Il luogo: Trachis, in Tessaglia, davanti al palazzo di Ceice, re del paese
Deianira e la Nutrice, davanti al palazzo.
Teoricamente - idea vecchia, balenata con l'uomo - non si può decifrare la vicenda d'un uomo, prima che muoia, se bella, se amara.
Io no. Io non aspetto d'entrare nel Nulla. So già che la mia è contorta, di piombo. Io, allora, stavo laggiù, a Pleurone, in casa, con mio padre Eneo, e subito provai lancinante ribrezzo per il mio sposalizio. Unica, tra le ragazze d'Etolia! Pazzo di me era un fiume - attenta! - l'Acheloo. Quello sollecitava mio padre, per me, e aveva tre facce. Eccolo, toro che si staglia davanti, mi cerca; poi occhi freddi di rettile snello, striato; ora viso bovino, sopra stampo d'uomo e dalla barba buia scrosciavano sgorghi, d'acqua di roccia. Che spasimante, e proprio a me! L'attesa era atroce, amara. Ogni volta, pregavo la morte, subito, non volevo aspettare d'essere dentro, avvinta a quel letto.
Quanto tempo! Ma venne, finalmente, e mi fece felice, lui, l'eroico, il figlio di Zeus e di Alcmena. Piomba sull'altro, in sfida guerriera, e riscatta me, la sua donna! Non so dire il variare dei colpi. L'ignoro. Ci vorrebbe chi vide: uno del pubblico, freddo, impassibile. Lui sì narrerebbe. Io, ah io stavo lì, rigida, nell'incubo inerte che a me, a me il mio essere bella tracciasse la strada a futuro soffrire. Al termine Zeus delle Sfide risolse in bellezza. In bellezza... chissà. Sai, io sono il premio da letto, per Eracle, Io sono sua, e da allora mi tengo dentro, viva paura, sempre nuova paura. Col cuore in pezzi, per lui. E la notte trascina amarezza finché altra notte fa il vuoto. Cadenza ossessiva.
Sì, abbiamo fatto figli. Ma con loro lui è come il bracciante che ha preso un terreno lontano e ci torna una volta ogni tanto, per la semina e poi per la messe. È un destino così: fa viaggiare il mio uomo, qui a casa, poi via da casa, sempre sotto padrone. Ora è giunto alla vetta delle sue fatiche. E proprio ora angoscia m'inchioda più forte. Sai, da quando ha spento la forza d'Ifito - sradicati, da allora stiamo in una casa amica, qui a Trachis - nessuno sa dirmi il mio uomo dov'è.
Solo, quel suo essere via mi lacera dentro, come doglie taglienti. Io sento, so che ha addosso carico amaro. Ormai non è più qualche giorno: dieci mesi, poi cinque ancora, e non un messaggio, niente. Tutto fermo. E un caso grave, eccezionale forse: a leggere le righe che ha lasciato a me, andando via. Quante volte ho supplicato dio che il gesto d'accettarle fosse senza danno!
Deianira, signora! Troppe volte t'ho colta in singhiozzi, piena di pianto convulso per quest'ultimo viaggio di Eracle. Ma oggi, se è dato far luce ai padroni con pareri da serva, ecco, anch'io parlo chiaro. Solo questo: com'è, tu hai capitale di figli, e che figli, e non mandi nessuno a indagare sul padre? Illo, per primo, lui, naturale, se gli sta a cuore il padre, farsi un'idea se tutto va bene. Eccolo, è lui, s'affretta a casa, passi tempestivi. E se ti pare adatto il mio suggerimento ora disponi della sua persona, e delle mie ragioni.
Appare Illo.
Figlio mio, ragazzo! La gente qualunque fa mosse felici, talvolta, parlando. Guarda lei. È una serva, ma ha detto una nobile idea.
Che idea? Svelala, madre, se è cosa da dire.
Tuo padre peregrina da tanto, e tu non tenti di sapere dov'è: è una macchia, per te!
Anzi, lo so, se s'accetta la voce che corre.
Ah, figlio, dove, in che terra dimora tuo padre?
La trascorsa stagione, tutto l'arco del tempo, ha fatto da servo a una donna di Lidia, si dice.
Se s'è piegato a questo, aspettiamoci tutto.
Ora però s'è staccato da lei, a quanto so.
Oggi, adesso, è vivo, è morto, dove? Che dicono le voci?
Parlano dell'Eubea, della città d'Eurito. Lui le fa guerra, o sta per farlo.
Figlio, sai tu che proprio del paese, d'Eubea, lui mi lasciò magici indizi, eloquenti?
Di che genere, madre? Per me è tutto oscuro.
È sull'orlo: d'ultimare i suoi ultimi giorni o d'avere, se supera questa sua sfida, vicenda di vita felice, per sempre, in futuro. È in bilico, immoto: e in questi momenti non corri, ragazzo, a dargli un appoggio, conforto? Noi siamo vivi, se lui testa vivo: o insieme finiamo nel nulla.
Madre, mi muovo. Sarei già laggiù, se avessi saputo l'accento delle magiche voci. Ma ormai era a me familiare la cadenza fatale del padre: mi vietava l'angoscia immatura, l'ossessione dell'ansia. Ora afferro: non voglio trascurare nulla, per capire intera la realtà dei fatti.
Parti, figlio. In ritardo, che importa: lieto fine - dopo ch'è noto - dà sempre buon frutto.
Illo parte. A passo ritmato il Coro di fanciulle trachinie invade l'orchestra.
str.
Sole, che la notte - corazza di stelle che cade -
fa vivo, poi corica nell'incendio rosso:
Sole, t'interrogo
gridaci il figlio d'Alcmena
in che punto, in che punto
si trova, o rogo che sfolgori luce!
Nelle gole del mare,
o qui sulla terra gemella?
Svelalo, cosmico Occhio sovrano!
ant.
So che spasima, dentro, Deianira
la donna del duello
- uccello del dolore, pare - non placa
lo spasimo degli occhi inariditi
anzi rinnova fissazione ansiosa
per l'uomo perso sulle strade.
Quel letto senza uomo l'ossessiona.
Logorante attesa
di nemica fine.
str.
Raffiche da sud, ostinate, tese,
da nord, e vedi che s'affollano le onde
si gonfiano sull'oceano vuoto
vanno, rivanno.
Cosi la vicenda penosa del vivere
mulina, o libra sublime
il nativo di Cadmo: pare risacca
cretese. Ma non fa passi falsi:
e un dio gli sbarra
la strada del Nulla.
ant.
Ti critico, in questo. Dirò cose devote,
ma opposte. Ti dico:
non inaridire
la speranza di bene.
Zeus maestoso, cosmica potenza.
non diede vita senza pena
a chi ha dentro la morte.
Gioia, dolore: ruota
universale, umana. Quasi
orbite cicliche dell'Orsa.
ep.
Immota notte stellata sui vivi
non esiste: né Fatalità, né denaro.
Un lampo, è già via.
Altri è meta
del lusso, poi del bisogno vuoto.
Ecco, sovrana. Questa logica ferma
deve farti sperare. E inoltre chi vide
Zeus così smemorato di un figlio?
(Alla Corifea)
Te lo leggo in faccia: hai saputo che soffro e sei venuta. Io ho la rovina, dentro: ti auguro di non sperimentarla mai, da vittima. Che resti mistero per te, come ora. Ah, gioventù fiorisce in giardini ovattati, esclusivi: non c'è cielo rovente, né scroscio, né raffica d'aria che irrompe. Vivere è festa leggera, aerea, sopra il dolore. Poi viene il momento. Cambi nome: da ragazza, donna. E in quella notte abbracci il tuo carico d'ansie, tremore perenne per l'uomo, per i figli. Solo se scruta se stessa, i suoi casi, un'altra può forse capire che peso maligno schiaccia me, Deianira. Io, io. Quante lacrime, sulle mie ferite! Ma l'ultima è senza confronto. Voglio svelarla. Era già sulla soglia, il mio uomo, Eracle, pronto per l'ultimo viaggio, e mi lascia qui in casa una pagina antica tracciata di note, che non s'era mai rassegnato a svelarmi finora: pure ne aveva affrontate di sfide, fuori, lontano. Ma, allora, aveva dentro la voglia di vincere, non di morire. Questa volta si sentiva la morte, pareva: e mi disse che quota di beni dovevo far mia, come moglie; dei possessi di terra mi disse che parte lasciava da dividere ai figli. Predisse scadenza fissa: tre mesi più un anno lontano da casa, a partire da allora. Alla fine del tempo - fatalmente - doveva o morire, o con salto vincente sfuggire a quel cerchio di tempo, e vivere giorni indolori, per sempre. C'era mano divina spiegava. Una meta fatale. Lì si spegnevano le pene di Eracle. Scaturiva dal rovere annoso, a Dodona, la voce, dalle due colombe. Voce, la cui realtà si concreta nel tempo che ora si affaccia.
Fatalmente matura! Mie donne, capite, nella pace del sonno leggero io trasalisco, brivido cieco, se penso che ormai è deciso, starò senza l'uomo, l'eroe superiore. Sola!
Mitiga il tuo dire! Laggiù, vedo un uomo che viene. Porta ghirlanda, e voci di festa.
Irrompe un Messaggero.
Sovrana, Deianira! Precedo i messaggeri, io, ti slego dal rovello. Sta' certa; vive, il frutto d'Alcmena, trionfa, e dal duello offre scelto fiore di preda agli dei del paese.
Che parola hai detto, vecchio?
Sarà subito qui, tra le mura, il marito! Lo idolatrano. È radioso. Sprigiona potenza e vittoria.
Parli, ma chi t'ha informato: gente di qui, o di fuori?
Nella radura assolata, sull'erba, un vostro uomo grida le cose: Lica, il banditore. Lui ho sentito, e di volo mi precipito qui. Ho uno scopo: dirti la bella primizia, e così farmi dare qualcosa, da te, acquistare per sempre favore.
Ma lui, perché non arriva, se l'ora è felice?
Ha le mani legate, regina! L'attanaglia la gente del posto, una massa, che vuole sapere, che stringe. Non riesce a passare. Febbre prende la folla, d'ascoltare tutto: nessuno si stacca, se non calma la sete d'udire. Non è certo una festa, per lui: per loro è una festa! Comunque è là in mezzo. Ma tra poco apparirà anche a te.
Zeus, che possiedi i pianori dell'Eta verdissimi, vergini, ci hai fatto attendere, ma ora ci doni conforto.
Cantate, donne, voi che siete nel chiuso, e voi qui sulla via. È astro sorgente, la buona notizia, è rigoglio per noi. E pareva illusione!
Canto e danza del Coro.
Squilleranno voci di donne
protese allo sposo! Festa squillante
in cuore alla casa. Inno sonoro
virile raggiunga Apollo sovrano
armato di dardi!
E s'intrecci, fanciulle,
canto di lode e trionfo, da voi!
Esaltate l'identico sangue
Artemide Ortigia predatrice,
avvolta di fuoco
col suo cerchio di Ninfe.
Danzo nell'aria. Non voglio scacciarti
mio flauto, despota di tutto il mio io!
Ecco mi scrolla
l'edera,l gorgo, delirio
orgia di passi di danza.
Evviva, viva!
Osserva, sovrana
che t'approda davanti:
nitida scena, proprio sotto i tuoi occhi!
È apparso Lica, con un corteo di prigioniere. Spicca Iole.
Vedo, mie donne. È buona sentinella, il mio occhio, ed è scena di luce il corteo. All'araldo, presenza eternamente attesa, proclamo «sta' bene!», se è bene - chissà! - che tu porti.
Festa è l'arrivo, festa la tua accoglienza, signora, corona della forte conquista. È fatale: a chi arride successo spetta frutto di parole allegre!
Ah, Lica, quanto bene mi fai! Prima soddisfa il mio primo rovello: lo riavrò, salvo, Eracle?
Io, per me, l'ho lasciato in salute, salvo, una quercia. Sanissimo.
In che terra? Nativa o straniera? Di' tutto!
Dove Eubea s'incunea nel mare; là delimita santi rialzi, tributa primizie a Zeus Ceneo.
Per sciogliere voti, o fu magico comando?
Promessa votiva, di quando cercava la presa, il colpo di lancia mortale al paese delle donne che vedi sfilare.
Dio mio, che donne sono, figlie di chi? Disperate. Ma forse il soffrire mi deforma le cose.
Donne che l'eroe ha eletto preda esclusiva sua e degli dèi, quando ha spianato la cinta d'Eurito.
È questa la città per cui partì, da tanto tempo, assurdo abisso di giorni?
No, anzi quasi per tutto il tempo fu bloccato in Lidia - parole sue - non padrone di se stesso, ma proprietà di un altro. Io riferisco, signora. Non volermi male per un fatto in cui splende l'opera di Zeus. Fu venduto a Onfale, l'esotica. E là colmò un anno: sono parole sue. L'umiliazione l'azzannò profondo: e lui giurò, solennemente, di degradare a servo chi l'accostò a quell'esperienza dura, lui con i figli, e con la donna. Sfida dritta a bersaglio. Quando tornò immacolato riunì mercenari, un'armata, e via addosso a Eurito, unico essere vivo - vociava - a spartire la responsabilità di quel suo soffrire. Fu così. C'erano vecchi legami, d'amicizia ospitale. Eppure, quando Eracle venne da lui, al suo focolare, lo martellò con parole pesanti, con scatto suicida, gridava che i dardi che aveva sì, non lasciavano scampo, ma lui, Eracle, alla sfida dell'arco non valeva i suoi figli. E poi si lasciava umiliare - aggiungeva - schiavo sotto padrone. Capitò anche che, pieno di vino, mangiando, lo fece rotolare per strada. Covò rabbia per questo, l'eroe. Così, quando Ifito toccò la scarpata tirinzia, frugando la pista delle sue puledre sciolte - l'occhio distratto, la testa da tutt'altra parte - lo fece piombare dall'orlo del tozzo bastione: Per il delitto s'infuriò il sovrano, il cosmico padre, Zeus dell'Olimpo, e lo bandì, come una merce vile. Non ammetteva questo, che avesse assassinato un uomo - un uomo solo - a tradimento. Fosse stata ritorsione a viso aperto, Zeus comprendeva il colpo, vibrato nel diritto. Non sono teneri i Potenti con l'eccesso.
E quella gente, che lingua perversa accese, oggi è folla che abita nel Nulla. La terra è serva. Queste che vedi erano privilegiate, e si ritrovano questo rifiuto di vita. Sfilano verso di te. Il tuo uomo ordinava così: io sono il suo braccio leale.
Lascia che quello arda vittime a Zeus, padre suo, espiatrici della vittoria, e presto verrà, sta' tranquilla. Ed è la notizia più grata, dell'ampio messaggio felice che ho detto.
Sovrana: ora saldo, lucente motivo di gioia hai in te, per i casi attuali, e gli altri, sentiti narrare.
Dolcezza fonda, piena, sento in me. Sarei assurda, altrimenti, io che ho appena sentito il magico momento dello sposo!
Giustificata commozione! Corrono appaiati successo e commozione: è regola potente! Però se frughi il cuore del successo, provi una stretta dolorosa, che non sia in agguato il crollo. Mie donne, ho dentro una voglia di piangere assurda, davanti a questa scena di donne, all'atroce caduta, l'esilio in terra strana, senza cari orfane, randagie.
Sicuramente figlie di libere famiglie un tempo, ora inchiodate a un'esistenza schiava.
Zeus che Travolgi! Non con quel passo sul ceppo dei miei! Non voglio vederlo! E se vuoi, fa' che io cada morta, prima.
È tanta la mia angoscia con queste donne qui, davanti agli occhi!
(Si rivolge a Iole muta)
Devi soffrire molto. Sei molto giovane, chi sei? Non sei sposata, ancora, o hai già figli? No, la tua figura... sembri intatta, non sai queste miserie.
Ottima famiglia, no? Lica, di chi è la ragazza, di chi? Chi è la madre? E il padre che l'ha fatta viva? Voglio saperlo. Ho un nodo alla gola tremendo se fisso lei, là in mezzo. È intelligente. L'unica, ad aver capito.
Che vuoi che sappia, io? Proprio a me, certe domande? Creatura d'una gente non umile, direi, non troppo, di quel luogo.
Dei principi, no? Era figlia d'Eurito?
Non saprei. Curiosavo poco.
Neppure il nome, da qualcuna, là, del gruppo?
No, no! Facevo il mio dovere, io. Zitto e basta.
(A Iole)
Pronuncialo tu, il tuo nome! È gran peso per me non sapere chi sei.
Non smuoverà la lingua, non l'ha fatto per tutto il tempo. Mai una parola, un discorso, né lungo, né breve. È in travaglio continuo. Soffre peso schiacciante. La faccia è piena di pianto. Caso atroce! È così da quando ha lasciato la sua terra spazzata dal vento. Certo, è una disgrazia nera, per lei. Le dà diritto a un po' di comprensione.
Non tormentatela. Entri sotto questo tetto nel modo più consolante. Non deve raddoppiare il suo soffrire, già maligno, a causa mia. Ne ha già abbastanza, di dolore. In casa, ora, tutte, andiamo. Tu Lica va' pure dove devi. Io mi occuperò del necessario, là nelle sale.
Lica e il corteo entrano nel portale. Deianira sta per seguirli.
Interviene il Messaggero.
Sta' qui fuori, prima, pochi istanti. Lasciali andare, quelli. Devi sapere che gente fai portare in casa, e apprendere essenziali cose, che non ti sono state dette. Cose che conosco molto bene, io.
Che succede? Perché non vuoi che entri?
Ferma! Dammi retta. Il discorso precedente non l'hai sentito a vuoto, no? Neppure questo, credo.
Chiamiamo gli altri, indietro, qui sulla strada, o sei disposto a dire tutto a me, e alle mie donne?
Niente in contrario a te con queste. Gli altri no.
Sono entrati, ormai. Di' la tua verità.
Quel Lica, non c'è parola chiara e retta in quanto ha raccontato qui. O è messaggero infido adesso, o era disonesto prima.
Che vuoi dire? Svela con chiarezza tutto quanto hai in testa. Per ora, il tuo parlare è buio.
L'ho sentito io, quel Lica - c'era folla d'altri testi - dire che per quella giovane proprio l'eroe ha cancellato Eurito con la sua fortezza, Ecalia, e che un solo ben preciso dio, Eros, gli ha fatto la malia, l'ha spinto a quel colpo di lancia. Ah, non furono i casi di Lidia, la rabbia del lavoro schiavo sotto Onfale, né quel volo di morte di Ifito. Quello ha rimosso dal racconto Eros, e ha stravolto i fatti. Siccome non piegava il padre a dargli quella figlia - la voleva amare, di nascosto - trovò un insignificante appiglio e scatenò l'assalto alla città di lei, dove quel tale Eurito - lo disse Lica - aveva poteri di monarca. E così ammazza il padre di lei, il re, e cancella il paese. Ora torna a queste mura, come sai e fa scortare - con quante raccomandazioni! - lei, regina, figurati, una schiava! Non illuderti! Sarebbe assurdo: sai, la passione di lei l'ha già riarso, dentro.
Allora ho deciso di venirti a denunciare tutto, sovrana. Cose che ho udito da quello, così, passando. Cose che una folla grande, là nella piazza di Trachis, a cerchio, sentiva, né più, né meno di me: e potrebbe senz'altro smentirlo, quel Lica.
Dico cose ostiche, lo so. E non mi piace. Almeno, è resoconto onesto.
Ah, che stanchezza. Non so più dove sono. Che problema, per me. A che insidia dolorosa, sfuggente, nel cuore della casa ho aperto le mie braccia! Ho tutto contro. Ah sì, non ha un nome chiaro: l'affermò chi faceva da scorta!
È splendida, invece, per nome e per figura. Come famiglia, è figlia di Eurito! Si chiamava Iole, prima. Quel Lica non la rivelava, la radice! Già, non aveva curiosato troppo!
Sparisse, la gente che non ha morale! Non tutta, chi si perfeziona nell'infamia subdola, oscena.
Che decisione prendo, donne? Questa rivelazione, l'ultima, mi paralizza.
Raggiungi quell'uomo, fagli dire tutto. Parlerà più sincero, forse, se sei disposta a frugarlo col peso dell'autorità.
Allora vado. È lucido suggerimento.
Che devo fare io? T'aspetto qui?
Férmati, aspetta. Ecco là l'uomo. S'affaccia ora alla strada, senza mia chiamata, per interiore impulso.
(Uscendo dal palazzo)
Signora, che devo dire quando sarò là, da Eracle? Da' tu disposizioni: vedi, sono già per strada.
Tutta una lenta eternità per arrivare qui, ed ora che balzo, che volo, non aspetti neppure che io riapra il discorso con te!
Se hai un bisogno, una curiosità, di' pure!
T'impegni solennemente ad essere sincero?
Su Zeus onnipotente! Di quanto so, naturalmente.
Chi è la donna che hai scortato qui?
Una d'Eubea. Di che ceppo sia, non posso riferire.
Vóltati, messaggero. Con chi t'illudi di parlare?
Tu, che domande fai, e perché proprio a me?
Coraggio, rispondi a quanto chiedo, se sei in te!
A Deianira, la sovrana, figlia di Eneo, legittima sposa di Eracle. E se la vista non è abbaglio vuoto, è la signora mia.
Ah, la parola che volevo, che pretendevo dalla bocca tua: «la signora mia»! E lo confermi?
Sì. Non può non essere così.
Allora di': che castigo ti parrebbe equo, se si scopre che tu, verso di lei, non sei quello che dovresti?
Non... quello che dovrei? Che fai, giochi brillanti di parole?
No, no. Tu, invece, proprio tu t'ostini a farne.
Vado via. Sono cieco: ore, che t'ascolto!
Fermo. Risolvimi una curiosità da niente, prima.
Avanti, se ci tieni: la bocca non la chiudi, tu.
La preda, la ragazza che hai scortato a casa, tu sai tutto, no?
Ammetto. Perché t'interessa?
Quella. Tu ora la guardi con occhi assenti, ignari. Però prima predicavi che era Iole, nata da Eurito.
E davanti a un pubblico? Hai testi oculari, presenti al mio vivo racconto? Quali, da dove?
Da qui, dalla città, una folla. Proprio nel cuore di Trachis, un mare di gente t'ha sentito rivelare tutto.
Ma sì: pure voci, dicevo. Dire una voce, un'idea, sai, è un conto. Un discorso esatto esatto è un altro.
Idea? Ma che dici? Non predicavi, non spergiuravi che la scortavi ad Eracle in moglie, quella là?
Chi, io, in moglie? Dio mio, regina, ma chi è quest'estraneo ?
Uno ch'era in piazza, e t'ha sentito dire d'uno stato intero fatto schiavo, per voglia disperata della donna. La Lidia non fu fonte del massacro. Fu esplosione d'amore.
Sovrana, bisogna eliminarlo, questo vecchio. Delira: sprecarci fiato non ha senso.
Non nascondermi la verità, te lo chiedo su Zeus, che arroventa di lampi gli aerei boschi dell'Eta. Dimmi la tua verità: non sono una donna gretta. So tutto dell'uomo. So che dentro, nel sangue, ha la voglia d'amare cose sempre diverse. È così: incrociare i pugni con Eros, sfidarlo, è pura pazzia. Per chiunque. Fa schiavi gli dei, sovranamente. Sicuro, anche me: e un'altra, fatta come me, no, non dovrebbe? E perché? Se voglio rinfacciare all'uomo mio la debolezza, questo arrendersi al cancro, sarei davvero pazza. E così a quell'altra implicata... in che? In nulla di scandaloso o di perverso: non mi tocca. No, non può essere. Tu, piuttosto, se menti perché t'ha addestrato lui, t'addestri in un sapere negativo. Se è studio tuo, invece, libero, spontaneo, proprio quando vuoi la perfezione, metti a nudo la tua immoralità. Su, di' tutto, sii sincero. Non è una bella fine, per uno di valore, la stima d'impostore. Non hai modo di coprire tutto: è assurdo. Troppi hanno sentito, e sono pronti a riferirmi. Forse sei spaventato. Ma è un'ansia illogica. Solo la verità taciuta, quella è una tortura. Sapere tutto, che male mi può fare? Quante altre donne ha fatte sue Eracle, uomo unico per tante? Mai una parola dura, mai un insulto hanno patito da me, nessuna. E neanche quest'ultima, neanche se si sfacesse tutta per la voglia d'averlo. Anzi, m'ha fatto ancora più pena, quando l'ho guardata bene: l'essere bella la vita le ha stroncato. E alla città nativa ha dato morte, e schiavitù, lei, innocente. Caso perverso! Acqua passata, ormai. A te io dico chiaro: riserva la bassezza ad altri. A me la lealtà, senza eccezioni.
Sante parole. Sii docile, e non dovrai lamentarti di lei, in futuro. Conquisterai anche me, riconoscente.
Ma sì! O mia sovrana. Tu sei una donna vera, viva: sai cos'è la vita, non sei fredda, indifferente. Ah, l'ho capito, e voglio rivelarti il vero. Scoprirò tutto. È proprio come ha detto il vecchio. È passione feroce per lei, improvvisa: una raffica dentro le vene, ad Eracle. E per lei Ecalia paterna è macerie, solo macerie, disfatta dal ferro. Tutte cose - anche le attenuanti è giusto dirle - che non m'ha detto di velare, non ha mai smentito. Sono stato io, sovrana. Temevo troppo di ferirti, dentro, con le mie notizie. Ed ho sbagliato: se tu lo giudichi uno sbaglio. Ora possiedi la tua verità. Devi pensare al vantaggio vostro, di voi due, dell'uomo tuo e di te: e cioè far buon viso alla donna, sforzarti di dare concreta saldezza alle idee che hai detto su di lei. L'eroe, l'uomo che ha braccia capaci di tutto, è in ginocchio, vittima inerme della voglia di lei.
Sono ancora padrona di me, sceglierò questa via. Non ci tireremo addosso un'altra maledetta sofferenza, con un duello assurdo contro dio. Rientriamo nella sala. T'affiderò missione di parole mie, non solo, ma di doni, a bilanciare esattamente i doni avuti. È obbligo, è fatale. E tu li porterai. E ingiusto che tu viaggi a mani nude, dopo aver scortato qui tanto splendore.
Deianira e Lica entrano nel palazzo. Il Messaggero si allontana.
str.
Dura forza che stronca, quella di Cipro. Spettacolo
eterno!
Non tocco
casi di dei:
la beffa al Cronide
ad Ade sepolto nel nero,
a Posidone,l che martella la terra.
Per lei, per l'amore con lei
che campioni cozzarono tesi alle nozze?
Che atleti scagliati allo scontro,
colpi, colpi e polvere, polvere?
ant.
Eccoli: nerbo di fiume, un incubo,
toro quadrato,
impennarsi
di corna
Acheloo, che da Eniade viene. Da terra
di Bacco, da Tebe, eccolo
l'altro, scatto d'elastico arco, di picca,
di mazza: figlio di Zeus. S'ammassarono,
i due, duello con in palio l'amore.
Spiccava tra loro Cipride del letto:
lei arbitrava, là in mezzo.
ep.
Fu rullo di colpi scoccati,
gorgo
di corna di toro
prese asfissianti,
schianti
devastanti d'ariete
grumo ansimante.
Immobile - occhi stupendi, di fragile
preda - lei dominava dal colle,
pronta per l'uomo.
Calma racconto, io, come teste oculare.
Ma l'espressione del viso di lei
donna-premio in attesa
commuove: pare giovane bestia
perduta. Brutalmente via dalla madre.
Riappare Deianira. Ha tra le mani un cofanetto chiuso.
Mie donne, Lica è ancora dentro, in casa. Parla sonoramente alle fanciulle schiave, pronto a partire. Ne approfitto, e vengo sulla strada, qui da voi. Nessuno m'ha notata. Voglio dirvi l'abilità delle mie mani, cos'ho inventato. E voglio che facciate eco al mio dolore. La giovane - quella? quella sa bene come stringe un uomo - me la son messa in casa, tra le tante, come il padron di barca un carico qualunque, zavorra che ora mi devasta, dentro. Oggi due donne siamo, sotto un lenzuolo solo, ad aspettare l'uomo che ci copra. Bella ricompensa per tanti anni chiusa qui, tra quattro mura! Ed è regalo suo, di Eracle: il fedele, il generoso, mi dicevo! Non so infiammarmi contro lui che troppo spesso, ormai, ricade in queste crisi: ma che donna accetterebbe di ritrovarsi in casa quella, da pari a pari, e mettere in comune suo marito? Là vedo una freschezza in pieno slancio, qui stremata: e di queste preferisce il fiore, l'occhio maschile, per carpirlo. Non gli interessa il resto, cambia strada. E il mio incubo. La forma sarà salva; Eracle coniuge di Deianira. Ma marito all'altra, la più fresca! Eppure l'ho già detto, è assurdo che io, donna matura, esperta, perda la lucidità. Donne: so come liberarmi, avere tregua. Vi dirò il modo.
M'era rimasto, sul fondo d'un vaso di metallo, il dono d'una belva primitiva. Quanti anni! Ero ragazza, allora. L'ebbi da Nesso, dagli sbocchi rossi della sua agonia. E il petto era una macchia d'ombra! Nesso trasportava gente sull'Evenol
fondo, vorticoso. Era il suo lavoro. Tutto a braccia, senza leva di remo, senza vela marina. Caricò anche me sulle spalle quando - fresca sposa - seguii Eracle, come il padre volle. Ma a metà del fiume Nesso mi fruga, le dita impazzite. Io urlai, Eracle s'inarcò, scattò, fiondò un dardo fulminante che gli spaccò fischiando il petto, giù, fino ai polmoni.
Nell'agonia la bestia cominciò a parlare: «Figlia del venerando Eneo, ti darà frutto il guado, se mi ascolti. A te, sì, che sei l'ultimo viaggio mio. Ecco: se con le dita cogli i grumi, blocco di sangue della mia ferita, lì sulla punta che la biscia di Lerna temprò col fiele velenoso nero, ti farà da magico richiamo per l'amore d'Eracle, e non ci sarà donna, agli occhi suoi, degna d'affetto più di te.» Mi tornò in mente il sangue, donne. Lo tenevo in casa, sotto chiave, come un bene, il sangue della bestia morea. Guardate: ho inumidito questa veste, bene attenta a quanto lui mi disse in agonia. L'estrema soluzione. È fatta. Certo, è un maledetto rischio: ne fossi incapace, potessi non saperne i modi! Detesto chi rischia: donne, specialmente. Chissà, con le magie d'amore, con i fascini molli su Eracle forse trionfo su quell'altra. Tutto qui, il mio gesto insidioso, segreto. Purché non sembri gesto da pazza, a voi. Altrimenti lo lascerò cadere.
Purché tu creda in questa scelta per noi, direi, non è progetto basso.
Per credere, sì, credo. Ma è come una speranza della mente. Non ho mai avuto in mano la concreta prova.
Saprai, se decidi. È fatale. Non basta averla in mente, la certezza. Solo sperimentando la fai tua.
Verrà presto la certezza: eccolo, già sulla strada. (appare Lica, che esce dal palazzo) Rapido ripartirà. Voglio coltre di segreto, da voi. Mi basta. Nella notte nera puoi tramare. Anche infamie: non piombi nell'infamia.
Che c'è da fare? Dammi istruzioni, Deianira d'Eneo. Da un pezzo ce la prendiamo calma, troppo.
Vedi, Lica, a questo ho provveduto io, mentre tu, là nella sala parlavi alle ragazze. Laggiù, tu porterai a mio marito questa veste avvolgente, omaggio da queste mani mie. Mentre la porgi, raccomanda che nessuno, prima di lui, fasci con essa la sua carne viva, né la sfiori calda occhiata di sole, né cerchio votivo, né strale di domestica fiamma, finché Eracle solo si stagli, statua raggiante, nel chiaro del cielo, e l'inauguri, in onore agli dèi, nel giorno del santo macello di tori. Fu mio voto solenne: l'avessi rivisto vivo, un giorno, a casa, o avessi udito rassicuranti voci, dovevo cingerlo con questa veste, figura che brilla davanti agli dèi, prodigioso carnefice sacro, prodigioso drappeggio. Avrai con te la sigla delle mie parole, siglata sul disco del sigillo: lui capirà, capirà subito. Incamminati, svelto. Fa' tua la regola prima: tu sei uno mandato. Attieniti al compito tuo. Non decidere oltre. Punta a questo, che grato favore s'assommi da lui e da me: da unico, doppio. Chiaro, tangibile.
Nella professione, Ermes è mia guida: sono una sicurezza, io. Niente passi falsi, nel tuo caso. Non temere. Recherò il tuo cofano, intatto. V'applicherò conferma esatta delle tue parole.
Muoviti, allora. Sai qual è lo stato della casa, e della roba.
Lo so. Riferirò che nulla manca.
Sai anche, l'hai veduto bene, l'abbraccio alla straniera. Le ho teso io le braccia. Come fosse mia.
Il cuore mi s'è fermato, dalla gioia!
Aggiungere parole, e quali? Mi spaventi, se sveli la passione che ho dentro per lui, prima d'essere certa che vive uguale passione per me, là dov'è lui.
Lica parte. Deianira rientra nella casa.
str.
Genti, case che orlate le rade
accoglienti, le tiepide fonti
rocciose, l'Eta massiccio,
la baia che in Malide
s'incunea, la spiaggia della Purissima
- freccia d'oro - dove brillano
insigni adunanze di Greci, alle Porte;
ant.
preparatevi, riappare il flauto
del chiaro canto, non delle sorde
dissonanze; note festive,
come di lira.
E lui, il figlio di Zeus, di Alcmena:
vola alla casa. Reca
premi d'immensa forza.
str.
Per noi era profugo
perso sui mari.
Arco di dodici mesi, aspettando,
all'oscuro: e spezzata, con l'anima
a pezzi, si sfaceva la donna, l'amata
non era che pianto. Sferzata guerriera
frantuma catena
di giorni angosciosi.
ant.
Già qui lo vorrei, già qui! Nave
corri! Moltiplicatevi, remi!
Dovete approdare qui a casa,
staccatevi dall'isola, dal fuoco sacro
dove lui arde vittime, ah, lo sappiamo!
Voglio che venga, spasimo vivo
d'amore, preda disarmata di Fascino,
veleno avvolgente: profezia di Centauro.
Irrompe in scena Deianira, sconvolta.
Donne, ho paura, tanta! Se fosse esagerata la conseguenza del mio gesto... ormai...
Deianira, che accade?
Non so più! Mi spezzo, dentro: risplenderà, forse, che io causo danno grave, io, protesa al bene.
Non sarà per quei tuoi doni, a Eracle?
Certo, certo. E dopo questo, non consiglierò a nessuno lo slancio in un'azione non perfettamente chiara.
Confessa la radice dell'angoscia. Se è confessabile.
Che cosa, donne! Che fatto improvviso! Udrete illogico mistero, se lo narro a voi. Quel fiocco sapete - lana buona, di pecora - con cui inumidii la veste lucente che deve fasciarlo, quello, donne, è svanito! Inghiottito nel nulla. Non c'è responsabile in casa. È un cancro, fondo, suo, da dentro, lo consuma. E smangia la lastra di sasso per terra. Devi sapere tutto, come s'è arrivati a questo: spiegherò meglio, aggiungerò parole. Io delle regole che il centauro, preda selvaggia - agonia della lama bruciante nel fianco - mi disse e ridisse nessuna ho abolito, ne ho fatto tesoro, iscrizione che nulla dilava, su metallica pagina. Questo m'è stato detto, ed io l'ho fatto: il mio filtro dovevo tenerlo coperto, via dal fuoco, dal tocco di strale rovente, in attesa d'applicarlo a qualcosa, come svelto unguento... E ho dovuto trovare il coraggio di
farlo. Oggi - l'ora del gesto era giunta - ho intriso la veste nel buio, laggiù nella stanza, col pugno di lana staccata a una bestia del gregge. L'ho ravvolto, il mio dono, nel fondo notturno d'una cassa sprangata: l'avete veduto.
Ma tornando là dentro m'inchioda lo sguardo un fenomeno assurdo, che il nostro cervello non domina. Quel pugno di lana, capite, quello del filtro, m'era successo, non so, di lasciarlo cadere nel cerchio acceso di luce, nel fascio di sole: cuoceva a mano a mano, e dilegua, diafano, in niente, pulviscolo sparso. Come forma pareva, sì, ecco, pensa alla sega che intacca e sbriciola il legno. Finisce in quel modo, disfatto. Là sulla lastra, su cui s'era sparso, sfrigola coagulo di bolle: pare la densa bevanda dell'uva azzurrina, se dai grappoli ebbri dilaga giù per la zolla. Così non ho sbocchi, non so
soluzioni. Ah, sono stanca. Lo vedo, il mio gesto, il mio gesto è un incubo: ora capisco. Su che base, a compenso di che la preda selvaggia, nella sua agonia mi offriva amicizia, a me alla donna radice di morte? Assurdo. M'incantava, ma il suo piano era insinuare sfacelo nel suo cacciatore. Ora penetro i fatti, m'illumino. Ma è finita, è inutile. Ah sì, io sola, sarò io a schiantarlo. Ostico destino! A meno che - chissà - sia tutta illusione questa mia paura. Ma io so che lo strale divino diede spasimo a uno divino, a Chirone. Se coglie di striscio, azzanna ogni essere vivo, senza eccezione. E questo fiotto nero della sua ferita, sangue avvelenato, non stroncherà anche lui? Io credo di sì. E poi, la decisione è presa: se crollerà il mio uomo, gli morirò vicina, io, nello stesso abisso. Troppo peso, la vita, se ti dicono vile e tu hai dentro, nel sangue - coscienza gelosa, preziosa - il non essere vile.
Rabbrividire per i gesti assurdi è fatale. Però non processiamo la speranza, prima della fine.
No, no. Non c'è speranza in poco nobili progetti, da regalarti un poco di fiducia.
Ma per i passi falsi non premeditati, rancore è meno aspro. Ed è un'attenuante che ti spetta.
Parole! Buone non per chi è compagno della colpa, per chi non ospita peso doloroso.
È il momento di tacere. Basta, non dire più. Se no parlerai al tuo ragazzo. Eccolo, entra, lui che s'era messo sui passi di suo padre.
Entra Illo.
Madre, una delle tre mi basterebbe: tu sparisci morta; o resti viva, madre non di me, d'un altro; o ti converti, dentro, e ti fai altra - non so come - più morale.
Figlio, che c'è, che fonte d'odio, contro me?
Il tuo uomo. Ripeto: mio padre. Assassina! L'hai ammazzato, oggi.
Aaah, che parola, che fatto mi dici, figlio?
Realtà matura, non ammette smentite: chi toglie esistenza a qualcosa già apparso nel sole?
Figlio, come puoi dirlo? Io sono colpevole, dici: e ripugna la colpa. Ma da chi, da che uomo l'hai appreso?
Io, io, gli occhi inchiodati sul male che schiacciava mio padre! Non è voce d'estranee labbra.
Tu l'avvicini, il padre, tu l'affianchi: dove?
Forse è necessario che tu sappia. È necessario dirti tutto. Era per strada. Aveva disfatto il chiaro paese d'Eurito. Era carico d'armi predate, di premi d'onore. Bene! C'è lingua di terra, d'Eubea, che s'inarca nel mare. È capo Ceneo. Laggiù fonda santi rialzi a Zeus, sua radice, e un cerchio rituale, d'alberi verdi. Da lontano lo scorsi là sotto, improvviso. Placai la mia ansia di lui. Era pronto a sgozzare la folla di bestie, quando venne da casa l'araldo, quel Lica, e portava il tuo dono, la veste di morte. Lui se l'avvolge, come tu comandasti, e con quella addosso macella dodici buoi, bestie superbe, fiore dei beni razziati. Ammassava la calca del gregge, cento capi, mischia confusa. All'inizio, col sorriso nel cuore, pregava: gli piaceva la veste bellissima. Ed era già condannato! Ma poi quando dai santi macelli riarse la fiamma scarlatta, di sangue, dai tronchi sugosi, sudore affiorava sul corpo, ed ecco, si salda alla carne - scultura vivente, piastra ossessiva su ogni lembo di pelle - il tuo manto. Brivido scattante gli azzannò le ossa: poi lancinante veleno, diresti, di rettile aspro, cruento. Ed ecco, ululando, la domanda a Lica disgraziato - innocente, lui, del tuo delitto - per che piano occulto gli mandavi il manto. Povero Lica! Che ne sapeva? Disse che quella era offerta puramente tua, così come gli era stata data. Lui l'ascoltò, e intanto fitta gonfia, squarciante gli fasciò i polmoni: allora lo ghermisce al piede, dove piega,
alla caviglia e lo mulina contro un sasso, tra gli schiaffi d'acqua, alto sul mare. La testa gli esplode macchia di materia chiara. Sfascio di cervello e sangue. Dalla folla, immoto blocco, raccapriccio ululante, per quel delirio, e per l'altro lacerato. Nessuno osava farsi sotto al padre. Strisciava convulso, e s'inarcava, trascinava roco urlio. C'era un riverbero cupo, dalle rupi intorno, dagli altissimi scogli, dalle punte dell'isola. Poi la stanchezza, lo sfinimento delle troppe cadute, del pianto rauco, delle bestemmie dure contro il letto, contro il ribelle, nemico abbraccio tuo - sì, miserabile, tuo - e lo sposalizio con Eneo, e che fallimento nella vita - diceva - s'era tirato addosso. Dall'assedio della caligine rovente strappò lo sguardo pazzo, mi colse perso nella folla, che piangevo. Da lontano mi vide. Mi chiama: «Ragazzo, avvicínati. Non lasciarmi in questa malattia, nemmeno se costa a te la vita, con questa vita mia che va.
Toglimi da qui. Assolutamente, devi spostarmi dove non c'è occhio vivo che mi scruti. Se è peso troppo doloroso, fammi salpare da quest'isola, almeno. Ma fa' presto. Non voglio morirci, non qui!» Era un ordine, fermo. Noi l'adagiammo sul fondo d'una barca, e traversammo a questa costa. Rantolava convulso! Che pena! Tra poco lo vedrete:
vivo, o morto e ancora caldo. Flagrante crimine, madre, il tuo, premeditato, e ben riuscito, contro il padre. Castigo doloroso, e Vendetta, ti faranno scontare questo gesto, spero: se ha santa base, questa mia speranza. Sì, santa base: base che tu m'hai fondato, assassinando il fiore degli eroi viventi. Un altro non lo vedrai più, così.
Deianira entra nel palazzo, muta.
Perché questi tuoi passi muti? Ma non capisci? È silenziosa confessione a chi t'attacca.
Lasciate che scivoli via. Le auguro vento nelle vele, se esce dallo sguardo mio, lontana. Lei dovrebbe far vivere in sé quel gran nome di madre?
Lei che gesto di madre non sa cosa sia? Assurdo! Via, via, che sparisca, addio! Le auguro d'assaggiare lei il piacere che procura a lui, al padre mio.
Anche Illo entra nel palazzo.
str.
Donne! Eccola, rapida, viva
si mescola a noi la magica voce
l'antica nota presaga.
Essa scandì; dodici volte areranno,
giro maturo di mesi. E matura sarà la catena
di tormenti, al figlio di Zeus.
Rotta perfetta, presagio che approda sicuro.
È così. Occhi morti, bui, non esisti più:
puoi vivere sotto padrone,
umiliato, provato?
ant.
Nebbia di sangue, tenaglia subdola
del centauro gli rode la carne,
tossica piastra: ha vita da Morte
alimento dal freddo, fisso baleno di serpe.
Vedrà - è possibile? - il nuovo mattino?
Spettro allucinante, assurdo, la Biscia
è lì sulla carne che frigge. Si fonde
oscena tortura: speroni febbrili, perfidi
- parlano morte -
di uno nero, irsuto.
str.
Cose, che non sospettò la donna spezzata.
Solo avvistò la minaccia di giovane sposa
che aggrediva la casa. Non seppe prevedere.
Aggiungi il piano
sorto da mente ostile, nel colloquio
così pieno di morte. Ora geme distrutta,
umido velo, rivoli
semprevivi di pianto.
Fatalità s'avvicina: mette a nudo
Perdizione ambigua, totale.
ant.
Erompe, sgorga il pianto.
Male dilaga, male che mai
- tortura pietosa - piombò sull'eroe
luminoso, per mani nemiche.
Lama nera di picca guerriera
saettando predasti - lampo fuggente -
la giovane amata
dall'aerea Ecalia.
Instancabile è la dea di Cipro. Non usa
parole. Ma brilla ch'è lei l'autrice di tutto!
Il Coro si divide in due semicori.
I
O sono una povera pazza, o odo, su dalle stanze, improvviso, un volo di pianto?
II
Che sarà? Grido rimbalza. Voce non nebulosa! Di lugubre sconforto! Ora c'è un'aria strana, là dentro.
Il Coro si riunisce.
Guarda la Nutrice! Non pare lei, la faccia devastata. Viene da noi. Dirà notizie, forse.
(Apparendo)
Donne, quel dono fatto avere a Eracle, di che mali non lievi fu radice!
Che c'è Nutrice? Qualche sorpresa, di'?
Non c'è più Deianira! S'è messa in viaggio, l'ultimo viaggio, con immoto passo.
Noooh! Non sarà... morta?
Non c'è altro da dire.
Morta! Troppa sofferenza!
Per la seconda volta: è morta.
Che patire. L'ha uccisa. Per che via, raccontaci.
Gesto disperato.
Che morte incrocia? Dicci!
S'è annientata, lei!
Che ribollire, che delirio.
Colpo di brutale lama l'abbatté.
Come ideò
suicidio dopo l'omicidio
con atto solitario?
Squarcio d'acciaio
lugubre.
Guardavi il gesto pazzo, e hai chiuso gli occhi?
Ero lì, pochi passi. Ho guardato.
Gesto di chi? Come? Racconta.
Atto suo, su di sé. Con la sua mano.
Cosa, cosa dici?
Chiara verità.
Dal ventre, dal ventre
della fresca sposa, è nata
alla casa gigantesca sciagura.
Enorme. E più fremeresti di pianto, se ti fosse esplosa davanti, negli occhi, la scena del gesto.
Trovò la forza, mano femminile?
Sovrumana forza. Anche tu lo dirai. Ascoltami. Fu dopo che ritornò là dentro, sola, e vide il figlio, al coperto, che lavorava a una stuoia avvolgente, per ritornare, ripresentarsi al padre. Allora entrò nell'ombra, via da estranei occhi.
S'attaccò agli altari, gemeva sordamente, sentiva intorno a lei il deserto. Sfiorava le sue care cose, il suo passato quotidiano, e singhiozzava. Che amarezza! Girava per le stanze, avanti e indietro. Altre lacrime, se si profilava uno dei suoi, di casa: lei lo fissava addolorata, rievocava la sua vicenda, la sua famiglia, quel figlio come morto, ormai. Poi, all'improvviso, smise. Rapida, decisa, vedo che entra in camera da letto. Io la seguivo con lo sguardo, al buio, segreta... E vedo che la donna getta, spiana sul giaciglio d'Eracle un gran manto. Poi vi sale, svelta. Rigida, al centro delle coltri, scoppia in pianto, rivoli brucianti, e rotte frasi: «Letto, stanza dell'amore! È l'ultimo saluto. Voi non m'avvolgerete più nei vostri abbracci. Non sono più una sposa, io!» Non una parola, poi. Con un gesto teso apre la veste, dove l'allacciava ai seni spilla martellata d'oro. Scopri completamente il fianco, di lato, e il braccio. Con tutto il fiato corro verso il figlio, l'avverto che medita qualcosa. Vado, torniamo, un lampo: e lei è là, davanti ai nostri occhi, spezzata da spada tagliente, nel fianco, giù fino al ventre. Il figlio urlò. Senti il peso d'averla spinta lui, con la sua rabbia, all'atto: gli era stato detto dopo, dalla gente in casa, che quello fu innocente gesto, veniva dal centauro. Era distrutto, il ragazzo Singhiozzava, non sapeva placarsi. L'avvolgeva, nel pianto, stremato, col viso sul viso, l'allacciava alla vita, disteso, ripeteva con voce incrinata il suo essere cieco: uccisa, l'aveva, con l'accusa cattiva. Poi nuovo strazio: la vita totalmente vuota, con la morte del padre, e ora altra morte, di lei.
Questa è la casa, oggi. C'è da dire: far calcolo di due o peggio di più giorni, è proprio cecità. No, non c'è giorno dopo, se prima non hai vissuto indenne l'attuale.
La Nutrice rientra in casa.
str.
Due casi. Quale piangere prima?
Quale culmina, supera l'altro?
Critico, dirlo. Dubbio dolente!
ant.
Il primo è attuale, visibile, dentro.
L'altro è futuro. Esiste nell'ansia.
Attuale, imminente. È lo stesso.
str.
Ah, come desidero brezza serena
- il vento di casa dentro le vele -
a sradicarmi da qui! Via da me
schianto d'orrore mortale
fulminante, al puro apparire
dell'eroe dal sangue divino.
Tra gonfi, accaniti dolori
ho sentito che torna tra noi.
Ammutolisci, a vederlo.
ant.
Eccolo! Qui, non lontano:
già lo piangevo, come aspro usignolo.
Vedo schiera straniera, d'oltre confine.
Guarda il modo, l'attento calore
con cui lo spostano. Pare cura filiale.
Che passo! Soffocato, di piombo.
È lui! È un carico muto.
Non distinguo, non so: è già morto
o stremato, assopito?
Appaiono Illo, un Vecchio, portatori con Eracle su una stuoia.
Mi strazia, padre
mi strazia il tuo patire.
Che dovrò soffrire, ancora?
Trattieniti, ragazzo. Non riaccendere
la bestiale fitta, che fa disumano
il padre. Vive, stremato. Cuciti
le labbra, affonda i denti.
Che dici, vecchio, è vivo?
Sopore l'inchioda. Non eccitarlo.
Non stimolare, non ravvivare
la bestiale crisi che torna
a folate, ragazzo.
Mi schianta, questo peso
impossibile. Delirano i sensi.
Zeus!
Dove sono, che uomini sono
intorno a me steso, disfatto
da fitta gonfia, tenace. Che male!
Ecco, li risento, i denti della peste!
Non l'avevi capito il vantaggio
di seppellirti in te, di non snebbiargli
la testa e lo sguardo
dal sonno?
No, non mi rassegno, non posso:
questo male mi arroventa gli occhi.
O Ceneo, sacro gradino di sasso!
Che contraccambio di dolore, Zeus
per tanti riti miei!
Che sfacelo osceno Zeus
fai di me! Non l'avesse scorto
il mio sguardo: occhi sbarrati sul male,
rigoglio che nessuno ammalia.
C'è uno che sappia la formula, l'arte
che cura, capace di stregare
il mio male? Un altro, non Zeus?
Meraviglia strana, sarebbe: quanto remota!
str.
Aaah, aaah
andate, andate via da me.
Questo sonno è la fine. Fato nemico!
str.
Per dove mi prendi, mi adagi?
Vuoi farmi morire?
Rivanghi ciò ch'era sepolto?
Ecco la crisi, mi preda, s'inerpica addosso. Che razza d'uomini perfidi ho innanzi, feccia di tutta la Grecia?
Ah faticai negli abissi, nei boschi per farvi civile la terra. Che peso mortale! Ed ora che crisi m'assale non si trova chi offra una spada, o sollievo di rogo?
ant.
Aah!
nessuno è disposto a staccare
la testa
di quest'uomo che odio?
Figlio dell'eroe, ragazzo, l'incarico supera troppo
la forza che ho. Collabora tu. Ne sono convinto
tu puoi dargli sollievo, non io.
ma la requie che placa gli spasmi non so come darla
dove andare a cercarla: Zeus dispensa la vita.
str.
Aaah!
Dove sei, figlio? Di lato, di lato
alzami, confortami. Potente fato!
ant.
Mi salta alla gola, alla gola, mi umilia
la crisi bestiale
ostica, pronta a schiantarmi.
Pallade, Atena, rieccolo il male, mi straccia. Ragazzo
pietà di tuo padre; impugna la spada innocente
trafiggimi sotto la gola, medica la rabbia avvelenata
che m'istillò la madre empia. Potessi vederla crollare
così come lei m'annientò.. Abisso soave,
ant.
che nel sangue hai il sangue di Zeus, cullami,
cullami tu, sfammi con svelto morire.
Donne, mi folgora, mi gela sentire tanto male, del sovrano. Che uomo, e che raffica, su lui!
Quanti sforzi, duri, roventi. Maligni perfino a ridirli: tutto di muscoli, di spalle. Ma né la donna di Zeus, né Euristeo schifoso seppero schiacciarmi come la figlia d'Eneo, doppia faccia, con la sua gabbia intrecciata di Delitto, a inchiodarmi le spalle, a finirmi. Piastra dura sui fianchi, mi morde i muscoli all'osso, s'incunea nel cavo dei bronchi.
Aspira. S'è bevuta, sento, il sangue in fiore: la carne si devasta, sfatta da tenaglie misteriose, assurde. No, no: non ci fu lama mai in duello, né i Giganti armati sorti dalle zolle, né ferocia disumana, né terra greca, né straniera - e ne ho corsa di terra, per fare pulizia - capaci di ridurmi in questo stato. No: una dorma! Tempra di donna, non d'eroe! E sola, e senza lama: e m'ha distrutto!
Ragazzo, figlio, sii figlio d'Eracle autentico: non dare troppo peso al nome di quell'altra, di tua madre. Afferrala tu, con le tue mani, da casa, e dalla a me, qui in pugno. Voglio vedere chiaramente se ti trafigge più questo sfacelo mio, o il suo, della persona sua distrutta, calpestata, come merita. Figlio, trovati la forza, dentro. Deve farti pena. L'ho fatta a tanti, io, col mio balbettio lagrimoso: una femmina, sono! Nessuno può dire d'avermi visto fare questo: io, l'eroe, docile sempre al mio patire, senza stilla di pianto. Ma ora è troppo, ed eccomi una donna, che miseria! Fatti sotto. Sta' ritto qui, da tuo padre. Scruta la mia passione, vicenda che prostra. Via le coperte, via, via! Qua, qua, puntate gli occhi, tutti, su questa carne in agonia! Fermateli sul mio disastro, e piangetemi, tutti! Aaaah! Sto male! Brivido febbrile, maledetto, mi fruga dentro, a fondo. Vuole duello ininterrotto, lo sento, il male che mi mangia vivo. O potente Nulla, apriti! Spaccami, strale di Zeus! Maestoso dio, padre, saetta, scatena la folgore armata! Ecco, riprende: a morsi, a bocconi, sboccia, è in
volo. O mani, mani mie! Spalle, petto, muscoli miei, siete saldi, siete ancora voi che schiacciaste prepotenti il padrone di Nemea, l'incubo dei mandriani, il leone, l'ostica bestia ribelle a chiunque; e la biscia di Lerna; e la banda incivile al galoppo, doppi, bestiali, barbaro squilibrio, forza che schianta; la preda selvaggia erimanzia; poi il cane a tre teste, giù nell'abisso, nel Nulla, mostro assurdo, troppo superiore, creatura d'Echidna d'inferno; e il rettile all'orizzonte del mondo, sentinella delle mele d'oro. Quanti, infiniti sapori di atletiche prove! Nessuno ha umiliato il mio braccio. Ora ho le ossa in frantumi. Cade a pezzi la carne. Rudere pietoso. Tutta colpa di Castigo pazzo! Io, capite: del mio nome è radice una madre che svetta su tutte, e di me si diceva: «È seme di Zeus, del Celeste!»
Ora ascoltate, capitemi bene. Io sono annientato, inchiodato: ma anche così l'avrò in pugno, l'autrice di tutto. S'avvicini, mi basta: le sarà di lezione su come - lo dirà anche al resto del mondo - ho sempre colpito il nemico, da vivo, o già dentro la morte.
Grecia, Grecia, che colpo! Che funebre pianto, lo vedo, verserai se ti lasci sfumare il campione.
M'hai offerto, padre, di ribattere. Ora soffoca tu la voce, e ascoltami. Dimentica la crisi. Voglio chiederti cose che ottenere è equo. Offri te stesso a me, non come adesso, sbranato, dentro, dalla rabbia tesa. O non discernerai in cosa ti lasci trasportare a gioie, a strazi che non hanno base.
Di' l'indispensabile. Poi fermati. Sto male, Non decifro questa tua tavolozza di ragioni.
E per mia madre. Sono qui per spiegarti com'è messa, e in quali sbagli, lei, non ebbe colpa.
Maledetto! Ancora, ancora fai quel nome, me lo fai sentire, della madre assassina del padre?
Lei è ridotta... sarebbe crimine il segreto.
Crimine sì, carica com'è di colpa.
Muterai parole, circa i fatti d'oggi.
Parla, ma rifletti bene: non svelare tempra vile.
Parlo: è morta poco fa. Lo squarcio è ancora fresco.
Per che mano? Rivelazione strana, con maligno suono.
Suicida. Non c'è mano d'altri.
Prima di crollare sotto questo pugno, giustiziata?
Non saresti più tu, dentro, se ascoltassi il resto.
Brutto preludio: di' cos'hai in mente.
Solo questo: sbaglio, per una febbre onesta.
Onesto atto, disgraziato, assassinarti il padre?
S'illudeva d'irretirti con magia d'amore. Passo falso: quando vide ch'era vero, vivo, quel tuo sposalizio.
Un tale mago a Trachis? Di', chi era?
Nesso, il centauro, tanto tempo fa, l'illuse che con questo incanto scatenava in te delirio di passione.
Aaah, fatalità nemica! Me ne sto andando disperato. Ho addosso la morte. Sole buio, per me. So la disgrazia che ora mi avvolge. Parti, creatura: tuo padre non c'è più. Raccogli il mio ceppo, quelli del mio sangue, e chiama Alcmena affranta, l'amata di Zeus. Inutile amore! Dovete sentire, tutti voi - e poi sarà la fine - suono solenne delle profezie che so.
Ah non è qui tua madre. La sua casa, la vita sua è a Tirinto, là sulla costa. Dei figli, qualcuno lo ha raccolto lei, lo cresce. Altri, lo saprai, vivono a Tebe. Noi siamo qui, docili ad ascoltarti, ad eseguire tutto.
Odi la tua missione. Tu sei a uno sbocco: qui risalterà se hai tempra d'uomo, da chiamarti figlio mio. Era illuminazione antica, da mio padre, ch'io non sarei mai caduto sotto un vivente: doveva essere un ospite del Nulla, già disfatto. Ecco, la bestia, il centauro avvera la luce presaga e da morto mi ha tolto la vita. Rivelerò fresche profezie, uguali, combacianti con quelle del passato, voci a conferma. Le ho annotate io quando entrai nella foresta magica dei Selli, gente montanara, che per letto ha la terra. Fonte era la quercia millenaria di mio padre Zeus: in quest'epoca che corre - mi scandiva - e che trapassa, sarebbe maturato il mio sollievo dall'assedio ossessivo, duro, delle mie fatiche. Esito felice, m'illudevo. Era una cosa sola, invece: la mia morte. Non pesano fatiche su chi è morto. Ora s'illumina tutto, e coincide: devi farmi da scudo nella mia battaglia. Non essere lento, che s'inferocisca la mia lingua. Flettiti, collabora. Ripercorri il sublime tra i doveri: essere docili col padre.
Padre, questa base di parole mi fa rabbrividire: ma farò secondo le tue idee.
Dammi la mano destra, prima.
Promessa impegnativa tu m'imponi. A che?
Sbrígati, dammela. O vuoi già ribellarti?
Basta, la porgo: non ho nulla contro.
Giura su Zeus che m'ha fatto vivo.
Per quale azione? Questo, almeno, lo dirai.
Compiere perfettamente l'atto da me detto.
Giuro, sì, su Zeus dei giuramenti.
Supplica il castigo, se non andrai diritto.
Non c'è rischio di castigo. Eseguirò. Supplico, comunque.
Ricordi l'altissimo pianoro dell'Eta, sacro a Zeus?
Sì. Quante volte feci riti di sangue lassù!
Bene. Là devi issarmi - morto peso - tu con le tue mani. Scegli qualche uomo dèi tuoi. Taglia rami su rami di quercia profondamente radicata al suolo e mischia schegge di robusto ulivo matto. Gettaci il mio corpo, impugna guizzo di fiamma resinosa, e incendia. Gemito lacrimoso non si mischi. Agisci senza brividi, senza stilla di pianto, se sei figlio d'eroe. Altrimenti - incubo cupo - ti perseguiterò tenace, anche da giù, dal buio.
Aaah, padre, che parole! Che vuoi farmi fare?
Azioni necessarie. Se no, fatti chiamare figlio d'altri, d'uno qualunque, non mio, d'Eracle!
Padre ti ripeto, reclami l'impossibile, farmi carnefice, macchiarmi del tuo sangue.
Non dire così, non voglio. Guaritore, piuttosto, medico unico al male.
Risanerei il tuo corpo affondandolo nel fuoco?
Se ardermi ti angoscia, esegui tutto il resto.
Ti porterò lassù. Non nego questo.
La massa accatastata, come dissi?
Basta non sia la mano mia a dare fuoco. Farò il resto. Non ti darà tormento la mia parte.
Può bastarmi, anche così. Tributami una gioia, un'inezia aggiunta ai compiti maggiori.
Fosse d'impossibile peso, la realizzerò.
Ha visto la giovane, la figlia di Eurito?
Vuoi dire Iole, se non erro.
Hai capito. Ti do quest'incarico, creatura. Tra poco morirò: allora, se contano per te la devozione, la memoria delle promesse al padre, falla tua moglie, non tradirmi in questo. Lei s'è adagiata tra queste braccia mie. Non deve un altro uomo farla sua: solo tu. Devi essere tu a possederla, figlio. Lasciati convincere. M'hai obbedito in gesti grandi, se ti ribelli in altri, lievi, macchi la gratitudine che meriti.
Non è bello scaldarsi con chi pena: ma reggere a una logica così è duro, è duro.
Il tono ti tradisce: tu non farai ciò che dico.
Chi lo farebbe? Lei è la radice sola, se mia madre è morta, se tu sei come sei: chi farebbe, dimmi, questa scelta? Solo un pazzo, per un delirio d'incubo. Padre, meglio seguirti nella morte che vivere la vita a fianco a fianco con chi odio.
Come si vede! Questo ragazzo non mi tributerà il dovuto. Neppure se sto qui morendo. Ma da lassù Castigo ti si attaccherà, se tradisci questo mio comando.
Come traspare la tua crisi dal tono delle tue parole!
S'era assopito il male. Tu lo ecciti.
Sono disperato. Troppe indecisioni, non ho sbocchi.
Non ti degni d'ascoltare chi t'ha fatto vivo.
Devo approfondire sacrilegio e colpa?
Sacrilegio, l'ultimo conforto a me?
È interamente retto il gesto che comandi?
Sì. Convoco gli dei a testimoni.
Eseguirò l'azione. Non rifiuterò. Ma a dio dirò chiaro che sei tu la fonte. Non voglio che spicchi una mia colpa, padre, se ti cedo.
Ti fa onore questa soluzione. Coronala col gesto che mi fa felice, adagiami sul rogo. Fa' presto, prima che mi piombi addosso il brivido, l'aculeo febbrile. Anche voi, svelti, alzatemi. Questa è la fine del dolore. L'ultima soglia di un eroe.
Non ho più ostacoli. Eseguo, padre. Il tuo comando è fermo e duro.
A te, cuore. Témprati
Inchiodami le labbra,
marmo cementato di metallo
prima che riviva il male. Schiaccia
l'ululo. È l'ultimo atto
del dramma non scelto. Fallo, gioioso!
Alzatelo, gente. Dovete capirmi
capirmi, per questo mio gesto.
E notare l'indifferenza
l'indifferenza degli dèi nel caso
che culmina ora. Creano
vite, «padri» si fanno chiamare
ma il loro occhio scivola
su questi tormenti.
Non c'è occhio che veda il domani,
l'oggi è lacrime per noi,
macchia morale per quelli lassù:
è cappa di dolore unico al mondo
per chi ora Perdizione prostra.
A voi, ragazze. Non restate qui
sulla soglia. Mostruose morti,
folla di dolori strani,
unici, vedeste. Cose,
atti di una mano sola: Zeus.