Testo

DELLA STORIA DI TUCIDIDE
LIBRO SECONDO.

I

1. Di qui ormai incomincia la guerra degli Ateniesi e Peloponnesi, e dei loro scambievoli alleati, nel processo della quale non praticavano più tra loro senza il Caduceo; ma intrapresa che l'ebbero, guerreggiavano continuamente. Ella è esposta, secondo l'ordine dei fatti accaduti, per estati e per inverni.

2. La tregua dei trent'anni, fatta dopo la presa di Eubea, era durata quattordici: ma nel decimoquinto, essendo Criside già da quarantott'anni sacerdotessa in Argo, Enesio eforo in Sparta, e Pitodoro ancora per un bimestre arconte in Atene, sei mesi dopo la battaglia di Potidea, al cominciar della primavera poco più di trecento Tebani, guidati da Pitangelo figlio di Filida, e da Diemporo di Onetoride, ambedue Beotarchi, sul primo sonno entrarono armati in Platea della Beozia, città confederata con Atene, invitati da alcuni Plateesi che apersero loro le porte (ciò furono Nauclide e i suoi partigiani), i quali a procacciarsi potenza, volevano trucidare i cittadini della fazione contraria, e assoggettare la città ai Tebani. La trama riuscì, favorendoli Eurimaco figlio di Leonziade, personaggio potentissimo in Tebe; perché i Tebani, prevedendo insorgerebbe la guerra, innanzi che ella manifestamente scoppiasse, e mentre ancora durava la pace, bramavano preoccupare Platea città mai sempre loro nemica. Il perché, non essendovi di prima posta guarnigione, agevolmente e non avvertiti vi entravano: e fermatisi armati nella piazza, non vollero, secondo che gli confortavano quei che li avevano introdotti, venir subito ai fatti ed investire le case dei nemici. Erano anzi di avviso di usare grida discrete, e piuttosto indurre ad amichevole accomodamento la città, stimando che per queste maniere ella si sarebbe più facilmente accostata alla loro parte. Promulgavano dunque per il banditore, che qualunque, conforme la patria usanza di tutti i Beozi, volesse entrar nella lega, prendesse le armi coi Tebani.

3. Come i Plateesi sentirono essere i Tebani già dentro le mura, ed occupata improvvisamente la città, credettero vi fossero entrati in numero assai maggiore, perché essendo notte non li scorgevano: ed impauriti calarono agli accordi, accettarono le condizioni, e restarono tranquilli; tanto più che i Tebani non facevano contro chicchessia stranezza veruna. Ma mentre ancora trattavano ciò, osservarono non esser molti i Tebani, e giudicarono facile la vittoria, assalendoli, essendo che il popolo di Platea mal volentieri ribellavasi agli Ateniesi, Risolvettero dunque esser ciò da tentare, e per tener colloquio tra loro sfondavano le pareti comuni delle case per non esser visti correr le strade, a traverso delle quali mettevano carri senza giumenti per servir di barricate, e accomodavano le altre cose come e dove credevano che sarebbe utile pel momento. Ordinato tutto il meglio potevano, si scagliarono dalle case sopra i Tebani, cogliendo il punto che era ancor notte, e proprio in sull'albeggiare, perché temevano di trovarli più arditi in piena luce, e perché e' non potessero opporre loro egual resistenza. Anzi rendendosi essi nella notte più formidabili per la pratica che avevano della città, speravano resterebbero i Tebani sopraffatti: però li assalirono immantinente e vennero tosto alle mani.

4. I Tebani conosciuto lo sbaglio si ristringevano tra loro, e respingevano gli assalitori dalla parte onde gli investissero. Due o tre volte gli ributtarono; ma finalmente, serrandosi loro addosso i Plateesi con furia strepitosa, e ad un'ora stessa le donne e i servì tra gli schiamazzi e gli urlamenti percuotendoli dalle case con sassi e tegole, e di più caduta essendo nella notte dirotta pioggia, impaurirono; e voltata faccia fuggivano per la città tra il fango ed il buio (perché la cosa accadde sul finir del mese) senza sapere i più ove scampare, ed incalzati da gente ben pratica da non lasciarli scapolare; così che per la maggior parte erano trucidati. Un plateese serrò la porta onde erano entrati, la sola che fosse aperta, mettendo negli anelli per catenaccio la punta della lancia, talché neppure per quella potevano uscire. Perseguitati dunque per la città alcuni salirono sulle mura e si precipitarono fuori, morendovi i più; alcuni con una scure prestata loro da una donna ruppero di soppiatto la sbarra di una porta abbandonata, e pochi ne uscirono perché la cosa fu presto risaputa; altri erano qua e là uccisi sparsamente per la città. Ma il maggior numero, e sopra tutto quelli che si erano ristretti insieme, si cacciano in un gran torrione delle mura, la cui porta per avventura non era chiusa, credendo esser quel torrione una porta della città, e che sicuramente desse uscita per fuori. I Plateesi vedendoveli incappati deliberavano, se così come si trovavano ve li avessero a bruciare dando fuoco al torrione, ovvero trattarli altrimenti. Finalmente costoro, e tutti gli altri Tebani che restavano ancora vagando per la città, convennero co' Plateesi di rendersi a discrezione, ponendo giù le armi. Così procederono le cose per quelli entrati in Platea.

5. Gli altri Tebani poi che col corpo dell'esercito dovevano giungervi prima che finisse la notte, caso che per gli entrati andasse qualche cosa in sinistro, udito per via l'accaduto (già che Tebe è distante da Platea settanta stadi) si avanzavano per soccorrerli. Ma l'acqua caduta nella notte li rese più lenti nel cammino; perché il fiume Asopo aveva menato gran corrente, ed era difficile guadarlo. Marciando pertanto con la pioggia, e passato il fiume a gran pena, arrivarono troppo tardi, quando già quei di dentro erano stati parte trucidati, parte fatti prigioni. Appena i Tebani riseppero ciò, pensarono di tendere agguati ai Plateesi che erano fuori di città; conciossiaché, come suole intervenire in un disastro inaspettato ed accaduto duranti le tregue, la gente con le masserizie era sparsa alla campagna. Era anche loro intendimento, ove arrestassero qualcuno, di ritenerlo in scambio dei loro rimasti prigioni in città, posto che alcuno sopravvivesse. Ciò andavano ravvolgendo nell'animo: ma i Plateesi, mentre che costoro stavano tuttora deliberando, vennero in sospetto di ciò che poteva accadere, e temendo per quei di fuori, spedirono un araldo ai Tebani, richiamandosi dell'ingiuria fatta loro per aver tentato di occupar Platea in tempo di tregua, ed intimando non malmenassero le cose di fuori; altrimenti, soggiungevano, ucciderebbero quei di loro gente che ritenevano vivi, dove, ritirandosi dal territorio, li restituirebbero. In questa guisa raccontano il fatto i Tebani, e dicono che i Plateesi vi aggiunsero il giuramento. I Plateesi, all'opposto, non convengono d'aver promesso di rendere addirittura i prigionieri, ma solo quando nell'abboccamento che doveva tenersi prima tra loro si fossero, in qualche modo, trovati d'accordo; e negano d'avervi aggiunto il giuramento. Comunque sia, i Tebani si ritirarono dal territorio, senza averlo punto danneggiato. E i Plateesi, introdotto prima frettolosamente in città tutto ciò che era in campagna, ammazzarono subito i prigioni i quali erano cent'ottanta, tra questi Eurimaco con cui avevano condotto il maneggio quei che volevano tradir la patria.

6. Fatto ciò mandarono avviso ad Atene, restituirono con salvacondotto i cadaveri ai Tebani, ed ordinarono lo stato della città nel modo il più acconcio alle cose presenti. Gli Ateniesi ragguagliati tostamente dei fatti di Platea, arrestarono subito quanti Beozi erano nell'Attica, e spedirono araldo ai Plateesi con ordine di dir loro che non facessero innovazione su quei Tebani che avevano prigionieri, prima che anche in Atene si fosse risoluto qualche cosa intorno ad essi. Ignoravano gli Ateniesi che i prigioni erano stati morti, essendo partito il primo nunzio in sull'entrar dei Tebani, ed il secondo appena ch'ei furono vinti e rinchiusi: la onde erano, interamente all'oscuro dei fatti posteriori, e però avevano mandato quell'araldo, che al suo arrivo trovò coloro già uccisi. Allora gli Ateniesi mandarono delle truppe a Platea, vi portarono vettovaglie, lasciarono presidio, e condussero via gli invalidi colle donne ed i bambini.

7. Dopo questo fatto di Platea essendo manifestamente rotta la tregua, gli Ateniesi si preparavano alla guerra: si preparavano coi loro alleati anche i Lacedemoni, ed erano entrambi in su lo spedire ambasciate al re ed altrove ai barbari, donde che potesse sperarsi di trarre qualche soccorso, e si univano con quelle città che erano fuori del loro dominio. I Lacedemoni, in aggiunta alle navi avevano nel Peloponneso, commettevano ai popoli che seguitavano la parte loro in Italia di costruirne un numero proporzionale alla grandezza delle città, talché in tutte sommassero a cinquecento: di avere in pronto il denaro imposto, starsene del rimanente tranquilli, e non riettare gli Ateniesi, salvo che con una sola nave, fino a che queste cose fossero tutte apparecchiate. Gli Ateniesi recavano a novero gli alleati che avevano; ma erano principalmente intesi a spedire ambasciatori nei luoghi attorno al Peloponneso, cioè a Corfù, a Cefallene, agli Acarnani, a Zacinto, perché vedevano che avendo amici codesti luoghi, sosterrebbero certamente con superiorità la guerra nei contorni del Peloponneso.

8. Grandi pensieri ravvolgevano entrambi nella mente, e con tutto l'ardore si disponevano alla guerra: né meraviglia; perché tutti nel cominciamento delle cose hanno maggior veemenza. Era allora il tempo che la numerosa gioventù del Peloponneso e d'Atene di buona voglia intraprendeva la guerra, perché di essa inesperta; e tutto il rimanente di Grecia era in gran sollevazione dell'animo, in vedendo le due primarie Repubbliche venir tra loro a contesa. Molto si udiva parlare di risposte d'oracoli, molti presagi in versi cantavano gli indovini, sì nei luoghi ov'era bramosia di guerra, sì negli altri. Senza di che poco innanzi a questi avvenimenti fu scossa da terremoto Delo, che a memoria dei Greci non aveva mai per lo addietro sofferto ciò; e dicevasi e credevasi comunemente essere quello stato il segnale delle future calamità e qualunque cosa di simile fatta accadesse, tutto particolarmente si investigava. Ciò non pertanto la benevolenza dei popoli inchinava maggiormente ai Lacedemoni, tanto più ch'ei si spacciavano per liberatori della Grecia: e ciascuno in particolare e le città insieme, tutti travagliavansi ansiosamente per cooperare con esso loro con parole o con fatti, avvisando ognuno dover restare impediti gli affari là appunto, ove mancasse l'opera sua. A tal segno la maggior parte avevano in odio gli Ateniesi, desiderando alcuni d'esser liberati dal loro dominio, altri temendo di non esservi sottoposti. Con tale apparecchio e concitamento dell'animo erano in su le mosse.

9. Or le due parti si misero in guerra avendo confederate queste città. Dei Lacedemoni erano alleati tutti i Peloponnesi dentro dell'istmo, eccetto gli Argivi e gli Achei che erano m amicizia con entrambi: nondimeno gli Achei unirono poscia le loro armi con Sparta, in principio solamente quei di Pallene, quindi tutti gli altri. Fuori del Peloponneso poi, i Megaresi, i Locri, i Beozi, i Focesi, li Ambracioti , i Leucadi, gli Anattori. Tra questi somministravano la flotta i Corinti, i Megaresi, i Sicioni, i Pelleni, gli Elei, gli Ambracioti, i Leucadi; la cavalleria i Beozi, i Focesi, i Locri: le altre città davano la fanteria. Questi erano i confederati dei Lacedemoni. Degli Ateniesi lo erano i Chii, i Lesbi, i Plateesi, i Messeni di Naupatto, la maggior parte degli Acarnani, i Corfuotti, li Zacinti, ed altre molte città che tra tanti popoli erano loro tributarie; la Caria marittima, i Dori confinanti coi Cari, l'Ionia, l'Ellesponto, le città di Tracia, tutte l'isole che in fra il Peloponneso e Creta guardano a levante, e tutte le altre Cicladi salvo Melo e Tera. Fra questi somministravano la flotta i Chii, i Lesbi ed i Corfuotti; gli altri fanteria e denaro. Tale era da ambe le parti lo stato dell'alleanza e l'apparecchio per la guerra.

10. I Lacedemoni subito dopo i fatti di Platea mandarono in giro alle città alleate nel Peloponneso e fuori ordine, di allestir gente e provvisioni rispondenti ad una spedizione fuori del proprio paese, dovendosi portar la guerra nell'Attica. Quando poi al tempo prescritto ebbero tutto in pronto, i due terzi di ciascuna città si riunivano sull'istmo. E poiché fu congregato tutto l'esercito, Archidamo re dei Lacedemoni, generale di questa spedizione, convocati i capitani di tette le città, le persone di maggiore stato, e tutti quei che più meritavano d'intervenire, prese a parlar così.

11. « Valorosi Peloponnesi e confederati: quantunque anche i padri nostri abbiano fatto molte spedizioni sì dentro che fuori il Peloponneso, e tra noi i più attempati non siano inesperti della guerra; nondimeno sino ad ora non siamo mai usciti con apparecchio più grande. Considerate però che potentissima è la città, contro cui andiamo adesso noi in numero grandissimo e col fiore delle nostre truppe. Il perché non abbiamo a mostrarci né minori dei padri, né della propria nostra reputazione: avvenga ché Grecia tutta per la nostra mossa è sollevata ed a noi dirizza l'animo suo, anelando, per odio verso gli Ateniesi, al felice riuscimento dei nostri disegni. Ma con tutto che sembri andar noi contro al nemico con esercito grandissimo, ed esservi gran sicurezza da credere che non oserà venire a battaglia con noi; non vuolsi però marciare meno circospetti e preparati: anzi e capitano e soldato di ogni città si aspetti quanto a sé ad ogn'ora il cimento; conciossiaché incerte sono le cose della guerra, e gli assalti d'ordinario si fanno ad un tratto e col bollore dell'animo. Sovente un esercito più piccolo ma circospetto ne respinse con maggior vantaggio uno più numeroso, ma trascurante per disprezzo. In paese straniero debbono i soldati aver pieno l'animo di ardimento, ma tenersi pronti alla zuffa con cauto timore: cosi saranno più generosi nell'assalire il nemico, e meno pericolanti nel sostenerne l'impeto. Or noi non andiamo contro una città mancante di forze a segno da non resisterci, ma di tutto completamente fornita. Però, sebbene mentre che siamo tuttora lontani, gli Ateniesi non si siano mossi, pur dobbiamo indubbiamente aspettarci che verranno a battaglia, quando ci vedano guastar le loro terre e distruggere i beni loro. Poiché al vedersi sotto gli occhi una repentina insolita sciagura, ognun s'accende di rabbia; e quei che meno usano della riflessione, vengono ai fatti col più gran furore. Così più d'ogni altro è da credere che adopreranno gli Ateniesi, pei quali è puntiglio d'onore il comandare altrui, ed assaltare e devastare le terre degli altri, più presto che vedere il guasto delle loro. Persuasi dunque di far guerra a Repubblica sì potente, e di dovere, nell'alternar delle conseguenze, riscuoterne per noi e pei nostri maggiori riputazione del più gran rilievo, marciate per le vie che vi additino i vostri capitani, gelosi soprattutto della buona ordinanza e cautela, e pronti agli ordini che riceviate: poiché il mostrare che in numeroso esercito una è la militar disciplina, si è ciò che maggiormente procaccia onore e sicurezza» .

12. Archidamo ciò detto e sciolta l'adunanza, prima di tutto spedisce ad Atene Melesippo, cittadino spartano, figliolo di Diacrita, per tentare se gli Ateniesi, al vederli già in cammino, più facilmente cedessero in qualche cosa. Ma egli non fu ricevuto in Atene e molto meno in consiglio, essendo innanzi prevalsa l'opinione di Pericle, di non ammettere araldo né ambasceria dei Lacedemoni, condotto che avessero l'esercito in campagna. Lo rimandano dunque prima di udirlo, intimandoli uscisse dai confini il giorno stesso; e per l'avvenire i Lacedemoni, quando fossero rientrati nelle loro terre, mandassero pure le ambascerie che volevano: spediscono quindi gente con Melesippo ad accompagnarlo, affinché non si abboccasse con alcuno. Giunto egli ai confini ed essendo presso a dipartirsi, proseguì la sua gita dette queste sole parole: « Questo medesimo giorno sarà principio ai Greci di grandi calamità» . Al suo ritorno, quando Archidamo ebbe inteso che gli Ateniesi non cederebbero in nulla, levò il campo, e s'avanzava coll'esercito verso il loro territorio. I Beozi, che uniti in questa spedizione davano ai Peloponnesi parte dei loro fanti e cavalli, andarono col rimanente a Platea e saccheggiavano la campagna.

13. Ma intanto che i Peloponnesi si andavano adunando sull'istmo ed erano in cammino, prima che assaltassero l'Attica, Pericle di Xantippo, uno dei dieci capitani ateniesi, persuaso che l'invasione sarebbe accaduta, venne in sospetto che Archidamo suo ospite lascerebbe intatte, e non gli guasterebbe le possessioni; sia che volesse così gratificarlo di propria volontà; sia che potesse ciò accadere pel conforti dei Lacedemoni che bramavano screditarlo, e che, mirando a lui, avevano intimato si purgasse la contaminazione. La onde divulgò nell'adunanza degli Ateniesi, essere Archidamo suo ospite, ma ciò non dover causare alcun detrimento alla Repubblica; e se le sue terre e ville non fossero guastate dai nemici come quelle degli altri, ei le rilasciava in mano del popolo, acciò non vi fosse alcun argomento di sospetto contro di lui. Ed anche adesso li confortava come per l'innanzi a prepararsi alla guerra, a trasportare in città quel che era in campagna, non far sortite contro i nemici, ma ridursi in città e guardarla; mettere compiutamente in ordine la flotta, loro forza principale, e tenere in pugno gli alleati. Dimostrava, su i tributi di questi esser fondata la loro potenza, e ordinariamente l'intelligenza e la copia del denaro procacciare superiorità in guerra: li esortava a rincorarsi, atteso che la città, senza contare le altre entrate, aveva d'ordinario la rendita di seicento talenti l'anno per tributo degli alleati, e vi restavano anche presentemente nella rocca seimila talenti d'argento coniato, essendo la maggior somma stata di novemila settecento, dai quali erano state levate le spese per gli antiporti della rocca, per altre fabbriche e per Potidea. Oltre di che, di argento e d'oro non coniato, tra privati e pubblici voti, tra tutto il resto del vasellame per le sacre pompe e pel pubblici giuochi, e tra spoglie dei Medi e cose di simil fatta, non vi era meno di cinquecento talenti. Aggiungeva di più, le grandi ricchezze degli altri templi, delle quali si servirebbero; e qualora fossero adatto impediti dall'usar tutte queste, gli aurei ornamenti posti intorno al simulacro di Minerva stessa, il quale aveva il peso di quaranta talenti d'oro purissimo che tutto poteva spiccarsi d'attorno. Avvertiva nondimeno, che quantunque 1'avrebbero impiegato per la pubblica salvezza, conveniva poi rimettervelo di peso non inferiore. Così li rincorava quanto al denaro. Per ciò che riguarda l'esercito, mostrava esservi tredicimila soldati di armatura grave, senza gli altri sedicimila delle guarnigioni e degli spaldi: tanti appunto, tolti dal più vecchi e dai più giovani con tutti gli inquilini armati alla grave, erano quelli che vi stavano di guardia sino da principio, quando i Lacedemoni erano per assaltare l'Attica. Poiché di trentacinque stadi erano le mura di Falera sino al recinto della città, del qual recinto la parte guarnita è di quarantatré, restando senza presidio la porzione che è di mezzo tra le mura faleree e le lunghe. Queste poi sino al Pireo erano di quaranta stadi, e tutte guardate dalla parte esterna. L'intero circuito del Pireo, compresovi Munichia, era di sessanta stadici, ma solo la metà guarnita. Di cavalleria poi mostrava esservi mille duecento, contando gli arcieri a cavallo, seicento arcieri a piedi, e trecento trireme buone a navigare. Tale e non minore era l'apparecchio che di ciascuna cosa avevano gli Ateniesi, quando i Peloponnesi erano da prima per assaltar l'Attica, e quando si misero in guerra. Altre dichiarazioni andava facendo Pericle al suo solito, tendenti tutte a dimostrare che in questa guerra sarebbero vincitori.

14. Gli Ateniesi, udito che l'ebbero, seguirono il suo consiglio, e dalla campagna introducevano in città i bambini, le donne, le masserizie di cui usavano in casa. e sino il legname delle case che demolivano; e facevano passare nell'Eubea e nelle isole circonvicine gli armenti e le bestie da soma. Fastidioso però riusciva loro lo sgombero, essendo i più avvezzi a vivere continuamente alla campagna.

15. E tal costume, più che tra gli altri, praticavasi sino da remotissima antichità tra gli Ateniesi. Poiché, anche al tempo di Cecrope e dei primi regi sino a Teseo, ciascuna popolazione dell'Attica si reggeva da sé coi suoi tribunali ed arconti; e, quando non v'era di che temere, non si adunavano per le loro deliberazioni presso al re, ma ognuna aveva reggimento e consiglio particolare: anzi alcune talvolta ebbero persino guerra col re stesso, come gli Eleusini sostenuti da Eumolpo contro Eretteo. Ma venuto a regnar Teseo uomo di savio consiglio insieme e potente, oltre all'altre riforme fatte nell'Attica, abolì i consigli e le cariche di arconte dell'altre popolazioni , e riunì tutti in un sol corpo nella città presente, ove stabilì un sol consiglio ed un sol tribunale. E benché restasse ciascuno, come prima, abitatore e possessore dei propri fondi, obbligò tutti ad aver questa unica per città principale, la quale fu da Teseo lasciata a' suoi successori aumentata di molto, perché ormai tutti facevano con lei un solo comune. Però sin d'allora gli Ateniesi celebrano anche adesso la pubblica festa detta le Sinecie, in onore della Dea. Prima di questo tempo era città quel che ora è la rocca, o al più la porzione sotto questa che guarda mezzodì. Lo provano non solo i templi degli altri Dei che sono nella rocca, ma eziandio quelli al di fuori situati nella predetta parte della città, come quello di Giove Olimpico, di Apollo Pitio, della Terra, e quello delle Limne di Bacco, a cui onore si celebrano le feste baccanali più antiche, al dodicesimo del mese Antesterione, come tuttora costumano gli Ioni stessi discendenti dagli Ateniesi. Quivi altre sì riseggono gli altri vetusti templi, e per ciò appunto d'appresso è la fontana di cui si servivano per gli usi più importanti, la quale dopo essere stata restaurata dai tiranni nel modo che or si vede, ha nome le Nove-bocche; e prima, quando v'erano le sorgenti scoperte, si chiamava Calliroe. Da codesti tempi lontani resta anche adesso il rito di far uso di quell'acqua, prima delle cerimonie nuziali e per le altre sacre funzioni. Anzi appunto perché ivi era anticamente il luogo abitato, anche in oggi la rocca si chiama dagli Ateniesi città.

16. Gli Ateniesi dunque da lungo tempo praticavano insieme, abitando ciascuno colle proprie costumanze alla campagna, e per questa abitudine, anche dopo essere stati riuniti in un sol corpo di cittadinanza, i più , sì degli antichi che dei loro discendenti, sino al tempo di questa guerra, restati con tutta la famiglia ad abitare in campagna, non sapevano indursi a sgombrare: tanto più che di fresco, dopo il guasto dei Medi, avevano riordinato i loro fondi. Anzi erano afflitti, e di mal animo sopportavano il dovere abbandonare le abitazioni ed i templi, che per loro, a cagione dell'antico modo di governarsi, erano sempre i patrii: e trovandosi sul punto di cambiar tenore di vita, ciò per ognuno di loro altro non era che un lasciare la sua patria stessa.

17. Pervenuti in Atene, pochi ebbero abitazioni proprie e ricovero a casa d'amici o parenti; e la maggior parte prese stanza nei luoghi disabitati della città, ed in quelli consacrati agl'Iddii ed agli eroi (salvo la rocca e il tempio di Cerere, e quant'altro vi era di ben chiuso), e sin anche sotto la rocca, nel recinto chiamato Pelasgico, non solo imprecato ad abitare, ma eziandio interdetto per questa chiusa di un oracolo di Delfo:
È meglio che Pelasgico sia vuoto.
ciò non pertanto attesa la repentina necessità fu abitato E parmi esser l'oracolo riuscito in senso contrario di ciò che si aspettavano, perché non avvennero le disgrazie alla città per averlo illecitamente abitato, ma fu di mestieri abitarlo a cagione della guerra; senza nominar la quale aveva l'oracolo previsto che quel luogo sarebbe una volta abitato all'occasione di qualche sinistro. Molti si acconciavano anche nelle torri delle mura e dovunque ognuno poteva, stante che concorsivi tutti insieme non potevano capire in città i la onde alla fine si scompartirono per abitare le mura lunghe e gran parte del Pireo. Ma al tempo stesso volgevano l'animo alle cose di guerra, col radunare gli alleati, e fornire cento navi per andar contro al Peloponneso. Tali erano i piani degli Ateniesi.

18. Ma l'esercito dei Peloponnesi proseguendo il cammino, arrivò primieramente sotto Enoa dell'Attica, per dove volevano aprirsi, armata mano, la strada: e fatto alto si preparavano ad assaltare con macchine e con altre maniere le mura, onde era stata cinta Enoa situata sulla frontiera dell'Attica e della Beozia, e di essa usavano gli Ateniesi come di un propugnacolo quando insorgesse la guerra. Disponevano dunque l'oppugnazione di quella terra, ma si trattennero qualche tempo senza pro intorno ad essa, di che era principalmente accagionato Archidamo, che anche quando si trattava di riunirsi per la guerra si era mostrato poco sollecito e mal disposto a consigliarla, ed affezionato per gli Ateniesi. Inoltre, intanto ché l'esercito si fu riunito, l'averlo trattenuto sull'istmo ed il lento marciare nel resto del cammino, lo avevano messo in discredito. Ma soprattutto nocque alla reputazione d'Archidamo la fermata sotto Enoa: conciossiaché in questo stante gli Ateniesi introducevano in città le cose loro, onde pareva che se i Peloponnesi, tolto di mezzo questo indugio, m fossero spinti innanzi sollecitamente, avrebbero trovato tutto ancor fuori di città: tale era il mal talento dell'esercito contro Archidamo per questa sua fermata. Egli però soprassedeva aspettandosi, come si dice, che gli Ateniesi, essendo tuttora intatte le loro campagne, cederebbero in qualche cosa, mossi dal rincrescimento di vederle disertare.

19. Ma poiché dato l'assalto ad Enoa e fattovi ogni prova non poterono espugnarla, e vedevano che gli Ateniesi non facevano proposizione veruna; allora finalmente (ottanta giorni incirca dopo il fatto dei Tebani entrati in Platea), sotto la condotta del medesimo Archidamo figliolo di Zeusidamo re di Sparta, mossero il campo da Enoa, nel colmo dell'estate, quando è già matura la messe, ed entrarono nell'Attica. Quivi accampatisi scorrevano pel territorio di Eleusi e per la pianura triasia, e fugarono una frotta di cavalli ateniesi nei contorni del luogo detto Reiti. Quindi si avanzarono per la Cecropia, avendo a destra il monte Egaleo, sino a che pervennero ad Acarne, luogo il più considerabile dell'Attica fra quei che si chiamano villate. Qui fecero alto, piantarono il campo, e vi restarono molto tempo guastando la campagna.

20. Dicesi che Archidamo si fermò coll'esercito in ordinanza intorno ad Acarne, senza scendere in questa prima invasione alla pianura, con questo intendimento. Sperava egli che gli Ateniesi fiorenti per numerosa gioventù ed apparecchiature di guerra, quanto non mai per l'innanzi, gli sarebbero forse usciti incontro, non potendo patire di vedersi devastate le loro terre. Poiché dunque non gli erano venuti incontro ad Eleusi, né alla pianura triasia, voleva tentare con questa fermata intorno ad Acarne, se almeno allora si risolvessero a far sortita contro di lui. Oltre di che il luogo parevagli opportuno per porvi il campo, e faceva stima che gli Acarnei, parte considerevole della Repubblica (poiché tremila di grave armatura erano dei loro) non sarebbero indifferenti al guasto della loro campagna, ma avrebbero spinto tutti gli altri a combattere. Se poi in questa prima invasione gli Ateniesi non gli fossero usciti incontro, avrebbe allora più francamente corso la pianura e portato le armi fino sotto le mura di Atene stessa. Conciossiaché gli Acarnei spogliati dei beni loro, non sarebbero ugualmente pronti ad incontrar pericoli per gli altrui, e gran discordia entrerebbe negli animi dei cittadini. Con questa intenzione Archidamo si tratteneva presso ad Acarne.

21. Il soprassedere che faceva l'esercito nemico nei contorni d'Eleusi e nella pianura triasia, dava qualche appicco agli Ateniesi che non progredirebbe più oltre; rammentandosi essi di Plistoanatte figliolo di Pausania, re dei Lacedemoni, che dopo aver assaltato l'Attica coll'esercito de' Peloponnesi sino ad Eleusi e Tria, quattordici anni prima di questa guerra, era tornato indietro senza avanzarsi più innanzi; ciò che causò il suo bando da Sparta, perché ebbe voce d'essere stato indotto per denaro a ritirarsi. Ma poiché videro il nemico intorno ad Acarne, distante dalla città sessanta stadi, giudicavano non esser più da tollerare: ed avendo sotto gli occhi il guasto della campagna, cosa non più veduta né dai più giovani né dai più vecchi, fuorché nella guerra dei Medi, ciò parve loro, come è naturale, un orrore. Allora generalmente, e soprattutto la gioventù, pensavano doversi uscire contro il nemico e non starsi in trascuranza: il perché restringendosi in brigate erano in gran contrasto, bramando alcuni la sortita, altri opponendosi. Gli indovini stessi cantavano oracoli d'ogni maniera, che ciascuno intendeva secondo l'inclinazione dell'animo. Gli Acarnei che si credevano la non menoma parte della Repubblica ateniese, vedendo il guasto delle loro terre, più di tutti stavano per la sortita. Così la città era per ogni lato in sommossa, e tutti pieni di sdegno contro Pericle. Non più ricordavano i consigli dati dianzi da lui, lo avevano ora per un vigliacco, perché, generale com'era, non li conduceva contro il nemico, e lo accusavano di tutti i loro disastri.

22. Pericle vedendo che adirati per il presente stato di cose discorrevano il peggio, ed avendo per giusta la sua determinazione di opporsi alla sortita, non più teneva adunanze popolari, né alcun consiglio particolare, per paura che, riuniti per impeto furibondo più presto che per riflessione, non trascorressero a qualche sbaglio, ma teneva guardie per la città, e vi manteneva a tutto potere la calma. Mandava fuori continuamente delle bande di cavalli, per impedire agli scorridori dell'esercito nemico di gettarsi sulle campagne adiacenti alla città e scorrazzarle. Nei Frigii scaramucciarono una squadra di cavalli ateniesi uniti coi Tessali da una parte, e la cavalleria dei Beozi dall'altra: ove gli Ateniesi ed i Tessali non ebbero la peggio, finché, sopravvenuta a soccorso dei Beozi la milizia grave, furono messi in fuga. Pochi morirono dei Tessali e degli Ateniesi, che il giorno stesso ripresero senza salvacondotto i cadaveri dei loro; e il dì seguente i Peloponnesi ersero trofeo. Gli Ateniesi avevano coteste sussidio dei Tessali per antico trattato di alleanza, ed erano venuti a loro dalla Tessaglia i Larissei, i Farsali, i Parali, i Cranoni, i Pirasi, i Girtoni, i Ferei. Quei di Larissa avevano per capitano Polimede ed Aristenoo, ciascuno dei quali comandava la sua parte; e Menone guidava i Farsali: e parimente gli altri popoli avevano città per città i loro capitani.

23. I Peloponnesi vedendo che gli Ateniesi non uscivano loro incontro, levato il campo da Acarne, saccheggiarono alcune altre villate in fra il monte Parnete e Brilesso: e mentre tuttora si trattenevano nell'Attica, gli Ateniesi spedirono in giro al Peloponneso le cento navi, che andavano preparando, entrarono mille soldati di grave armatura e quattrocento arcieri, sotto il comando di Carcino figliolo di Xenotimo, di Protea d'Epicle, e di Socrate di Antigene, i quali salparono con questo apparato, e costeggiavano il Peloponneso. I Peloponnesi rimasero nell'Attica sinché ebbero vettovaglia; poi si ritirarono marciando per la Beozia, non dalla parte ove erano entrati. In passando da Oropo davano il guasto alla campagna chiamata Piraica, posseduta dagli Oropi vassalli degli Ateniesi; giunti poi nel Peloponneso si separarono, per tornare ognuno alla propria casa.

24. Dopo la loro ritirata gli Ateniesi, risoluti di guardar l'Attica per tutto il tempo della guerra, mossero presidi dalla parte di terra e di mare. Determinarono poscia si levassero mille talenti dal denaro depositato nella rocca, si mettessero a parte, non si spendessero e si sostenesse la guerra solo col rimanente. Per chi parlasse o proponesse il partito di impiegar questa somma per qualsivoglia altr'uso (salvo che i nemici assaltassero la città con armata navale e bisognasse respingerli), decretarono pena di morte. Oltre a questi mille talenti, sceglievano ogni anno le migliori trireme, sino a che sommassero a cento, ed i trierarchi di quelle: di nessuna delle quali volevano fosse lecito usare giammai eccetto che insieme con quei mille talenti, all'occorrenza di ovviare al medesimo pericolo.

25. Ma gli Ateniesi che colle cento navi erano attorno al Peloponneso, e con cinquanta i Corfuotti venuti a loro soccorso, più alcuni altri alleati di quel luoghi, oltre il guasto dato altrove scorrazzando quei dintorni, fecero scala a Metona della Laconia, è diedero l'assalto alle mura che erano deboli e con poca gente. Poiché ciò pervenne a notizia di Brasida cittadino spartano, figliolo di Tellide, che per avventura era colla sua guarnigione in codeste vicinanze, andò con cento di grave armatura a soccorso di quella città. Traversato di fuga il campo degli Ateniesi sparsi alla campagna e rivolti verso le mura, si getta in Metona, e sebbene nell'entrare perdesse alcuno de' suoi, pure salvò la città; e per questa ardita prova fu in Sparta lodato il primo di tutti coloro che concorsero a questa guerra. Gli Ateniesi allora salparono di là, e procedendo marina marina presero terra a Fia dell'Elide, saccheggiarono per due giorni la campagna, e vi sconfissero trecento di scelta milizia che dalla bassa Elide e da quelle vicinanze erano accorsi a difenderla. E nonostante che si levasse un vento gagliardo, e si trovassero così sorpresi dalla tempesta in quel luogo importuoso, la maggior parte risalirono sulle navi, e facevano il giro del promontorio chiamato Icti, sino al porto di Fia. In questo mezzo i Messenii ed alcuni altri, cui non venne fatto di montar sulle navi, presa la via di terra occupano Fia; e levati quindi dalle stesse navi che avevano fatto il giro del promontorio Icti si misero in mare, abbandonando Fia, a cui difesa era già sopravvenuto buon numero d'Elei; e continuando a rader la costa davano il guasto anche ad altri luoghi.

26. Quasi al tempo stesso gli Ateniesi spedirono trenta navi a soccorso della Locride e ad un'ora stessa a guardia dell'Eubea, sotto il comando di Cleopompo figliolo di Clinia, il quale fatto più volte scala saccheggiò alcune terre marittime, espugnò Tronio d'onde prese ostaggi, e ad Alope vinse in battaglia i Locresi che erano venuti a difenderla.

27. In questa medesima estate gli Ateniesi cacciarono da Egina gli Eginesi coi fanciulli e le donne, incaricandoli d'essere stati la principale cagione di questa guerra. Senza di che pensavano che essendo Egina adiacente al Peloponneso la riterrebbero con maggior sicurezza, se vi mandassero colonia dei loro cittadini, come infatti poco stante fecero. La onde i Lacedemoni diedero ad abitare agli Eginesi Tirea col suo territorio, non tanta a cagione delle differenze avevano con gli Ateniesi, quanto perché ne erano stati beneficati al tempo del terremoto e della ribellione degl'Iloti. Il territorio di Tirea è confinante col suolo argivo e laconico, e si stende sino al mare. Alcuni di coloro vi presero stanza, altri si sparsero pel rimanente della Grecia.

28. In questa estate al nuovo mese lunare, conforme pare che allora soltanto possa ciò accadere, dopo mezzodì fu eclissi del sole, mostrandosi cornuto a guisa di luna, comparvero delle stelle, e quindi riprese la sua piena figura.

29. Nella medesima estate gli Ateniesi ammisero al diritto di ospitalità, ed invitarono a portarsi da loro Nimfodoro figliolo di Piteo cittadino di Abdera, che aveva gran credito presso Sitalce marito di sua sorella, col fine di farsi alleato Sitalce stesso re dei Traci, figliolo di Tere. Or questo Tere padre di Sitalce fu il primo a rendere l'impero degli Odrisii più considerabile degli altri della Tracia, essendo che gran parte dei Traci vivono in libertà. Questo Tere però non aveva nulla che fare con quel Tereo che ebbe per moglie Procne figliola di Pandione d'Atene, avvegnaché non furono pure d'una medesima Tracia. Tereo certamente dimorava in Daulia del territorio ora denominato Focide, abitato allora dai Traci. È questo il paese ove le donne commisero il noto misfatto d'Iti; per lo che molti poeti nel rammentare l'istoria del rusignuolo gli danno il nome d'uccello daulio. È poi probabile che per scambievole vantaggio Pandione stringesse il parentado della figliola con questo Tereo a lui più vicino, invece che coll'altro degli Odrisi distante il viaggio di parecchie giornate. Tere dunque, che non portava pure il medesimo nome dell'altro, fu il primo a regnare con piena autorità sopra gli Odrisi; il cui figlio Sitalce gli Ateniesi fecero loro alleato, intendendo che gli aiutasse a ricuperare le città della Tracia, e a conciliar con esso loro Perdicca. Pervenuto Nimfodoro ad Atene concluse la confederazione di Sitalce, ed ottenne a Sadoco figlio di lui il diritto di cittadinanza ateniese: prese ancora l'incarico di por fine alla guerra di Tracia, promettendo avrebbe persuaso Sitalce a mandare agli Ateniesi delle bande di cavalli traci e fanti armati di rotelle. Indusse a restituir Terma e rappattumò con gli Ateniesi Perdicca, il quale unì subito le sue armi con essi e con Formione ai danni dei Calcidesi. Ecco come Sitalce figliolo di Tere re dei Traci, e Perdicca di Alessandro re dei Macedoni, divennero alleati degli Ateniesi.

30. Questi colle cento navi trovandosi tuttora intorno al Peloponneso, prendono Solio cittadella dei Corintii, e di essa e del suo territorio investono i soli Paliresi, esclusi gli altri Acarnani. Espugnarono Astaco ove si era fatto tiranno Evarco: cacciaronlo, ed aggiunsero il paese alla loro alleanza. Andarono poscia colla flotta all'isola di Cefallenia e se ne insignorirono senza combattimento. Quest'isola è situata rimpetto all'Acarnania ed a Leucade, ed ha quattro città; ciò sono, quella dei Pallesi, dei Cranii, de' Samei, e dei Pronei. Poco dopo, la flotta ritornò alla volta d'Atene.

31. Circa l'autunno di questa estate gli Ateniesi, a pieno popolo, tanto cittadini che inquilini, andarono ad assaltare la campagna megarese, sotto la condotta di Pericle figliolo di Xantippo. Quei delle cento navi intorno al Peloponneso, nel ritornare a casa, arrivati ad Egina ebbero notizia che quei d'Atene con tutto l'esercito erano a Megara: laonde indirizzaronsi colà per riunirsi con loro. E però questo, tutto insieme, fu l'esercito più numeroso degli Ateniesi; avvegnaché la città era ancora nell'auge di sua grandezza, non essendo per anche stata afflitta dalla pestilenza. Infatti gli Ateniesi propio non erano meno di diecimila di grave armatura, senza quei tremila che avevano a Potidea. Né meno di tremila inquilini di grave milizia si erano uniti ad essi in questa spedizione, senza contare l'altra turba non piccola di milizia leggera. Colà devastato che ebbero gran parte del territorio, si ritirarono. Accaddero successivamente anno per anno, durante la guerra, molte invasioni si della cavalleria, che di tutte insieme le genti ateniesi nel megarese, sino a che da loro non fu presa Nisea.

32. Sul cadere di questa estate fu dagli Ateniesi col guarnimento di mura fortificata Atalanta, isola per l'avanti disabitata che guarda i Locri Opunzi; per impedire ai corsari che uscivano da Opunte e dall'altre parti della Locride di danneggiare l'Eubea. Tali sono i fatti avvenuti in quest'estate, dopo la ritirata de' Peloponnesi dall'Attica.

33. Nel sopravveniente inverno Evarco, l'acarnano, volendo rientrare in Astaco, persuade i Corinti a ricondurvelo, andandovi con quaranta navi e mille cinquecento soldati di grave armatura, tanto più che egli stesso aveva assoldato alcuni ausiliarii. Erano capitani dell'armata Eufamida figliolo d'Aristonimo, Timosseno di Timocrate ed Eumaco di Criside, che recatisi colà, lo ricondussero. Volevano ancora impadronirsi di alcuni castelli del resto dell'Acarnania contigua al mare; ma riuscita vana la prova, ritornarono a casa. Nel loro tragitto, approdarono a Cefallenia, e fatto scala sulle terre dei Cranii, furono da essi delusi; poiché, sotto colore di trattato, corsero improvvisamente loro addosso, uccisero parte di loro gente, cosicché gli altri a gran fatica si sottrassero, e ritornarono a casa.

34. In quel medesimo inverno gli Ateniesi, seguendo le patrie costumanze, fecero le pubbliche esequie ai primi morti in questa guerra: ed eccone le cerimonie. Tre giorni innanzi alzano un gran padiglione, ove espongono alla pubblica vista gli ossami degli spenti, e ciascuno fa al proprio parente quell'offerta che più gli aggrada. Giunto il dì del trasporto al sepolcro, portano su carri delle arche di cipresso (una per tribù) entrovi le ossa di ciascheduno, secondo la tribù cui apparteneva: una sola bara per onorar quei, dei quali, per non essere stati ritrovati, non si sia potuto riavere il cadavere, coperta di coltre è portata vuota. Chiunque voglia, cittadino o straniero, accompagna la funerea pompa, e le donne parenti intervengono alla sepoltura e vi fanno gran corrotto. Vengono poscia locati in un pubblico monumento situato nel più bel sobborgo della città, ed ivi sempre usano di seppellire i morti in guerra, da quei di Maratona in fuori, ai quali, per lo straordinario loro valore, diedero là, a Maratona stessa, la sepoltura. Or coperti che gli hanno di terra, un personaggio a ciò dalla città scelto, che per prudenza e dignità tra i primi si annoveri, pronunzia su di essi il conveniente elogio, e dopo ciò si ritirano. Queste sono le cerimonie onde danno sepoltura; e in tutto il tempo della guerra, quando ciò fare accadesse, così praticavano. Ad encomiar pertanto questi primi fu scelto Pericle figlio di Xantippo: giunta l'ora opportuna si avanzò egli dal monumento alla ringhiera situata in alto, acciò potesse essere inteso più in lontananza dalla moltitudine, e così favellò:

35. « I più tra coloro che da questo luogo han parlato, lodarono colui che aggiunse all'altre leggi e riti quel dell'elogio, cui pronunziare reputò decoroso al sepolcro dei morti in guerra: a me però sembrerebbe compiuta l'opera, se d'uomini valorosi nei fatti, coi fatti pur si mostrassero le onoranze (quali appunto sono gli apparecchi che per pubblico voto avete in questa occasione sott'occhio), e non si compromettesse il valer di molti in un solo, da dovergli credere meglio o peggio ch'ei dir ne possa. Ed invero difficile è tenere la via mezzana nel dire là dove appena riuscir tu possa a procacciarti opinione di veritiero: conciossiaché all'uditore benevolo e consapevole parrà forse essersi detto meno di ciò ch'ei s'aspetta e sa: chi poi è ignaro dei fatti, per gelosia crederà talora esagerato il tuo dire, se qualche cosa ascolti al di là delle proprie forze. Le lodi d'altrui si tollerano sino a che ciascuno si reputa da tanto di potere eseguire alcuna delle cose che ascolta encomiarsi, invidiosi per quel che ci supera, non vi prestiamo più fede. Nondimeno, dopo ché parve ai padri nostri bene in questa guisa stabilito, dico anch'io, seguendo le costumanze antiche, porre ogni mio sforzo per soddisfare, il più che per me si potrà, alla volontà ed alle aspettative di ciascuno di voi.

36. « Dagli avi dunque mi rifarò: giusto infatti e decoroso egli è, ch'ei s'abbiano in questo elogio l'onore di grata ricordanza, ei che continuamente questa regione abitando, l'hanno col proprio valore libera consegnate alla successione dei posteri. Che se degni sono essi di lode, non men lo sono i padri nostri, i quali, oltre all'avuto retaggio, si acquistarono l' impero presente, e non senza fatiche a noi che qui siamo lo lasciarono. Ma l'incremento più grande di esso a noi è dovuto, sì a noi soprattutto (quanti siamo nell'età più ferma) che questa Repubblica abbiamo reso nelle bisogne, sì della guerra che della pace, fiorentissima. Delle guerresche azioni degli avi, per cui ciascuna cosa acquistammo, o se nulla abbiamo noi fatto o i padri nostri, respingendo vigorosamente le greche guerre e le barbare che ci piombavano addosso, non farò menzione, per non esser prolisso dinanzi a voi che tutto ciò non ignorate: bensì dopo avervi prima dimostrato, in forza di quali istituti, di qual civile e morale governamento siam giunti al prosperevole presente stato di cose, passerò ad encomiare i morti; sì perché ciò, a mio avviso, sconvenevole non sia a rammentare, sì perché non poco importi l'udirlo a tutta la moltitudine dei cittadini e degli stranieri.

37. « Tal governo pertanto si è il nostro (chiamato appunto democrazia, perché amministrato non da pochi ma dal più) che nulla abbiamo da invidiare all'altrui legislazione; anzi, piuttosto che imitar gli altri, siamo degli altri il modello. Tutti giusta le leggi vi sono eguali nelle particolari controversie: quanto poi alle pubbliche dignità, ciascuno viene anteposto non pel distinto suo grado principalmente, ma si per la virtù, secondo che in alcuna cosa si mostri eccellente: né, sia pur povero, purché abile a giovare alla Repubblica, gli è d'impedimento alle cariche l'oscurità del suo stato. Noi liberalmente procediamo nelle pubbliche faccende; né, per il reciproco sospetto cui danno materia le quotidiane occupazioni, prendendo alcuno in odio se qualche cosa faccia per suo mero piacere, componiamo il nostro volto a quell'aria contegnosa, che, sebbene altrui non nuoce, pure è molesta. Tale essendo il viver nostro in nessun modo grave ad alcuno nelle domestiche brighe, non però, per quel rispettoso timore che tanto può su noi, contravveniamo all'ordine pubblico, ma a quei, che di mano in mano preseggono, obbediamo, come anche alle leggi, specialmente a quelle che stanno a difesa degli oppressi, ed a quante altre, le quali sebbene non iscritte, pure arrecano, trasgredendole, per comune sentimento vergogna.

38. « Abbiamo anche procacciato all'animo nostro diversi sollievi alle fatiche, sia coll'istituir giuochi e feste annuali, sia coll'eleganza delle private suppellettili, di cui il quotidiano diletto bandisce spaurita la melanconia. Qua per l'ampiezza della città nostra vengono le derrate della terra tutta, e ci avviene di godere delle cose che gli altri paesi producono, come se meno nostre non fossero di quelle che qui nascono. 39. « Siamo poi superiori ai nemici nelle cose di guerra per queste ragioni. Noi rendiamo la città nostra comune a tutti; né mai addiviene che col discacciarne i forestieri escludiamo chicchessia da alcun pubblico insegnamento o spettacolo, la vista del quale (ove occultato non fosse) potesse giovare ad alcun de' nemici; perché poniamo nostra fidanza, non nelle pompe dei preparamenti o nelle astuzie, ma sebbene nel coraggio degli animi nostri per le imprese. Gli Spartani col loro travaglioso esercitamento, subito dai primi anni affettano robustezza virile; noi, tutto ché più discretamente cresciuti, non per questo abbiamo meno ardimento in pericoli eguali: prova ne sia che non mai essi da sé soli, ma con tutto lo sforzo degli alleati, portano le anni sul nostro territorio, laddove noi, da noi soli assaltando quel degli altri, riusciamo spesse fatte e con facilità vincitori, sebbene in paese altrui, incontro a gente che per il proprio combatte. Né alcuno dei nemici s'è per anche incontrato con tutta l'oste nostra insieme raccolta, tra perché attendiamo in un medesimo tempo al mare, e perché molte spedizioni facemmo in terraferma: ma qualora si azzuffino con una piccola parte di nostre genti, se vincitori, van dicendo averci respinti tutti; se vinti, essere stati da tutto insieme l'esercito sconfitti. Pure, quantunque allevati più mollemente, non coll'esercizio di dure fatiche, quantunque non con generosità d'animo dalle leggi formata piuttosto che propria dell' indole nostra, noi ci facciamo ad affrontare i pericoli; risulta nondimeno per noi di non affannarci innanzi tempo per le future calamità; ma se vi ci troviamo, non meno arditi dimostrarci di loro che menano la vita sempre in mezzo agli stenti.

¶ II

40. « Né per questi soli rispetti è degna di ammirazione la nostra Repubblica, ma per altri ancora. Conciossiaché usiamo eleganza ma con frugalità, sappiamo farla da filosofi senza scemar la vigoria dell'animo nostro; ed all'occasione ricorriamo al tesoro di nostra attività, non alla iattanza di vane parole: confessar la propria povertà non è vergogna ad alcuno, ma più lo è il non adoprarsi ad uscirne. Sanno in questa nostra Repubblica le medesime persone darsi cura delle domestiche e delle civili faccende: altre, quantunque intese al lavoro, non però men bene conoscono ciò che riguarda la cosa pubblica. Noi siamo i soli, appo i quali, chi tiensi fuori da queste cure politiche non uomo inoperoso, ma a nulla abile è dichiarato: ed un medesimo cittadino sa ben pensare degli affari, e rettamente giudicare di ciò che altri ne pensi; perché reputiamo non le deliberazioni pregiudichino ai fatti, ma sebbene la mancanza della debita deliberazione, prima di passare ai fatti. Or vanto tutto nostro si è di avere il più deciso coraggio nelle cose che intraprendiamo, e di ben calcolarle; mentre negli altri l'ignoranza ingenera pazzo furore, e il calcolo timida irresoluzione. La onde generosissimi a buon dritto hanno a reputarsi quelli, i quali tutto che consapevoli degli orrori della guerra e delle dolcezze della pace, non però fuggono dal rischio. Quanto poi alla cortesia, noi la sentiamo all'opposto degli altri; mentre non i ricevuti benefizi ma i compartiti ci procacciano gli amici: ora, chi è il primo a beneficare altrui è amico più stabile portato a conservare nel beneficato quel favore di che per propria benevolenza si venne quasi a far debitore: ma chi è vero debitore di benefizio, è più ottuso nell'amicizia, sapendo che ricambierà altrui di buona opera più presto per sdebitarsi che per corteseggiare. Ond'è che noi soli gioviamo francamente a chicchessia, non più per calcolo d'interesse, che per quella fiducia che la nostra liberalità ci inspira.

41. « E, per recare in una le molte parole, dico la nostra Repubblica essere la norma di Grecia tutta, e potere ciascun cittadino, stante quella disciplina che vige tra noi, idoneo prestarsi ad ogni sorta di opere con buon garbo e destrezza meravigliosa. Che queste cose poi non siano, nella presente occasione, una millanteria invece che verità di fatto, lo palesa la potenza della città nostra, che con siffatte costumanze procurata ci siamo. Perciocché sola, fra quante or sono, a qualsivoglia prova ella venga, supera la fama che di lei risuona, sola non dà al nemico che l'assalga materia di sdegno, al pensare da chi venga superato, né di rammarico ai sudditi, quasi che dominati da gente indegna dell'impero: anzi, mettendo in vista la nostra potenza avvalorata da segnalati monumenti, e da indubitate testimonianze, formiamo la meraviglia della presente generazione e quella formeremo delle future. Né a noi fa di mestieri di un Omero che si aggiunga a lodarci, né di altri che coi suoi versi presentemente diletti, e che poi la verità dei fatti non corrisponda alla grandiosità del supposto; noi che col nostro ardire tutto il mare e la terra ci siam resi accessibili, ed abbiamo ovunque stabilito, quasi coabitatori sempiterni, i monumenti del nostro valore e dei disastri dei nemici. Or siccome costoro per una Repubblica sì potente, gelosi del dritto di non perderla, hanno incontrato generosamente la morte tra le armi; così vuolsi da quei che restano qualunque travaglio a pro di lei tollerare.

42. « Per lo che a lungo io vi ho parlato della Repubblica, volendo farvi certi ugual gara non essere a voi proposta ed a quei che nulla hanno di sì nobile; ed insieme volendo porvi con manifesti argomenti nel suo vero punto di vista l'encomio che vo tessendo a costoro, del quale vi ho già esposto i titoli più rilevanti. Conciossiaché la Repubblica, di quelle lodi ond'io l'ho celebrata, fu adorna pel valore di questi e dei loro simili; e pochi hanvi tra' Greci dei quali non possa farsi elogio che agguagli le azioni, siccome avviene di questi, del cui valore non solo ci dà la morte il più nobile indizio, ma è anche l'ultima prova che lo suggella. Ed invero per coloro che in qualche cosa hanno altrimenti mancato, giusto è che il coraggio mostrato in guerra a difesa della patria stia in luogo di ammenda; perocché, cancellando col valore i difetti, maggiore utilità hanno apportato in comune, che danno in privato. Né fu alcuno tra costoro che (se ricco fosse) anteponendo di seguitare a godere di sua opulenza, invilisse, o che, se povero, per la speranza di cacciar l'inopia ed arricchirsi, schifasse il pericolo. Anzi vaghi soprattutto di punire il nemico, giudicando ciò il più decoroso dei cimenti, lo affrontarono; e paghi del solo desiderio di quei beni, del nemico stesso si vendicarono, rimettendo nella speranza l'incertezza della vittoria, ma pieni del dignitoso pensiero di confidar nelle proprie braccia, quanto al pericolo che avean dinanzi agli occhi: e più bello stimando l'istesso morire in resistendo al nemico, che il salvarsi cedendogli, schifarono l'obbrobrio del pubblico rimprovero, sostennero coi loro corpi la prova; e nel breve momento, in cui la sorte decise, nel colmo della gloria, anziché del timore, da noi si dipartirono.

43. « Che se essi tali furono quali richiedeva la dignità della Repubblica, bisogna si che voi rimanenti bramiate più prosperi, ma sdegniate men fermi pensieri incontro ai nemici, non ponderando di tal coraggio l'utilità per le sole parole d'un oratore che possa a lungo dichiararla a voi, che non men bene la conoscete (coll'esporvi quanti beni derivino dal respingere il nemico), ma piuttosto osservando giornalmente nelle azioni la grandezza della Repubblica, e di lei innamorando. E quando amplissima ella vi paia, pensate che tale ampiezza le acquistarono uomini generosi, giusti estimatori del proprio dovere, animati nell'imprese da onorata vergogna: e se per avventura fallisse loro qualche prova, non però stimavano dover la Repubblica esser defraudata del loro valore, che anzi pagarono ad essa il più decoroso tributo. Offrendo infatti con fermezza comune il proprio corpo in guerra, si hanno acquistata particolarmente lode sempiterna e sepoltura orrevolissima, non là principalmente ove posano le loro ossa, ma gloria durevole ovunque si presenti l'occasione d'arringa o di fatti guerrieri. Conciossiaché a' prodi tutta terra è tomba, e non solamente nel proprio suolo il lor valore si mostra per lo scritto sul sepolcro, ma anche nelle più remote terre indelebile rimane la ricordanza di essi, scolpita non piuttosto nella pietra che nel petto di ciascheduno. Emuli or voi di questi, e stimando la felicità consistere nella libertà, e questa nella grandezza d'animo, non siate restii ad affrontare i pericoli della guerra, ponendo mente che gli sciagurati, ai quali non resta alcuna speranza di bene, non hanno più giusti motivi di esser prodighi della loro vita, di quello che coloro pei quali, ove continuino a vivere, sono da temere i cangiamenti della fortuna, e pei quali gli sbagli che commetter possano sono di grandissimo momento. Perciocché per chi ha un'anima nobile è più doloroso l'avvilimento accompagnato da codardia, che una morte intrepida, la quale appena si avverte, occorsagli in mezzo alla speranza del pubblico bene.

44. « Il perché io non mi farò a compiangere voi che siete padri di questi estinti, ma voglio piuttosto consolarvi: giacché si sa esser la vita dell'uomo sottoposta a mille fortunosi accidenti, e coloro esser felici che sortita abbiano decorosissima come questi la morte, o dolore onorevole come è a voi intervenuto, o in ultimo quei che tutta la carriera della vita misurarono in seno alla felicità. Malagevole cosa egli è, ben lo veggo, persuadervi di queste cose; perché di esse anche spesse volte vi faranno sovvenire le altrui felicità, onde voi pure, non ha guari, andavate fastosi; e perché dolore arreca non la mancanza di beni non provati, ma sì di quei ai quali eravamo avvezzi. Nondimeno debbono quelli che sono in età di aver figli confortarsi sulla speranza di altra prole, imperocché questi che verran dopo indurranno nelle famiglie dimenticanza dei trapassati, e doppio vantaggio ne ridonderà alla Repubblica; non tanto perché ella non rimarrà deserta, ma ancora perché coopereranno alla fermezza di lei. E di vero impossibil cosa egli è, che coloro i quali, del pari che gli altri, non han figli da esporre per il bene della patria, diano consigli giusti ed imparziali. Voi poi che piegate alla vecchiezza, e che per somma ventura foste felici il più della vita, pensate breve essere il corso che vi avanza, e consolatevi colla gloria di questi estinti. Sola infatti la passione per l'onore non invecchia; e nell'età cadente non diletta, come alcuni avvisano, il guadagno, ma sebbene l'esser tenuto in onoranza.

45. « A voi finalmente, quanti qui siete, figli o fratelli di questi valorosi, non piccola gara veggio esser proposta: conciossiaché ognuno lodi quel che più non è; e quand'anche gli superaste in prodezza, appena inferiori di poco, non che loro eguali giudicati sareste. Perché i viventi invidiano il competitore, ed all'opposto quel che più non imbarazza apprezzano con equo animo. Che se qualche cosa deggio dire anche della virtù di voi donne, quante vi troverete in stato di vedovanza, il tutto in breve esortazione ristringerò. Gloria somma sarà per voi non degenerare dall'indole di modestia propria del vostro sesso, e gloria pur somma ne avverrà a quella tra voi, della quale, sia in lode sia in biasimo, il men possibile si parli tra gli uomini.

46. « Io vi ho esposto colle parole, secondo la legge, ciò che più mi è sembrato a proposito: quanto al fatto poi, siccome questi son già stati onorati di decorosa sepoltura, così i loro figli, da questo momento sino alla pubertà, verranno a pubbliche spese dalla Repubblica alimentati, volendo ella proporre ad essi ed ai posteri, per animarli a siffatti combattimenti, una corona che sia principio di beni allo stato; perocché ove sono grandissime ricompense al valore, ivi pure fioriscono valentissimi cittadini. Rinnovate or dunque il vostro tributo di duolo per chi vi appartiene e ritiratevi» .

47. Tali furono le esequie in quest'inverno, passato il quale finiva il primo anno della guerra. Appena cominciata l'estate, i due terzi dell'esercito dei Peloponnesi e degli alleati invasero l'Attica (come avean fatto da primo) guidati da Archidamo figliolo di Zeusidamo, re dei Lacedemoni, e fermatovi il campo saccheggiavano il territorio. Pochi giorni dopo la loro invasione incominciò tra gli Ateniesi la peste, che si diceva avere anche di prima infuriato in molti altri luoghi, come in Lemno ed altrove. Ma non si aveva ricordanza che in verun luogo avesse si violenta pestilenza, e morìa sì grande di gente. Conciossiaché in principio non valeva in quella alcun senno umano o virtù di medicanti che ignoravano la qualità del malore, e che più facile degli altri morivano, in quanto che comunicavano più spesso cogl'infermi. Le supplicazioni nei templi, il ricorso agli oracoli e l'altre cose di simile fatta sino allora praticate non facevano alcun profitto; intanto che sopraffatti dalla violenza del malore, cessarono anche da queste.

48. È fama che la pestilenza incominciasse nell'Etiopia al di là dell'Egitto: e calando poi nell'Egitto stesso, nella Libia, ed in gran parte delle terre soggette al re, si avventò improvvisamente alla città d'Atene, ove prima di tutto toccò gli abitanti del Pireo, cosicché fu da essi detto avere i Peloponnesi gittato dei veleni nei pozzi, atteso che non eranvi ancora fontane; e di li discorrendo nella parte superiore della città, maggiore era il numero di quei che morivano. Dica pertanto ciascuno, medico o no che egli sia, giusta la sua opinione, donde s'abbia a credere che muovesse, e quali siano state le cause che valsero a partorire tanto rivolgimento; che io in quanto a me che ne fui malato e vidi pur gli altri, dirò quale si fosse, e dichiarerò quello per cui ciascuno potrà indubitatamente riconoscerla (essendone innanzi informato) se mai di nuovo cadesse.

49. Correva quell'anno, a confessione universale, immune sovra tutti da malattie; o se qualcuno era di prima da qualche morbo afflitto, tutti si risolvevano in questo. Gli altri poi senza alcuna precedente cagione, ma interamente sani, erano all'improvviso compresi da veementi caldure al capo, da rossezza e infiammazione d'occhi, e nell'interno la gola e la lingua diventavano tostamente sanguigne, e mandavano alito puzzolente fuori dell'usato. Dopo di che sopravveniva starnutazione e raucedine, ed in breve il male calava al petto con tosse gagliarda: e qualora si fosse fitto sulla bocca dello stomaco lo sovvertiva, e conseguitavano tutte quelle secrezioni di bile, che da' medici hanno il loro nome, con grandissimo travaglio. Moltissimi ancora erano attaccati da un singhiozzo vuoto che dava forti convulsioni, le quali, a cui subito, a cui molto più tardi cessavano. L'esterno del corpo non era a toccare molto caldo, né pallido; ma rossastro, livido e gremito di pustulette ed ulceri, mentre le parti interne erano in tal bruciore che i malati non potevano sopportare d'avere indosso né i vestiti né le biancherie più fini, ma solo di star nudi. Recavansi a gran diletto tuffarsi nell'acqua fredda; di che molti de' meno guardati, tormentati da sete incontentabile, si gettarono nei pozzi: ed erano ridotti a tale che profittava egualmente il molto e il poco bere, travagliati incessantemente da smania inquieta e da vegghia continua. Ciò nonostante finché la malattia era nel suo colmo, il corpo non languiva, ma contro ogni credere durava gl'incomodi, talché i più, o erano da interno calore consumati nel nono o settimo giorno, avendo ancora qualche residuo di forza, o se pur scampavano, scendendo il morbo nel ventre, si faceva grande esulcerazione con sopravvenimento di diarrea immoderata, intanto ché poi la maggior parte morivano di debolezza. Perocché il male, fisso prima nel capo, incominciando di sopra discorreva per tutto il corpo; e se vi era chi superasse codesti più fieri malanni; almeno le estreme parti indicavano d'essere state comprese dal morbo, il quale prorompeva sino nelle vergogne e nel sommo delle mani e dei piedi; e molti guarivano perdendo affatto queste parti ed anche gli occhi. In altri la convalescenza era immediatamente seguita da smemoraggine di ogni cosa egualmente, a segno che non riconoscevano né sé stessi, né gli amici.

50. Questa specie di morbo superiore ad ogni racconto che far se ne possa, si avventava a ciascuno con acerbità da non reggervi forza umana: e principalmente mostrossi esser bene altra cosa che una delle malattie comuni, da questo, che gli uccelli ed i quadrupedi che mangiano carne umana, bene che molti cadaveri restassero insepolti, o non vi si accostavano, o gustandoli morivano. Argomento ne fu la manifesta mancanza di tali uccelli che non si vedevano intorno a veruno di quei cadaveri né altrove; e soprattutto i cani i quali, perché assuefatti a conversare con gli uomini, rendevano più sensibile tal crudele conseguenza.

51. Del rimanente per tralasciar molte altre stravaganze della pestilenza (secondo che in diverso modo accadeva in ciascuno) questa era in generale la qualità del morbo: nessuna delle altre consuete malattie affliggeva allora la città; e se alcuna ve n'era, andava a finire in questa. Morivano poi alcuni perché non assistiti, altri benché perfettamente curati: non fuvvi, per così dire, medicamento alcuno che usato facesse profitto? ciò che avea giovato ad uno nuoceva ad un altro: né valeva complessione robusta o debole contro la furia del male, il quale uccideva anche i più accuratamente medicati. Ma il più terribile della pestilenza era lo sgomento tosto che uno si sentiva malato; poiché cadendo in disperazione, più di sé in veruno modo non curavano, né alcun riparo prendevano, e, per lo comunicare insieme in servendo agl'infermi, incorporando il contagio, come pecore morivano: lo che accresceva assaissimo la mortalità. Se per paura ricusavano visitarsi scambievolmente, morivano privi d'ogni assistenza, e molte case rimasero vuote per mancanza di serventi: all'incontro se si visitavano contraevano il morbo; ciò che principalmente interveniva a quei che ambivano d'esser tenuti caritatevoli, perché vergognando di risparmiarsi visitavano gli amici; avvegnaché i parenti stessi, vinti finalmente dalla violenza del male, non valevano a sopportare i lamentevoli gridi dei moribondi. Ciò non pertanto più degli altri compassionavano il moribondo e l'infermo quei che ne erano campati, tra perché avevano provato il male, e perché erano ormai pieni di coraggio, essendo che la malattia non si appigliava mortalmente una seconda volta; ed erano felicitati dagli altri, mentre la gioia inaspettata della guarigione nutriva in essi speranza e conforto per l'avvenire, quasi non avessero ad esser morti da verun'altra malattia.

52. Ma l'introduzione della gente di campagna in città, oltre al malore che soffrivano, oppresse anche più gli Ateniesi, e principalmente gli ultimi venuti. Conciossiaché per mancanza di case alloggiando questi in tuguri, ove per la stagione che correva restavano soffocati dal caldo, morivano in mezzo alla confusione, e spirando giacevano ammonticati gli uni su gli altri; e per bramosia d'acqua semivivi voltolavansi per le strade e presso tutte le fontane. Gli stessi sacri recinti ove avevano dispiegato le tende erano pieni dei cadaveri di quei che vi morivano. E poiché senza modo cominciò a montare la ferocità della pestilenza, posero in non cale le cose sacre e profane egualmente, non sapendo quello che di sé addiverrebbe; cosicché le sacre cerimonie usate dianzi nel seppellire erano tutte perturbate, dando ciascuno sepoltura in quel modo che poteva. Molti furono che per le già accadute continue morti dei loro, trovandosi privi del congiunti si volsero a cercar sepolture senza nessuno onesto riguardo; perciocché alcuni gettavano il morto sulle pire altrui, prevenendo quelli che le avevano accatastate, e vi appiccavano il fuoco; altri nel mentre si bruciava un cadavere ponevanvi quello avevano in su le spalle e se n'andavano.

53. Questo morbo fu pure nel rimanente quello che originò le più grandi nequizie nella Repubblica. Imperocché al veder le frequenti mutazioni si dei ricchi che repentinamente morivano, si degli altri che per l'avanti stremi essendo di tutto, entravano a possedere le cose di quelli, stimavano doversi affrettare a goderle per far quanto era loro a grado; e riguardando la durata della vita e della ricchezza egualmente d'un giorno solo, trascorrevano più arditamente a quelle cose, la cui passione studiavansi dianzi di celare. La fatica precedente il conseguimento d'un fine reputato onesto non era chi volesse imprenderla, stimando incerto se prima di giugnerlo non avesse ad esser vittima della peste, e solo ciò che apparisse piacevole e per ogni lato vantaggioso si aveva per onesto ed utile. Nessuno era raffrenato dal timor degli Dei o da legge d'uomini: non dal primo, perché vedendo tutti perire, giudicavano tutt'uno avere o no religione ; non dall'altra, perché nessuno si aspettava di viver tanto che potesse farsi processo de' suoi delitti e pagar la pena: anzi vedendone sovrastare una più grave già decretata dai fati, avvisavano prima di incontrarvisi doversi godere un poco la vita.

54. In mezzo a sì acerbo trambusto erano gli Ateniesi afflitti dalla morìa della gente in città, e al di fuori dal saccheggiamento delle campagne. Si ricordavano, come è naturale nella disgrazia, anche di questo verso che i più vecchi raccontavano anticamente cantato:
Verrà dorica guerra e loimo insieme.
Fuvvi certamente disputa nel popolo, non essere stata usata dai vecchi la voce loimo (peste) bensì limo (fame). Ma prevalse allora, com'era da aspettarsi, la voce loimo. Imperocché la gente la rammentava interpretandola conforme ai mali presenti: e se mai sarà che altra guerra dorica sopravvenga dopo questa, e vi si combini limo, lo canteranno verisimilmente con questo vocabolo. Vi era ancora chi sapeva e rammentava la risposta del nume domandato dai Lacedemoni, se dovessero far guerra, allorquando ei rispose, che facendola con tutte le forze avrebbero vittoria, e che egli stesso vi avrebbe concorso. Riflettendo dunque a quell'oracolo conghietturavano essere il fatto presente in corrispondenza di ciò; perché subito dopo l'invasione dei Peloponnesi era incominciata la pestilenza, la quale non penetrò nel Peloponneso, almeno in modo degno di menzione; ma fece strazio principalmente di Atene e quindi d'altri luoghi i più popolosi. Tali sono le cose che riguardano la pestilenza.

55. Ma i Peloponnesi devastato che ebbero la pianura si avanzarono nella terra chiamata Paralo (maremma) sino al monte Laurio, ove gli Ateniesi hanno le miniere dell'argento. Quivi diedero primieramente il guasto alla: parte che guarda il Peloponneso, e poi all'altra verso Eubea ed Andro. Ciò nonostante Pericle tuttora generale, come lo era nella precedente invasione, continovava nella medesima sentenza, che gli Ateniesi non uscissero in campagna.

56. E mentre il nemico era ancora nella pianura, prima di metter piede nella terra paralia, egli apparecchiava una flotta di cento navi per andar contro il Peloponneso; ed ordinato il tutto fece vela. Conduceva sulle navi quattromila Ateniesi di grave armatura, e trecento cavalieri su barche da trasportar cavalli, formate allora per la prima volta coi materiali delle navi vecchie. Presero parte alla spedizione anche i Chii ed i Lesbi con cinquanta navi. Quest'armata degli Ateniesi quando uscì del porto, lasciò i Peloponnesi tuttora nella maremma dell'Attica. Pervenuti ad Epidauro nel Peloponneso guastarono gran parte della campagna, e dato l'assalto alla città vennero in isperanza di prenderla, ma la cosa non riuscì, onde ritiratisi da Epidauro saccheggiarono la campagna trezeniese, l'aliese e l'ermionese, luoghi tutti sulle coste del Peloponneso. Di là salpando, arrivarono a Prasia cittadella marittima della Laconia, saccheggiarono parte della campagna, presero la stessa cittadella e la devastarono. Ciò fatto, ritornarono a casa, e trovarono che i Peloponnesi non erano più nell'Attica, ma s'erano ritirati.

57. Ora tutto quel tempo che i Peloponnesi si trattennero nel territorio ateniese, e mentre gli Ateniesi militavano sulle navi, la pestilenza, tanto nell'annata che in città, rifiniva gli Ateniesi; tal che fu voce avere i Peloponnesi, per paura del morbo, sollecitato la ritirata dall'Attica, poiché ebbero inteso dai disertori essere la peste in Atene, e vedevano dar sepoltura ai morti. Nondimeno in questa spedizione la dimora loro fu lunghissima, essendovisi trattenuti circa quaranta giorni, nei quali diedero il guasto a tutto il territorio.

58. Nella medesima estate Agnone figliolo di Nicia e Cleopompo di Clinia, colleghi di Pericle nel comando, presero l'armata di cui egli aveva usato, e portarono subitamente la guerra contro i Calcidesi della Tracia, e contro Potidea cinta tuttora d'assedio. Giunti a questa città approssimarono le macchine alle mura, e fecero ogni prova per espugnarla: ma né l'espugnazione della città, né le altre operazioni riuscivano loro in corrispondenza di tanto apparecchio; essendo che il morbo sopravvenuto costà afflisse per ogni modo gli Ateniesi, e distrusse l'esercito con tanto furore, che i soldati stessi che vi erano di prima mantenutisi sani fino allora, contrassero la malattia per le soldatesche venute con Agnone. Formione coi mille seicento non era più intorno ai Calcidesi, il perché Agnone tornò con la flotta ad Atene, avendo in circa quaranta giorni perduto per la peste mille cinquanta di quei quattromila. La gente che vi era innanzi restò ferma al suo posto continuando l'assedio di Potidea.

59. Dopo la seconda invasione dei Peloponnesi, vedendosi gli Ateniesi saccheggiata un'altra volta la campagna, e trovandosi oppressi dal morbo e dalla guerra ad un medesimo tempo, mutaronsi d'animo. Davano carico a Pericle di averli confortati alla guerra, e di trovarsi per cagione sua in quelle sciagure: e bramosi di accordare coi Lacedemoni vi mandarono legati, ma senza effetto veruno. Ridotti dunque per ogni lato in gran sospensione d'animo, s'affollavano tutti addosso a Pericle, il quale vedendo che adirati per il presente stato di cose facevano appunto tutto quello che aveva previsto, coll'autorità di generale che ancor riteneva gli adunò a parlamento. Voleva egli inanimirli, e divertendo dai loro animi la collera renderli più trattabili e meno timorosi: onde si fece innanzi e parlò in questi termini.

60. « Il vostro sdegno contro di me non mi giunge inaspettato, poiché non ne ignoro i motivi: ed ho convocato l'adunanza appunto per farvi avvertiti e rimproverarvi, se a buon diritto non siete o adirati contro di me, o sbigottiti pei disastri. Io per me credo, che una repubblica florida e vigorosa nell'universalità porti ai particolari vantaggi maggiori di quello che, se prosperosa nei privati interessi di ciascun cittadino, ella nel suo insieme vacilli. Imperocché quantunque un cittadino nel suo particolare si trovi bene, nondimeno se la patria si perde, egli è compreso nella rovina: ma se sia sfortunato in seno a prosperevole repubblica, suole viemeglio trovarvi salvezza. Posto dunque che la repubblica può esser sostegno alle disgrazie dei particolari, e che ognuno di questi non può esserlo a quelle di lei, come non debbono tutti concorrere a soccorrerla? Ah! non vogliate, come fate adesso, sbigottiti ciascuno dalle domestiche sciagure, porre in non cale la salute della Repubblica, incaricar me d'avervi animati alla guerra, e voi stessi insieme, che con meco conveniste. Eppure vi adirate con un uomo, quale io mi sono, che crede di non esser da meno di chicchessia per discernere il bisogno della Repubblica, e per saperlo dichiarare: amante della patria e superiore al denaro. Requisiti importantissimi; perocché chi conosce quel bisogno, ma non lo sa ben dichiarare, è come se non gli fosse mai caduto in pensiero: se fornito di queste due doti manca d'amore per la patria, medesimamente non parlerà punto da amico: abbia finalmente anche questa amorevolezza, s'ei si lascia vincere dal denaro, venderà per questo solo tutta insieme la Repubblica. Però se vi siete lasciati persuadere da me a far la guerra, credendomi più degli altri fornito mediocremente di queste qualità, ragion non consente che io sia accagionato dei vostri disastri.

61. « Ed invero per un popolo d'altronde florido, al cui arbitrio fosse rilasciata la scelta, sarebbe stata gran follia prendere il partito di guerra: ma ove fosse inevitabile, o cedendo divenir subito schiavi altrui, o tentando la fortuna della guerra guadagnar la vittoria, chi schiva il pericolo è più vituperevole di chi lo sostenne. Ed io per me sono sempre lo stesso, né mi rimuovo: voi siete i volubili, ai quali poiché non ancor danneggiati venne fatto di seguire il mio consiglio, ora condotti a mal termine ve ne pentite a segno, che per la imbecillità dell'animo vostro non sembra più giusto il mio parlare: e ciò appunto perché quel che affligge si fa già sentire a ciascuno, laddove è ancor lontana da tutti la manifestazione dell'utilità del mio consiglio. Nel rovesciamento grande avvenuto ad un tratto, l'animo vostro non vale a durare nelle prese risoluzioni: e bene io so che un accidente repentino, inaspettato ed affatto straordinario avvilisce anche un animo generoso, come oltre a molti altri motivi è accaduto a voi, soprattutto pel morbo che ci affligge. Nondimeno però abitatori di città grande, ed educati coi costumi che le convengono, dovete esser pronti a sostenere le più grandi calamità, e a non oscurare il decoro di quella: poiché il pubblico si fa dritto di rimproverare chi per ignavia si dilunga dalla reputazione che gode, e di aborrire chi temerario ambisce quella che non è fatta per lui. Laonde mettendo a parte il dolore dei privati interessi; intendete alla pubblica salvezza.

62. « Rispetto poi al dubbio che le fatiche della guerra non abbiano ad esser grandi senza però facilitarvi più la vittoria, devono certamente bastarvi quelle ragioni con cui spesse fiate vi ho dimostrato non esser giusto il dubbio vostro. Voglio ora chiarirvi di quest'altro vantaggio, il quale tutto che si trovi nella vastità del vostro impero, non è stato mai avvertito da voi, né da me nelle precedenti arringhe; né ora io lo produrrei, perché avente faccia di millanteria, se non vi vedessi sbigottiti fuori di ogni ragione. Voi credete di comandare solo ai confederati, ed io vi dichiaro che due essendo le parti destinate all'uso umano, cioè terra e mare, d'una siete interamente padroni, non solo in quella misura che or ne godete, ma più oltre eziandio, qualora vogliate: quanto all'altra, non vi è alcuno che, con le forze marittime onde or siete forniti, impedir vi possa di correre il mare, foss'egli il re stesso, od altra nazione che ora si conosca: cosicché questa potenza non istà punto in comparazione del godimento delle ville e delle campagne, la cui perdita voi stimate un gran ché. Ed invece di adirarvi, ragion vuole che non vi curiate di quelle, risguardandole, al paragone di questa potenza, non altrimenti che un'acconciatura graziosa della chioma, od altra frivolezza che per ghiribizzo di lusso si usi dai ricchi; e che intendiate bene che ove ci manteniamo la libertà, sostenendola vigorosamente, dessa agevolmente ci ricupererà coteste cose; laddove col soggettarsi ad altri sogliono perdersi anche i beni tutti, che con quella potenza si erano acquistati. Sono questi due oggetti nei quali noi dobbiamo mostrarci da meno dei padri nostri, che colle loro fatiche e non con titolo d'eredità possederono quest'impero, e che di più lo seppero conservare e lasciare a noi: ora, è più vergogna lasciarsi torre quel che uno ha, che andar fallito nel tentar degli acquisti. Corriamo dunque ad affrontare il nemico, non solo con animo altiero, ma eziandio con generoso disprezzo. Conciossiaché il vantamento può allignare anche nell'animo di un codardo per la felicità della sua imperizia, ma il generoso disprezzo è proprio solo di chi pel savio suo accorgimento confida di superare il nemico; pregio che è tutto nostro. Cotesto savio accorgimento col generoso disprezzo assicura viemaggiormente l'ardire anche in fortuna eguale: perché si fonda non su la speranza, il cui potere è incerto, ma sul consiglio; il quale, derivando da forze che si posseggono, più sicuramente antivede.

63. « A voi dunque è richiesto che senza fuggir le fatiche, o cooperiate all'onoranza onde pel suo impero è fregiata la Repubblica (lo che è pur decoro di ognuno di voi), ovvero che nemmeno pretendiate a siffatta onoranza. Né dovete credere d'avere a combattere soltanto per non cambiare la libertà in servaggio; ma di più per non perder l'impero, e per schifare il pericolo degli odii contratti quando lo tenevate. Né ora potete altrimenti receder da quello; sebbene vi sia chi preso da questo timore nel caso presente, fa consistere la virtù di buon cittadino in un inerte riposo. L'impero che tenete è oramai come un'assoluta monarchia; e per quanto paia ingiusto l'averlo preso, è pericoloso il dimetterlo. Or gente di tal fatta, se riuscisse ad insinuare negli altri i propri sentimenti, e se avesse sopra di sé l'intero governo della Repubblica, non ad altro varrebbe che a perderla prontamente: poiché tranquillità non dura se non congiunta con attività; né conviensi a città dominante, ma a suddita , per vivere in sicura schiavitù.

64. « Per lo che non vi lasciate sedurre da tal gente, né vogliate adirarvi meco, col qual conveniste doversi far guerra, poniamo che i nemici colle invasioni abbiano fatto quello che era da presumere, non volendo voi ricever legge da loro. La peste, sciagura tra tutte, la sola superiore alla nostra espettazione, e però da noi non prevista, ha concitato più che tutt'altro, ben mi accorgo, gli animi vostri contro di me: ma a torto, seppure non vogliate anche attribuirmi ogni buona ventura che inopinatamente vi sopravvenga. Ora quel che viene dai numi vuolsi sopportare di necessità, quel che viene dai nemici con coraggio: e poscia ché queste erano di prima le costumanze della nostra Repubblica, così non dovete ora cessarle. Non vi è ignoto aver ella in tutto il mondo grandissima rinomanza, perché non arrendevole alle sciagure; avere in guerra speso moltissimi cittadini e travagli, essersi procacciata sino al dì d'oggi potenza, la cui memoria (benché adesso, come tutto naturalmente infievolisce, talvolta ci rilassiamo) rimarrà eterna tra' posteri: aver noi, Greci come siamo, dominato gran parte dei Greci, e in guerre sanguinosissime fatto fronte tanto a tutti i nostri nemici insieme, quanto a ciascuno di loro alla spartita; ed abitare città doviziosissima e considerevolissima. Biasimi pur l'inerte a sua posta glorie siffatte; ma chi aspira a qualche lodevole impresa dovrà emularle; e chi non valga ad aggiugnerle, ingelosirne. E quantunque l'essere odiato e grave nel tempo del comando avvenga a tutti quelli ambiscono di comandare agli altri; nondimeno chi si piglia codesta invidia per cose somme, la pensa bene; perché l'odio non regge lungamente; e lo splendore presente e la gloria avvenire rimane eterna. Voi dunque imparate a conoscere quel che vi sarà decoroso per 1'avvenire, e non vergognoso adesso; e fin d'ora brigatevi animosamente a conseguir l' uno e l'altro. Laonde non mandate araldo ai Lacedemoni, né vi mostrate oppressi dai presenti disastri; perciocché coloro che nelle sciagure ai dolgono il men possibile nell'animo, e a tutta possa vi resistono col fatto, questi, sia di città, sia di particolari, sono i più compiutamente valorosi» .

65. Con tal ragionamento cercava Pericle di rimuovere da sé la collera degli Ateniesi, e divertirne la mente dalle presenti calamità: essi quanto alle cose importanti al pubblico concorrevano nella sentenza di lui; non più spedivano legati ai Lacedemoni, e con più ardore inchinavano alla guerra, benché afflitti in privato pei mali che soffrivano. Querelavansi i poveri in vedendosi spogliati anche di quel poco avevano al cominciamento della guerra; i ricchi avendo perdute le belle possessioni di campagna ed i preziosi mobili, e soprattutto perché avevano guerra in cambio di pace. Nondimeno lo sdegno universale contro Pericle non si calmò, sinché non lo ebbero condannato ad una multa pecuniaria: ma poco dopo, al solito del popolo, lo dessero nuovamente generale, ed a lui commisero gli affari della Repubblica. Erano già divenuti più insensibili pei privati disastri, e d'altronde avevano di lui gran concetto pei bisogni dello stato: poiché mentre in pace ebbe il governo della Repubblica, la reggeva con moderanza, la conservava sicura, e sotto lui ella pervenne all'auge della potenza: e quando poi insorse la guerra, fu palese anche in questa come egli ne avesse preconosciute le forze. Sopravvisse trenta mesi, e dopo la sua morte fu anche meglio riconosciuto il suo antivedimento in fatto di guerra. Ed invero egli prediceva vittoria, solo che standosi quieti attendessero alla marina, senza mettere a repentaglio la città stessa col cercare d'ampliarne il dominio durante la guerra; laddove essi fecer tutto il contrario non solamente in questo, ma anche nelle cose che parevano impertinenti alla guerra; perché guidati ognuno da privata ambizione e dal proprio guadagno, regolarono malamente per sé e per gli alleati le faccende politiche. Se alcuna cosa aveva buon successo, l'onore ed il vantaggio era tutto pei privati; se andava in sinistro, ne pativa la Repubblica rispetto alla guerra che sosteneva. Ciò procedeva da questo, che, Pericle potente per dignità e per senno e manifestamente incorruttibile d'animo, conteneva con liberali modi la moltitudine, guidandola più presto che esser guidato da lei; perciocché non avendo acquistato autorità con pratiche indecenti, non era mai che parlasse per andarle a compiacenza; anzi godeva egli tal reputazione da contraddirla animosamente. Di che se vedesse i cittadini imbaldanzire intempestivamente per checché fosse, sapeva colla parola attuarne l'orgoglio e ridurli a temenza, se per contrario inviliti senza ragione, rilevarli al coraggio: cosicché il governo era in apparenza democratico, ma in sostanza reggimento di un personaggio primario. Ma i posteriori a lui, essendo più alla pari tra loro, ed aspirando ciascuno al primato, si volsero a secondare il popolo, e a rallentare il governo dello stato. Questi disordini (com'era da aspettarsi in città grande e dominante) oltre molti altri errori, partorirono anche quello della spedizione navale in Sicilia, il quale non vuolsi tanto attribuire al difetto di cognizione delle forze dei popoli contro cui si andava, quanto a colpa dei magistrati che tale spedizione ordinarono, i quali non che brigarsi di conoscere ciò che potesse esser utile alla gente che vi andava, per le loro gare di primeggiare nel popolo, non solo affievolirono le operazioni di quell'armata, ma ancora causarono che lo stato della Repubblica, diviso in varie fazioni, andasse per la prima volta in scompiglio. Pure nonostante la rotta avuta in Sicilia (ove oltre agli altri apparecchi di guerra, perderemo la maggior parte della flotta), nonostante le parti che già regnavano in città, gli Ateniesi resisterono tre anni ai Lacedemoni loro primi nemici, a quei di Sicilia che si unirono con essi, di più agli alleati che si erano per la maggior parte ribellati, e finalmente a Ciro figliolo del re di Persia, venuto in rinforzo dei Peloponnesi, ai quali somministrava il denaro per la flotta. Né si diedero per vinti sinché inviluppati tra loro nelle private contese, non ebbero avuto l'ultimo tracollo. Tanto allora ricrebbe a favore di Pericle l'opinione d'aver egli preconosciuto i modi per cui la città d'Atene, senza difficoltà alcuna, avrebbe in questa guerra riportato vittoria su gli stessi Peloponnesi.

66. In questa medesima estate i Lacedemoni in numero di mille soldati di grave armatura, sotto la condotta di Cnemo spartano, andarono con centoventi navi, unitamente agli alleati, contro l'isola di Zacinto, la quale giace dirimpetto ad Elide, i cui abitanti sono coloni degli Achei del Peloponneso, ma alleati degli Ateniesi. Vi presero terra, e ne saccheggiarono gran parte; ma come gli Zacinti non si arrendevano, ritornarono a casa.

67. Sullo scorcio della medesima estate Aristeo corintio, ed Aneristo e Nicolao e Pratodemo ambasciatori degli Spartani, e Timagora di Tegea, e da semplice privato Poli argivo, nella loro gita in Asia per presentarsi al re (affine di persuaderlo in qualche modo a somministrar denaro, e unire con loro le sue armi) giungono in Tracia da Sitalce figliolo di Tereo. Era loro intendimento di indurlo, se fosse possibile, a ritirarsi dall'alleanza degli Ateniesi, ed andare con le sue genti a Potidea assediata dall'esercito degli Ateniesi stessi; e così farlo desistere dal portare ad essi soccorso. Volevano anche passare per le sue terre all'altra parte dell'Ellesponto da Farnace figlio di Farnabazzo (per dove erano indirizzati) il quale gli doveva accompagnare dal re. Ma Learco figliolo di Callimaco, ed Ameniade di Filemone, ambasciatori degli Ateniesi, che casualmente erano presso Sitalce, persuadono il figlio di lui Sadoco, ascritto già alla cittadinanza d'Atene, a metterli nelle loro mani, ciò non potessero, tragittando al re, recar danno ad Atene medesima che era in parte anche sua città. Egli vi consentì; e mentre si avviavano per la Tracia verso la nave su cui dovevano tragittare l'Ellesponto, prima che vi montassero gli fa arrestare da gente spedita insieme con Learco ed Ameniade, la quale aveva ordine di consegnarli: ed avuti che li ebbero li condussero in Atene. Al loro arrivo, gli Ateniesi, per paura che Aristeo, stato anche prima di questi fatti manifestamente l'autore delle cose accadute a Potidea ed in Tracia, non scappasse e tornasse a far loro danni più grandi, gli ammazzarono tutti in quello stesso giorno senza processo, quantunque e' domandassero di essere uditi, e gli gettarono nei borri; credendo aver diritto di vendicarsi, così per render la pariglia ai Lacedemoni, che avevano ucciso e gettato nei borri i mercatanti degli Ateniesi e de' loro alleati, i quali avevano presi sulle coste del Peloponneso. Ed invero gli Spartani sul principio della guerra trucidavano come nemici, quanti per mare arrestavano collegati con gli Ateniesi, ed anche neutrali.

68. Circa il medesimo tempo, sul cader dell'estate, gli Ambracioti proprio, e con essi molti barbari cui avevano sommossi, marciarono contro Argo amfilochio e contro il restante dell'Amfilochia. La loro inimicizia contro gli Argivi ebbe origine di qui. Dopo i fatti troiani Amfiloco figliolo di Amfiarao tornato a casa, non piacendogli lo stato delle cose d'Argo, aveva fondato Argo amfilochio ed il rimanente dell'Amfilochia nel seno ambracico, chiamandola Argo, col medesimo nome della sua patria. Fu questa la città principale dell'Amfilochia, ed era abitata dalle famiglie più potenti. Ma questi abitanti molte generazioni dopo stretti da calamità invitarono a far corpo di cittadinanza con loro gli Ambracioti che erano a confine dell'Amfilochia; ed allora per la prima volta furono dagli Ambracioti, che si erano riuniti di abitazione con loro, avvezzati al greco linguaggio che ora usano; mentre il resto degli Amfilochi sono barbari. Questi Ambracioti dunque in progresso di tempo cacciano gli Argivi, e ritengono per sé la città: dopo questa espulsione gli Amfilochi si danno agli Acarnani, ed entrambi chiamarono in soccorso gli Ateniesi, i quali spedirono loro Formione ammiraglio con trenta navi. All'arrivo di Formione, essendo stata presa d'assalto Argo e gli Ambracioti messi in servitù, vi passarono ad abitare in comune gli Amfilochi e gli Acarnani ; e fu allora per la prima volta stretta lega tra gli Ateniesi e gli Acarnani. Gli Ambracioti a cagione della schiavitù di quella lor gente avevano da prima preso in odio gli Argivi, e finalmente colgono l'opportunità di guerra per far questa spedizione essi stessi insieme coi Caoni e pochi altri barbari di quelle circostanze. Andati dunque contro Argo si impadronirono della campagna: ma poiché, dato l'assalto alla città, non venne lor fatto di espugnarla, ritornarono a casa, e popolo per popolo si separarono. Tali sono i fatti accaduti in quest'estate.

69. All'entrare dell'inverno gli Ateniesi spedirono venti navi intorno al Peloponneso con Formione ammiraglio, il quale, facendo massa in Naupatto, stava a riguardo che nessuna nave entrasse od uscisse da Corinto e dal seno criseo. Spedirono medesimamente altre sei navi nella Caria e nella Licia sotto la condotta di Melesandro, per raccoglier denaro da quei luoghi, e non permettere che i pirati dei Peloponnesi uscendo da quelle parti infestassero le barche da carico, che venivano da Faselide e da Fenice, e dalla terraferma di quel dintorni. Melesandro avanzatosi nella Licia colle genti ateniesi ed alleate che erano sulle navi, vinto in battaglia, e perduta una parte dell'esercito, vi rimase ucciso.

70. Nello stesso inverno i Potideesi non potendo durare nell'assedio, da che le invasioni dei Peloponnesi nell'Attica non valevano punto meglio a distrarre da loro gli Ateniesi, ed era fallito il frumento, e sopravvenuti molti e diversi danni circa le altre grasce, cosicché alcuni si mangiavano tra loro, allora alla perfine trattano della dedizione con Senofonte figliolo di Euripide, con Estiodoro di Aristoclide e Fanomaco di Callimaco generali degli Ateniesi, destinati ad assediarli, i quali vi si accomodarono, tra perché vedevano gl'incomodi di lor gente in quel luogo esposto ai rigori dell'inverno, e perché consideravano che l'assedio costava già alla Repubblica duemila talenti. Capitolarono dunque a condizione d'uscire essi, i figlioli, le mogli e la guarnigione ausiliaria con un sol vestito, ma le donne con due, portando pur seco una determinata somma di denaro pei bisogni del viaggio: uscirono infatti interposta la fede pubblica, e si rifugiarono nella Calcidia, e dove ognuno poté. Ma in Atene, ove si credeva che avrebbero potuto prender Potidea a discrezione, incolpavano i comandanti della capitolazione di quella città fatta senza loro saputa, e vi spedirono a ripopolarla colonia proprio di Ateniesi. Tali furono gli avvenimenti di quest'inverno, e finiva il secondo anno di questa guerra che ha descritta Tucidide.

71. Venuta l'estate i Peloponnesi con gli alleati, piuttosto ché assaltar l'Attica, marciarono contro Potidea, guidati da Archidamo figliolo di Zeusidamo, re dei Lacedemoni, il quale, fermatovi il campo, si disponeva a dare il guasto alla campagna. Ma i Plateesi mandarongli tostamente ambasciatori che parlarono così: « Voi, Archidamo e Lacedemoni, portando le armi sul territorio dei Plateesi non operate giustamente, né come richiede il decoro vostro e quello dei padri dai quali discendete. Imperocché Pausania lacedemone figlio di Cleombroto, liberata la Grecia dal giogo dei Medi insieme con quei Greci che vollero con esso lui affrontare il pericolo della battaglia accaduta qui tra noi, dopo aver sacrificato nel foro di Platea vittime a Giove vindice della libertà, convocati tutti gli alleati, ritornò i Plateesi al possedimento della propria campagna e città per governarsi colle loro leggi, assicurandoli che nessuno mai senza giusta cagione porterebbe loro la guerra, né gli ridurrebbe in servitù: altrimenti gli alleati presenti starebbero, quanto potessero, a loro difesa. Tal ricompensa ottenemmo dai padri vostri pel valore e per l'intrepidezza da noi mostrata in quei pericoli. Ma voi adoprate tutto l'opposto; perché d'accordo coi Tebani nostri capitali nemici venite per metterci in servitù. Or bene, a nome dei vostri patrii Dei, e di quelli del nostro suolo, testimoni allora dei giuramenti, vi intimiamo di non danneggiare le terre dei Plateesi e non violare la fede: ma anzi permetter loro di vivere nella propria indipendenza come a buon diritto concesse ad essi Pausania» .

72. Dopo sì grave discorso dei Plateesi, Archidamo di rimando rispose: « Giuste sono le vostre parole, o Plateesi, se pure ad esse rispondano i fatti. Godete pure, come vi concesse Pausania, la vostra indipendenza; ma concorrete ora a proteggere la libertà di tutti gli altri, i quali ebbero comuni con voi i pericoli ed i giuramenti, ed i quali ora gemono sotto gli Ateniesi. La libertà di costoro e degli altri è l'oggetto dei nostri apparecchi e della guerra che abbiamo intrapresa; nella quale principalmente concorrendo voi terrete il fermo nei giuramenti: se ciò non vi piaccia, almeno, siccome già innanzi vi proponemmo, state tranquilli e neutrali contenti di godere il vostro, ed accogliete come amiche le due parti, senza però mescolarvi nella guerra né per l'una né per l'altra: di questo noi ci riteniamo appagati» . Cosi parlò Archidamo. Gli ambasciatori dei Plateesi, sentito questo discorso, rientrarono in città, comunicarono al popolo le proposizioni di lui, e recarono per risposta « non potere eseguire le sue richieste senza il consenso degli Ateniesi presso i quali erano i figlioli e le mogli loro; temere per tutta intera la città, poiché, dopo la ritirata dei Peloponnesi, o verrebbero gli Ateniesi e impedirebbero loro di mantener la parola; o i Tebani, col pretesto di esser compresi negli articoli giurati per cui doveva darsi ricetto alle due parti, tenterebbero di occupar nuovamente la città stessa» . Ma Archidamo per incoraggiarli rispose a queste difficoltà: « Ebbene; consegnate a noi Lacedemoni la città e le case, dichiarate i confini del territorio, annoverate i vostri alberi e tutto ciò che può annoverarsi. Voi poi andatevene ove meglio credete sin che duri la guerra, passata la quale vi restituiremo tutto. Frattanto noi riterremo in deposito e coltiveremo il terreno, pagandovi un censo che bastar possa al vostro mantenimento» .

73. Sentito ciò quei di Platea rientrarono in città, e fatta deliberazione col popolo risposero ad Archidamo: volevano prima comunicare agli Ateniesi tali richieste, cui non tarderebbero ad eseguire dopo il loro consenso; e lo pregavano a far tregua in questo mezzo, e a non dare il guasto alla campagna. Pattuì egli tregua per tanti giorni quanti ce ne volevano per far ritorno da Atene, e non guastava le terre. Arrivati gli ambasciatori di Platea presso gli Ateniesi, tennero consiglio con loro e ritornarono con questa risposta alla città: « Cittadini di Platea, gli Ateniesi, da che siamo loro alleati, protestano di non aver mai in veruno caso permesso che alcuno ci ingiuriasse, né ora il permetteranno, ma ci aiuteranno a tutta possa: e pei giuramenti dei padri nostri ci ordinano di non fare rinnovazione di sorta veruna riguardo alla confederazione» .

74. Riferite queste cose per gli ambasciatori, i Plateesi risolvettero di non lasciare gli Ateniesi; tollerare, se bisognasse, di vedersi guastata anche la campagna; soffrire quanto potesse accadere; non lasciare più uscire veruno della città, e di sulle mura rispondere: esser per loro impossibile di eseguire le richieste dei Lacedemoni. Il re Archidamo, udita la risposta, cominciò tostamente a prendere in testimonio gli Dei e gli Eroi tutelari del luogo, così esclamando: « Voi, o Dei ed Eroi tutti, che proteggete il suolo di Platea, siate pienamente testimoni, come essendo essi stati i primi a mancare al giuramento della lega, noi non siamo in principio venuti ingiustamente contro questa terra, in cui i padri nostri, offrendo voti a voi, vinsero i Medi, e la quale rendeste propizia ai Greci per il combattimento: né ora è ingiusto il nostro procedere se veniamo ai fatti; perché, richiesti costoro più volte da noi di oneste condizioni, non otteniamo nulla. Concedete dunque che dell'ingiustizia sia punito chi fu il primo a commetterla, e che ne prendano vendetta coloro che a buon dritto ricorrono all'armi».

¶ III

75. Fatte queste preghiere agl'iddii disponeva l'esercito in stato di guerra: e primieramente con gli alberi che fece tagliare cinse di palizzata la città, perché nessuno uscisse: quindi sotto le mura della medesima alzavano un bastione, confidando di averla presto a prendere, per esser tanta gente impiegata in quel lavoro. E per ogni buon riguardo, affinché la terra del bastione ammollando non si slargasse di troppo, col legname tagliato dal Citerone alzavano su' due fianchi palancati in cambio di muraglie, tessuti a guisa di graticcio, portandovi legname, sassi, terra e tutto ciò che gettato dentro potesse render compiuta l'opera. Travagliavano al bastione incessantemente settanta giorni ed altrettante notti, spartendosi il lavoro a riprese, talché mentre gli uni portavano i materiali, gli altri prendessero sonno e cibo. Quei Lacedemoni che avevano il comando della gente forestiera di ciascuna città presiedevano tutti insieme al lavoro, e ne sollecitavano acremente l'esecuzione. Di che i Plateesi, vedendo crescere il bastione, congegnarono del legname a guisa di muraglia, e lo posero sovra le loro mura a rimpetto del bastione che si costruiva, e nello spazio tra legno e legno muravano dei mattoni tratti dalle vicine case che demolivano. Erano i legnami concatenati coi mattoni, perché non rimanesse debole il crescente edificio, che era coperto da cuoia e da pelli, a fine che i lavoranti ed i legni non fossero offesi dagli strali infuocati, ma anzi rimanessero al sicuro. L'altezza del muro aumentava grandemente, ed il bastione che sorgeva a rincontro non cresceva più lento: il perché i Plateesi trovarono l'astuzia di traforare le mura nei siti ove il bastione era a contatto per trasportarne la terra dentro la città.

76. Se ne avvidero i Peloponnesi e rinvoltavano della mota in graticci di canna per buttarla nelle crepature del bastione, la quale, non scorrendo come la terra secca, non si potrebbe sottrarre. I Plateesi impediti per questa via cessarono da ciò, e si volsero a fare dalla parte di città un cunicolo, che, congetturata la distanza, arrivasse fin sotto il bastione, e così da capo sottraevano furtivamente la mota. La cosa restò per un pezzo nascosta a quei di fuori; talché, quanto più buttavano mota tanto meno il bastione cresceva, perché di sotto era tratto al dichino, ed avvallava continuamente nel vuoto che si faceva. Contuttociò i Plateesi temendo, pochi come erano, di non poter pure resistere con questo stratagemma incontro alla moltitudine dei nemici, immaginarono quest'altra cosa. Cessarono di travagliare al gran muro di faccia al bastione, e su i due estremi di quello, cominciando dal punto ove rimanevano più basse le mura, attaccarono un muro lunato che guardava verso l'interno della città, acciocché, se fosse espugnato il muro grande, questo facesse fronte, ed i nemici fossero costretti di er­gere anche contro questo un nuovo bastione; cosicché il progredire in dentro costasse loro doppia fatica, e trovassersi più vigorosamente infestati in giro. I Peloponnesi intanto che alzavano il bastione accostavano alla città le macchine; una delle quali spinta contro quel gran fabbricato di faccia al bastione, ne crollò gran parte, di che impaurirono i Plateesi: altre poi urtando contro varii luoghi delle mura, i Plateesi vi gettano sopra lacci scorsoi per avvilupparle, e romperne il colpo. Avevano ancora attaccato per le due estremità grosse travi con lunghe catene di ferro; e con due antenne sulle mura, che sporgendo in fuori servivano di leva, le tiravano su trasversalmente; e dovunque fosse per urtar la macchina nemica, allentando essi e lasciando andare di mano le catene, scendeva impetuosamente la trave, e scapezzava il rostro della macchina.

77. D'allora in poi vedendo i Peloponnesi essere inutili le macchine, ed alzarsi un contro muro a rincontro del bastione, ebbero per d'impossibile riuscimento l'espugnazione della città, atteso le difficoltà presenti, e si allestivano a cingerla di muro, giacché il circuito non era grande. Vollero però prima tentare, se levandosi il vento, potessero incendiarla, poiché immaginavano ogni maniera di prenderla senza la spesa di un assedio. Portavano dunque delle fastella di legne, e di sul bastione incominciarono dal gettarle nel vano di mezzo tra le mura e il bastione stesso, vano che coll'opera di tante mani fu presto ripieno. Continuarono poi a gettar legna dentro la città, fino alla distanza che potevano arrivare dall'alto; poscia con fuoco, zolfo, pece che vi buttarono sopra, arsero le legne; e tale fu l'incendio che nessuno mai sino allora ne aveva veduto uno simile suscitato a bella posta: perocché è noto che su i monti gli alberi delle selve, arruolati fra loro per i venti, hanno da per sé suscitato fuoco e fiamma. Grande fu quest'incendio, e pochissimo mancò che i Plateesi, campati dagli altri pericoli, non ne restassero morti, avvegnaché dentro la città non era possibile avvicinarsi per lungo tratto, e se si fosse aggiunto vento favorevole, come confidavano i nemici, non avrebbero potuto scamparla. Ora poi si racconta che cadde copiosa pioggia dal cielo, la quale spense l'incendio, e così cessò il pericolo.

78. I Peloponnesi, fallita anche questa prova, lasciata a Platea porzione dell'esercito, licenziarono il resto, ed assegnato particolarmente il suo luogo ai soldati di ciascuna città, cingevano Potidea di muraglia, dalla parte interna ed esterna della quale rimaneva lo scavo fatto per trarne i mattoni. Verso il sorger d'Arturo compiuto interamente il lavoro, lasciaronvi presidio per la metà del muro (guardandosi l'altra metà per i Beozi) e si ritirarono coll'esercito che si dissolvé, ritornando ciascuno alla propria città. I Plateesi poi che avevano di prima mandato ad Atene i fanciulli e le donne, i più vecchi e la turba inutile, sostenevano l'assedio rimasti soltanto quattrocento, con ottanta Ateniesi e cento dieci donne panicocole. Così pochi erano in tutti quando a ridussero in stato d'assedio, né alcun altro servo o libero era dentro le mura. Tale era lo stato dell'assedio di Potidea.

79. Questa estate medesima, essendo già maturo il grano, mentre i Lacedemoni erano ad oste contro Platea, gli Ateniesi con duemila dei loro di grave armatura e duecento cavalieri, portarono le armi contro i Calcidesi della Tracia e contro i Bottiesi, sotto il comando di Senofonte figliolo d'Euripide con due colleghi. Arrivati sotto Spartolo città della Bottia diedero il guasto al grano, e credevano, per le pratiche che tenevano con alcuni cittadini, che la città si renderebbe. Ma quei della fazione contraria avevano già spedito alcuni chiedendo soccorso ad Olinto, donde erano venuti soldati di grave armatura ed altra gente per guarnigione. Questa fece una sortita da Spartolo; e gli Ateniesi dovettero ordinarsi in battaglia proprio sotto la città. La soldatesca grave dei Calcidesi con alcuni ausiliarii resta vinta dagli Ateniesi, e si ritira in Spartolo: ma la cavalleria e la truppa leggera, sostenuta anche da alcuni pochi armati di rotella venuti dal paese detto Crusi, superò la cavalleria e la truppa leggera degli Ateniesi. Era appena finita la battaglia, quand'ecco sopraggiungere in rinforzo da Olinto altri armati di rotella, cui tosto che le genti di Spartolo ebbero veduti, preso coraggio, non solo per questa aggiunta di soldatesca, ma anche perché non avevano avuta parte alla precedente disfatta, si unirono con la cavalleria calcidica e con cotesto rinforzo, e nuovamente investono gli Ateniesi, che si ritirano presso due squadre da loro lasciate vicino alle bagaglie. Quando gli Ateniesi venivano innanzi, essi cedevano; ma quando e' si ritiravano, gl'incalzavano e li saettavano. La cavalleria calcidica, accorrendo ovunque ne vedesse il bisogno, si avventava sul nemico, e divenuta lo spavento principale degli Ateniesi gli mise in fuga e gli rincorse per buon tratto. Gli Ateniesi si ricovrano in Potidea, e riavuti poi i cadaveri con salvacondotto, tornano ad Atene coll'avanzo dell'esercito. Morirono in questo fatto quattrocentotrenta Ateniesi con tutti i comandanti. I Calcidesi ed i Bottiesi ersero il trofeo, e ripresi i cadaveri dei loro si separarono per tornare ciascuno alla sua città.

80. Non molto dopo, nella medesima estate, gli Ambracioti ed i Caoni desiderosi di soggiogare tutta l'Acarnania e staccarla dagli Ateniesi, confortano i Lacedemoni ad allestire una flotta raccolta da' paesi alleati, e a spedire mille soldati di grave armatura nell'Acarnania. Per questo modo, dicevano, concorrendo con loro ad assaltarla per mare e per terra ad un tempo stesso, e non potendo gli Acarnani di sulle coste unirsi a soccorso degli altri, vincerebbero facilmente l'Acarnania, e s'impadronirebbero anche di Zacinto e di Cefallene: così gli Ateniesi non potrebbero con tanta sicurezza correr colle navi attorno al Peloponneso, e di più vi sarebbe speranza di prendere Naupatto. Udirono le loro richieste i Lacedemoni, e tosto su poche navi spediscono la soldatesca grave con Cnemo che era tuttora ammiraglio. Mandavano altresì avviso in giro a tutti gli alleati di trovarsi al più presto possibile a Leucade con quelle navi che avessero in ordine. I Corinti sovra tutti erano in quest' impresa solleciti per gli Ambracioti, poiché loro coloni. La flotta di Corinto, di Sicione e degli altri luoghi di quei dintorni si andava allestendo, intanto che quella di Leucade, di Anattorio e di Ambracia gli aspettava a Leucade, ove ella era di prima arrivata. Ma Cnemo coi suoi mille di grave armatura traversato il mare, senza ne avesse sentore Formione che comandava le venti navi attiche di presidio sulle coste di Naupatto, ordinava immediatamente una spedizione per terra. Erano sotto i suoi ordini (oltre mille Peloponnesi coi quali era venuto) gli Ambracioti, i Leucadi, gli Anattori tra i Greci: tra i barbari, mille Caoni gente senza re, guidati con annuale comando da Fozio e Nicanore discendenti dal lignaggio sortito a quella carica; e con essi marciavano anco i Tesproti, gente pur senza re. Sabilinto, tutore del re Taripo ancor giovinetto, conduceva i Molossi e gli Antitani; Oredo i Paravei dei quali era re, e con essi si unirono mille Orestii guidati dallo stesso Oredo per conscutimento d'Antioco re loro; e Perdicca, senza la saputa degli Ateniesi, vi spedì mille Macedoni che arrivarono più tardi. Con questo esercito, non aspettata la flotta da Corinto, erasi Cnemo messo in cammino; e marciando per il territorio argivo, e saccheggiato il borgo di Limnea sprovveduto di mura, giungono a Strato città la più considerabile dell'Acarnania, persuasi che prendendo questa la prima, anche gli altri luoghi si sarebbero facilmente resi.

81. Gli Acarnani sentendo che già era entrato nelle loro terre un copioso esercito, e che dalla parte di mare erano per presentarsi i nemici colla flotta, piuttosto che collegarsi a difesa, guardavano ognuno le terre loro: spedirono bensì a Formione ricercandolo di soccorso, ed ebbero in risposta, essergli impossibile abbandonar Naupatto, aspettandosi ad ogn'ora che la flotta nemica uscisse di Corinto. I Peloponnesi poi e gli alleati, divise in tre squadre le loro genti, procedevano verso la città degli Stratii per campeggiarla da vicino, risoluti di venire ai fatti se non giovassero le parole. Marciavano innanzi stando nel centro i Caoni con gli altri barbari; a destra i Leucadi e gli Anattori con le masnade che avevano seco, a sinistra Cnemo, i Peloponnesi e gli Ambracioti; ina queste tre squadre erano a gran distanza tra loro, e talora non si scorgevano scambievolmente. I Greci procedevano bene ordinati e guardinghi sin che trovassero un vantaggioso alloggiamento: all'opposto i Caoni confidando solo in sé stessi, perché erano avuti in concetto di soldati agguerritissimi dalla gente di quelle contrade, non si fermarono a prendere alloggiamento, ma si avanzavano impetuosamente con gli altri barbari, e reputavano d'avere a prendere la città di punto in bianco, ed ascrivere a sé soli l'impresa. Informati gli Stratii che essi proseguivano il cammino, discorsero tra sé, che ove vincessero costoro divisi dagli altri, con minor baldanza sarebbero poi venuti innanzi i Greci: il perché, innanzi giungessero, tesero imboscate nelle vicinanze della città, e come li videro presso, usciti dalle mura e dagli agguati corrono ad affrontarli: di che impauriti, molti dei Caoni restano uccisi; e gli altri barbari che li videro piegare disordinaronsi e dieder volta. Nissuna delle due squadre greche seppe del combattimento, per essersi costoro dilungati, e aver fatto credere d'avacciarsi per trovar buono alloggiamento. Quando però si videro codesti barbari fuggitivi quasi addosso, diedero loro ricetto, e riuniti i due campi si trattennero tutta la giornata. E quantunque gli Stratii, mancanti ancora del rinforzo che doveva arrivare dal resto degli Acarnani, non venissero con loro alle mani (avvenga ché stimassero non doversi arrischiare senza i soldati gravi) pure gli avevano ridotti in gran dubbiezza dell'animo col loro trar di fionda da lontano, atteso che gli Acarnani sono tenuti per ottimi frombolieri.

82. Ma fattosi notte, Cnemo ritirò prestamente l'esercito sul fiume Anapo distante ottanta stadi da Strato; riprese il giorno seguente i cadaveri per salvacondotto, e venuti a raggiungerlo gli Eniadi per l'amicizia avevano seco, si ritira presso di loro innanzi che venissero agli Acarnani i rinforzi; e di là ciascuno ritornò alla sua patria. Gli Stratii ersero trofeo per il combattimento contro i barbari.

83. La flotta poi dei Corinti e degli altri alleati che uscendo del golfo di Crisa doveva congiungersi con Cnemo, acciocché gli Acarnani di dentro terra non accorressero in aiuto, non lo raggiunse; anzi circa i medesimi giorni della zuffa accaduta a Strato, fu obbligata a navale combattimento con Formione e con le venti navi che erano di presidio a Naupatto. Stava Formione osservando mentre ci costeggiavano per uscir fuori del golfo, col fine di assalirli al largo: ed i Corinti e gli alleati navigavano alla volta dell'Acarnania, non già preparati a navale combattimento, ma più presto all'uso delle navi che portano truppe da sbarco; non si potendo mai aspettare che gli Ateniesi con le venti navi ardirebbero di appiccar battaglia contro le loro quarantasette. Ma poiché avanzandosi marina marina, videro gli Ateniesi costeggiare il lato opposto; e poiché, tragittando da Patra dell'Acaia verso la terraferma dirimpetto all'Acarnania, gli osservarono indirizzarsi contro di loro, movendo da Calcide e dal fiume Eveno (ove gli avevano scoperti quantunque approdati furtivamente) allora trovansi astretti a combattere in mezzo allo stretto. Vi erano i capitani di ciascuna città che disponevansi al combattimento: Macaone, Isocrate ed Agatarchide conducevano i Corintii. Schieraronsi i Peloponnesi formando un cerchio delle navi, il più grande potevano, colle prue volte in fuori e le poppe in dentro, per impedire al nemico di rompere l'ordinanza della loro flotta. Pongono in mezzo le piccole barche che andavano di conserva, e cinque navi delle più snelle, acciocché avessero breve spazio a correre per uscir fuori del cerchio, e trovarsi pronte ovunque il nemico gli investisse.

84. Gli Ateniesi ordinate le loro navi una dopo l'altra, volteggiavano attorno all'armata nemica, e ne restringevano il cerchio scorrendo sempre rasento, ed inducendo credenza nei nemici che or ora gli assalirebbero. Formione però aveva commesso loro di non investirli prima che ne desse egli il segnale: imperocché sperava che l'ordinanza della flotta nemica, somigliante a quella di fanteria per terra, non reggerebbe; ma le navi urterebbonsi tra loro, e le barche cagionerebbero disordine. Sperava inoltre che al soffiar del vento dal golfo (ciò che soleva accader sull'aurora, e cui aspettando teneva in giro le navi) il nemico non avrebbe avuto un momento di posa, che allora sarebbe il tempo più opportuno ad attaccar battaglia, sebbene credeva essere in sua potestà farlo quando che volesse, perché più spedite erano le sue navi. Ma già levatesi il vento e le navi nemiche essendo state ristrette in più piccolo cerchio, erano in iscompiglio, non solo pel vento stesso, ma ancora per le barche di dentro che stavano loro addosso, talché una cozzava nell'altra e si spingevano coi remi, e tra per gli urli e per le villanie onde mordevansi scambievolmente le ciurme nel ripararsi, non più gli ordini, non più i comiti intendevano. In tal tramazzo appunto dà Formione il segnale: gli Ateniesi al primo assalto affondano una nave capitana, dipoi ovunque si avanzassero, altre ne rovinavano, e ridussero i nemici a tale che in quel trambusto nessun di loro volgevasi a vigorosamente resistere, ma fuggivano a Patra e a Dime dell'Acaia. Gli Ateniesi avendoli incalzati presero dodici navi, uccisero la maggior parte delle ciurme, quindi navigarono a Molicrio: alzato poscia trofeo a Rio, e consacrata una nave a Nettuno, tornarono a Naupatto. Medesimamente i Peloponnesi col resto delle navi proseguirono subito il loro corso da Dime e Patra fino a Cillene arsenale degli Elei, ove da Leucade, dopo la battaglia degli Stratii, arriva anche Cnemo colle navi di là, che dovevano riunirsi con queste.

85. I Lacedemoni intanto spediscono Timocrate, Brasida e Licofrone per consiglieri a Cnemo nel governo della flotta, con ordine di procurar miglior esito ad un secondo combattimento navale, e non lasciarsi da picciol numero di navi toglier l'uso del mare. Conciossiaché quella disfatta pareva loro molto strana (tanto più perché era la prima volta che avevano sperimentalo combattimento navale), e l'attribuivano non tanto alla minoranza della loro flotta, quanto a non so qual poco ardire dei combattenti, né bilanciavano l'antica perizia degli Ateniesi col loro recente esercitamento. Però adirati spedirono coloro, i quali giunti colà d'accordo con Cnemo con avviso circolare intimavano a ciascuna città di dar le navi, e racconciavano quelle di prima disposti di venire ad una seconda battaglia.

Formione anch'egli dal canto suo manda agli Ateniesi gente ad annunziare i preparamenti dei Lacedemoni, e ragguagliarli della riportata vittoria; ed instava che gli spedissero sollecitamente più navi potevano, perché ogni giorno v'era da aspettarsi di dover combattere per mare. Essi ne mandano venti, ordinando però al capitano che le conduceva di arrivar prima a Creta: perché Nicia di Gortinia, cretese, pubblico ospite degli Ateniesi, li confortava ad andare colla flotta a Cidonia, assicurandoli che ridurrebbero in potestà loro quella città nemica. Brigavasi egli di ciò per far cosa grata ai Policniti confinanti coi Cidoniati. Il capitano dunque, tolte seco le navi, andò a Creta, ed insieme co' Policniti saccheggiò le terre dei Cidoniati. I venti poi e la difficoltà di riprender mare lo costrinsero a trattenersi non poco tempo.

86. Intanto che gli Ateniesi erano ritenuti a Creta , i Peloponnesi che stanziavano a Cillene apparecchiati per la battaglia di mare, si spinsero colla flotta sino a Palermo dell'Acaia, ove dalla parte di terra erano già venute in rinforzo le genti del Peloponneso. Similmente Formione passò da Naupatto a Rio di Molicro, e al di fuori di questo promontorio si tenne sull'ancora con venti navi, quelle stesse con le quali aveva combattuto. Era questo Rio amico agli Ateniesi, a differenza dell'altro nel Peloponneso, situato rimpetto al primo, tra loro distanti circa settanta stadi di mare, ed è questa la bocca del seno di Crisa. Dunque i Peloponnesi, visti gli Ateniesi, presero stazione con settantasette navi presso questo Rio dell'Acaia, non molto distante da Palermo, ove era la loro fanteria. Per sei o sette giorni stettero entrambi alle vedette, intesi a prepararsi pel combattimento che disponevano di fare. Discorrevano i Peloponnesi non esser da uscire al largo fuori dei due Rii, temendo ancora della passata sconfitta: gli Ateniesi di non dovere ingolfarsi nello stretto, giudicando che la battaglia in luogo angusto sarebbe in vantaggio dei Peloponnesi. Cnemo poi, Brasida e gli altri comandanti dei Peloponnesi volendo precipitar gl'indugi ed attaccar la zuffa innanzi che da Atene venisse nuovo aiuto, adunarono da prima i soldati; e poiché gli vedevano per la maggior parte paurosi ed inviliti, attesa la precedente sconfitta, presero a rincorarli e parlarono così:

87. « Valorosi Peloponnesi, la passata naval battaglia, se a cagione di quella avvi chi teme della futura, non porge giusto argomento per intimorirvi, ove sappiate come ella non ebbe completo apparecchio, e che la nostra corsa avea per oggetto non combattimento marittimo, ma piuttosto trasporto di truppe. La fortuna stessa ci fu in molti casi contraria, e forse l'inesperienza (essendo quello il primo combattimento per mare) causò il nostro danno, cosicché non fu per viltà che restammo vinti. Né quel vigore d'animo a cui vincere non valse la forza, e che trova in sé stesso la sua discolpa, dee punto indebolirsi per le conseguenze di sinistra fortuna: anzi tutto che possa addivenire che restino gli uomini sconcertati pel concorso di casuali accidenti, vuolsi ciò non pertanto reputare che, quanto all'animo, siano gli stessi valorosi e inalterabili; e che serbando in petto cuor generoso, non piglierebbono a pretesto l'inesperienza per conestar talvolta la loro codardia. Ma voi non siete di tanto inferiori nell'esperienza, quanto per ardimento superiori. La pratica di costoro, che principalmente vi spaventa, se va unita all'intrepidezza ricorderà loro, anche in mezzo al pericolo, di eseguire i precetti appresi; ma senza intrepidezza nessun'arte è buona contro i pericoli; perocché la paura perturba la memoria, e l'arte senza fortezza a nulla giova. Contrapponete dunque alla loro maggior pratica il vostro maggiore ardimento; al timore per la sconfitta sofferta la considerazione di non essere stati allora ben preparati; e riflettete che adesso voi avete il disopra, non solo pel maggior numero delle navi, ma ancora perché venite a battaglia lunghesso una piaggia vostra, ove è anche pronta per voi la soldatesca di terra. Ora la vittoria è ordinariamente dei più e dei meglio preparati: ond'è che non abbiamo pure un motivo giusto da temere della sconfitta: anzi gli sbagli stessi da noi prima commessi ci serviranno di nuovo ammaestramento. Su via dunque, nocchieri e marinari, fate ognuno il debito vostro, non abbandonando il posto assegnato a ciascuno, e noi sapremo non meno dei passati capitani prepararvi opportuna l'affrontata, né lasceremo a chicchessia scusa ad esser codardo: o se pur vi sia chi il voglia, sarà punito colla dovuta pena, dove i valorosi avranno il premio che si compete al valore» .

88. Con queste parole i capitani inanimivano i Peloponnesi. E Formione insospettito anch'egli dello sbigottimento dei soldati, ed avvistosi che nei loro cerchi mostravansi timorosi, per la moltitudine delle navi nemiche, prese consiglio di convocarli per rincorarli con avvertimenti confacevoli all'occasione. Teneva già anche di prima preparati i loro animi, dicendo continuamente non esservi moltitudine di navi per grande che fosse, alla quale, venendo contro di loro, e' non potessero resistere. Ed i soldati stessi da molto tempo avevano di sé concepita questa dignitosa opinione che, Ateniesi com'erano, non cederebbero a quantunque gran numero di navi peloponnesie. Nondimeno, osservandoli allora scoraggiati al ragguardamento del nemico, voleva rammentar loro avessero coraggio: il perché, radunati gli Ateniesi, parlò in questa sentenza.

89. « Al vedervi, o prodi soldati, impauriti per la moltitudine dei nemici, vi ho qua radunati; perché non credo del vostro decoro lo sbigottire per cose non punto formidabili. E primieramente hanno costoro apparecchiato gran numero di navi, non contenti di forze eguali alle nostre, appunto perché sono stati già vinti, e da sé stessi si riconoscono inferiori a noi. In secondo luogo, quella baldanza, alla quale principalmente affidati ci vengono incontro, come se di loro soltanto fosse proprio l'esser valorosi, non da altro procede che dalla pratica delle battaglie terrestri, ove ordinariamente sono vincitori; e però credono di poter far lo stesso anche in quelle di mare. Ma tal ragione di imbaldanzire se l'hanno essi in quell'altro genere di combattimento, molto più a buon dritto l'avremo ora noi. Imperocché in generosità ei non ci avanzano punto, laddove siamo entrambi più arditi in ciò, in che siamo più esperimentati. Inoltre i Lacedemoni, venendo alla testa degli alleati per ricuperare il proprio decoro, ne conducono al cimento la maggior parte di mala voglia, avvegnaché, se così non fosse, dopo quella grande sconfitta non sarebbono essi venuti mai ad un secondo navale combattimento. Non abbiate no dunque timore della loro audacia, anzi voi mettete in loro più grande e più certa paura, si perché gli avete già vinti, sì perché pensano che or non vi opporreste loro, se non aveste in animo di fare qualche stupenda prova. In fatti di due eserciti a fronte quello che, come il loro è più numeroso, viene all'assalto fidando più nella forza che nel consiglio: ma quello che è molto inferiore di numero, e viene non astretto alla pugna, resiste al nemico confidando solo nella grandezza del proprio animo. Le quali cose essi considerando, temono più del nostro straordinario procedere, che non farebbono d'apparecchio proporzionevole al loro. Molti eserciti sono già stati battuti da minor numero per inesperienza e talora per codardia; noi però da tali difetti siamo immuni: né per quanto starà in me, attaccherò la battaglia nel golfo, anzi neppure vi entrerò. Conciossiaché vedo, contro molte navi mal pratiche non esser favorevole la ristrettezza del luogo per le poche, che nei loro movimenti han pratica e più speditezza al corso; perché non avendosi da lungi il prospetto del nemico, nessuno potrebbe prender le dovute misure per spingersi contro la nave contraria ed assalirla, né, messo alle strette, aver modo di ritirarsi all'occasione. Né possibile sarebbe rompere e traversare le file nemiche, o dare indietro girando di bordo; operazioni tutte proprie delle navi più spedite: ma farebbe allora di mestieri ridurre la battaglia di mare a battaglia di terra, lo che gioverebbe al maggior numero di navi. Ora io, per quanto sta in me, provvederò a tutto questo, e voi tenetevi fermi in buona ordinanza sulle navi, ed eseguite prontamente gli ordini che riceverete, tanto più che ad ogni momento possiamo venire all'affronto. Nell'atto stesso poi della pugna badate soprattutto al buon ordine ed al silenzio (ciò che giova in assai operazioni di guerra, ma principalmente nei combattimenti navali); e respingete costoro in maniera che risponda alle passate imprese. Il cimento è per voi rilevantissimo, trattandosi, o di torre ai Peloponnesi ogni speranza di aver flotta, o di rendere agli Ateniesi più imminente il timore di perdere la superiorità del mare. Vi rammento in ultimo che già su la maggior parte dei nemici riportaste vittoria: ora soldati una volta vinti non possono serbare lo stesso animo nell'incontro degli stessi pericoli» .

90. Con queste parole anche Formione rincorava la sua gente. Ma i Peloponnesi, al vedere che gli Ateniesi non venivano verso loro nel golfo, e dove è più angusto, volendo condurveli dentro a loro dispetto, sul far dell'aurora presero il largo, e ordinate le navi con quattro di fronte si avviarono nell'interno del golfo verso il loro territorio. Precedeva l'ala destra con lo stesso ordine che aveva tenuto stando sull'ancora: avevano però in cotest'ala collocato venti delle navi più spedite, affinché se mai Formione, credendoli dirizzati contro di Naupatto, si avviasse anch'egli colà per soccorrerlo, la flotta Ateniese non potesse spingersi oltre quell'ala destra, e scansare così d'essere investita da loro; anzi quelle venti navi dovesser chiuderla in mezzo, ripiegandosi sopra di lei. Come Formione vide i nemici partire impaurì, conforme ei si aspettavano, per Naupatto rimasto senza presidio, e fatte suo malgrado e frettolosamente montar le navi alla sua gente, scorreva lungo la costa, su la quale lo seguitava la fanteria dei Messeni pronta a soccorrerlo. I Peloponnesi visto gli Ateniesi avanzarsi con le navi schierate una dopo l'altra, ed ormai ingolfati (ciò che appunto bramavano), allora fatto un solo segnale voltarono improvvisamente di bordo, e con la maggior celerità che ognuno poteva vogavano di fronte addosso agli Ateniesi. Speravano essi di poter prendere tutte le navi, ma undici di esse che erano innanzi all'altra, preso il largo, si sottraggono all'ala dei Peloponnesi, e al ripiegarsi su loro delle venti navi. Raggiungono bensì il restante, e spintele a terra mentre fuggivano, le fracassarono, ed uccisero tutta la gente ateniese che non si era salvata a nuoto. Alcune altre restate vuote le legavano alle loro e le rimorchiavano, ed una ne presero entrovi la ciurma. Allora i Messeni accorsero in aiuto, ed entrando armati nel mare salirono sopra alcune, e combattendo di su i banchi, mentre venivano rimorchiate, le riebbero.

91. I Peloponnesi dunque erano da questa parte vincitori, ed avevano rovinate le navi ateniesi. In questo le loro venti navi poste sull'ala destra correvano dietro alle undici ateniesi, che sottrattesi all'incalzar dei nemici eransi tirate al largo, ed eccetto una, furono le altre in tempo a ricovrarsi a Naupatto. Quinci fermatesi in faccia al tempio d'Apollo colle prue rivolte in fuori si preparavano a ributtarli, s'ei vogassero a terra contro di loro. I Peloponnesi che vi giunsero dopo, navigavano cantando il peana come già vincitori; e una nave leucadia, che sola vogava molto innanzi all'altre, dava la caccia ad una ateniese rimasta indietro. Era casualmente ferma sull'ancora in distanza dal lido una barca mercantile, presso la quale arriva la nave ateniese prima della leucadia, gira di bordo intorno a lei, e riviene ad urtar nel mezzo quella che la inseguiva, e la sommerge. Codesto accidente inaspettato e strano riempie di spavento i Peloponnesi che altresì ebri della vittoria rincorrevano le navi nemiche alla rinfusa; tal che alcune delle navi loro, per aspettare che si riunissero le altre più, abbassarono i remi e fermarono il corso; cosa inopportuna nell'occasione che il nemico aveva breve spazio a trascorrere per lanciarsi contro di loro: altre mal pratiche dei luoghi urtarono in secco.

92. A tal vista ritornò negli Ateniesi il coraggio, e con unanime grido di eccitamento corsero sopra i Peloponnesi i quali in mezzo al disordine causato dai precedenti sbagli, per breve ora ressero, e poi fuggirono verso Palermo d'onde erano partiti. Gli Ateniesi incalzandogli tolsero loro sei navi che avevano più vicine, riebbero quelle state da prima rovinate su la costa e rimorchiate, ed uccisero parte delle ciurme, parte fecero prigioni. Timocrate lacedemone che era su la nave leucadia la quale andò a fondo vicino alla barca mercantile, quando ella si perdeva si scannò, e fu poi sbalzato nel porto dei Naupatti. Ritornati gli Ateniesi al sito da cui partitisi ottennero questa vittoria, vi ersero trofeo, ricuperarono i cadaveri ed i rottami delle navi che erano vicini alla loro costa, e con salvacondotto restituirono i loro ai nemici. Parimente i Peloponnesi attribuendo a sé la vittoria, ersero trofeo a Rio dell'Acaia per la sconfitta in cui spezzarono su la costa le navi ateniesi; e quella sola che avevano presa la consacrarono presso al trofeo. Dopo di ciò temendo del soccorso che si aspettava da Atene, sull'imbrunir del giorno, tutti, eccetto i Leucadi si ridussero nel golfo di Crisa ed a Corinto. Gli Ateniesi che con le venti navi dovevano da Creta raggiunger Formione prima della battaglia navale, arrivarono a Naupatto poco dopo la ritirata delle navi dei Peloponnesi; e finiva l'estate.

93. Cnemo poi, Brasida e gli altri capitani dei Peloponnesi, prima di licenziar la flotta che si era ritirata a Corinto e nel seno di Crisa, cominciando l'inverno, vollero, secondo che erano stati istruiti dai Megaresi, fare un tentativo contro il Pireo porto degli Ateniesi che era senza presidio e senza sbarre; né ciò rechi meraviglia, atteso la gran superiorità degli Ateniesi nella marina. Risolvettero dunque prendendo ciascuno un remo col suo scanno e piumacciolo, d'andare per la via di terra da Corinto al mare che guarda Atene; ed arrivati prestamente a Megara varare da Nisea loro arsenale le quaranta navi che vi erano, e navigare direttamente contro il Pireo, non vi essendo navi a guardarlo. Gli Ateniesi non si aspettavano punto di esser così all'improvviso assaliti dalla flotta dei nemici, poiché stimavano ch'è non avrebbero osato di farlo neanche scopertamente e con tutto l'agio, e che, se mai ciò corresse loro nell'animo, non sarebbe senza che lo presentissero. Appena risoluto ciò si misero in cammino. Arrivarono di notte a Megara, e varate in mare da Nisea le navi, non andarono più, come avevano disposto, contro al Pireo, impauriti dal pericolo, ed impediti anche, come si racconta, da non so qual vento, ma bensì contro al promontorio di Salamina che guarda Megara, ove era una fortezza e tre navi di guarnigione, per impedire che nulla entrasse in Megara od uscisse. Diedero l'assalto alla fortezza, e menaron via le tre navi abbandonate dalla ciurma, ed assaltando inaspettatamente il resto di Salamina, presero a saccheggiarla.

94. Ma i Salamini alzarono i segnali di fuoco nunziatori del nemico, verso Atene, ove non fu mai sbigottimento maggiore di questo durante la guerra. Imperocché quei della città si immaginavano i nemici già entrati nel Pireo, quelli del Pireo già espugnata Salamina, e che i nemici dal vedere al non vedere entrerebbero da loro: lo che sarebbe senza difficoltà accaduto, se avesser voluto precipitar gl'indugi, né il vento avrebbe potuto impedirneli. Sul far del giorno gli Ateniesi accorsi in bulima al Pireo vararono le navi; e salitivi sopra in fretta e alla rinfusa, andarono con esse a Salamina, e misero la fanteria a guardia del Pireo. Come i Peloponnesi ebbero sentore di questo rinforzo, corsero gran parte di Salamina, prendendo uomini, bottino e le tre navi della fortezza di Budoro: quindi navigarono speditamente a Nisea, giacché temevano anche delle proprie navi, che varate dopo molto tempo non tenevano punto, ed arrivati a Megara ritornarono per terra a Corinto. Gli Ateniesi non avendoli trovati più intorno a Salamina, tornarono indietro con la flotta, e dopo questo avvenimento più accuratamente guardavano il Pireo col tenerne serrati i porti, e con ogni altra sorta di diligenza.

95. Circa i medesimi tempi, sul cominciare di quest'inverno, Sitalce odrisio figliolo di Tereo, re dei Traci, mosse le armi contro Perdicca figliolo di Alessandro, re di Macedonia, e contro i Calcidesi della Tracia, per causa di due promesse, una delle quali voleva gli fosse attenuta, l'altra attenere egli stesso. È da sapere che Perdicca trovandosi alle strette sul principio della guerra aveva fatto a Sitalce delle promissioni, solo che lo riamicasse con gli Ateniesi, e non riconducesse in patria (per farlo re) Filippo suo fratello che gli era pure nemico: ora però non eseguiva quello che aveva promesso. Sitalce poi quanto a sé aveva convenuto, quando fece alleanza con gli Ateniesi, di por fine alla guerra calcidica nella Tracia. Per queste due promesse dunque faceva la spedizione, e conduceva seco Aminta figliolo di Filippo per porlo sul trono dei Macedoni, Agnone come capitano, ed anche gli ambasciatori ateniesi che a quest'oggetto si trovavano presso di lui, conciossiaché gli Ateniesi pure avevano impegnato la parola di concorrere alla guerra contro i Calcidesi con flotta e buon numero di genti.

96. Partito dunque dagli Odrisii sommuove prima tutti i Traci infra il monte Emo e Rodope, su' quali egli imperava sino al mare, dal Ponto Eussino all'Ellesponto; poi i Geti al di là del monte Emo, e tutte le altre parti abitate di qua dal fiume Istro più verso il mare detto Ponto Eussino. I Geti e gli altri di questi luoghi confinano con gli Sciti, usano la medesima armatura, e son tutti arcieri a cavallo. Invitava ancora molti dei Traci montanari che sono liberi, armati di coltella, e chiamansi Dii, ed abitano la maggior parte sul Rodope, dei quali alcuni ne guadagnava col soldo, altri lo seguivano volontari. Sollecitava ancora gli Agriani ed i Leei, e gli altri popoli della Peonia soggetti al suo impero. Questi erano gli ultimi del suo dominio che si stendeva sino ai Graei e Leei della Peonia, e sino al fiume Strimone, che dal monte Scomio scorre a traverso dei Graei e dei Leei, ove aveva confine il suo territorio dalla parte che guarda i Peonii, i quali di lì in poi sono liberi. Dalla parte dei Triballi pure liberi lo confinavano i Treri ed i Tilatei. Abitano costoro a settentrione del monte Scomio, ed a ponente si stendono sino al fiume Oscio che nasce nel monte stesso, come pure il Nesto e l'Ebro. Cotesto monte è disabitato, vasto ed attaccato a Rodope.

97. L'impero degli Odrisii, quanto alla sua grandezza, dalla parte che arriva sino al mare, si stende dalla città di Abdera al Ponto Eussino fin dove imbocca il fiume Istro. Il giro di questa costa per il cammino più corto, se il vento soffi continuomente da poppa, con una nave tonda si fa in quattro giorni ed altrettante notti. Per terra poi la via più corta da Abdera sino all'Istro un uomo spedito la fornisce in undici giornate: tanta è la sua estensione su la parte di mare. Ma verso terraferma da Bizanzio fino ai Leei e allo Strimone (imperocché in questa linea è la maggior distanza del mare da terra) la gita può compirsi da un uomo spedito in tredici giornate. Il tributo di tutto il paese barbaro e delle città greche, secondo che lo han pagato sotto Seute (che succeduto nel regno a Sitalce lo rese gravissimo) montava alla somma di circa quattrocento talenti d'argento, che si pagavano in oro ed argento. Né di minor valore erano i doni i quali non al re solamente, ma ai magnati degli Odrisii e potenti presso lui venivano offerti, che in oro e che in argento, senza contare le stoffe a opera e lisce ed altri mobili. Poiché, al contrario di quel che si pratica nel regno di Persia, aveano cotesti signori messa l'usanza, che dura anche presso gli altri Traci, di pigliare piuttosto che dare; ed era maggior vergogna per chi richiesto non dava, che per chi chiedendo non otteneva. Cotale usanza per la potenza di quelli durò lungo tempo; né era possibile di concluder nulla senza donativi, il perché il regno venne a gran potenza, sendo che di quei di Europa tra il seno ionico e il Ponto Eussino, esso fu il più considerabile pel provento di denaro e per ogni altra sorta di opulenza. Ma nel valor guerriero e nella moltitudine delle soldatesche fu di gran lunga inferiore a quel degli Sciti; al quale non che sieno da agguagliare le nazioni d'Europa, ma neanche in Asia avvi nazione, che da solo a solo possa resistere contro tutti gli Sciti d'accordo. Nondimeno in accorgimento e prudenza per le altre cose concernenti la vita, non sono da mettere alla pari con le altre nazioni.

98. Sitalce dunque re di sì vasto paese preparava il suo esercito, e poiché ebbe ordinato il tutto, mosso il campo si incamminava verso la Macedonia, passando prima pe' suoi stati, e dipoi per Cercina monte disabitato, conterminale dei Sinti e de' Peonii, tenendo la strada da lui stesso aperta col taglio della foresta quando portò la guerra contro i Peonii. Da Odrise marciando pel monte avevano a destra i Peonii, a sinistra i Sinti e i Maidi, e passato che l'ebbero giunsero a Dobero città della Peonia. Nel cammino non soffrì perdita veruna dell'esercito, salvo che pochi per malattia, anzi lo ebbe accresciuto; imperocché molti di quei Traci liberi lo seguitarono, benché non chiamati, per avidità di bottino: talché si dice l'intero esercito essere stato non meno di cento cinquantamila, per la maggior parte fanti, ed il terzo cavalli. Il grosso della cavalleria lo somministravano principalmente gli Odrisii, e con esso loro i Geti. Della fanteria i più agguerriti erano quei che portavano coltella, gente libera scesa da Rodope. Il resto poi della turba che li seguiva era un mescuglio di ogni sorta di gente, formidabile più che altro pel suo gran numero.

99. Facevano pertanto la massa a Dobero, e disponevano di assaltare dalla parte montuosa la Macedonia inferiore, di cui era padrone Perdicca, poiché sono compresi tra' Macedoni anche i Lincesti e gli Elimioti ed altri popoli più dilungi dal mare, i quali sebbene confederati de' Macedoni e loro soggetti, pure hanno ognuno il suo regno. Ma quella che di presente si chiama Macedonia marittima l'acquistarono e vi regnarono i primi Alessandro padre di Perdicca e i suoi maggiori discendenti da Temene, che ab antico venivano da Argo in questo modo. Primieramente superarono in battaglia e scacciarono dalla Pieria i Pierii, che poi presero stanza in Fagrete sotto il monte Pangeo al di là dello Strimone, ed in altri luoghi (onde ancora si chiama seno pierico quella terra che dalle falde del Pangeo si stende alla marina), quindi dalla Bottia i Bottiesi che ora abitano ai confini dei Calcidesi. Acquistarono ancora lungo il fiume Axio una lingua di terra della Peonia, che dall'alto della montagna va sino a Pella ed al mare, e di là dall'Axio fino allo Strimone posseggono quella che si chiama Migdonia, d'onde scacciarono gli Edoni. Cacciarono inoltre da quella adesso chiamata Evordia gli Evordi (la maggior parte dei quali restò trucidata, ed una piccola porzione passò a stanziare intorno a Fusca), e dall'Almopia gli Almopi. Finalmente questi nuovi Macedoni ridussero in loro potestà altri popoli, e li ritengono ancora, come Antemunte, Grestonia, Bisalda, con gran parte del territorio che apparteneva ai veri Macedoni. Tutto questo corpo di stati è compreso sotto il nome di Macedonia, di cui era re Perdicca figliolo di Alessandro, quando Sitalce vi portò le armi.

100. Or questi Macedoni, per la impossibilità di resistere al numeroso esercito che li assaliva, si ritirarono ai luoghi forti di situazione, e nelle poche castella del paese. Perocché quelle che ora vi si veggono le edificò poi Archelao figliolo di Perdicca, giunto che fu ad esser re: aperse e dirizzò strade, ordinò acconciamente tutte le altre cose, e particolarmente la milizia, fornendola di cavalleria e di fanteria grave e di ogni altro corredo, meglio che tutti insieme gli altri otto re prima di lui. L'esercito dei Traci partendo da Dobero, assaltò primieramente gli stati antichi di Filippo, espugnò Edomene, ed ebbe per dedizione Gortinia, Atalanta ed alcuni altri castelli, i quali si resero, atteso l'amicizia avevano per Aminta figliolo di Filippo che si trovava nell'esercito. Assediarono anche Europo, ma non poterono prenderla: allora si avanzarono nel resto della Macedonia su la sinistra di Pella e di Cirro; ma al di qua di queste due città non arrivarono né alla Bottica né alla Pieria, anzi davano il guasto alla Migdonia, alla Grestonia e ad Antemunte. I Macedoni poi non avevano neanche il pensiero di far loro resistenza colla fanteria: ma colle genti a cavallo chiamate dagli alleati dell'interno, benché poche di fronte a molti, dove giudicassero opportuno correvano addosso all'esercito dei Traci, e dovunque gli attaccassero, nessuno sosteneva l'impeto d'uomini a cavallo valorosi ed armati di lorica. Laonde, come ché accerchiati dalla moltitudine, osavano mettersi a repentaglio con oste tanto più numerosa di loro: ma da ultimo si rimasero anche da ciò, reputandosi inabili a cimentarsi contro forze sì esorbitanti.

101. Intanto Sitalce dichiarava a Perdicca le cagioni della sua spedizione: ma siccome gli Ateniesi diffidando ch'ei v'andrebbe non erano comparsi colla flotta, e solo gli avevano inviato ambasciatori con dei presenti, prende il partito di distaccare parte di sua gente contro i Calcidesi ed i Bottici, e rinchiusi che li ebbe dentro le castella, ne saccheggiò il territorio. In vedendolo osteggiare intorno a questi luoghi, i Tessali di mezzogiorno, i Magneti e gli altri sudditi dei Tessali, e gli altri Greci fino alle Termopili temettero che l'esercito potesse avanzarsi anche contro di loro, e già si andavano preparando. Impaurirono anche tutti i Traci settentrionali abitatori delle pianure di là dallo Strimone, i Panei, gli Odomanti, i Droi, i Dersei, popoli tutti indipendenti. Corse pur voce fino tra quei Greci che erano nemici degli Ateniesi, che indotti da questi per titolo di alleanza marcerebbero anche contro di loro. Sitalce però, intanto che si tratteneva, dava il guasto alla Calcidica, alla Bottica ed alla Macedonia. Con tutto ciò non gli riuscendo nulla di quel per cui erasi mosso, tanto più che l'esercito era stremo di vettovaglia e molestato dal verno, si lascia persuadere a sollecitare la ritirata da Seute figliolo di Spardoco, suo nipote, che aveva dopo lui la più grande autorità. Si era Perdicca conciliato segretamente Seute, colla promessa di dargli in sposa la sua sorella con ricca dote. Sitalce pertanto acconsentì e tornò sollecitamente a casa coll'esercito, dopo essersi fermato trenta giorni, otto dei quali presso i Calcidesi. Dipoi Perdicca, secondo che avea promesso, dà a Seute la sua sorella Stratonica. Così andò la spedizione di Sitalce.

102. Nel medesimo inverno, licenziata che fu la flotta dei Peloponnesi, gli Ateniesi di presidio a Naupatto sotto il comando di Formione, procedendo marina marina navigarono contro Astaco; e preso terra, si avviarono nell'interno dell'Acarnania ben quattrocento di loro con grave armatura smontati dalle navi, più quattrocento Messeni; e cacciarono via da Strato, da Coronte e da altri luoghi la gente di cui avevan sospetto: e ricondotto a Coronte Cenete figliolo di Teolito ritornarono sulle navi; non giudicando opportuno, d'inverno com'era, portar la guerra contro gli Eniadi i soli fra gli Acarnani sempre mai loro nemici. Conciossiaché il fiume Acheloo che dal monte Pindo scorre pel paese dei Dolopi, degli Agrai, degli Amfilochi e per le pianure dell'Acarnania, vicino alla città di Strato dalla parte che guarda terra, scaricandosi in mare presso gli Eniadi, impaluda intorno la loro città, e rende impossibile, atteso l'inondazione, il guerreggiarvi d'inverno. Anche la maggior parte dell'isole Echinadi giacciono in faccia agli Eniadi, e non sono punto distanti dalla foce dell'Acheloo; cosicché questo gran fiume vi posa continuamente del fango, ed alcune di quelle isole son divenute terraferma; e vi è da aspettarsi che in breve tempo accada di tutte lo stesso. Imperocché la corrente è rapida, grande e limacciosa, e le isole, le quali sono fitte e interriate dal loto che non potendosi spandere vi si aggruppa, vengono a congiungersi tra loro, perché non son disposte in fila, ma vanno intersecandosi, e così impediscono all'acque di sgorgare dirittamente in mare. Sono esse disabitate e piccole, ed è fama che quando Alcmeone figliolo d'Amfiarao, uccisa la madre, andava ramingo, avesse in risposta da Apollo di dovere abitare appunto questa terra. E ciò perché gli aveva misteriosamente significato che non avrebbe scampo da' suoi terrori prima che avesse trovato un paese il quale, quando ammazzò la madre non fosse visto dal sole e non fosse terra; e che in quello fissasse la sua abitazione, come se tutto il restante della terra fosse stato contaminato per lui. Egli, come narrasi, non sapendo a qual partito appigliarsi, ebbe osservato quell'apponimento di terra alzatovi dall'Acheloo, e giudicò che desso, bastevole a dargli stanza, dovesse essersi formato nel lungo tempo che egli era vagabondo dopo l'uccisione della madre. Però si pose ad abitare nei luoghi circonvicini agli Eniadi, vi si fè potente, e dal suo figliolo Acarnano lasciò il cognome del paese. Tale è la storia che di Alcmeone si racconta.

103. Ma gli Ateniesi con Formione, che partiti dall'Acarnania erano tornati a Naupatto, nel cominciamento della primavera si ridussero colla flotta ad Atene. Conducevano anche seco, oltre le navi prese, i prigioni fatti nelle battaglie navali, di condizione libera, i quali furono rilasciati col cambio d'uomo per uomo. Così terminava questo inverno ed il terzo anno della guerra descritta da Tucidide.

FINE DEL LIBRO II.