Spiazzo, cinto da magico bosco. Un masso. Sullo sfondo l'acropoli di Atene.
Appare Edipo. Occhi spenti. Lo regge Antigone.
Figlia, sono spento, grigio. Antigone, in che spazi siamo? C'è vita, case, di che gente? Chi s'aprirà a Edipo perso nello spazio, gli regalerà qualcosa, oggi, una miseria? Pretende molto poco, e trova sempre meno. Ma mi sfamo, e vivo. La pazienza! Mi fa scuola il mio soffrire, questo impasto d'anni interminabili. Poi, il mio spirito. Figlia, se vedi da fermarci, vicino a passi d'uomo, o a cerchio magico di dèi, fammi riposare, quieto. Voglio domandare dove siamo. Dobbiamo avere certezze, qui, noi pellegrini da gente della terra. Ci risponderanno, credo, e noi eseguiremo.
Sei sfinito, padre. Laggiù: torri, diadema d'una rocca. M'appaiono, molto in lontananza. Questo spazio è santo. È una sensazione, viva. Bosco acceso d'alloro, d'ulivi, di grappoli. Racchiude fascio d'ali, note musicali d'usignoli. Chì nati, seduto, guarda: qui, sul sasso scabro. Ti sei spinto troppo avanti, per un vecchio.
Sì , fammi stare fermo. Custodisci questo cieco.
Ho anni d'esperienza. Non sono scolaretta, in questo.
Bene. Fammi da maestra. Dov'è la nostra tappa?
So ch'è Atene, questo sì . Ma il punto, no.
Ce l'hanno ripetuto, per la strada, a ogni incontro.
La località precisa? Vuoi che mi muova, e chieda?
Sì , Antigone, se c'è vita, qualche casa.
C'è gente, non ho dubbi. Anzi, non devo più cercare. Arriva una persona. Eccolo, lo vedo.
Qui, da noi? Cammina con decisi passi?
Appare un uomo.
Davanti a te. Hai le domande sulle labbra. Esprimile: la persona è qui.
Uomo, amico, lei mi sta dicendo, lei che fa da vivo occhio anche per me, ch'è una fortuna questo tuo apparire, faro nostro, a illuminare con parole il nostro buio...
Prima di scrutarmi, interrogarmi, staccati dal sasso. Occupi spazio dove passo d'uomo è una bestemmia.
Quale spazio? Vive un culto? A quale dio?
Spazio vergine, e senza vita. Possesso delle dee dell'incubo, creature di Terra e cieco Nero.
Quali dee? Che sovrumano nome, udendolo da te, potrò supplicare?
Cosmici occhi! Benevole, è il nome che corre. Almeno da noi. Altre terre, altre lodi.
S'aprano sorridenti al pellegrino! Qui è la mia meta. Non mi staccherò, credo, più.
Cosa? Che vuoi dire?
Combacia, la vicenda mia!
Ah non ho la forza di strapparti, senza sentire la mia gente. Devo denunciare la tua decisione.
Uomo, ti scongiuro, non cancellarmi. Brancolo, vedi. Non puoi non farmi luce, in quello che ti chiedo a mani giunte.
Spiegati meglio. Non voglio certo umiliarti, ah, non io.
Che luogo è questo, meta del mio andare?
Ciò che so dominerai tu pure. Ascolta. Spazio divino, questo dove sei, interamente. L'abita, sovrumano, Posidone: racchiude Prometeo titano, con in pugno fiamme. La zona che calpesti ha nome "passi di metallo", entrata del paese. E pilastro d'Atene! E questo cerchio di poderi ha un vanto: Colono dei cavalli è la radice primitiva, e un nome solo, il suo, li unisce e li distingue. Sai il luogo, ora: prezioso non di versi, di parole, piuttosto di contatto umano.
Contatti... C'è vita, allora, gente, in queste terre?
Certo, e tiene lui, l'eroe, nel nome.
C'è un monarca, qui, o il numero è la legge?
Fonte del potere, qui, è il re della città.
Chi è, sovrano col braccio e col cervello?
Tèseo è il nome, figlio erede del passato Egeo.
Arriverebbe un inviato vostro, fino al re?
Il fine? Parlargli, o spingerlo a venire qui?
Col fine che lieve beneficio può fruttare forte, a lui.
Ma quale bene, da uno senza vista?
Occhi chiari avranno le parole mie, parlando...
Amico, niente passi falsi. Ascolta come fare: sei signore, già, lo vedo anch'io. Solo, hai contro una Potenza. Fermati qui, nel punto esatto dove sei emerso. Aspettami, io vado. Comunico le cose, non laggiù, in città, ma qui, al paese. Giudicheranno loro se devi trattenerti, o incamminarti a nuove strade.
L'uomo si allontana.
Antigone, è partito, non c'è più quell'uomo?
Non c'è più nessuno. C'è una grande pace, padre. Parla pure. Sono io con te. Io sola.
O Potenze! Occhi d'incubo! So che questo cerchio è vostro, voi, le prime a cui m'appoggio, in questo suolo. Dunque non fatevi sorde a Radioso, e a me. Quando profetò la mia degradazione, disse anche la mia requie: anni lunghi, poi l'arrivo in terra fine della corsa, e l'accoglienza amica, in spazio di divinità solenni. Là sarà l'ultima curva del vivere inasprito: e io che mi fisso qui sarò benessere a gente che m'accoglie, perdizione a chi m'ha messo sulla strada, m'ha sferzato. Sorgeranno indizi, prometteva, scossa della terra, rombo o incandescenze, giù dal cielo. Ora so, non ho dubbi: tutto questo andare mio... aleggiò da voi, magico, rassicurante, e mi salvò, in questo cerchio d'alberi. Non mi affacciavo certo qui da voi, ospiti prime, io, camminatore inaridito a voi mai ebbre, e non posavo sulla lastra veneranda, che non sa scalpello. Dèe assecondate Apollo, suoni misteriosi: datemi valico, svolta, qualunque sia, della vita, se non vi sembro ancora troppo in basso, col mio eterno, vile sacerdozio a sofferenze che svettano, inumane. Ora, sorridenti figlie di Nero, radice di tutto; ora Atene, capitale del mondo, che hai Pallade sovrana nel tuo nome, compatite questo uomo vuoto, guscio d'Edipo. Non sono io, vedete, non è l'aspetto originale.
Silenzio! Vedo gente. Carichi d'anni. S'avvicinano, scrutano lo spazio dove posi.
Sì , farò silenzio. Sviami dal sentiero, là nel cerchio misterioso. Devo avere il tempo di studiarli: logica, pensieri che diranno. Studio, sai, è base d'ogni cautela nel fare che si compie.
Antigone guida Edipo nel folto. A passi ritmati il Coro penetra nell'orchestra.
str.
Attento! Chi fu, chi? Dove sta?
Sparito. Dove mai s'è cacciato
campione d'ogni insolenza?
Aguzza, schiarisci la vista.
Insisti, fruga ogni punto!
D'altri spazi,
viene, d'altri spazi. Uomo vecchio
non nativo: certo non entrava
nel cerchio senza passi
di vergini guerriere,
nome che dà brividi
che lambiamo passando
senz'occhiate,
voce spenta, sillabe
non da lingue: da interiore
religioso silenzio.
Ma ora si parla di uno
nuovo venuto che non ha rispetto.
Io perlustro i punti
del santo spazio, e ancora ignoro
dove si nasconda,
Edipo esce allo scoperto.
Guardate qui! Coi suoni, io vedo,
come si dice.
Aaah...
Spettrale faccia, spettrale parlare...
Vi prego! Non vedete il fuorilegge, in me.
Zeus, mio scudo! Chi sarà quel vecchio?
Uno che un po' di benedetta
serenità non ha, o scolte del paese.
Traspare: non m'inerpicavo, certo,
dietro occhi che non sono miei,
passi adulti, retti da piccine spalle.
ant.
Aaah, faccia vitrea!
È nella fibra tua, da sempre, ostica esistenza?
E carica d'anni, se ben vedo.
Ah no! Per quanto è in mio potere
non l'arricchirai d'altra dannazione.
T'addentri, attento, troppo,
dentro. Bada, non immergerti
nella gola del silenzio
d'erba viva, dove cristallina coppa
concorre al liquore
di sorsi di dolcezza.
Viaggiatore, tu, sventura pura
sta' in guardia, da quei luoghi
ritirati, arretra! Molta strada
ci distanzia.
Mi capisci
uomo della pena, uomo errante?
Forse vuoi ragionare,
dialogare con me: vattene, allora,
da dove non si va. Fatti udire
in spazio regolare. Frena la voce, prima.
Figlia, che strada di pensieri prende,
uno come me?
Padre, non c'è scelta: seguire questa gente,
flettersi, accettare tutto.
Fammi appoggiare.
Eccomi, ti sfioro.
Amici, non vorrei guai.
Sono docile, cambio posizione.
str.
Bene. Da dove vai posando ora, vecchio
non ti caccia nessuno, se non vuoi.
Avanti?
Qualche passo.
Ancora?
Guidalo tu, figliola,
avanti. Tu capisci.
Seguimi, padre, col buio
brancolate. Vieni, dove io ti dico.
...
...
...
...
Sforzati - ospite tra ospiti -
o sfinito uomo, d'aborrire quanto
la città sente radicalmente ostile,
d'avere culto per chi sente suo.
Guidami, figlia. Voglio penetrare
in innocente spazio:
da lì parlare, dialogare.
Basta, guerre col mio fisso caso.
ant.
Ci sei! Fermati. Non inoltrarti
oltre gradino di massiccio sasso.
Va bene?
Bene. M'hai udito.
Mi seggo?
D'angolo, su spigolo
di pietra. Annidati, stretto.
Padre, lascia a me. Ritma
passi sul mio passo calmo...
Aaah!
Vecchio padre, curvati, poggia
alla mia mano. Sono tua, io.
Ah, mio smarrimento, mente vuota!
Uomo devastato, hai un po' di pace, adesso.
Puoi rispondermi. Chi sei, da che radice?
Uomo del dolore, carico passivo, chi sei? Potrei
sapere la terra dei tuoi padri?
Uomini, sono spaesato. Basta, non...
Cosa, non...? Su cosa vuoi silenzio?
Noooh! Noooh! Non strapparmi
chi sono io. Non frugarmi, non essere curioso.
Di che cosa?
Fibra maledetta.
Dilla!
Figlia, che risponderò?
Di che sangue sei
viaggiatore, parla, di che padre?
Aaah! Che mi fanno, figlia?
Devi dire tutto: t'affacci su un abisso.
Dirò tutto. Non posso chiudermi nel buio.
Perdete tempo, voi. Deciditi.
Laio... sapete d'uno, figlio suo?
Uuuh!
E dei Labdàcidi, la parentela?
Dio mio.
L'uomo del dolore, Edipo?
Tu, sei tu?
No, non tremate a questa verità.
Uuuh!
Storta vita.
Aaaah!
Che realtà ci aspetta, Antigone?
Fuori. Andate via. Via dalla terra.
Hai preso degli impegni. Come salderai?
Fatale castigo non colpisce
castigo in risposta a colpi patiti. Slealtà
a specchio di gesti sleali,
ricambia, regala dolore, non festa.`
Così tu. Rimettiti in mezzo a una strada.
Esci di qui, dal tuo cerchio di pace.
Non voglio che annodi
nuova zavorra allo Stato.
Voi sapete la pietà.
Ma con mio padre no, non reggete. Com'è vecchio,
guardate. Già, avete nelle orecchie
leggenda di gesti riluttanti.
E io? Non vi faccio pena? In ginocchio,
buona gente, supplichiamo la pietà per me.
Mi faccio avanti io, per mio padre. Non ha più
nessuno: io so fissarvi in faccia
con faccia non vitrea. Ecco, in piena luce
come una della razza vostra. Fategli regalo
d'un poco di pietà: è sfinito. Voi siete dio,
base, requie per noi due distrutti. Dite sì
a favore che pare impossibile sogno.
M'inginocchio per quanto, nel fondo di te,
tu senti più tuo: tuo figlio, l'amore, il dovere,
il tuo dio! Scruta nel mondo: non vedi
- se sferza un dio -
vita capace di fuga.
Ascoltaci, nata da Edipo. Noi piangiamo te, non meno del tuo vecchio: capiamo il vostro peso. Ma qui c'è mano di dio. Ci gela. Ci svuota: non sapremmo nuove parole, oltre quelle già dette.
Ha concreto senso, dite, un illusorio lustro, una fama che riecheggia come un'onda d'aria? Atene, già! La più devota, dicono, la sola in grado di risollevare un uomo rovinato, unica fermo baluardo. Non vedo queste meraviglie. Dove sono? Qui ci siete voi, voi che mi strappate dal mio appoggio, e poi mi eliminate, semplicemente perché mi chiamo Edipo, e questo vi scoraggia. No, non è per questa carne mia, né per quel che ho fatto. Quel che ho fatto... Che gli altri m'hanno fatto, dovrei dire; non coscienti scelte, se solo raccontassi di mio padre, di mia madre: è questo il punto dell'orrore, no? Lo so perfettamente. Io, sarei impasto di peccato? Perché? Io restituivo colpi avuti. Colpi... che se anche avessi vibrato con lucidità di mente, neppure allora mi nasceva dentro colpa. Senza lucido volere toccai le mete che toccai. Lucido, invece, chi volle il mio patire: nel nulla, mi voleva. Buona gente, per dio, mi rivolgo a voi. M'avete fatto alzare: ora ridatemi vita. Siete devoti ai vostri dèi, dunque non metteteli da parte, questi dèi. Sapete, seguono con l'occhio, qui nel mondo, l'uomo timorato, e seguono chi non sa timore santo. L'uomo senza religione non ha mai futuro, sulla terra, mai. Segui dio. Non interpretare gesti profananti, non spegnere la luce di Atene benedetta. Ti sei aperto, con un fermo impegno, a uno prostrato verso te: ora tutelami, tienimi al riparo. Non emarginarmi, fissando la mia faccia, vista sconvolgente, assurda. Io sono consacrato, uomo del mio dio, e porto frutto alla tua gente. Quando verrà qui il padrone, quello - chi sarà, non so - che vi comanda, allora ascolterai la storia, dominerai le cose. Ma fino a quell'istante, attento, non farti possedere dalla colpa.
Deferenza assoluta al tuo rovello, vecchio. È dovere: l'hai definito con respiro non angusto. Che i sovrani della terra scrutino loro la tua storia, a fondo: non pretendo altro.
Dov'è il potente del paese, ora, buona gente?
Domina la rocca della terra, avita. Ma un corriere, quello che m'ha fatto scorta qui, già viaggia per sollecitarlo.
Pensate che per questo cieco avrà un impulso, dentro, e del riguardo? Che si muoverà, lui, fin qui, personalmente?
Sta' sicuro, basta che percepisca quel tuo nome.
Chi riferirà le sillabe, a lui, laggiù?
Lunga, la via maestra: ma c'è sempre gente in viaggio, che s'incontra, la notizia corre. Lui percepirà, e si presenterà, non dubitare. Vecchio, il tuo nome giganteggia, dilaga nella gente. Potrebbe dormire di sasso, ma se sente di te giungerà qui veloce.
Faccio voto. Sarà guadagno sorprendente a sé, al suo paese, il suo venire. E poi, c'è uomo onesto che non sia attaccato a sé?
(Con lo sguardo alla strada)
Dio, non so cosa dire! Posso... pensare?
A che? Che c'è, creatura mia?
Una donna. La vedo. S'avvicina, passo passo. Viaggia su una mula. L'ala d'un cappello contro il sole, sul suo viso. Gli occhi in una fascia d'ombra. Non so... Lei? O no non è lei... Brancola, la mente. Dico, disdico, non so più che dico. Sono stanca. È lei, è lei! Viso radioso, mi fa festa, mi corre tra le braccia. Ecco, mi fa cenno. Splende! È lei. Ismene, cari occhi!
Dici... Piccola che dici?
Vedo la tua figlia, la sorella mia. Puoi sentire le parole vive, capire, adesso, ch'è lei.
Appare Ismene, seguita da un vecchio servo.
Oh sillabe intime d'amore: padre, sorella! M'è costato, trovarvi. E che costo di dolore, ora, rivedervi.
Figlia, sei tu?
Padre, spettacolo di caso che devasta.
Figlia, tu, qui, nella luce?
Non senza nodo di pianto.
Fatti sentire piccola mia.
V'accarezzo, te con lei.
Frutto mio, fraterno sangue!
Contorte vite!
D'Antigone, di me?
E di me, con voi. Assurdo esistere.
Figlia, perché sei venuta?
Il pensiero di te, padre.
Come un rimpianto?
E per farmi voce, io, di notizie, con la scorta di quest'uomo, unico leale della casa.
E quei ragazzi, sangue uguale? Chissà che fatiche. Dove sono?
Dove? Là, sono. E assurde cose, oggi, tra di loro.
Ah, quei due! Tempra, moduli di vita ricalcati tutti sui sistemi dell'Egitto! Ah sì : laggiù si siede l'uomo tra le quattro mura, col telaio in mano. La compagna esce, va nel mondo, guadagna l'esistenza quotidiana. Così nel vostro caso, figlie mie. Umano era che quegli altri, là, piegassero la schiena, quelli che s'accasano, chiusi nella casa, come ragazze da marito! Così siete voi due a spezzarvi la schiena, per quest'esistere mio stravolto, devastato: e toccava a loro! Lei: smise d'essere bambina, ebbe un po' di forza addosso e subito, da allora, a fianco di noialtri vecchi, giorno dopo giorno, per la mano ci porta sulle strade. Vita assurda! Quante volte per boschi disumani, giorni, giorni di cammino, senza pane, piedi nudi, tortura di pioggia che batte, di sole che brucia. Spezzata: ma l'idea di vivere serena, d'una casa, lei l'accantonava. Bastava che sfamasse il padre. E anche tu, bambina. Tu scivolasti via da Tebe, già una volta, nell'ombra mi venisti a dire i sortilegi profetati a questa carne mia. E ti facesti scolta a me, leale, fissa, quando m'espulsero, fuggiasco.
Ora sei ancora qui, Ismene. Che parola porti al padre? Che t'ha messo in viaggio, t'ha tolta dalla casa? Ha un senso il tuo venire, lo so, sono sicuro. Non può essere che carico d'angoscia.
Io i patimenti, la passione, padre, per scoprire i tuoi ricoveri, io... li voglio cancellare. Due volte, la stessa sofferenza: nel pesante andare, e nel ricordo. Ah, non voglio!
Degradazione avvolge i tuoi due figli, oggi. Storte vite. Queste certezze vengo a dirti.
Li innamorò l'idea che i poteri, abbandonati, finissero a Creonte, che non incancrenisse, Tebe. Questo prima, ragionando freddi sul cancro del passato, che inchiodò la casa, il sangue tuo intristito. Ma ora - mano di dio, chissà, o perdizione della mente - rissa vile ha invaso la coppia maledetta, lotta per dominio, per trono solitario. L'immaturo, più povero di anni, froda Polinice, nato prima, del potere, lo scaglia fuggitivo dalla terra. Voci s'affollano, ripetono che il profugo è calato nella conca d'Argo. Là s'arricchisce di famiglia nuova, di lance fedelissime, nel pensiero d'Argo che strapperà la terra dei Cadmei dalle sue altezze, o l'alzerà alle stelle. Non è cadenza di sillabe, padre: sono veri gesti . Che angoscia! Non vedo limiti alla tua disperazione, prova di pietà da dèi del cielo.
Perché? T'illudevi che mi gettassero un'occhiata, giù dal cielo, per un mio riscatto?
Sì , confesso, padre, per fresche profezie.
Quali? Che magici suoni, piccina?
Diventerai bisogno indispensabile, per quella gente, un giorno: corpo morto, o vivo. Tu, perno di sopravvivenza.
Ridotto come sono? Io fonte di fortuna?
Incarni l'energia, si dice.
Io, l'annientato, diventerò l'eroe?
Sì . Dio ti raddrizza. Prima t'affondava.
Non ha senso. Raddrizzare vecchio chi giovane crollò.
Creonte, attento, ti verrà davanti, teso a questo: tra non molto, un battito di tempo.
Ha progetti? Quali? Devi illuminarmi, figlia.
Posarti sull'orlo di terra cadmea, per averti, saldamente, senza che tu varchi i limiti tebani.
Darò frutto, immoto sulla soglia?
Sarà cupo peso, per loro, la tua tomba, se andrà in desolazione.
Dio non serve, basta la ragione umana, per capirlo.
Perciò ti vogliono, ferma appendice della tetra, là, non dove tu disponga di te stesso.
M'annereranno con polvere tebana?
No, padre. Lo nega il sangue della tua radice.
Non mi domineranno mai.
Questo schiaccerà i Tebani, un giorno.
Per che bagliore di coincidenze, figlia?
Teso tuo rancore, nell'ora che circonderanno la tua fossa.
Da chi suonò la frase che riveli, figlia?
Da gente in processione, dalla cenere di Delfi.
Salde parole di lui, del Radioso, su di me?
L'afferma chi tornò laggiù, in Tebe, tra le mura.
Dei miei maschi, ci fu chi udì le cose che mi dici?
In coppia, uniti: perfetta conoscenza.
Hanno udito tutto. Mostri! Per me nessun rimpianto: avanti a tutto il trono, la potenza!
Tortura il suono del tuo dire. Devo rassegnarmi.
Ah dèi, non sopirete la tensione tra quei due, stagliata nel destino. Fossi l'arbitro finale, io, del duello che li inchioda, lance che s'incrociano! Quello con lo scettro, là sul trono, non starebbe in piedi; e l'altro, il fuggitivo, non rifarebbe mai ritorno, mai!
I figli! Io ero il tronco loro, ma quando rotolavo, rudere, rifiuto che non ha più patria, non vollero tenermi, farmi scudo. Sradicato, fui pubblico nemico, estraneo sulle strade. E lo devo a loro. Potresti dirmi: l'hai voluto tu, quel giorno, fu un favore, umana concessione dei Tebani. No, non è così ! Quel giorno, in quelle prime ore io m'incenerivo, dentro, sognavo la dolcezza di crollare morto, crivellato sotto i sassi. Non brillò aiuto, allora, per la mia ossessione. Solo dopo, quando s'afflosciava il mio dolore e ragionavo che quel mio impulso non era che un delirio, esagerato giustiziere dei miei sbagli, allora m'ha colpito Tebe, m'ha sferzato via dalla terra, colpevole invecchiato. Quegli altri, i due... potevano salvarmi. Sì , il padre loro, io. Non ebbero lo slancio, non seppero volere. Poche sillabe. Sarebbero bastate. E invece eccomi perduto sulle strade, randagio brancolare. Queste due - due piccole, vedete - sono fonti della vita mia. Si spremono. Per me sono paese, calore d'una casa. Gli altri, i due, non vollero paterna pianta: troni, scettri in pugno, poteri solitari sulla terra! Non avranno la fortuna di un Edipo al fianco, mai. Non darà frutto, ai due, regnare sui Cadmei. Lo decifro, questo, udendo il magico messaggio della figlia, e ripensando ai miei sepolti suoni, che fece realtà, Radioso, realtà mia, nel tempo.
Ecco tutto. Lancino Creonte, per stanarmi, o altro personaggio, non importa, della loro Tebe. Forse, buona gente, vorrete farmi voi da scudo. Voi e le Potenti, patrone, qui, del borgo. V'alzerete baluardo enorme, per la terra: e contro chi mi odia, duri colpi!
Meriti velo di pianto, Edipo: tu con le tue figlie. Ti protendi, col tuo dire, a salvezza del mio suolo. Voglio indirizzarti a gesti convenienti.
Ah, sei mio: fammi da patrono. Eseguirò.
Fa' rito di purezza alle Potenti, che furono tua prima meta, di cui rigasti con le orme il suolo.
Con che gesti? Illuminatemi, vi prego.
Trai da acqua sempreviva stille benedette, con mani religiose.
E quando avrò questo stillare cristallino nelle mani?
Esistono bacili, destrezza d'artigiano. Devi fregiare l'orlo, i manici, sul cerchio cavo.
Di fronde, di liste di tessuto, con che rito?
Bioccolo fresco d'agnello appena nato.
Capisco. Qual è il gesto che corona il rito?
Versare rivoli sacri. Teso al nascere di luce.
Dovrò versare, forse, nelle urne che dicevi?
Tre getti: l'ultimo totale.
Colmo, quest'ultimo, di che? Devi illuminarmi.
Acqua, miele delle api: non di vino ebbro.
La terra - ombroso verde - avrà la sua porzione. Poi?
Triplica nove rametti d'ulivo. Mano destra, sinistra. Piantali in terra. Poi cantilena la preghiera...
Voglio udire i suoni. È decisivo.
Noi le evochiamo così : "Spiriti Buoni", "Con spirito buono aprite le braccia all'uomo proteso, ridategli vita!" Prega così, tu, o chi per te. Sepolto sillabare, non scanditi suoni. Infine sguscia indietro, non voltarti. Scegli questa strada, e io mi rischiaro, posso starti al fianco. Cambia, viaggiatore, e tremerei, per te.
Figlie, capite questa buona gente del paese?
Sì , sentiamo. Ordina, dicci la scelta obbligatoria.
Per me è strada chiusa, quella. Ho due sconfitte, in me: io non mi reggo, e non ho occhi. Andrà una di voi, eseguirà quei gesti. Io lo sento: conta l'interiorità. Se è limpida, può saldare i debiti d'intero mondo.
Svelte, voi due, eseguite l'atto. Ma senza abbandonarmi. Non ha forza la mia carne, non può entrare in un deserto vago, senza guida.
Andrò io e opererò. Ma il punto, dovrò ritrovarlo, datemi un'indicazione, ve lo chiedo.
In quello spazio d'alberi, straniera. Se avrai difficoltà, c'è un uomo, qui del luogo. Chiarirà.
Ecco, parto. Resta, Antigone, attenta a nostro padre. I nostri genitori... ti creano stanchezza, ma stanchezza che devi cancellare, dalla mente.
Ismene si addentra nel bosco.
str.
Spaventa, viaggiatore, risvegliare
male sotterrato nel passato.
Ma ho come febbre, di sapere...
Cosa?
... bagliore di dolore senza varco
degradante che t'ha avvolto.
Mi ospiti, hai dei doveri, non disseppellire
lati osceni della mia miseria.
Dilaga, non langue racconto
di te. Raccontalo tu. Senza velo.
Noooh...
Fammi contento. Mi protendo.
Aaah!
Piegati. Anch'io, ai nuovi tuoi bisogni.
ant.
Ho avuto colpe, addosso. Sì , le ho avute.
Ma non le ho cercate io. Dillo tu, dio, dillo!
Non c'era scelta mia, in quello!
Dove tendi?
Letto osceno. Trappola di Tebe,
di perdute nozze. Non capivo, io.
Tua madre. L'hai impregnata - corre
voce - con stravolti amori?
Noooh, amico... Uccide, udire
quel tuo dire. Poi le due da me...
Continua...
figlie, vivi mali...
Dio! Dio!
Sbocciate da fitte lancinanti di una madre anche mia.
str.
Che dici, frutti tuoi e...
Impasto di sorelle, e figlie, mie.
Basta.
Basta, sì ! Altalenare
di male che s'affolla.
Tu vittima...
... di colpi che non si cancellano.
Tu autore...
No, non autore.
Che vuoi dire?
Dissi sì a un omaggio.
M'ha incrinato, dentro. Non l'avessi accolto
dalla città, mia debitrice.
ant.
Ostico caso, assassinasti...
Questo, anche? Che ti preme?
... un padre?
Noooh! Raddoppi
lo schiaffo. Aggravi grave colpo.
Freddasti.
Freddai. Non senza...
Senza che?
Attenuanti.
Quali?
Voglio
illuminarti. Inconscio
sparsi morte, e sangue.
Non ho
macchie, per la legge. Io non sapevo.
Appare Tèseo, con seguito di armati.
Hai davanti a te il principe, sangue d'Egeo: Tèseo!
Sull'onda della tua parola giunge.
Molti nel passato m'hanno detto lo sterminio rosso dei tuoi occhi. Quindi so chi sei, tu, figlio di Laio. Altro ho sentito sulle strade, oggi, e so di più. Questi stracci, la faccia disgraziata gridano che sì , sei tu. Ho un nodo, alla gola: Edipo, disastrosa vita, lascia che ti faccia una domanda. Tu ti arresti, qui, con che richiesta alla città, e a me? Tu, lei, disumana vita d'accompagnatrice tua. Fammi luce: dovresti dirmi una pretesa assurda per tirarmi indietro, io. Ti capisco. Mi sono fatto uomo anch'io in casa d'altri, come te. La morte in faccia, ho visto, più di chiunque, in scontri e rischi in terre strane. Perciò non volgerei le spalle a un pellegrino, come te, ora, senza tentare di risollevarlo. Sono solo un uomo.
Giorno teso nel futuro non è proprietà mia: no, non più che tua.
Tèseo, la tua grandezza, in rapide parole, concede a me franchezza di risposta, poche, chiare cose. Chi sono, di che
padre, da che terra arrivo, l'hai già saldamente detto tu. Io non ho altro, devo solo dirti il mio bisogno. Ed è la meta del
mio dire.
Di' chiaro ciò che devi: voglio udire tutto.
Io sono qui per farvi un dono: me stesso. Carne intaccata, povero spettacolo: ma chiude frutto in sé, più forte di bellezza
vuota.
Fertile, di frutto, tu? Di quale?
Nel tempo lo potrai sapere. Non adesso, dico.
Quando quel tributo tuo trasparirà?
Devo morire io, tu darmi fossa.
Le cose del distacco chiedi, dalla vita. Dimentichi il passaggio, in mezzo: o non gli dai valore.
In quel punto vedo concentrarsi tutto.
Rapido, il bene che mi chiedi.
Attento, lo scontro non è poca cosa.
Tra i figli tuoi e me, vuoi dire?
Riportarmi là: è il loro fisso editto.
Dovresti sentirne desiderio, t'umilia la vita fuggitiva.
Ah, se lo desiderai, allora non l'ammisero.
Cieco! Febbre d'astio non aiuta, nel disastro.
Capiscimi, prima d'istruirmi. Non frenarmi.
Fatti capire: non devo ragionare, senza cognizioni.
Vittima sono, tèseo! disumani mali, e mali, mali...
Vicenda del passato, del tuo ceppo, mi dirai?
Quella no: echeggia, ovunque, nella terra.
Che ti tortura, oltre la sopportazione?
M'invade, m'inchioda, eccola: sferzato dalla terra, da chi da me fiorì , da me, capisci? Non ho ritorno: ho massacrato il padre, io.
Non è assurdo, ricercarvi, per vivere divisi?
La lingua sovrumana li attanaglia.
Che colpi, aspettano dal mistico profeta?
Fissa morsa: tracollo, sulle zolle tue.
S'incroceranno le mie lame, con le loro? Come?
Figlio d'Egeo, tu mi sei vicino. Dio solo non sa cos'è ingrigire, cadere nella morte. Tutto è cosmico impasto, ritmato da tempo, l'atleta. Agonizza potenza di solchi, di muscoli d'uomo, si spegne fiducia, sboccia sfiducia, soffio fermo d'affetto non sempre rimbalza tra gente legata, tra Stato e Stato fratelli. Chi presto, chi in giorni più lenti sente la gioia farsi amara, tagliente, poi rivivere, intima, fonda. Ora c'è clima disteso, solare, tra Tebe e te, Tèseo: ma tempo s'affolla marciando, figlia folla di notti, di giorni e quel tendersi vostro, di destre fraterne, sfumerà con l'acciaio, per fragile idea.
Sarà quando il mio corpo quieto, velato di terra, gelato, sangue cocente di quelli berrà, in quell'ora: se Zeus è lui, Zeus, e Radioso, figlio divino, è sincero. Ma non è bello scandire argomenti inerti, sepolti. Fammi tornare ai miei punti d'inizio: salva la parola data, e non dirai d'avere accolto in me, Edipo, sterile colono in questi spazi. Se dio non mi froda.
Principe, splendeva, già prima che venissi, l'intento, in lui, di farle maturare, simili parole.
Chi chiuderà la porta in faccia a un uomo tale, a un tale affetto? Subito dico che il calore delle mie pareti gli appartiene, sempre, come a lancia amica. Poi, appena qui, si prostra alle Potenti, e salda quota non meschina, al nostro suolo, e a me. Sono cose sacre, e io non sbarrerò la strada alla sua offerta. Lo farò pieno cittadino del paese.
Forse l'ospite sceglie la vita in questo spazio. Veglia su lui, allora, ti comando. Ma forse sceglie di seguirmi. Edipo, ti dono questa scelta. Pesa tu, rifletti. Io concorderò.
Zeus, ti prego, dona bene a questi sentimenti!
Dimmi, che decidi? Avviarti, alla mia casa?
Mi fosse dato, ah sì ... Ma è qui lo spazio...
...in cui, vuoi ottenere, che? Non posso ostacolarti.
In cui dominerò chi m'ha sferzato fuori.
Alto beneficio il tuo legarti a questa terra.
Se la tua parola è immota, pronta a concretarsi.
Guardami bene: io non t'abbandono.
Non ti lego al giuramento: io non t'umilio.
La mia parola basta. Nulla avresti in più.
Come reagirai?
Qual è il punto del timore?
Stanno per venire, quelli...
(Accennando al Coro)
Li vedi? Tocca a loro.
Attento, se mi lasci...
Non farmi la lezione, sulle scelte doverose, mie.
Però, tenaglia d'ansia...
Non so ansia, io.
Ma non sai la sfida...
So che non c'è mano, capace di strapparti a questo spazio, contro resistenza mia. S'affollano minacce, folla di parole cieche, se ribolli, dentro. Ma basta che la mente sia se stessa, sfumano minacce, e sfide. Quelli si son sentiti, dentro, forza sovrumana. Parlano di portarvi via. Può darsi. So una cosa: capiranno chiaro che c'è in mezzo il mare, enorme, inesplorato. Per me, vorrei che tu sperassi. Non contano le mie intenzioni. Pensa che è Radioso, che ti scorta. Poi, se anche io non sarò qui, ti farà da scudo ad ogni attacco questo nome, il mio. Non ho dubbi.
Tèseo si allontana.
str.
Fiore di cavalli. Perla di civili
terre. Ecco la tua meta, viaggiatore,
Colono inargentato! Dove
limpida s'incrina
canzone d'usignolo
rimbalza sotto chiostre verdi,
affolla l'edera accesa
ebbra, il folto mistico
gremito di frutti, celeste,
dove sole tace, tace vento
d'infiniti inverni. Qui passa
ripassa Dioniso chiassoso,
corteggiando divine allattatrici.
ant.
Gemma di gocciole azzurre
nel mattino, corolla
trionfante del narciso, arcano
diadema delle due Potenti. Smalto
d'oro il croco. Arzilla
non s'affila l'acqua
del Cefiso, in rivoli
inquieti, nella luce ridissemina
lampi di vita, rigando la campagna
in trasparenze di cristallo -
grembo aperto della terra. Ritmi
di Muse non disertano, qui,
né Afrodite, con la briglia d'oro.
str.
Esiste - e non ho sentito
che nell'Oriente,
nelle distese del Peloponneso
sia mai sbocciata -
pianta vittoriosa, rinascente,
terrore di lame d'aggressori
gemma che distingue la mia terra
cereo verde nutriente dell'ulivo!
Né l'età fresca, né stanca
e grigia sradicherà l'ulivo.
Sul fogliame acceso è fissa
pupilla di Zeus dell'ulivo
e d'Atena, occhi di perla.
ant.
Resta pregio, da dire, forza
superba d'Atena, mio polo,
dono del Potente immenso
magnificenza del paese,
zoccoli splendenti nel galoppo, mare
splendidamente nostro! Magnifico
fosti, regale Posidone, ad elevarci
tu che desti ai nostri spazi la primizia
di briglia che modera cavalli.
Poi il miracolo: pala nobile di remo
radicata nel pugno, si sferra
salmastra, s'aggrega
a sciame di Ninfe del mare.
Antigone scorge da lontano Creonte, con la scorta armata.
O spazio dei mille, mille elogi, fa' reale la luce limpidissima dei versi!
Che c'è, che altro caso, figlia?
Viene qui, è già qui, Creonte. Lo vedo. Non è senza scudieri, padre.
Vecchi, io vi sento miei! Voi potete illuminare il culmine della redenzione mia.
Spera, culminerà! È vero: io sono grigio. Ma non è ingrigita la tempra del mio suolo.
Appare Creonte, con la sua scorta. Parla al Coro.
Gente d'alto sangue! Padroni della terra! Vi vedo negli sguardi un'ombra d'ansia, fonda, balenante, a quest'ingresso mio.
Non rabbrividite. Non sferrate voce d'astio. Sì , sono qui: ma non ho in me, coscienti, decisioni strane. Vedete, sono vecchio: poi, capisco, vengo incontro a terra poderosa, senza uguale in Grecia. La mia missione... con gli anni miei, è fare docile quest'uomo, che mi venga dietro, fino alla valle dei Cadmei. Missione non da un capo solo, ma ingiunta dalla folla, in Tebe. E toccava a me, ragioni di famiglia. L'unico ero, il più toccato, in Tebe, dai suoi lutti.
Uomo del dolore, Edipo, ascolta me. Raggiungi la tua casa. Coro di voci, di folla, ti chiama da Tebe. Ed è giusto.
Spicco io, tra gli altri, io, che non credo di avere nelle vene sangue basso, e mi macero al tuo male, vecchio. Guarda, come sei ridotto: profugo, che brancola, rimbalza senza mete. Sempre sulle spalle di lei sola, esistere inquieto, spoglio.
Lei... mi fa male, non immaginavo il suo precipitare in questo fango, in questo precipizio di miseria, con l'ossessione di pensare a te con la tua faccia vuota, anni, anni senza amore d'uomo, merce offerta sulla strada, al primo ladro.
Imputazioni atroci, che mi fanno male. Non siamo tutti noi, imputati, tu, io, tutti? Assurdo seppellire ciò che splende.
Ma ora devi farlo, Edipo, seppellire tutto, scegliendo di tornare a casa, a casa tua, dove tu sei nato. Ti prego per gli dèi nativi, dammi ascolto. Saluta questa terra, con amore: ne ha diritto. Ma più santo culto va, lo sai, alla nativa casa, che t'ha fatto vivo, nel passato.
Campione d'arroganza! Tu da ragioni probe inventi iridescenti reti. Che senso ha tentarmi? Pensare d'ingabbiarmi oggi, ancora, in casi in cui mi sentirei la preda disperata, vinta? In quelle ore, nel cancro della mia degradazione, mi pareva festa rotolare via dalla terra: lo sentivo dentro. Tu no, tu non ci sentivi. Non me l'allungasti, allora, quella carità. Ma poi la febbre svaporava, stanca. E in quei momenti c'era la dolcezza d'invecchiare in mezzo ai miei. Ma tu mi eliminavi, mi
sradicavi: ah non sentivi tuo, allora, quel vincolo di sangue. Ora ti ripeti, vedi che la città s'affianca a me, col suo affetto, con la sua folla, e cerchi lo spiraglio per spaccare, con soffici parole, che sono coltellate. Ti diverte, legarti a gente che rilutta? Come se uno a te che chiedi, insisti, t'accalori, rispondesse no, non ti do niente, non mi muovo, io, per te: poi, quando la tua febbre, il tuo bisogno s'è sfamato, ti regala tutto. Bontà non buona, allora. Otterresti, certo: consolazione magra. È quanto mi proponi adesso: grandezza di parole, e realtà umiliante. Dirò tutto a questa gente.
Voglio smascherarti. Falso! Sei qui per catturarmi, non per guidarmi a casa. Tu vuoi trapiantarmi sul confine, vuoi che Tebe illesa schivi i colpi della terra, qui, dove io sono. Ma non t'è dato. Ben altro c'è, per te: lo spettro mio, ossessionante, legato a quegli spazi eternamente. E per i maschi miei esiste, sì , eredità di terra: bastante a corpo morto.
Che dici, non scruto in Tebe più limpidamente io, di te? Non c'è confronto. Ho informatori più sinceri, io: Radioso e lui, suo padre, Zeus! Labbra ipocrite, le tue. M'hanno raggiunto qui, taglienti come acciaio. Ma col tuo dire guadagnerai sfacelo, non vittorie.
Tu non mi credi. Certo. Vattene. Dimenticaci. Noi vivremo qui. Lo so, ridotti male, ma sarà vita non insegna, se sapremo vivere.
È la tua logica, d'accordo. Ma dimmi: chi è sconfitto, io, da te o da te stesso, tu?
Per me sarebbe festa, se tu non sarai forte, da piegare me, o questi vecchi intorno.
Non hai speranza. Coi tuoi anni, cervello che non cresce, non matura. Non vedi, sei vivente sfregio alla vecchiaia.
Con la lingua sei maestro. Ma io non conosco uomo retto, con parola pronta, bella, su temi indifferenti.
C'è un abisso fra parole in folla, o scelte.
Ah, non capivo: parli breve, tu, e scelto...
Non capiranno mai, mentalità come la tua.
Sparisci: parlo a nome loro, anche. Non assediarmi, non puntare gli occhi dove io mi fisserò, per sempre.
Prendo testimoni loro, non te. Per le risposte da te date ai tuoi, se ti catturo...
Chi può catturarmi? Non vedi, chi mi lotta a fianco?
Non conta. Sentirai dolore.
Hai già il gesto, il piano della sfida?
Le tue figlie: una è mia preda, già in viaggio, pochi istanti fa. L'altra l'avrò adesso.
Nooh!
Aspetta. Singhiozzerai più forte, dopo.
La bambina... mia... cosa tua?
E l'altra. Non aspetto, io.
Nooh, buona gente, che pensate? Mi lasciate solo? Non sferzate via quest'uomo senza dio?
Vattene, uomo. Svelto. Non c'è moralità nei gesti tuoi di ora, né di prima.
(Urlando alla scorta)
Ecco l'ora! Prendetela, con forza, se rilutta, se non sceglie l'obbedienza.
Ah, che disgrazia! Dove fuggo? Chi degli dèi o dei viventi m'aiuta?
A che tendi, uomo?
Non m'interessa il vecchio: lei, ch'è mia.
Padroni della terra...
Uomo: non è gesto retto.
Retto.
Come, retto?
Possiedo gente mia.
str.
Aaah, Atene!
Che decidi, uomo? Non la lasci?
Assaggerai i colpi?
Allontanati da me!
Ah no, da te no, rapace folle...
Guerra totale con Tebe, se mi urti.
Non predicavo chiaro, io?
Giù le mani dalla figlia presto.
Non comandare. Tu non sei padrone.
Scioglila, ripeto.
Fatti da parte.
Volate, di volo, di volo, vicini!
Schianti brutali su Atene, mia Atene!
Volate da me!
Sono preda spezzata. Ah, buona gente...
Bambina, dove sei?
Non ho forza, parto...
Allungami le braccia, bimba.
No, sono svuotata.
(Alla scorta)
La prendete, o no? La scorta trascina via Antigone.
Ah, quanta sofferenza...
Basta. Girerai le strade, ma non sui due bastoni. Vuoi l'umiliazione della patria, dei tuoi figli: ed è sotto pressione loro che io - bada, io, l'assoluto capo - compio questo sforzo. Umiliali! Con gli anni, penso, tu decifrerai: che sono decisioni indegne di te stesso, quelle d'oggi, e l'altra, del passato. Calpesti gli ultimi legami, culli rabbia tesa, in te: e ti devasta, senza fine.
Frénati, uomo.
Non sfiorarmi, ti ripeto.
Non ti sciolgo, dopo questo furto.
Stai attirando sul paese rivalsa più pesante. Prenderò altro, non le sole due...
Pensi a che?
Strapperò il vecchio, via con me.
Idea mostruosa.
No. Realtà concreta, ormai.
Se non t'inchioda il re di questa terra mia.
Suoni osceni. Vuoi sfiorarmi, tu?
Fa' silenzio.
Ah, Potenze di Colono, datemi la voce' Voglio maledire! Tu, maligno, tu m'hai disarmato, sradicato l'occhio, sostituto dei miei vecchi occhi, e dopo la violenza fuggi. Sole, cosmico occhio lucente, dagli da vivere anni cadenti identici ai miei! A lui! E ai suoi, del suo sangue!
Vedete che cose, gente della terra!
Vedono me, e te. Capiscono che a colpi veri, duri, faccio barriera di parole.
Non argino la mia febbre. Strapperò da qui quel vecchio, anche se sono solo e l'età pesa.
ant.
Ah, sono stanco.
Sei spericolato, uomo,
se t'illudi del successo.
M'illudo.
La mia non sarà più città civile!
Fragile stronca potente, in campo di diritti.
Sentite i suoni senza senso?
Non avrà successo...
Zeus presagisce. Non tu.
Squilibrio puro.
Squilibrio. Ma t'adatterai.
Popolo, folla, capi della terra
di corsa, correte. Oltre confine
sconfinano, quelli!
Irrompe Tèseo con scorta armata.
Che vociare? Che lottare? Da che panico sospinti mi strappate al sacrificio sull'altare del dio d'acque ch'è patrono di Colono? Dite tutto, fate luce sui motivi d'una corsa più veloce dei miei gusti.
Amico, t'ho capito ai suoni della voce. M'ha colpito assurdamente, quello, proprio ora.
Colpi? Quali? Chi t'ha trafitto? Parla.
Creonte, che tu certo fissi duramente. Sta sparendo, predando l'estrema cosa mia, le mie due figlie.
Come hai detto?
Hai udito i colpi.
Non c'è, qui nella scorta, uno che di volo piombi là, ai nostri altari, strappi la gente ai sacrifici accesi, che si precipiti, correndo, sui cavalli a briglie abbandonate alle due foci delle vie maestre, al punto della confluenza? Non devono precederci, le due figlie. Non voglio far sorridere il nemico, io, dopo lo schiaffo prepotente. (alla scorta) Esegui l'ordine, di volo! Quanto a lui (indicando Creonte), se seguissi la strada dello sfogo - e lo meriterebbe - non uscirebbe con la faccia sana dai miei colpi. Oggi è penetrato qui con un suo codice di norme. Dovrà adeguarsi a quello, non ad altro. (a Creonte) Non lascerai la terra, se prima non mi fai brillare innanzi, ferme, le due figlie. Hai scelto strade indegne del mio nome, di chi ti fu radice, della tua stessa terra. Tu sei penetrato in una gente che vive la retta probità, che senza legge non agisce, mai. Hai raggirato i cardini di questa terra, col tuo assalto, rapini quanto vuoi, di forza, spadroneggi. Forse t'illudevi che la mia città non fosse fatta d'uomini, virili, ma di servi: e ch'io non ero più un uomo.
Strano. Alla bassezza non t'ha allevato Tebe. Non è in lei cullare uomini contorti, e non darebbe premi a te, predone del mio bene, sacro, religioso, che strappi creature infrante, con le mani tese. Potevo entrare io in territorio tuo: ma io non
aggiravo chi regge i territori, non importa chi. Non sradicavo, non predavo. Sapevo le regole del viaggiatore, che si trova in mezzo a gente del paese. Tu sei viva macchia per la tua città, che non ha colpe. Il tempo che s'addensa, ti fa grigio, e vuoto di cervello.
Ho già parlato chiaro. Ora ribadisco. Le due figlie devono tornare a me, di volo, a meno che non voglia trapiantarti in questa terra: inchiodato qui, non volontario. Cose, attento, in cui la lingua coincide con la mente.
Vedi a che punto, viaggiatore? Dalle tue radici riverbera su te moralità. Ma ti fai cogliere in azioni basse.
Io non pensavo la tua Atene senza veri uomini, senza legge. Non è stato gesto cieco, il mio, come tu lo definisci. Non potevo prevedere la vampata d'interesse per quei miei parenti, fino ad abbracciarli, calpestando me. Credevo di sapere:
non avrebbero raccolto uno che ammazzò suo padre, uomo sconsacrato, sposalizio osceno, smascherato nodo madrefiglio.
Poi sapevo il colle d'Ares, tempio di ragione, proprio di qui, caratteristica locale. So che non lascia che simili randagi mettano radici tra la gente. Non avevo dubbi, in questo, e strinsi in pugno la mia selvaggina. Non l'avrei fatto: ma lui imprecò, aspre imprecazioni a me, al ceppo mio. Colpi duri. Meritavano la mia risposta. Rabbia accesa non sfiorisce: c'è la morte, e basta. I morti sono indifferenti, senza spasimi.
È tutto. Agirai come senti. Sono isolato: è la mia fragilità, anche se ragiono rettamente. Sono vecchio, non importa, saggerò la strada, risponderò alle mosse.
Tu non hai vergogna! Chi t'illudi di ferire? Me, così ingrigito? O te? Delitti, sposalizi, disperazioni hai martellate dalle labbra: dure imposizioni, a me, non scelte, non volute. Fu cosa nata dagli dèi: chissà, spirito d'acredine contro la mia razza, tanto tempo fa. Dentro, nel mio io, non rintraccerai ombra di delitto, radice di delitti miei, contro me stesso, contro i cari. Chiarisci, allora: sai che al padre venne magico presagio, morte radicata in figli. È assurdo, iniquo incriminarmi: allora neppure la semenza, guscio della vita avevo, di mio padre, di mia madre. Non ero nella vita! Se
sinistra luce poi m'avvolse - ah, sinistra, sì - e alzai le mani su mio padre, e l'ammazzai, senza decifrare la vittima chi era, tu tenti d'addossarmi l'atto inconscio? Sarebbe razionale?
Mia madre! Non hai coscienza, non hai pudore ad artigliarmi parole sugli amori con la donna, sangue del tuo sangue?
Dirò tutto. Non seppellirò le cose: hai superato il limite, tu, lingua oscena.
Fui nel suo ventre. Ventre - nooh, la mia vergogna! - cieco d'uomo cieco. Ventre che, dopo me, fruttò nati a me, e scandaloso nome a lei. Io so profondamente questo: tu premediti l'insulto osceno contro me, e lei. In quello sposalizio non ci fu volere mio: e non c'è volere nel suoni che scandisco. Non temo scandalo, io, per le mie nozze, e per il sangue di mio padre ucciso, che mi sputi in faccia, tu, ossessivo, duro, velenoso. Controbattimi su un punto solo. Basta questo.
Se a te, a te che sei morale, adesso, qui, s'affianca uno, e ti colpisce a morte, tu che fai, l'inchiesta se è tuo padre, l'assassino, o scatta il tuo colpo di difesa? Io non ho dubbi. Se senti tua la vita, rispondi al primo colpo, non indaghi la traccia di un diritto. Precipitai in questo abisso anch'io. E fu divino urto. Spettro paterno, se vivesse, non mi smentirebbe, no, lo sento. Tu non sei retto: tu pensi che ti coli oro, sempre, dalle labbra, dica plausibili, o impossibili parole. E così mi stai ferendo, pubblicamente.
Tu accarezzi, indori il nome di Tèseo, d'Atene: che magnifico Stato! Che entusiasmo, e intanto non ricordi questo: se c'è terra ferrata nel culto religioso, Atene svetta in questo campo. E tu da lei rubavi il pellegrino, l'uomo spento, io, tua
preda! Strappi le figlie, tenti di sparire! Io reagisco tendendomi alle dèe di questo spazio. Le chiamo, le spingo con le formule a venire, patrone battagliere di castigo. Devi decifrare che razza d'uomini fa quadrato, qui!
Prezioso, principe, è l'uomo: devastata, la sua vita, ma merita conforti.
Ragioniamo troppo. Chi ha colpito corre. Noi siamo feriti, inerti.
Alla mia torbida persona, che comandi?
Aprire tu la strada, quella che tu sai. Guidarmi alle due figlie, farmele trovare, se sono ancora chiuse in questi spazi.
Forse già dileguano, i carcerieri. Non è lavoro nostro, allora. Abbiamo corridori buoni: non evaderanno, quelli, non diranno grazie a dio d'avere sconfinato. Di' la pista. Convinciti: predone sei, e preda, rapace nella gabbia, per ritmo degli eventi. Spariranno beni furtivi, contorti. Non hai più nessuno. Ah no, non sei venuto qui scoperto, senza forza all'attentato folle: senza slancio bruto, dentro. Dev'esserci qualcuno, uomo di fiducia, tuo, che t'ha fatto osare. Sarà il mio punto fisso, questo; e inoltre che la gente mia non abbia meno nerbo d'isolato uomo. Afferri questo dire? O le giudichi sillabe d'aria, come quando montavi il tuo ingranaggio?
Qui, quello che dici tu non si discute, mai. A casa nostra noi sapremo le giuste decisioni.
Sfidami. Ma muoviti. Edipo, resta, nella luce di questa fede: se non cado, sarò ferreo, agendo, rimetterò nelle tue mani le tue figlie.
Tèseo, ti frutti bene, la nobiltà del cuore, la tua mente tesa al mio riscatto.
Tèseo e Creonte escono con gli armati.
str.
Io fossi là dove ostile
inarcarsi d'armati, presto
dissonanze metalliche guerriere
impasterà, sulla pitica spiaggia
o alla costa dei ceri, dove le Potenti
cullano arcane adozioni
per chi dentro ha morte, labbra
siglate dall'oro
dagli addetti Eumolpidi
Là, col pensiero, vedo accendere duelli
Tèseo, e la coppia viaggiatrice
integre sorelle avvolte
da urla, l'un contro l'altro, armate
in quegli spazi.
ant.
Chissà sfioreranno le rocce
innevate del tramonto,
dagli stazzi di Eea
al galoppo, su ruote rivali
carri fuggitivi corridori.
Ed è subito rotta: spaura,
l'Ares del mio paese
e spaura, come svetta Tèseo coi suoi.
Briglie, schegge luminose.
Galoppo che si sfrena,
ovunque, d'orde opposte
gente con il culto
d'Atena dei cavalli,
del salmastro dio, diadema
della terra, da Rea nato.
str.
In campo, o lì sull'orlo? Tesa,
ansiosa m'anticipa la mente
che s'allenta la pena delle due
vittime d'incubi, provate
dall'incubo dei loro, stesso sangue.
Matura tutto, tutto, Zeus! Oggi!
Sento duelli vittoriosi.
Essere colomba che s'impenna, raffica
d'ali, e trafigge le nuvole azzurre
e svetta sul duello
la pupilla mia!
ant.
Zeus, cosmico sovrano
cosmico occhio, traccia la strada
a chi regge il paese
dell'agguato vincente, colmo
carniere di braccio spietato.
Collabora, Atena solenne!
Apollo rapace
e la sorella, assillo di cervi
snelli striati, accorrano
coppia scudiera alla terra,
alla gente. È mio sogno.
O uomo delle strade, non dirai che la tua scolta è visionaria. Scorgo le tue figlie, là. Eccole, vicine, ben protette.
Dove, dove? Sei sicuro? Non capisco! Appaiono Antigone e Ismene scortate da Tèseo.
Ah, padre, se per un miracolo tu vedessi in faccia l'uomo, quest'eroe, nostra scorta qui!
Creature, qui tra le mie braccia?
Ci hanno liberate queste mani, di Tèseo, dei suoi uomini: cari, come gente nostra.
Fatevi vicine, figlie, al padre. Che senta il vostro peso vivo. Ah, ritorno che credevo sogno assurdo!
Vuoi un bene che ti toccherà. C'è febbre, in noi, d'accontentarti.
Dove siete, dite, dove?
Eccoci, vicine.
Miei, miei germogli...
Chi dà vita ama, sempre.
Puntelli della vita.
Desolati, d'uno desolato.
Stringo chi è più mio. Non muoio disperato, se vi sento qui, vicine. Fatevi colonne, figlie, ai miei fianchi. Radicatevi a me, radice vostra. Date respiro all'uomo escluso, perso da tanto sulle dure strade. Ditemi i fatti. Ma rapido narrare: a bimbe, come voi, bastano parole rade.
Chi ci ha liberate è qui. Padre, odi lui. Il mio compito s'abbrevia.
Amico: scusa l'insistenza strana, se discorro tanto con le figlie, presenza che pareva sogno. So che la dolcezza di riaverle, lampo luminoso, non è dono d'altri: tu le hai riscattate, tu non altri. Ti sorridano, gli dèi, io prego: a te, alla tua terra. Ah, sì : la devozione è una scoperta che io ho fatto, qui. In altri non esiste: e poi l'umanità, e labbra trasparenti. Io vedo tutto, ora: a compenso non ho che le parole. Ascolta: sono ricco. Ricchezza di cui tu sei fonte. Principe, qua la mano, la tua destra: voglio stringerla. Baciarti sulla faccia, se non è peccato...
Ah, ma che dico? Sono relitto umano, io. Io sogno di toccare un uomo? Io, guscio di degradazione, di sporcizia! Io... te?
Nooh! E sono io che dico no! Solo vite indurite dal male sopportano il contatto col mio cancro. Fermo lì ! Salve, ti dico. Ricordati di me, domani e nel futuro, con la tua rettitudine di sempre.
Non m'è parsa strana l'insistenza delle tue parole, intenerito dalle figlie: né il tuo aggrapparti al suono delle voci loro, non della mia voce. Non mi pesa, questo. Il mio ideale è vita lucida di gesti, non di suoni. Te lo provo: t'ho garantito cose, vecchio, e non t'ho deluso, in niente. Eccomi, te le riconsegno, vive, senza scalfitture, libere dall'incubo. Io non scandisco vuoti suoni, sul modo del trionfo. Saprai tu, dalle tue due, nelle ore vostre insieme.
Marciando qui, m'ha avvolto una notizia fresca: devi valutarla. Corta frase: però, problema sorprendente. Un fatto: sminuirlo è errore, non da uomo.
Che c'è, frutto d'Egeo? Fammi capire. Sono al buio, io, dei dati che possiedi.
Ecco, senti: un uomo, non della tua tetra, ma con sangue tuo, s'aggrappa, s'abbandona, pare, sulla base sacra, là, di Posidone: dove accendevo il rito, io, quando poi corsi qui.
Da che terra? Che prega, con quel suo inarcarsi?
So questo, e basta: mi dicono che vuole dirti frasi, svelte, non corpose.
Frasi? Quali? Sede solenne, quella, non leggera.
Dicono che vuole parlarti. Poi ripercorrere la strada, indenne.
Chi può essere? Uno prostrato sul santo basamento...
Pensa ad Argo. Da laggiù, forse, uno del tuo sangue può sorgere a domandarti questo...
Basta, non continuare.
Che hai?
Non domandarmi...
Cosa? Spiega?
Decifro dal tuo dire chi è l'individuo, là, proteso.
Che razza d'uomo? Degno di condanna?
È mio figlio! Principe, io l'odio! Quella voce, quel suono, nelle orecchie, sarebbero tortura, spasimo...
Che vuoi? Non puoi udirlo, poi non decidere gesti non voluti? Ti tormenta il puro suono?
Nemico, capisci, nemico il suono della voce. A me, suo padre! Non inchiodarmi, a questo cedimento.
T'inchioda il suo prostrarsi. Scruta. Forse devi valutare la mente protettrice di quel dio.
Padre, obbediscimi, sono giovane, ma voglio addolcirti. Consenti a lui, qui, d'accontentare la voce della mente, e l'animo del dio. Poi, per noi due: flettiti all'arrivo del fratello! Sta' sicuro: non ha tanta forza, non potrà spezzare la tua
decisione, una parola sua, se sarà nociva. Ti ferisce il puro udirlo? La voce smaschera gli intenti, i gesti bassi. È tuo germoglio: scegliesse d'attaccarti coi colpi più immorali, snaturati, non avresti basi, tu, per riattaccarlo, per umiliarlo, padre. Apriti a lui. Anche ad altri toccano semenze guaste, e un'affilata febbre, dentro. Ma i cari sanno la magia, la musica che schiara, intenerisce il sangue. Guarda al passato, non all'oggi: allo sfacelo che ti sfece, da padre, madre. Sarà come un'illuminazione, dico. Comprenderai che cattiveria inaridita frutta esiti cattivi. Dalle pupille spoglie, vitree, ti nasce un interiore mondo, non certo spensierato. Piegati, per noi.
È umiliante insistere con richieste rette: e bassa cosa è avere grazie, e ignorare grata ricompensa.
Figlia, mi avete sconfitto: dolcezza di piombo, per me. Sia come il sangue vostro dice. Solo, buon re, se quello verrà qui, non voglio despoti sulla mia esistenza, mai!
Basta. Non ripeterti, vecchio. Non è da me incensarmi. Tu sarai intatto: basta che un dio tuteli, intanto, pure me.
Tèseo si allontana.
str.
Chi quota d'anni crescente
sogna, e ignora ch'esistere
ha suoi equilibri, è chiaro modello
di mente contorta, eretta a tesoro.
Sì , catena di giorni che s'affolla
addensa l'esperienza
del soffrire. Serenità
ti sfuma: dove, ignori,
se sconfini in spazi
non dovuti. Ti salva la livellatrice
nell'ora che, dal Nulla, spettro della fine
mute note, ritmi fermi - appare:
morte! Ed è finita.
ant.
Non radicarsi all'essere: incalcolabile
bene! All'apparenza nati
il viaggio indietro - scatto, volo -
al punto originario è l'altro bene, grande.
Appena l'età verde sfugge
con la sua messe di spensieratezza
aerea, chi sguscia dalla gabbia
greve del soffrire? Delle stanchezze?
Fratture, livore, disordine, duelli,
violenze: poi, fatale corona, disgusto
dell'età grigia, fragile, scontrosa,
abbandonata, coagulo malato folla di malanni.
ep.
Sua preda è lui, sfinito. Non io
solo. Incudine di rocce martellata
da raffiche di gelo, nodo d'onde:
così lui, le sue radici,
scheggiarsi mostruoso di risacca,
martellano tenaci perdizioni,
da dove sole affonda,
s'inerpica nel cielo,
verso strali a picco,
da cime che si perdono nell'ombra.
Eccolo, lontano, pare, il viaggiatore...
Chi sarebbe?
Chi c'invade la mente, da tanto. Arriva, Polinice, è qui. Non ha scorte, padre. Raffiche di pianto sulla faccia. Ancora pochi passi...
Appare Polinice
Nooh, che decido? Piango i miei dolori, prima, o questo padre grigio, che m'appare? Ah, sorelle! Su suolo non natio lo ritrovo, con voi due, relitto alla deriva, e che stracciume, fetore che s'annida, a pezzi, cade, su cadente carne, marcio sulla pelle, e sulla faccia vuota quei capelli sfatti tremano nel vento. E sul modello, penso, saranno i suoi bocconi, zavorra d'inedia disperata. Vedo il mio delitto, chiaro, adesso. Ma è già tardi. Io confesso: sono disumano figlio perché non t'ho nutrito. Non saprai chi sono, io, da altri. Assisa, su, con Zeus, sta Umanità, arbitra dei gesti. Padre, ti prego, fa' che ti s'affianchi. Quanti errori, quanti... ma la cura c'è. Un aggravarsi, no, no esiste. Sei muto? Perché?
Fammi sentire una parola, padre. No, non cancellarmi. Rispondimi, qualunque cosa! Ah che silenzio duro! È come se non esistessi. Mi elimini, non sfoghi, almeno, l'odio? Voi, germogli di quel vecchio, voi, sangue mio, trovate lo spiraglio nella faccia sua, impietrita, chiusa: che non m'annulli, me, proteso a un dio, e m'abbandoni senza reazione di parole.
Soffri. Sei sfinito. Di' per che bisogni giungi. Moltiplicare le parole, vedi, festose, ma anche ostiche, accorate, sa ridare voce a labbra sorde.
Devo sfogarmi, sì : pista buona, questa tua. Io sono all'ombra del mio dio: da cui, per il mio arrivo qui, mi staccò il principe di questa terra. E dava a me diritto di comunicare, di spostarmi indenne sulle strade. Buona gente, anche da voi le voglio, queste cose. E dalle mie sorelle. E da lui, dal padre. È tempo. Voglio dirti perché venni, padre. Ah, suolo dei padri: m'hanno espulso! Profugo! Perché sul trono del potere, sul tuo trono, volli fortemente io salire, io, figlio anziano, primo, dalla tua radice! Per contrasto Eteocle, sangue più immaturo, m'ha fiondato dal mio suolo: e non m'ha vinto in logica di Stato, sfida d'armi, o d'altra dote. La folla, ha lusingato! C'è una responsabile di tutto, e io lo grido: dannazione tua! E voci di profeti m'hanno confermato. Poi approdai ad Argo dei Dori. Ho stretto Adrasto con le nozze, a me; con rito d'alleanza ho incatenato i principi dell'Apia, signori della guerra: sette blocchi di ferro, che marciano a Tebe, è il progetto, per rifare giustizia, morendo, o strappando da Tebe chi aveva sbagliato.
Bene. Perché io mi protendo qui? Per te ho preghiere che piegano, padre: per me, e per loro, gli amici di lancia. Con sette colonne sette, irte di picche, attanagliano Tebe. Ecco Anfiarao, baleno di lame: detta legge, col ferro, e nei magici voli. Segue Tideo, d'Etolia, frutto d'Eneo; Eteoclo terzo, sangue di Argo; quarto è Ippomedonte, sospinto da Tálao, il padre; poi Capaneo, fisso, esaltato pensiero, Tebe è una buca di cenere nera; sesto sfreccia Partenopeo Faccia Fanciulla,
l'arcade, che nel nome ha indocile, ostinata innocenza del ventre che poi lo creò, d'Atalanta, autentico frutto. Poi io.
Tuo. Sì tuo comunque - anche se spunto da caso sinistro - almeno nella sonorità del nome: io capitano della fredda armata d'Argo, contro Tebe.
Per le mie sorelle, per il tuo respiro, padre, noi ci protendiamo, tutti, e ti chiediamo, sciogli la tua collera di piombo su quest'uomo, teso a castigare mio fratello, che m'ha spinto via, m'ha denudato della terra mia. Se c'è una trasparenza nei presagi, la voce risuonava: trionfo a quelli a cui t'allacci! In nome delle acque nostre, degli dèi nativi, fatti docile, ti prego, assecondami. Io vago, randagio, in terra strana: in terra strana tu. Vita d'inchini ad altri, la mia, la tua. C'è caduto addosso uguale inferno. L'altro ingrassa nelle sale, despota. Come sopportare? È sarcastico, su noi, me e te! Allèati con la mia rabbia, e con un soffio, in un istante, lo disperderò. E alla fine ti guiderò alle tue mura, alto padrone. Alto padrone anch'io. Lo sradicherò, spezzato.
Senso di trionfo che può farsi vero, se intrecci il tuo volere, padre. Se ti sottrai, io non ho riscatto, sono vuoto.
Quest'uomo, considera chi l'ha mandato, Edipo. Parlagli: corrette cose, poi fallo ritornare.
Buona gente, caso volle che l'inviasse il capo della terra, Tèseo, sentenziando che udisse la mia voce: se no non avrebbe catturato i suoni. Concediamo questo. E se ne andrà, con dentro l'eco di parole mie, che gli oscureranno la luce della vita.
(a Polinice) Disumano. Impugnavi tu potere e scettro, ora nel pugno al tuo fratello in Tebe, quando fiondasti nell'estraneo mondo me, tuo padre, fuggitivo carico di stracci, che tu adesso fissi, e piangi, entrato nel mio cerchio di dolore, compagno della mia caduta. Singhiozzi? Non ha senso. Soffocherò nel male, giorno dopo giorno: col pensiero fisso a te, mio boia. Agonia come un pane quotidiano: ecco, che m'hai fatto, tu, che m'hai respinto, tu, fonte del mio brancolare, nel tendere la mano, in giro, per sopravvivere. Ogni giorno! Guarda le mie figlie. Mi cullano, mi sfamano.
Se non le seminavo, io non c'ero più: s'era per te. Guardale, per me sono la vita, il pane, tutto. Figli maschi, non figliole, in questa lotta nostra. Voi siete da radici strane, non da me, voi due.
Attento. Occhio di Potenza ti segue, oggi, e più domani, se puntano su Tebe le tue lance. Non c'è nel tuo domani il colpo che sprofonda Tebe. Crollerai tu, sangue, addosso, come lebbra. Tu, e l'altro, del tuo sangue, morte pari. Formule
maligne, che strappai da me, sferrai già prima sui due figli: ora m'inarco, le chiamo, compagne guerriere, venite, s'inchinino quei due, al culto di chi li seminò; non sputino su lui, se è cieco padre, fu seme d'esistenze... quali sono.
Esistenze pronte a gesti sconosciuti alle due figlie. Schiaccia, la maledizione, il tuo inginocchiarti, quel tuo trono, se Legge, eco dei millenni, assiste nelle altezze Zeus, e le norme primordiali.
Ora affonda. Vali sputo. Diseredato. Cane, canaglia! Con addosso dannazioni mie, che ti grido sopra: non dominare con la lama sulla terra nostra, nessun ritorno nella chiostra d'Argo; assassinato da fraterno pugno, l'assassinio tuo di chi t'ha
cacciato. Così io ti martello! Nero dell'Inferno, t'invoco, Rancore di Padre! Fallo migrare! Chiamo le Potenti in questi spazi! Chiamo Sanguinario che ha scagliato guerra assurda in mezzo a voi! Con questo nelle orecchie va' sulla tua strada, ripeti a tutta Tebe, alle tue lance amiche, che sono tue speranze: ecco l'eredità d'Edipo, spartita nei suoi figli!
Polinice, s'è spenta la tua corsa, qui, senza applausi miei. Ora ritorna, di volo.
Ah via maestra della mia sconfitta! Ah gente mia! A che sboccava il nostro slancio, giù da Argo? Che stanchezza. Non posso rivelarlo, dentro la mia cerchia. Ritrarci: ecco che mi resta, incrociare senza una parola il mio futuro. Sorelle, sangue mio, udiste le coltellate di quel vecchio, le dannate voci. Dio, dio, vi prego, almeno voi, se deve maturare la maledizione sua, del vecchio, e se, chissà, ritornerete a quelle nostre mura, non escludetemi: datemi una fossa, e rito di
defunti. L'elogio, per i sacrifici vostri su quel vecchio, frutterà nuovo elogio, non minore per le mani tese a Polinice.
Polinice, m'inginocchio, ascoltami...
Sorella mia, Antigone, in che cosa, dimmi...
Fa' ripiegare ad Argo la tua armata, vola, vola. Non affossare te, e quell'intera gente.
Non ha senso. Se m'incrino, dentro, con che faccia torno a comandarli, loro i miei soldati che non cambiano?
Torni, ragazzo? Perché? Chi t'obbliga, ad accenderti? Che guadagni, dalla città paterna sfatta?
E un marchio, questa fuga. E il suo sarcasmo, del fratello, su di me più anziano.
Tu abbrevi la strada ai suoi presagi, di lui che scandì nodo d'assassini tra voi due.
Il sogno suo, certo. Ma noi non arretriamo.
Nooh! Sono stanca. Chi ti vorrà per capo, dimmi, se risuoneranno gli ispirati accenti di quel vecchio?
Non metteremo in piazza le miserie: chi sferza armati, e sa le cose, dice i punti forti, non i cedimenti.
Così , ragazzo, questa è la tua scelta?
Non frenarmi, no, non tu. Sarà mia, appassionatamente mia questa corsa verso la caduta, sorta da mio padre, dalle Dannazioni sue. Voglio che a voi due Zeus sorrida, se mi farete quel regalo: sarò morto, allora. Vivo, non m'abbraccerete più. È l'ora. Fatemi partire. Io vi bacio. Non mi rivedrete, con negli occhi questa luce.
Nooh, che amarezza!
Non balbettare, su di me.
Chi non piangerebbe su un fratello che si scaglia, l'occhio fisso, al Nulla?
Po, Cadrò, se devo.
Nooh, non tu. Lascia che ti guidi.
Non guidarmi a mete indegne.
Amaro come morte, sola, senza te.
Cose segnate. Sovrumana spartizione, il lato in cui germoglia realtà. Ho una supplica agli dèi, per voi, sorelle: non v'incroci il male. Siete innocenti, per il mondo: non cadrete.
Polinice si allontana.
str.
Strane cose. Stranamente mi sorprende
colpo, colpo inumano da spento pellegrino.
Forse è quota fatale, che culmina.
Matto progetto di Potenze
non esiste. Nego!
Cosmico guardiano
È Tempo: cadenza...
o di giorni, tutto matura.
Rombo di tuono.
Cielo romba. Zeus!
Ah, creature, come fare? Se un uomo di Colono chiamasse Tèseo qui, da me, l'altissimo campione...
Perché questa richiesta, padre?
Tuono che sfreccia da Zeus. Mi deve immergere nel Nulla. Presto, fatelo venire.
ant.
Cupa incudine. Martella
tuono. Riverbero divino. T'ammutolisce.
Panico s'insinua. Chioma irrigidita.
Gelo, dentro. L'aria
s'incendia di riverberi.
Che fine sferrerà?
Ho paura. Non è mai volo
senza bersaglio, e strascico dolente.
O cielo enorme. O Zeus!
Figlie, s'avvicina a questo vecchio l'ora estrema. Celesti segni. Non si torna indietro.
Come sai? Da quali indizi?
Coscienza chiara. Non c'è tempo. Fatemi parlare, presto, col re di questi spazi.
str.
Aaah, ancora, m'assale, m'attanaglia
vibrare che corre le ossa.
Sorridimi, Potenza, se sul suolo
che mi fu culla stendi volo d'ombra.
Ti voglio in pace.
Uomo segnato ho visto: risparmiami
contagio d'ostico guadagno.
Mi senti, Zeus dell'alto?
Arriva? È qui? Figlia, chissà, mi troverà che vivo, con lucido sentire?
Vuoi radicargli dentro amico segno. Quale?
Specchio di favori, un dono: matura grazia che promisi nell'ora del conforto.
ant.
Corri, figliolo, su, corri
... al dio salmastro.
A Posidone stai santificando
braciere di vittime accese. Vieni!
Il viaggiatore dona
retto contraccambio a te,
alla tua cerchia, ed alla gente nostra.
Affrettati, principe, vieni.
Riappare Tèseo.
Che impasto di voci si libra, sonoro, da voi del paese, e si staglia, la voce del vecchio? Che c'è: sciabolata da Zeus?
Martellare di grandine secca? S'affollano in mente i pensieri, quando dio s'abbuia, come ora.
Principe, sei luce che s'accende, sospirata. Dio fa del tuo viaggio un'occasione ricca.
Che c'è, figlio di Laio, che sorpresa?
Scivolo nel nulla. Ho garantito, a te, alla tua folla. Non sottrarrò quel bene. Poi morrò.
T'appoggi a pronostici fatali? A quali?
Avviso genuino degli dèi, annunciatori onesti, chiari di segni pattuiti.
In che consiste questa trasparenza, vecchio?
Tuono che s'affolla, si prolunga. Folla di lame sciabolanti da mano che non sa sconfitta.
Ti credo. Vedo che in te s'affollano ispirate voci, senza opacità. Di' che occorre fare.
T'illustrerò, frutto d'Egeo, valori che saranno base a questa tua città, che il tempo doloroso non incrina. Io, Edipo, ti scorterò a spazio fatale di mia morte, io, non più aggrappato alla mia scorta. Tu non confessare mai lo spazio misterioso, a uomo vivo, i punti in cui s'avvalla: ti sarà barriera, eterna, meglio di scudi, armata amica che s'addensa sui confini. Cose arcane, da non disseppellire con la voce, imparerai tu stesso, quando approderai laggiù, tu solo. Non posso strapparmi una parola, con uno della terra, qui, o con le figlie, che sono il mio vivente bene! Difendi il tuo segreto.
Quando sarai sul limite, tra vita e morte, insegnalo a chi svetta, in mezzo a tutti. Lui decifrerà all'erede. Ritmo eterno.
Ciò ti farà incolume lo Stato, sempre, dalla semina vivente. Miriadi di Stati, con governi esperti, peccano ridendo di squilibrio. Occhio di dio fissa, fermo, lento, se schiacci religione, e affondi nel delirio. Non cadere vittima di questo, figlio d'Egeo.
Ma apro occhi illuminati, io. È ora. Presenza di dio mi sferza. Devo andare in quegli spazi. Non posso più distrarmi.
Figlie, qui, dietro i miei passi! Luce nuova, su di me: sono io pilota, come foste voi, a me. Fatevi vicine. No, via quelle mani. Fate che ritrovi io, io solo il mistico rialzo dove io, Edipo, mi coprirò di terra. È qui, fatale punto! Di qui, adesso, venite. Sento una forza. È Ermes, la mia scorta. È Lei, la dea profonda! Luce, nel mio nero! Ricordo, tu m'apparivi, allora! Questa è l'ultima carezza sulla faccia, sulle mani. Vado. È ora. Annegherò nel nulla l'ultimo respiro. A te, che ormai sei mia famiglia, alla tua terra, alla tua gente che ti segue, dico: dio vi baci, e nella vostra gloria non scordatevi di me sepolto, nel ritmo della gioia.
Edipo si allontana, con Tèseo e le figlie.
str.
Se esiste base d'umile preghiera
a dea dell'abisso, a te
sovrano della notte eterna
aaah Invisibileee! -
donami questo: fa' che il pellegrino
senza agonia
non su onda di nenie
finisca nella morta valle, fossa
comune umana, sede dell'Orrore.
Se atrocità s'addensano, stupidamente
arrivano da te, alla fine
Potenza che equilibra ti riscatta.
ant.
Dee del profondo! Mastino
che trionfi - dicono
da sempre - che t'accucci
sull'entrata generosa
con le folle, ululi
dal buio, ferreo
sentinella all'Invisibile! Ti prego,
creatura di Terra e d'Inferno,
fa' che non inciampi nel mastino
il viaggiatore che cammina
alla spettrale valle.
Te scongiuro: te, dalla quiete immota!
Appare un Messaggero.
Gente di Colono con un taglio netto potrei dire: s'è spento Edipo. Ma i gesti, gli eventi sorti in quello spazio non c'è lingua che li sveli in breve.
Spento? Caso atroce.
Uscito da quell'esistenza sua interminabile. Ora sai.
Come? Una caduta stanca, quieta, sovrumana?
Miracolo, ti dico! Il modo dei suoi passi, quando uscì di qui, tu sai, io credo, eri vicino. Non s'appoggiava ai suoi, anzi, c'illuminava lui, noi tutti. Quando fu al ciglio che si scheggia, s'interra in rampe di metallo, s'impietrì sul fascio di passaggi che s'irraggia, presso la rotonda volta, culla dell'accordo semprevivo di Tèseo e Piritoo. Qui posò fermo, in mezzo tra il sasso di Torico, il guscio del selvaggio pero, e la rocciosa fossa. Lasciò cadere quei suoi stracci opachi, scandì alle figlie il suo comando: acqua, viva acqua raccolta per lavarsi e per il rito. Eccole, di volo, sul declivio di Demetra degli steli verdi, che s'apre, lì davanti. Tornarono con l'acqua, docili al padre, svelte. Lo lavarono, gli misero il sudario. Il culto si compiva, pieno. Egli era sereno, allegro: nessuna inerzia nei gesti rituali. Poi lo schianto: fu Zeus dell'Abisso! Le giovani donne impietrite, a quell'eco. Piangevano, aggrappate al padre, torrente di singhiozzi strascicato, e squarci nella carne! Ode la nota che lo sferza, si curva, se le allaccia, e dice: "Figlie, da quest'ora non avrete padre. Il mio io s'è sfatto. Cancellerete lo scontroso peso della fame mia. V'ha piegato, figlie, ah lo so. Ma esiste un'unica parola, che premia ogni durezza della vita: intimità, quel sentirvi sue che da nessun altro aveste, più che da questo vecchio, che vi lascia, e che non sopporterete più nei vostri giorni".
Si stringevano vicini, ed erano sospiri, rotti, intensi. Le lagrime finirono. Non aleggiava voce. Silenzi tesi. Poi scoppio fulminante d'una voce, a lui, e brivido che corre nei capelli, a tutti, fulminante. Lo chiama un dio. Voci ripetute, varie: "Laggiù, tu, Edipo non ti alzi, non cammini? Esageri, con le tue lentezze". Lui percepì l'invito sovrumano, e grida a Tèseo sovrano d'accostarsi. Quando fu vicino, disse "Faccia amata, tendi alle mie figlie la tua destra, sigillo venerando.
Voi creature, a lui. Non fartele strappare mai, se puoi, mai, promettilo! Giura che il futuro impegno tuo, per loro, sarà vigile, costante". Lui, trasparente eroe, senza commozione, si vincolò solenne con l'uomo venuto da lontano. Dopo questi gesti, Edipo cerca con mani brancolanti le sue figlie, e dice: "Care, siate all'altezza, trovatevi la forza, dentro, d'uscire dal mio spazio, di non volere aprire gli occhi su vietate luci, o d'ascoltare sillabe vietate... Presto! Andate via!
Tèseo può restare, presenza solitaria, padrona di studiare i miei eventi".
L'udimmo tutti articolare le parole. Rivoli di pianto sulla faccia, sospirando, facemmo ala alle due figlie. Da lontano, qualche istante dopo, riguardammo indietro. Lui, il vecchio, non appariva più in quegli spazi. C'era il principe, solo, con la mano tesa, sulla faccia, a velare gli occhi, come per accesa, folgorante presenza sovrumana, che ti spacca gli occhi. Frazione d'attimi, senza tempo in mezzo, vediamo che s'inchina a terra, a santo Olimpo, con formule identiche del rito. Il modo della morte in cui scomparve il vecchio, nessuno può svelarlo. Solo Tèseo, che vide. La fine non fu fulmine celeste acceso, né ribollire d'onde scattato in quell'istante. Varco schiuso dagli dèi, chissà. O l'invitante aprirsi delle zolle, funebre discesa nella luce smorta. Quell'uomo sprofondava senza lutti, non malato, non trafitto: anzi, miracolo vivente! Sentimenti assurdi sembreranno, i miei. Ma a chi li sente assurdi, non ho più nulla, io, da dire.
Le figlie, dove sono? E il suo corteo, di chi gli fu vicino?
Eccole, vicine. Note d'ululo sono certo segno. Segnalano l'arrivo qui.
Appaiono Antigone e Ismene.
str.
Aaah! Ora sì , ora sì
Rimbalza la nenia
da me, da te, coppia dolorosa -
su spettrale sangue che ci fu radice
e fonte di tortura immota, plumbea
negli anni, e ora, in questa fine,
d'altre esperienze, d'ossessioni, di deliri.
Che succede?
Non l'immaginate?
Non è più qui?
No. Fine che asseconda i sogni umani.
Non piombare di ferro,
di mare:
l'ha rubato la spenta vallata
sull'onda d'illogico morire.
Sono stanca. Tenebra
d'angoscia invade gli occhi.
Come nei deserti strani
o su tendersi d'onde
brancolando troveremo
riluttante vitto?
Non so più nulla! Esangue
Abisso mi predasse, spenta
sul cadente padre,
infranta! Non c'è vita
nel mio futuro.
Gemme di figlie, voi due!
Nobilmente soffrite - è fatale -
offerta che viene da dio.
Non siate riarse di pianto.
Limpido, il vostro viaggio nella vita.
ant.
Nel sacrificio c'era un fascino, struggente
Amavo cose negazione dell'amore
quando mi tenevo stretta a lui.
Ah padre, padre
che indossi velo nero eterno della terra,
non ci sei più, ma senza tenerezze
non sarai mai, da me, da lei.
Ha finito.
Fine che voleva.
Quale?
Su terra non nativa - lo sognava -
cadde. Ha coltre d'ombra
quieta, morta. Lascia
nodo alla gola, di pianto.
Il mio sguardo è velo di lacrime,
padre. Non so
come lenire, distrutta
tanto rimpianto di te.
Sognavi la morte,
su terra non tua.
E in che deserto mi moristi!
Sono sfatta. Che caduta, me
...
...
attende, e te, sorella
orfane del padre?
Fu sereno sciogliersi, sorelle
dagli obblighi di vita, il suo:
spegnete quel tormento. Preda
fuggitiva dal dolore non esiste.
str.
Sorella, ora ritorniamo.
Hai progetti, un desiderio?
Tenace, come febbre.
Quale?
Vedere le stanze sotto l'erba...
Di chi?
Del padre. Ah, Antigone...
Credi ti sia dato? Ma
non vedi?
Che ferirmi nuovo, il tuo?
Pensa...
Cosa, ancora?
Non ha fossa. Morì fuori dal mondo,
Portami da lui. E immolami.
Nooh, mi devasti! Senza
varchi, di nuovo nel deserto!
Dove trascinerò gli amari giorni?
ant.
Sorelle, non rabbrividite.
Salvarsi? E dove?
Finora s'è salvato
Che?
... il vostro caso, da sfacelo.
Ho in mente...
Che pensiero, dimmi...
Una strada del ritorno a casa:
io non l'ho.
Non ossessionarti!
Fissa angoscia.
Che già v'assediava.
Senza varchi, allora. Oggi... peggio.
Ah sì . Oceano vago, l'esistenza vostra.
Siamo alla deriva, Zeus! A dove?
Mete di speranza, per noi due? Quali?
Forza sovrumana c'incanala. Dove?
Appare Tèseo.
Spegnete la nenia, sorelle. Se l'ombra della morte che ti culla è come un dono, il lutto è colpa: rischi punizione.
Figlio d'Egeo, ci abbandoniamo a te.
Per che necessità, da sciogliere, sorelle?
La tomba! Vogliamo scorgerla, anche noi. È sua, del padre!
Ah no. Vietati i passi in quello spazio.
Come, principe, che dici, tu che reggi Atene?
Sorelle, fu proibizione sua: essere vivo non deve varcare i suoi spazi, non deve aleggiare parola, laggiù, sulla santa pietra ch'è sua sede. La mia terra non saprà dolore, disse, se eseguivo fedelmente. Udiva le promesse una Potenza: e Patto, che da Zeus emana, cosmica presenza testimone.
Dunque fu volontà di lui. Non cerchiamo altro, allora. Scortaci a Tebe millenaria. Forse c'è spiraglio, per spezzare i passi della morte, che marcia sui fratelli.
Deciderò così . Ed ogni altro gesto che nel tempo vi conforti: e che sia lieto a lui, da oggi scivolato nell'abisso. Non desisterò, è mio dovere.
Basta. Non fate
rivivere funebri note.
Fine, su tutti. Non cambierà più.