sanno. Con Eteocle è retto, ufficiale, applica la regola: l'affonda in terra, alto personaggio tra i morti dell'abisso. L'altro, dolorosa morta carne, Polinice, fa gridare a Tebe ch'è cancellato, escluso: nessuno l'affonderà sotterra. Senza ululi, lutto. Starà là, scoperto, inaridito, miniera di sapori per artigli, pupille affascinate dalla preda cruda. Che ordini: e Creonte, il generale, li ha fatti gridare, dicono, per te, per me. Per me, capisci? Adesso si dirige qui. Vuole far gridare in faccia, limpide, le cose, a chi non ha capito. Guida lui l'azione, non è gioco. Basterà un impulso, un atto, e la massa t'ammazzerà a sassate, qui dentro Tebe: supplizio di Stato. Sai cos'hai davanti: darai subito prova se la tua tempra è d'alto sangue o, da radici luminose, marcia.
Povera sorella. La realtà, eccola. Potrei tagliare, cucire. Che porterei di nuovo , io?
Forse alleanza di fatica, e rischio. Scruta in te...
Una sfida. Quale? Che mondo di pensieri è il tuo?
... se toglierai di là quel morto, alleata alla mia mano.
Pensi di seppellire lui, l'escluso, il maledetto?
Il fratello! Mio, almeno, e tuo: anche se tu non hai lo slancio. Non l'abbandono, non voglio questa colpa.
Sei di ferro! Contro Creonte, il suo assoluto no?
Non ha potere, quello, di scindermi dai miei.
Aaah! Sorella, ricordati. Nostro padre: che fine desolata. Disgusto, eroismo sbagliato. Autosvelò errori suoi, e furono vive pupille sventrate, automaticamente. Autrice del colpo la sua mano. Non basta. Lei, madre e sposa - ambigua storia - assassina la vita con pendulo collare. Terza cosa i due fratelli. Due, e in quell'unico giorno - incarnavano morte - coppia disperata, annodarono fine fatale, incrocio di colpi. Oggi siamo sole, due assolutamente sole. Tocca a te scrutare che sfacelo, che più vile morte avremo se varcheremo la legge, decreto e forza del governo. Bisogna concentrarsi in questo: siamo tempra di donne, non fatte per duelli contro l'uomo. Non basta. Siamo sotto gente forte, piegate, docili a queste cose d'oggi, o ad altre, più brucianti. Io chiederò ai sepolti che sappiano capire. Io oggi sono infranta. M'arrenderò a chi è salito in alto. Porsi squilibrate mete è assurdo, totalmente.
Non voglio spingerti. Anzi: se scegliessi tu d'importi la mia meta, non sarebbe decisione grata, a me, ormai. Scegli il tuo modo d'essere, seguilo. A lui, laggiù, darò una fossa. Dopo l'azione morirò. Sarà esaltante. M'allungherò al suo fianco, sua. Al fianco d'uno mio. Devota fuorilegge. È fatale: dovrò farmi accettare dai sepolti più tempo che da questa gente viva. Sì, là sotto sarà il mio fermo sonno. Tu fa' come vuoi: ostinati, sdegna degne cose, degli dèi.
Io non le sdegno. Ma decidere violenza a Tebe, no, mi paralizza: l'ho nel sangue.
Tu fatti questo schermo. Io m'incammino. Ammucchierò una tomba sul fratello. Mi appartiene.
Aaah, soffrirai! Quanta angoscia mi dai!
Non rabbrividire, per me: regola tu il tuo futuro.
Ti prego, non parlare mai del gesto, con nessuno. Covalo in te, nel buio. Farò ugualmente io.
Nooh, urlalo! Mi sarai nemica molto, molto più se tacerai, se non vorrai gridare a Tebe la notizia mia!
Febbre gelida ossessione hai tu in cuore.
So d'essere gradita a chi più devo.
Se avrai la forza; tu ami l'impossibile.
Solo se non resisto m'arrenderò, per sempre.
Braccare l'impossibile: ecco il primo sbaglio.
Se questa è la tua logica, tu mi hai già contro ostile, e ostilità sarà il rapporto tuo col morto. È naturale. Dimenticami. Lascia che col mio delirio io viva la tremenda prova... Ah no, non cederò, non fino al punto di morire senza luce.
Bene. Va', se così vuoi. Convinciti: è insensato andare, il tuo, ma retto modo d'appartenere a chi più t'appartiene. Antigone si allontana. Ismene rientra nel palazzo. A passi cadenzati il Coro invade l'orchestra.
str.
Lama di sole, radiosa
più d'ogni passata alba
che Tebe setteporte accese:
t'accendesti, oh sì, pupilla
d'aurora d'oro, riverbero
sul guizzo d'acqua dircea.
Tu incandescenza di scudi, da Argo,
massa viva, blocco di metallo
sferzasti, disperso galoppo
che fugge spasimo di sprone.
Su Tebe nostra Polinice, Rissoso
febbrile di risse laceranti
... fu spasimante grido:
aquila, come, che s'avvita al suolo,
chiusa ala di neve incandescente,
folla d'armi intorno
d'elmi, pennacchi di criniera.
ant.
Ecco, là sulle case. Rotea
- gola, voragine di picche innamorate
del sangue - su fauci setteporte.
Ma dileguò. Non giunse a sfamare
le zanne di sangue nostro,
né vampata di pece a strappare
ghirlanda di spalti.
S'addensò sulle schiere
tale rullo marziale! Ostica
presa di rettile in lotta.
Odio sovrano di Zeus è arroganza
di labbra sregolate. Li vide, lontana
onda immensa fluente,
lui che disprezza martellio dorato.
Fionda fuoco, dall'aereo
traguardo di bastioni sbalza
uno che già s'inarca all'ululio vincente.
str.
Si libra. Piomba sulla piana, sorda
incudine, carico di fuoco. Smaniava
ossessionato, orgia di folate
raffiche rabbiose, come vento.
Tutto vanamente: gli altri,
a ciascuno il suo. Spartiva Ares,
brutale picchiatore, bestia da curva.
Sette capi contro sette porte:
duelli in equilibrio, e al dio di disfatta
lasciarono regali di metallo pieno.
Esclusa la coppia disperata, doppio
frutto d'unico padre, d'una madre sola
fermo incrocio di punte trafiggenti, equa
spartizione di una fine insieme.
ant.
E arrivò Vittoria, nota di grandezza
riverbero di festa, in Tebe fitti carri.
Oggi usciamo da una guerra.
Cancelliamo il ricordo.
Tocchiamo in processione fino all'alba i templi
degli dèi. Bacco, palpito di Tebe,
scorti i passi.
Laggiù! Vediamo il principe di Tebe
Creonte, di Meneceo... nuovo,
per nuove coincidenze sovrumane.
Eccolo. Ritma pensieri. Ma quali?
Ha voluto adunanza immediata
di noi vecchi. Comando
assoluto. Per che?
Creonte esce dal palazzo, con pochi armati.
Uomini, Tebe non traballa più! Dèi ce l'hanno martellata, con risacca dura. Poi, l'hanno rimessa in rotta. Io ho eletto voi. Con dispacci v'ho riuniti, isolati da tutti: so bene il vostro culto vivo per i governi in trono, via via, di Laio prima, poi quando Edipo pilotava Tebe. Poi sparve, ma voi sempre saldi, con radicati sentimenti verso i loro eredi. Caddero anche i figli, morti annodate in quell'unico giorno, offensori trafitti, delitto, cancro suicida. Ora io, io impugno governo e trono. Io, per legami di famiglia ai morti. Bene. Non c'è strumento a decifrare un uomo, il suo profondo io, sentimenti, ideali, se non l'illumina - pietra di confronto - fatica di comando e legge. Ho una teoria, io, da tanto, sempre viva: chi regola sovrano la barra dello stato, e non si stringe alla politica più sana, anzi, per indefinite ansie inchioda le sue labbra, è l'essere più abietto. Io poi non ho fiducia in chi, chiunque sia, dà maggior peso ai suoi che alla sua stessa patria. Guardate me. Su Zeus, occhio cosmico, perenne, giuro: non tacerei vedendo Perdizione che attacca i cittadini, invece di salvezza. E un uomo, fosse sangue mio, ma pieno d'odio per lo Stato, non lo vorrei con me. Sono convinto! Stato significa sicuro porto; se naviga diritto noi, gente imbarcata, sentiamo d'appartenerci tra di noi, solidali. Con queste regole farò grande Tebe, io. Veniamo ad oggi. Ho fatto gridare ai cittadini un ordine sui figli d'Edipo, che ben s'accoppia alle regole che ho detto. Eteocle s'è battuto per la sua comunità, e cadde. Eroe, con la lancia. Va avvolto di terra. Gli toccano chiare bevande, che filtrano giù, agli altissimi morti. L'altro - identico sangue, di Polinice, parlo - era reduce esule, ebbe slancio d'incenerire alle radici terra madre, Potenze della stirpe. Si slanciò goloso su sangue uguale, volle la sua gente serva. Per quest'uomo echeggia in Tebe la proibizione: non chiuderlo in fossa, niente ululi a lutto, relitto senza fossa, carne offerta cruda a uccelli, e cani. Vista oscena. Ecco il mio principio: nessun vantaggio di favore, mai, da me, dei pessimi sui retti cittadini. Chi darà tutto per questa città nostra, caduto o vivo, senza distinzione, avrà da me sicuro premio.
Tu scegli il trattamento, figlio di Meneceo, per chi s'accanisce contro, e per chi si fa scudo a questa nostra Tebe. Tu sei padrone della legge. Sta in te il futuro dei caduti e di noi, gente viva.
Che siate scolta, ora dei comandi detti...
A uno fresco, più di noi, addossa il carico.
Questo no. Già ci son occhi di scolte sulla salma.
Che altro ordine aggiungeresti?.Sofocle Antigone
Non parteggiare con chi resiste a me.
Innamorarsi della morte: nessuno è tanto vuoto.
Guadagnerebbe morte, infatti. Speranze subdole d'arricchimento, quante vittime fanno!
Si presenta una Guardia. Era incaricata di vigilare sulla salma di Polinice.
Capo, non ti dirò che ho fiato mozzo per la fretta, che arrivo mulinando aereo passo. Anzi! Quante tappe d'ansia, di pensieri. E camminando, tante volte, perno su me stesso e via, in ritirata. Ah sì! Avevo un'eco nel cervello e ripeteva, ripeteva: sei nei guai, perché marci a meta di castigo? Che guaio, stai ancora fermo? Se Creonte saprà tutto da diversa bocca, come pensi di non pagarla cara? Gorgo di pensieri. E il viaggio era vischioso, lento. È quando un breve tratto si fa lungo. Ma poi per forza, la scelta vittoriosa è stata di venire qui, da te. Non varrà nulla il mio racconto. Non importa, parlo. Io sono qui, m'attacco alla speranza di non soffrire altro: solo la mia quota.
Che c'è, da sfiduciarti tanto?
Sento che devo darti chiarimenti, su di me, per cominciare. Quel gesto, io non l'ho deciso. Neanche ho visto l'autore, io. Sarebbe poco giusto, se cadessi nei castighi.
Bella mossa. Bella trincea hai fatto intorno al tuo problema. Stai per confessare strane cose. Te lo leggo.
Eh, sì, tremende. Mi paralizzano, mi bloccano.
Vuoi deciderti? Parlare, poi levarti, scomparire?
Dico, dico tutto. Il corpo, uno, adesso, gli ha fatto funerale e se n'è andato. Poca polvere arsa su quel morto, velo di farina. E l'altro rituale, in regola.
Cosa dici? Che uomo l'ebbe, quel coraggio?
Non so. Non c'era buca di badile, là, né sterro di piccone; solido, asciutto suolo, senza crepe, senza rotaie di carro; chi ha lavorato, l'ha fatto senza indizi. Quando la scolta al primo turno ci segnala, disperazione incredula ci invade, tutti quanti. Quello laggiù era velato. Non proprio tumulo. Fragile, sparsa polvere: pareva tentativo di cancellare l'empietà. Non brillavano segni di bestia, o d'arrivo di cani, a rovistare. E c'era tempesta di parole sconce, nel gruppo, tra noi, uomo che incolpava uomo, e finiva a suon di pugni, quasi. Non c'era paciere. Eh sì, uno per uno, chiunque là in mezzo aveva fatto il gesto, nessuno era lampante: non aver visto niente era la scusa. Accettavamo tutto: alzare con le mani ferri incandescenti, andare nelle fiamme, giurare e spergiurare di non essere noi la mente di quell'atto, né braccio di chi l'ha meditato, o l'ha concretamente fatto.
Non si faceva un passo avanti, su questa pista. Allora parla uno, parola che c'inchioda gli occhi a terra dall'angoscia. E che c'era da rispondergli? Che mezzo, che diversa scelta, per toglierci dai guai? Ecco il piano: bisognava riferire il gesto a te, senza misteri. Fu convincente. Ah sono sfortunato, io! Si sorteggia, e capito io, per questo bel lavoro. E mi presento: mi dispiace, e a voi non piacerà, lo sento. Non c'è simpatia per chi giunge con notizie storte.
Principe, chissà, fu forse per celeste impulso il gesto. È un'insistente idea che m'ispira.
Basta! Parli, e già quasi mi gonfi d'ira tesa. Vuoi che ti scopra vecchio, e in più senza cervello? Dici ribelli assurdità, se dici che i Potenti spendono un pensiero per quel tale, là, cadavere. Com'è? L'incensano, il benemerito, col fregio d'una fossa, uno venuto a incenerire santuari colonnati, ex-voto, terra di quegli stessi dèi, e a sgretolare leggi? O sai di dèi capaci di esaltare il vizio? No, no. Piuttosto quell'insistente brontolio coperto, in Tebe, d'individui che non mi sopportano. Scuotere di teste. Colli non docili alle stanghe. Criminali! Io non piaccio loro! È lì la fonte, in questa gente: e il lavoro l'hanno fatto gli altri, traviati da una paga. Ah, non c'è rigoglio, in terra, di sinistra usanza, come il soldo.
Dirocca terre, spopola le case. È buon maestro, deforma rette menti, che restano aggrappate al vizio, al crimine; squaderna all'uomo i modi del delitto, lo fa colto d'ogni profanante agire. Quei mercenari, braccio materiale della colpa, qualcosa han ricavato: salderanno il conto, oggi, domani, al giusto tempo. (Rivolgendosi alla Guardia) Attento, se religione vive salda, in me, di Zeus, cerca di capirmi bene, io ti giuro: se non scovate, se non mettete in luce, qui, davanti agli occhi miei la mano che scavò la fossa, per voi l'inferno sarà troppo poco, prima che appesi per i polsi denuncerete l'atto squilibrato. Vi servirà a capire qual è la giusta vena del denaro, da cui cavarne, d'ora innanzi. Così saprete che far denaro avidamente, da qualunque parte, non si deve. Ormai vedi tu stesso: la conseguenza dei guadagni ladri è perdizione, non felicità.
Una parola. Me la darai, o giro su me stesso e vado?
Ma non capisci che solo la tua voce mi trafigge?
Nei timpani t'azzanna, o dentro, più profondo?
Scandagli il punto del soffrire. A che?
L'autore ti trafigge l'anima. Io i timpani.
Sei chiacchiera vivente, splende chiaro.
Ma uno che quel gesto non l'ha fatto.
L'ha fatto. E s'è venduto per denaro.
Fa paura, eventuale giudice con pregiudizi errati!
Rìdici, sul giudicare. Provate a non far luce, sulla mente che decise. Racconterete che basso profittare genera soffrire.
(Creonte rientra nel palazzo)
(Al Corifeo)
Ah, si scoprisse! Lo vorrei tanto! Lo arresteranno, oppure no - dipende dalle circostanze - comunque non mi vedrai tornare, sta' sicuro. Adesso - più non speravo, non immaginavo - ho un bel debito, con gli dèi.
La Guardia scompare.
str.
Pullula mistero. E nulla
più misterioso d'uomo vive.
Oltre increspato mare
su folate d'autunno
corre, rete di fragori,
pista sotto arcate d'acqua. Tra dèi
l'altissima, Terra,
sempreviva, che non sa stanchezze, strema,
aratri altalenanti, ritmo di stagioni,
rivanga con forza di cavalli.
ant.
Svagata razza
d'uccelli in gabbia, preda,
e orde di selvagge prede
e salmastra natura di mare
con trama flessibile di nodi,
uomo, pensiero che spazia: prostra
con ordigni preda che sotto aperti cieli
abita le rocce, e così imprigiona
a stanghe di fatica collo equino
boscoso, e toro delle rocce che non sa stanchezza.
str.
E di linguaggio, d'ariose
intelligenze, di forze armonizzate
in leggi e mura, fu maestro a sè. E di rifugi
da lame di gelo sotto gli astri
impossibile vivere - e d'ostici scrosci,
infinito artista: inerte non affronta
nessun domani. Solo dal Nulla
non costruirà vie di fuga.
A malattie senza perdono scudi
ha ideato.
ant.
Lume della mente, mani artefici
senza limiti: ecco l'uomo.
Pure scivola nel vizio. Tende a virtù
se attua codici terreni
e retti patti di divinità. Allora
è colonna dello Stato: Stato non ha
chi è intriso d'arroganza, d'immoralità,
Non voglio tra le mie pareti,
non voglio nella mia amicizia
chi tanto osa.
Compare la Guardia che trascina Antigone.
È assurdo, sovrumano: si lacera
la mente. Io la conosco. Come smentire
che è lei, Antigone, che viene?
Ah ostico fato
e ostico fato d'Edipo padre!
Che fai? Sei ribelle al palazzo,
ai decreti? Ah lo sento. Ti trascinano,
sorpresa in delirio.
Eccola qui. Ha lavorato lei. Bel lavoro. Scavava, e noi l'abbiamo presa. Su, dov'è Creonte?
Creonte appare sulla soglia del palazzo.
Là. Rispunta dalla soglia in tempo.
A che? A che coincidenza giungo giusto?
Capo, giurare no è un controsenso. Ci pensi sopra, e la tua idea di prima è già fasulla. Io lo dicevo forte: ce ne correva, prima di ripresentarmi qua, dopo la grandine delle maledizioni tue! Ma quella gioia strana, che non t'aspetti più, quella non ha confronto con altre contentezze, tanto è grande! E quindi sono qua, falso e spergiuro, che m'importa? Porto la ragazza, guarda. Pescata che accudiva il morto. Niente sorteggio questa volta. Tutta buona stella mia, solo mia. Bene, capo. È ora che la tieni tu. Fa' come vuoi, processala, falla confessare. Io posso andare, fuori da questa brutta storia. Me lo merito.
L'hai prigioniera. Presa dove, come?
Scavava lei la fossa: non c'è altro.
Ti rendi conto, vero, sei certo del tuo dire?
L'ho vista, almeno, che sotterrava quel tuo morto, quello del divieto. Parlo chiaro e schietto, o no?
E il metodo della scoperta e dell'arresto?
L'operazione fu così. Tornammo indietro, col terrore delle tue minacce. Cancellammo l'ombra della polvere sul morto, scoprimmo la carne che sudava. Una bellezza. C'eravamo sistemati su rialzi, in cima, sottovento, fuori tiro dai miasmi che il morto ci buttava. Tutti svegli. E che scossoni, bestemmie martellanti, se capitava di distrarsi sul lavoro. Durò del tempo, tutto questo: finché nell'aria, a piombo, s'inchiodò lampo di rotondo sole. Bolliva la calura. Un attimo, e gorgo strappa guizzi di polvere dal piano - spasimo del cielo - e copre l'orizzonte, sfilaccia tutta scarmigliata la foresta in basso. L'arco celeste fu polvere. Chiudevamo gli occhi sotto la crisi sovrumana. Trascorsero le ore, e tutto si quietò. Fu allora: si vede la ragazza. Stride, nota acre, d'uccello lacerante quando vede il fondo del nido suo deserto, e i piccoli scomparsi. Quella uguale, come vede morta nudità ululò, pianse, maledisse, male parole contro i delinquenti autori del delitto. Poi di volo porta pugno di polvere bruciata, alza una brocca di metallo martellato, fa spiovere tre volte l'aspersione e così consacra il morto. Noi, testimoni, scattiamo, l'intrappoliamo di volo, tutti insieme. Lei è indifferente. E noi la scandagliamo, sul gesto del passato, e quello d'ora. Lei non s'irrigidiva, non smentiva nulla. Nodo di sollievo e d'amarezza, per me almeno. Gran sollievo aver schivato danno personale, ma è amaro far precipitare chi senti a te vicino. Ma tutto il resto viene dopo: per me conta la mia incolumità. Questione di carattere.
Tu, ehi tu, che inchiodi gli occhi a terra: ammetti o neghi la responsabilità dei fatti?
Io sono responsabile. Non negherò, non voglio.
(Alla Guardia)
Tu puoi sparire. Scegli il luogo, l'accusa non ti schiaccia più. Sei libero.
(Ad Antigone)
Tu, rispondi senza ghirigori, taglia corto: sapevi l'ordine gridato di non fare riti?
Sapevo. Non dovevo? E come? Così limpido, splendente...
Hai potuto spezzare norme mie?
Ah sì. Quest'ordine non l'ha gridato Zeus, a me; né fu Diritto, che divide con gli dèi l'abisso, ordinatore di norme come quelle, per il mondo. Ero convinta: gli ordini che tu gridi non hanno tanto nerbo da far violare a chi ha morte in sé regole sovrumane, non mai scritte, senza cedimenti. Regole non d'un'ora, non d'un giorno fa. Hanno vita misteriosamente eterna. Nessuno sa radice della loro luce. E in nome d'esse non volevo colpe, io, nel tribunale degli dèi, intimidita da ragioni umane. Il mio futuro è morte, lo sapevo, è naturale: anche se tu non proclamavi nulla. Se prima del mio giorno morirò, è mio interesse, dico: uno che vive come me, tanto in basso, e soffre, non ha interesse nella fine? E così tocca a me: fortuna, di quest'ora di morte, non dolore. Lasciassi senza fossa, per obbligo, la salma, quel frutto di mia madre spento, quello era dolore: ma il mio presente caso, ah no, non m'addolora. Logica idiota, penserai. Chissà. Forse è l'accusa d'idiozia idiota.
Spicca nella figlia tempra cruda, da crudo padre. L'umili, e non si curva.
Attento. Cervelli ferrigni, si spezzano più spesso. Come acciaio: il più possente, in tempera di fuoco, arso, lo vedi che si scheggia, schianta. So che basta un po' di freno, e s'addomestica il puledro ardente. Non deve esistere arroganza in chi sta sotto, servo. Lei era lucida, superba, quando trasgrediva, derideva leggi proclamate chiare. La senti? Non le basta colpa, aggiunge un'arroganza nuova: si gloria, della colpa, n'è radiosa. Ora basta. Non sarei più maschio, io, lei sarebbe maschio se questa prepotenza passasse senza pena. Figlia di sorella, sia pure. Fosse pure legata al sangue mio più dello stesso Zeus della casa, lei, e l'altra del suo sangue non scamperanno ai loro due supplizi vili. Certo, incrimino anche l'altra, assente, d'aver pensato a questa fossa. Fatela venire. Ora capisco: l'ho scorta nella sala, adesso. Lottava con se stessa, non si dominava. L'impulso criminoso, di chi architetta storte trame al buio, si smaschera in anticipo. Accade sempre. Provo disgusto, io, di chi, sorpreso in atto degradante insiste a esaltarlo e si compiace.
E che ti piacerebbe? Farmi ammazzare e poi, che altro?
Niente. Mi basta. Con questo ho tutto.
Perché perdi tempo? Tu hai le tue ragioni. Non le accetto. Non le accetterò mai. Così per te: le mie ti disgustano. È nelle nostre essenze. Dimmi, da dove ricavavo luce di più illustre fama, se non con rito della fossa a mio fratello? Anche da questa gente sarebbe voce piena di consenso, senza sigillo di terrore in bocca. Ma il despota è baciato dai celesti, sta in lui decidere, parlare come crede.
Tu scorgi tutto questo: ma sei la sola, in Tebe.
Scorgono anche questi: ma con te sono muti, scodinzolanti.
Non hai pudore, a sentirti isolata con le tue idee?
Non è vile il culto per chi venne da comune ventre.
Non è sangue uguale, l'altro, caduto nello scontro?
Sangue uguale. Unica madre e uno stesso padre.
Perché questo tributo d'amore profanante?`
Il caduto, l'ucciso non attesterebbe questo.
Sì, se l'eguagli al profanatore, nell'omaggio.
Non uno schiavo, una cosa. Un fratello m'era morto.
Rapace, sul paese: l'altro in trincea, a contrastarlo.
Non conta. L'invisibile riequilibra tutto. E la sua legge.
Ma non che probità sia ripagata come bassa colpa.
È principio santo nell'abisso? Mistero.
Odia uno. Potrà morire, non lo sentirai mai tuo.
Non nodo d'odio: nodo con i miei è la mia essenza.
Allora va' là sotto. Se devi unirti, unisciti coi tuoi, con quelli. Finché vivo, non mi comanderà una donna.
Dalla soglia appare Ismene.
Eccola, Ismene, là sul limitare.
Pianto di sorella giù le stilla.
Nebbia sulle palpebre l'infuocato
viso rabbuia,
intride la gota, gioia d'occhi.
Tu, come rettile subdolo losco nelle stanze, m'hai riarso. Ah non capivo, sfamavo coppia maledetta attentatrice del potere. Avanti, parla. Guardami: confessi connivenza in quella fossa, o giuri estraneità?
Io ho voluto il gesto, se lei s'accorda sul mio remo. Partecipo al carico d'accusa.
Ma retta verità non te lo lascia fare. Tu non avesti slancio. E io non volli complici.
Ma ora tu sei disperata: e io non ho pudori a scegliere con te la rotta della pena.
La mano di chi agi è nota a Nulla, e a quelli dell'abisso. Io non accetto come mia una che vuole appartenermi, ma a parole.
Non annullarmi, Antigone, col negarmi morte accanto a te, e rito di pietà sul morto.
Non puoi spartire la mia morte. Non t'impadronirai di cose che hai da te scostato. Morirò io. Basterà.
Come sentirò mia la vita, se mi lasci?
Interroga Creonte. È lui nei tuoi pensieri.
Mi spezzi, così. Perché? Non ne ricavi bene.
Mi lacero, dentro, se oggetto della beffa mia sei tu.
Allora dimmi. Che bene potrei farti, io?
Pensa a te stessa. Non ti rinfaccio la salvezza.
Dovrò patire tanto, fallire meta di morte con te?
Sì. Tu preferisti vita, io morte.
Ma per ragioni non taciute, almeno.
Luminosa scelta, la tua, per alcuni. La mia, per altri.
Pure, c'è equilibrio di colpa, in noi due.
Calmati. Tu sei sempre viva. Il mio io da tanto è nella morte, ed io conforto i morti.
Guardatele! Due donne nel delirio: una da oggi, l'altra dal suo esser viva.
No, principe, germoglio di pensiero non resiste, sfuma in chi ha perduto tutto.
In te è così, che scegli perdizione coi perduti.
Che esistere sarebbe, il mio, senza di lei?
Non parlare più di lei: lei non esiste, ormai.
Assassinare le nozze di tuo figlio? Lo farai?
Ci sono solchi d'altre, buoni per l'aratro.
Ma non l'unione che saldava lui a lei.
Donnacce, fango! Le rifiuto, io, per i figli.
Emone, mio, mio! Come ti disprezza, il padre.
Esageri, m'annoi, tu, col tuo sposalizio.
La strapperai davvero al figlio tuo?
Il Nulla cancellerà l'unione, fatalmente.
Lei dovrà cadere, allora. È legge fissa.
Fissa, per te. Per me, perfino. S'è perso troppo tempo. Servi, portatele dentro. Devono essere rinchiuse, non sciolte, Anche i più duri cercano la fuga, quando vedono la vita sul baratro del Nulla.
Antigone e Ismene vengono arrestate dagli armati di Creonte, e condotte nel palazzo.
str.
Benedetto, se la tua vicenda non assapora colpa.
A chi si sradica la casa - e dio è fonte - gorgo
d'ininterrotta perdizione attacca il ceppo, intero.
Come accade che ribollire
d'acque sotto folate irte, ostiche del nord
precipita in vertigine salmastra:
mulina dall'abisso sabbia
buia. Rabbia di vento,
e rugge, e piange l'incudine di scogli.
ant.
Dall'origine fisso i Labdàcidi: gente
sotto frana di mali su mali, eredità
dei morti. Età non libera età. Un dio
sgretola. Non esiste spiraglio.
Oggi ancora. Luce s'allungava sull'ultima
radice, nelle sale d'Edipo
e subito lama sanguinaria
di sotterranei dèi la falcia:
delirio di parole, e ossessione innata.
str.
Zeus! C'è prepotenza d'uomo
che ingabbia la tua forza?
Non la blocca sonno, che fa sfiorire,
né irriducibili stagioni
celesti. Fiorisce nei secoli il tuo regno:
domini trasparenze
scintillanti d'Olimpo.
Spazio di giorni, d'avvenire eterno,
di passato: s'impone ovunque
la legge che esistenza d'uomo sfiora
sublimi altezze solo con colpa, e perdizione.
ant.
Speranza che brancola, randagia
conforta molti, nel mondo:
molti illude, fascino di deliri vuoti.
S'annoda nell'inconscio,
prima che uno s'arroventi al fuoco della vita.
Ecco un'illuminante verità,
riflesso d'esperienza savia:
male pare bene, qualche volta
a chi il cervello preda
dio, e acceca.
E fuori da rovina cieca vive poco.
Entra in scena Emone.
Guarda Emone, ultimo frutto
della tua famiglia. Occhi bui.
Forse per la fine d'Antigone promessa?
Rimpianto lacerante della sposa che gli sfugge?
Sapremo subito, più chiaro di veggenti.
(A Emone)
Ragazzo, che c'è: hai udito la sentenza sulla futura moglie e ti presenti tempestoso al padre? O noi - comunque decidiamo - ti apparteniamo sempre?
Padre, ti appartengo. Tu mi piloti, coi tuoi principi probi. Essi sono faro, per me, almeno. Lo sai. Non hanno peso, le nozze, per me: non più di te, che m'illumini la strada.
Figlio, deve essere questo il pilastro interiore: prima ciò che pensa il padre. Tutto il resto dopo. L'ambizione umana d'avere in casa figli sempre docili tende a che ti siano scudo ai colpi dei nemici, e condividano, di te padre, la stima per chi senti tuo. Ma se uno sparge semenza di figli incapaci, che fa? Dà vita a dolori, per sé, e a festa di risate per chi l'odia. Null'altro. Figlio, non perdere il cervello, ora, dietro a sesso di donna. Devi sapere che dà brividi stringere una donna, se quella che ti porti a letto, e in casa, è perfida. Può esistere ulcera peggiore di un legame sporco? Sputale in faccia. Ci odia, quella. Lasciala cadere dentro al Nulla, che si mariti là. lo l'ho sorpresa che tradiva in piena luce, lei sola in tutta Tebe: ora, non posso certo fare il fantoccio di me stesso. L'ammazzerò. Può sfogarsi, con la nenia a Zeus del sangue uguale. Se covo creature sregolate in casa mia, chissà fuori. Chi fra le quattro mura è vero uomo, anche nello Stato fa, limpidamente, il suo dovere. E questo stampo d'uomo - col fondo di me stesso credo - sa essere luminoso capo, e sa accettare i capi: esposto a raffiche di lancia ti si blocca a fianco, baluardo retto, degno. Ma c'è anche l'arrogante pazzo: spezza leggi, medita attentati all'autorità. Escludo che strappi consensi da me. A chi lo Stato innalza, docilità si deve: nelle minori, nelle diritte, e nelle opposte cose. Del non governo non c'è peggiore male. Sbriciola stati, spopola case. Schianta, spazza via lance nello scontro. Nei vittoriosi, fedeltà ai comandi salva molte vite. Chiudo: urge sostenere l'ordine vigente, non arretrare davanti a donna, mai. Preferisco, se devo, crollare sotto pugno maschio, e non sentirmi dire che m'arrendo a donne.
Se gli anni non ci annebbiano, diremmo ragionevoli le tue ragioni.
Padre, innestano gli dèi nell'uomo la ragione, sovrana dei valori. Io non avrei forza, non avrei parole a dire che questo tuo parlare non è retto. Proviamo a non scartare lucide ragioni dentro idee diverse. Tu non puoi scrutare - sarebbe sovrumano - minime parole, gesti, indefinito mormorare in Tebe. E la tua faccia rende muto l'uomo della strada... Voci che non rallegrerebbero il tuo udito. Io sto dietro le quinte e percepisco certe cose: le lacrime di Tebe per la giovane che sai, che sfuma in morte degradante, lei, la più trasparente delle donne, per gesti che svettano di luce; lei non ammise che il suo stesso sangue, che il fratello crollato nella pozza rossa si consumasse, scoperto, sotto cani sanguinari, e volo di rapaci. Se non lei, chi merita fregio d'oro puro? Questa voce striscia nel silenzio nero. Per me, padre, non c'è più nobile tesoro di quando successo ti sorride. Che cosa esalta un figlio più che rigoglio luminoso di suo padre? E un padre, di suo figlio? Ma tu non chiuderti in consuetudine esclusiva, nella certezza che quanto tu declami è retto, e solo quello. Uno, chiunque sia, con l'illusione di essere la mente, capace d'espressioni, d'interiori mondi senza uguali, srotola, tu, uno come quello, e sotto gli occhi avrai pagina bianca. Un uomo può sapere molto: ma certo non s'infanga se approfondisce, studia cose nuove. O se rifiuta gli eccessi. Guarda rasente i corsi d'acqua in piena, l'albero che si flette, accondiscende: sottrae, salvi, i rami. Quello che s'irrigidisce crolla, le radici in aria. Ancora: uno tende i cavi, nerbo dello scafo, e non allenta mai. S'avvita, finisce fluttuando col ponte sottosopra. Raffredda, allora, la tua febbre. Mostra che sai correggerti. Io sono troppo giovane, ma se da me può nascere un'idea, dico forte che il più nobile valore è la capacità di riflessione, sempre viva, innata. Altrimenti - ma la tendenza generale, in questo, è ben diversa - bello è imparare da chi ragiona bene.
Principe, se è coerente ragionare il suo, è umano che tu apprenda.
(A Emone)
Come tu da lui: coppia egregia di discorsi.
Io, con i miei anni, scolaro di ragionevolezza da uno che ha i suoi pochi anni?
Su nulla d'immorale. Sono un ragazzo. Ma non è l'età: l'impegno conta.
Impegno, prosternarsi ai rivoltosi?
Non chiedo d'inchinarsi ai perfidi, certo.
E lei, non ha addosso questo cancro?
Tebe, con la sua gente le si stringe intorno, e solennemente nega.
Sarà la gente, ora, a dirmi che comandi dare!
Vedi, che immature parole pronunci?
Altri, non io, dev'essere guida del paese?
Paese possesso d'uno solo? Non esiste.
Non è di chi ha potere? Non è questo l'uso?
Splendido potere. Tu sopra una terra vuota!
Costui s'allea a quella donna, l'ho capito.
Se sei donna, tu: tu sei nei miei pensieri.
E mi processi, pezzo di canaglia?
Non sei retto, sbagli, sbagli: io lo vedo.
Sbaglio, se ho alto senso del potete?
Non è alto sentimento, violare religione.
Sei marcio, dentro! T'accodi a donna!
Ma non mi lascio travolgete dal fango.
Però ogni parola tua è per far scudo a lei.
E a te. E a me, e ai numi dell'abisso,
È certo, non l'avrai moglie viva.
Cadrà, e nella sua caduta perderà qualcuno.
A questo punto? Fino alla sfida folle, bruta?
Che sfida? Ragionate contro vuote idee?
Vuoi farmi ragionate. Ma stagioni tu. Ti pentirai.
Se non mi fossi padre direi che perdi la ragione.
Sei un oggetto, utensile di donna. Non solleticarmi.
Vuoi monologare. Tu non ascolti mai.
Davvero? Ah, dio, dio, tu mi ferisci, mi offendi. Ma non potrai riderne.
(A un armato)
Portami il pomo di discordia. Deve morire adesso. Qui, davanti al fresco sposo. Che la veda bene.
Non davanti a me morrà. Non pensarlo. Tu non m'avrai più negli occhi. Sparirò. Sta con i tuoi, se accettano la tua ossessione.
Emone esce.
Principe, è scomparso. Rabbioso volo. Mente tanto giovane, trafitta, è una minaccia.
Sta a lui decidere. Coltivi l'arroganza assurda. Non stornerà fatale fine dalle due.
Come, pensi di giustiziarle entrambe?
Ah no, non quella che s'astenne: dici bene.
A che modo di condanna pensi?
Condurla dove non c'è pista d'uomo, farla sparire viva in sasso cavo. Le darò pane, giusto per sacro scampo: la peste non dovrà lambire Tebe. Là supplicherà Nulla, il solo dio della sua fede: chissà, le toccherà di non morire. O almeno capirà, e sarà l'ora, che è stupida fatica il culto al mondo dell'abisso.
Creonte rientra nel palazzo.
str.
Eros, che disarmi,
Eros, che invadi vivi beni,
che passi le tue notti
su guance delicate
della donna in fiore,
spazi oltremare
e nei ricoveri dei campi.
Tra chi non ha morte, tra chi
tramonta, nessuno ti schiva.
E averti è ossessione.
ant.
Tu rette menti dirotti,
perverti a degradarsi.
Hai acceso la rissa
tra padre e figlio, identità di sangue.
Vince Incanto, lucente vibrazione
dalle ciglia della donna amata:
Incanto che si asside tra Potenze
regolatrici della vita. È nel gioco la celeste
Afrodite, che disarma.
In quest'ora, vedendo che accade, varco
anch'io la base della legge. Non ho forza
di chiudere lo sgorgo del mio pianto
mentre vedo Antigone che giunge
a stanze di riposo eterno.
Entra in scena Antigone, circondata da guardie.
str.
Mi vedete, gente di mia terra antica:
supremi passi
allineo, suprema scintilla
m'abbaglia di sole.
Poi buio. Il grande sonno,
il Nulla, mi vuole. E sono viva!
Alla riva
d'Acheronte! Non mi toccano
note di nozze. E al mio
sposalizio, musica muta!
Sposerò Acheronte.
Luminosa, in trionfo di lode
scivoli nell'abisso morto.
Senza attacco di febbre languida,
Senza premio largito da lama.
La tua legge sei tu. Di chi ha dentro
morte, sola viva tu cadrai nel Nulla.
ant.
M'hanno detto la fine disperata
della straniera frigia,
quella di Tàntalo, sul Sìpilo
acre. Come tenaglia d'edera
rigoglio di sasso l'incurva.
Oggi pioggia rode, slava
leggenda d'uomini -
e neve senza posa
intride dai cigli - cascata
di pianto - i fianchi. Su lei
mi modella Potenza di funebre letto.
Ma era celeste, radice divina.
Noi siamo umani, la morte nel sangue;
è vero: ti spegni. Ma è grandioso: diranno
che spartisti destino con stirpe di dèi,
nella vita e nell'ultima ora.
str.
Aaah, mi schernisci! Sugli antichi
dèi, perché mi spezzi
prima che io parta,
qui sotto i tuoi occhi?
O Tebe, o nobili di Tebe
che tanto potete!
Aaah, acque
dircee, santa cerchia di Tebe, ricchezza
di carri, testimoni astratti vi voglio:
come sola, senza pianto di miei, e per che leggi
vado a cella, cumulo tombale
d'incredibile fossa.
Fato ostile: esclusa dagli esseri
vivi, cadavere vivente
senza vita, senza morte!
Ti tendesti a frontiera d'ardimento
e fu duro urto all'aereo
soglio di Giustizia: duro urto, figlia.
Saldi paterno dissidio.
ant.
Hai toccato l'angoscia
che più mi brucia
ritornello dolente del padre,
patimento vivo
in noi tutti
chiari eredi di Làbdaco.
Aaah materno perdersi
in quell'amore, unirsi nel letto col sangue
proprio, madre disperata con mio padre:
e ne nascevo io, vita di dolore!
Col mio marchio, senza uomo, io
io, capisci, sto per trasferirmi là, da loro.
Ah, fratello, che sinistre nozze
le tue! Morto, mi trafiggi l'esistenza.
Rituale pietà e gesto religioso.
Ma il potere! Chi fa suo il potere
non ammette varchi.
Scatto istintivo t'ha annientato.
ep.
Nessuno mi piange, nessuno è mio, non ho
note di nozze. L'anima in pezzi,
strascino passi segnati!
Soffro: il mio occhio non ha più diritto
a quel puro scoccare di luce.
La mia fine è riarsa:
nessuno l'irrora di pianto.
Ricompare Creonte: si rivolge agli armati che circondano Antigone.
Nenie, singhiozzi? Ancora? Nessuno ci rinuncia, in faccia a morte, se servono parole. Portatela via. Sparite! Affondatela nel nero di una fossa. Fate come ho detto! Lasciatela nel vuoto, nel silenzio. Vorrà morire, vorrà la vita sepolta in quel suo covo, non importa: non ci contamina, la sorte della donna. Solo, si spezzerà il legame con il mondo vivo.
Ah fossa, ah prima notte d'amore, casa nell'abisso, eterna cella! Scendo laggiù, dai miei. Quanti, quanti perduti e Morte li ospita tra gli estinti. Resto io, l'ultima. Sprofondo, degradazione senza pari. E la mia parte di vita non è colma! Cammino, e ho dentro una speranza, viva: che arriverò dal padre per appartenergli sempre, e per essere tua, madre, e tua, fratello morto. Perché io, con le mie mani ho rialzato i corpi, li ho lavati, ho sparso le bevande sulle fosse. Oggi, Polinice, ho seppellito il tuo cadavere: ed ecco il frutto. Doveroso rito, direbbe la ragione; certo avessi avuto in me forza di madre, e figli miei, o fosse sposo mio putrido di morte, non avrei tentato questa prova, sfidando il potente. A che logica obbedisce, e a che diritto, quanto dico? Fosse stato lo sposo, a cadermi, trovavo altri. E altri figli, da diverso uomo, se restavo senza figli. Ma padre e madre, uniti, posano nel profondo Nulla, e rifiorire di fratelli non è dato. Ecco il diritto per cui t'ho scelto, t'ho nobilitato, fratello caro: e Creonte lo giudica colpa, e scatto assurdo. Ora mi strappa a forza viva, m'imprigiona: e non ho uomo, non ho festa di nozze, non ho futuro di donna, figli da avere, cullare. Sono un relitto. Non ho nessuno. Parte atroce: viva, vado dentro pozzo morto. Quale norma di Potenti ho scavalcato? Dovrei rivolgere lo sguardo a dio. E come? Sono disperata. Chiedere che uno si batta per me? E chi? Sacro gesto sacrilegio m'ha addossato. Forse tutto questo ha un senso, tra gli dèi. E allora, vivendo il mio dolore, decifrerò dove ho sbagliato. Se invece sbaglia quella gente, vorrei per loro non peggiore pena del male che, barbaramente, decidono per me.
Eccolo, vortice identico, identica
tempesta dello spirito l'invade.
E costerà pianto ai carcerieri
questo pigro andare.
Aaah, grido che arriva
a soglia di morte.
Non spreco fiato, io, a darvi la speranza
che non sia questo il senso delle cose.
O case di Tebe, nativo paese
dei padri
sono preda, precipito.
V'abbaglia, potenti di Tebe, la scena
di me sola sopravvissuta dei re
che soffro, da che gente, e che cose: io
che a sacro gesto consacrai me stessa.
Antigone viene trascinata fuori.
str.
Si rassegnò anche Danae, la bella
al distacco dall'aria luminosa, nel chiuso
di nodi di metallo. Scomparve
in funebra stanza nuziale. Fu coperta.
Ed era d'alta nobiltà,
figlia. Fu scrigno
di rivolo d'oro,
dei semi di Zeus!
Ma esiste fatale potenza
sovrumana.
Fortuna, armi,
baluardo, battito di remi
di navi nere: nulla sguscia.
ant.
Fu coperto il figlio di Driante,
tagliente re d'Edoni. Fu scabro,
astioso, e Dioniso lo volle
murato in morsa di sasso.
Trasuda paurosa ostinazione
gemma della sua pazzia. Li ripensò
l'attacco pazzo al dio,
lingua che scavava nel vivo!
Voleva spenta l'ossessione
delle donne, l'orgia della fiamma.
Inaspriva Muse, musica di flauti.
str.
Rasentano violetti scogli del gemello mare
rive acri di Bosforo e Salmidesso,
sulla sponda tracia. Dio dei dintorni, Ares,
laggiù scorse, su facce di Fineidi
l'infernale squarcio
vitreo, sfondato, colpo di donna
disumana, a occhi cavi, fantasmi di vendetta
divelti da scarlatte
mani, da punture di spola.
ant.
Sfiniti, disperati disperato patire
gemevano, frutti di madre sposa sfortunata.
Lei sorgeva dal ceppo
d'Eretteidi antichi
e in grotte lontanissime
crebbe tra paterne raffiche
lei, la Boreade, in corsa coi cavalli
sui massicci irti, celeste. Su lei
piombarono millenarie Dispensiere, figlia.
Appare il profeta Tiresia, guidato da un ragazzo.
Nobili di Tebe. A passi uniti siamo giunti qui, due con la vista d'uno. Per noi ciechi la strada sorge da chi ci precede e regge.
Che succede, ora, venerando Tiresia?
Io illuminerò. Tu affidati al veggente.
Non fui mai ribelle al tuo sapere, io.
Perciò manovri dritta la barra dello Stato.
M'hai fruttato bene. Io l'attesto, che lo so.
Ora t'affacci all'orlo della sorte. Medita.
Che dici? Vibro, al suono delle labbra.
Comprenderai, se ripercorri i segni della mia magia. Fu così. Posavo sul seggio secolare, vedetta di voli. Là ero faro di tutti gli alati. Ecco, odo note enigmatiche d'uccelli, sinistri, ossessionati. Balbettare stridulo, insensato. Li percepivo, stracci insanguinati in nodo d'unghie, e becchi. Sì, decifravo l'esplosione d'ali. Rabbrividii, subito tastai le sacre cose accese sui bracieri in fiamme. Dal sacrificio non scintillava santa fiamma. Marcia scoria di carne si sfaceva, tra i tizzoni. Sfrigolava, schiumava. Vapore di fiele svaniva nel cielo. Affioravano cosce scheletrite, imperlate di grasso. Io sapevo tutto dal giovane che vedi, pronostici smorti dal rito senza forma. Lui è il mio pilota. Io di voi tutti. Appesta Tebe, questo. La causa è nella tua mentalità. Altari, sacri focolari soffocano sotto cruda preda d'uccelli e cagne: carne del figlio d'Edipo, schiantato da nemico caso. E ora non c'è dio che si apra alle preghiere nostre tra vapori sacri, e a vittima accesa. Non c'è schianto d'ali, a urlare pronostico chiaro: sono becchi golosi impastati di sangue già morto. Figlio, concentrati su questo: sbagliare è d'uomo. Non c'è eccezione, è naturale. Ma nello sbaglio non ha torto, non cade nell'inferno chi, crollando, degradato, tenta una cura, non s'inchioda immoto. Pienezza di se stessi è vanità. Ritirati, di fronte al morto. Non accanirti su chi non è più. Strano coraggio, raddoppiare morte a quel caduto. Ho usato io il cervello, per te, per il tuo bene, dico. Fa felice la parola buona, che t'illumina, se è carica di frutto.
Vecchio, sembrate tanti arcieri. Puntate gli archi dritti su quest'uomo. Oggi, neppure dal vostro profetare so sbrogliarmi: razza di mercanti , mi liquidate, mi svendete, voi, da tanto. Fate soldi, l'elettro di Sardi smerciate, se volete, l'oro d'India: non calerete quello in una fossa, neanche se le aquile di Zeus fossero qui, ad artigliarlo, cruda preda lassù ai celesti seggi. Non ho fremiti, io. Non mi sento mani sporche. Perciò non darò fossa a quello. So troppo bene che nessuno al mondo ha forza di sporcare esseri divini. Tiresia, vecchio, crollano anche creature eccezionali: crollano nel fango, se decorano di frasi viscide ragioni, per fascino di lucro.
Ah, ma esiste al mondo chi conosce, pesa...
Cosa? Sentiamolo il proverbio cosmico.
...come più nobile possesso è mente chiara?
E gran brutto danno mente vuota.
Sì, la malattia che ti porti dentro tu, da sempre.
Che volgarità. Non replico al veggente.
Sì, invece. La mia magica voce è bugiarda, tu dici.
Razza di maghi! Tutti attaccati al soldo.
E di despoti! Hanno nel sangue viscida avarizia.
Forse non capisci. Tu, stai ragionando a capi.
Capisco, ma devi a me se Tebe, intatta, è tutta tua.
Maestro di presagi, ma rettitudine non sai cos'è.
Mi sferzi a svelare chiuse cose della mia coscienza.
Apriti. Basta che non sveli per denaro.
Siamo a questo, ormai? Questo pensi, tu, di me?
Sta certo. Le mie idee non sono merce adatta a te.
Bene. Allora concentrati: non vedrai culminare molte orbite volanti di sole e tu, esattamente tu, avrai già corrisposto un morto, specchio d'altri morti. Uno sorto dal tuo seme: a saldo di viventi che tu affondi nell'abisso morto, disumana fossa, carcere tombale d'una che respira. E tieni stretto un corpo che tocca a dèi dell'aldilà: frodato, profanato, osceno. È campo che non tocca a te, né a dèi d'alto firmamento: è arbitrio vile, il tuo. Sei in colpa: hai addosso occhi di pazienti giustizieri funebri, vendette di Nulla e di Celesti. Finirai nella rete tua di male. Scruta il mio parlare: m'hanno coperto di denaro? Attento: logorio di non vasto tempo, e in casa tua sarà lampo d'ululi, d'uomini e donne. Ecco tempeste d'odio tra le genti, dove cagne, bestie, uccelli delle altezze danno estremi onori a carne lacerata, e fetore sacrilego filtra fino al fondo delle case. Tu mi esasperi. Così come arciere - ribollivo, dentro - t'ho fiondato i colpi d'arco, ferrei, dritti: squarci febbrili, e tu non sguscerai.
(Alla guida)
Figlio, torniamo a casa: che sfoghi il suo bollore con chi ha meno anni. Deve capire, educare la lingua alla calma, e il suo cervello a funzionare meglio.
Tiresia e il ragazzo si allontanano.
Se n'è andato, principe. Spaventa, la magica voce. Da quando m'inghirlanda bianca chioma, da bruna, non so parole sue fasulle per la patria.
Anch'io, so bene. Mi sento a pezzi, dentro. Flettersi è follia. Ma caso di follia è anche ribellarsi, l'istintivo schianto contro Perdizione.
Creonte, ci vuole ragionevolezza, ora.
Che decisione prendo? Di' chiaramente. Cederò.
Va', fa riemergere la giovane da coperto covo. Dedica una fossa all'altro ai quattro venti.
Caldeggi questo? Gradisci cedimento?
Principe, è già tardi: a tese falcate, castighi di dèi incrociano menti perverse.
Aaah! È tremendo, smentisco me stesso, i decreti. Combattere stretta fatale è impossibile.
Deciditi, va' tu. Non demandare ad altri.
Eccomi, in cammino. Uomini, voi qui, e gli altri che non vedo, prendete le scuri, correte là dove puntano gli occhi di tutti. Io no... io m'illudevo, e ora mi trasformo. Io ho legato. lo sarò là a slegare. Ho un'ansia, dentro: se non sia più nobile sigillo per la vita proteggere i pilastri della legge.
Creonte si precipita fuori scena.
str.
Moltiplicato nome! Gloria di cadmea sposa
frutto di Zeus, che cavernoso
vibra! Tu custode
della chiara Italia, tu oculato
re delle accoglienti valli di Deo
Eleusinia, o Bacco,
di Baccanti è culla Tebe,
e tu l'abiti, sul limpido
fluire d'Ismeno, tra semina
di rettile acre.
ant.
Fumo, lucenti scintille ti videro
sul massiccio a due punte, dove Ninfe
Coricie sfilano in orgia ossessiva.
E ti vide Castalia, la fonte.
Ti mandano gobbe di roccia
Nisee, tutte edera, e il pallido lido
dei grappoli fitti,
fra giubilanti devote
possedute da dio, a vegliare su piazze
su strade di Tebe.
str.
Fra le terre tutte
tu sublimi Tebe,
con la madre fatta folgore.
E oggi - crudo cancro
inchioda Tebe, massa viva -
appari con passo che monda, dal clivo
parnasio, dall'onda che rugge.
ant.
O maestro di stelle danzanti,
raggianti di fiamma,
tu che ritmi le voci nel buio
eterno ragazzo di Zeus, esplodici innanzi
di luce, o Potente, nel cerchio
d'Ossesse, che in frenetica notte di danza
t'esaltano, Iacco, dio padrone!
Entra un messaggero.
Voi, che fate cerchio alla reggia di Cadmo e d'Anfione! Non c'è stabilità in esistenza d'uomo, da dirne lode, o criticarla, mai! Caso equilibra, caso sbilancia: chi capita bene, chi capita storto. Cadenza eterna. Non c'è presagio d'un domani già passato, fisso. Ecco Creonte. Era un idolo, ieri, credo di poterlo dire. Liberatore della nostra Tebe in guerra, monarca splendidamente solo al suo timone: e in più una primavera fertile di figli. Oggi tutto gli sfugge. Il giorno in cui uno saluta per sempre la gioia, ha finito di vivere, almeno per me. È morto corpo, con un po' di fiato dentro. Copriti d'oro in casa, se ti piace, vivi con stile principesco: ma se elimini il senso del godere, una manciata di fumo, io, non la darei per tutto il resto. Non vale, senza gioia.
Che peso di dolore rechi per la reggia, adesso?
Morti, sono. Nei vivi radice delle morti.
Chi dà morte? Chi soccombe? Parla!
Emone non è più: mano intima colpì, cruenta.
Intima? Del padre, o sua, di lui?
Sua, di lui. Furore contro il padre, per l'esecuzione.
Veggente, come scoccasti dritto il dire!
Nulla da fare qui. Pensiamo al resto.
Eccola, infatti, Euridice, consorte di Creonte, Che sofferenza. Viene dalle sale. Ha sentito del figlio, o per coincidenza è qui.
È apparsa Euridice.
Tebani, quanti siete qui. Ho percepito le parole. Ero qui, sull'uscita. M'avviavo da Pallade dea, a parlarle, a supplicarla. Sto liberando la sbarra dai battenti, schiudo, e nota d'intima disgrazia mi trapassa. Arretro, mi sciolgo, crollo tra le mie donne. Paralisi d'angoscia. Fatemi riascoltare la notizia, quale sia. So cos'è disgrazia. Ascolterò.
Sovrana, mia sovrana. Io ero là. Ti dirò tutto, senza sorvolare. La piena verità. Addolcirti? In cose in cui ben presto splenderà che mento? Non ha senso. Sincerità non devia, mai. Io ero del seguito, con lo sposo tuo. Facevo strada, fino al punto dove la pianura sale. La salma stava ancora là, Polinice, stracciato dai morsi. Che barbarie. Pregammo la dea delle strade, e Plutone, che smorzassero l'ira, sereni. Lo tergemmo con acqua tersa, e accendemmo i resti fra le fronde colte allora. Lo coprimmo con sue zolle antiche, e fu tumulo erto, fiero. Poi, subito, penetravamo nella stanza della prima notte tra la ragazza e Nulla, lenzuola di sasso, sotterra. Da laggiù s'ode nota di ululi irti, intorno alle pareti indecorose. Uno corre, fa' segno al principe. Creonte s'inerpica e più si fa vicino, più l'avvolge incerto suono, di urlo doloroso. Ha un singhiozzo, si strappa funebre parola: "Ah, che dura prova! Ho le visioni? Brancolo su rampa, la più sinistra delle passate strade? Voce di figlio mi si struscia addosso? Uomini, fate presto. Avvicinatevi allo scavo, aprite spiraglio tra le pietre, penetrate, all'imbocco e lì scrutate s'è d'Emone la voce che m'avvolge, o un dio mi froda". Era comando d'un capo con il cuore in pezzi. Noi scrutavamo. E là, nel buio, dove la grotta cessa, intravvedemmo lei. Pendeva per il collo. Gancio era cappio di veste sfilacciata. Lui s'inarcava, sfinito, ad allacciarla. Mugolava su sfacelo di nozze d'agonia, sui crimini del padre, su ostico letto d'amore. Come lo scorse, fu gemere amaro. Corre da lui, e in balbettio di pianto chiama e dice: "Come hai potuto, che coraggio!
Che volevi fare? In che tristezze ti perdi? Figlio, vieni fuori, sono io, qui in ginocchio, che ti prego". Il ragazzo lo guarda con occhio di bestia spaventata. Gli sputa in faccia. Non una parola. Cava l'elsa falcata della spada. Colpo a vuoto, col padre che di scatto sfugge. Rabbia amara con se stesso, povero figlio, e subito s'incurva, s'appoggia sulla lama che gli spacca il petto. È lucido. S'aggrappa alla giovane donna. Cerchio di braccia che scivola, scivola. Ansima, e un rivolo esala, squillo di gocciole rosse su candida guancia. È finita. Nodo di morte, uno sull'altra. Non ha avuto fortuna. La sua festa di nozze è laggiù, nelle case dei morti. Ci ha fatto lezione: mente ottusa, nel mondo, è male più vile.
Euridice scompare nella reggia, senza parole.
Che ti fa pensare questo, la regina che rientra e non dice parola, di bene, di male?
Anch'io non so capire. Un pensiero mi dà forza: ora che ha saputo l'agonia del figlio, non sceglierà di disperarsi davanti a tutta Tebe, ma dentro, all'ombra delle sale, addosserà alle donne il compito del lutto, stretto, nella casa. Sa l'equilibrio, non farà sciocchezze.
Dubito. Mutismo esasperato è un peso, per me, come alte grida vuote.
Andiamo a vedere se tiene sepolti misteri nell'incendio del cuore, Incamminiamoci alla reggia. Parli bene, tu. Sento cupo peso in questo silenzio che si ostina.
Il Messaggero entra nel palazzo.
È il principe che s'avvicina, guarda.
Teste eloquente ha sulla mano
m'è dato dirlo - di perduta colpa,
non d'altri: interamente sua.
Appare Creonte, che regge il capo del morto Emone trasportato a braccia.
str.
Aaah
Follia di demente mente
rigida, letale!
Uccisori, uccisi
unica famiglia. Li vedete.
Squallore di decreti miei!
Ah figlio, acerbo, d'acerba fine
aah!
cadesti dissolto
e fu delirio mio, non tuo.
Scorgi la retta via. Troppo tardi.
Aaaah!
Certezze disperate. M'era addosso
quel giorno, quel giorno devastante dio
a mazzate. M'indusse a vie bestiali.
Aaah, schiantò felicità sotto i talloni.
Insoffribile soffrire di viventi.
Irrompe un Messaggero dall'interno del palazzo.
O re, sei tale e quale chi più ne ha, più ne guadagna. Un bel peso di dolore l'hai già lì, sulle braccia. E si vede. Ma va' dentro, in casa: troverai ben altro.
Altro? Strazio, più di questo strazio?
Moglie morta. Sì, lei vera madre di quel corpo morto. Brutta morte. Taglio ancora caldo, di ferro.
ant.
Porto spietato del Nulla!
Mi sgretoli. Ma perché, perché?
Tu, corriere di nere parole
funebri, che linguaggio è il tuo?
Liquidi uno già morto.
Aaah, messaggero
che nuovo sangue narri,
cumulo di morte,
fine di donna che ci piomba addosso?
Le porte del palazzo si spalancano: appare Euridice morta.
Eccola, appare: non è più nell'ombra chiusa.
Aaah!
Guardatelo! Il mio secondo lutto!
Che altra caduta mi minaccia, adesso?
Ho sulle braccia il figlio, ancora caldo
e mi vedo sotto gli occhi l'altra, morta!
Aaah, madre lacerata! Ah, creatura!
Fu filo di lama, là sotto l'altare, e abbandona le palpebre di nebbia. Quanto piangere, sul posto vuoto di Megareo, il primo morto. Poi su questo. Poi la fine. T'ha augurata una morte disperata: a te, assassino di figli.
str.
Aaah!
Frustate di terrore! Ammazzatemi!
Nessuno mi spacca, qui, davanti
con la spada? Sono niente
mi mangia spasimo che annienta.
Eri bersaglio della morta. T'incriminava della doppia fine. Dell'uno, qui, e di quell'altro.
Dimmi, per che via è scivolata nella morte?
Un colpo sotto il seno, tutta sola. Fu quando udì la stridula passione di suo figlio.
str.
Ah non posso strapparmela di dosso
la mia colpa, legarla ad altro uomo!
Io t'ho ucciso. Sì, io. Ora pago.
Io. Non ho dubbi. Voi del corteo
fatemi sparire, svelti. Spazzate via
me che non sono nulla. Meno, che nulla.
Comandi bene, se bene esiste nella pena. Più s'abbrevia, meglio è, l'assedio della pena.
ant.
Sorgi, sorgi
accenditi, culmine della mia vicenda
che mi regali l'incanto della fine.
Ah, sorgi.
Non voglio altra luce, dentro gli occhi.
Domani, tutto questo. Ora c'è da pensare ai corpi esposti. Sono cose, quelle, che toccano a chi deve.
Una cosa m'innamora. E l'ho già chiesta.
Non è più tempo di preghiere. Chi ha dentro morte non ha vie di fuga dalla cadenza dei suoi giorni fissi.
ant.
Dovrebbero spazzarlo via, quest'uomo vuoto
sì, figlio, io, che t'ho ammazzato
e non volevo! E anche te, per cui ora piango!
Due, e non so chi contemplare! Brancolo!
Ho tra le mani stravolto mondo. E su me l'incubo
di schianto che non ha rimedi.
Ragionevolezza è base, base prima
di buona vita. È obbligo evitare
sacrilegio. Altera lingua
di sfrontati paga prezzo
d'altissima rovina. Poi riconosce
nell'età vecchia - la ragione.