Testo

DELLA STORIA DI TUCIDIDE
LIBRO SESTO.

¶ I

1. In questo medesimo inverno gli Ateniesi avevano in animo di navigare in Sicilia con apparecchiamento maggiore di quello di Lachete e di Eurimedonte, per tentare di soggiogarla. I più di loro ignoravano la grandezza di quell'isola, e la moltitudine dei Greci e barbari che l'abitavano; e non vedevano che così imprenderebbero una guerra non molto inferiore a quella contro i Peloponnesi. Imperciocché ci vogliono poco meno che otto giorni per girare la Sicilia con una nave da carico; e sebbene sia tanto vasta, appena venti stadi di mare vi si attraversano perché non sia terraferma.

2. Ora dirò come ella fosse da primo abitata, e quanti popoli avesse in tutti. Gli abitatori più antichi di una parte di quel paese dicesi essere stati i Ciclopi e i Lestrigoni; dei quali non saprei dire la stirpe, né il luogo onde vennero, né dove andarono. Contentiamoci dunque di ciò che ne hanno detto i poeti, e di quello che ognuno in qualche modo ne sa. Primi ad abitarvi dopo di questi paiono i Sicani, i quali piuttosto al dir loro vi erano già d'innanzi perché nati di lì: ma il vero è che sono Iberi cacciati dai Ligii di sul Sicano, fiume in Iberia; che da essi l'isola chiamata prima Trinacria, fu allora detta Sicania; ed abitano anche adesso il ponente di Sicilia. Preso poi Ilio alcuni Troiani scampati dagli Achei giungono su delle barche in Sicilia, ove acconciatisi ai confini dei Sicani furono tutti insieme chiamati Elimi, e le città loro Erice ed Egesta. Si unirono di più ad abitare con essi alcuni dei Focesi di ritorno da Troia, in quel tempo dalla tempesta primieramente sbalzati sulla Libia, e quindi di là passati in Sicilia. Ed è fama che i Siculi fuggendo, come pare, gli Opicii, dall'Italia ove avevano la sede passassero su dei foderi in Sicilia, colto un vento favorevole nello stretto; e forse anche vi tragittarono in altro modo. Vi sono poi ancora dei Siculi in Italia, la quale trasse questo nome da un tale chiamato Italo re degli Arcadi. Venuti dunque costoro in Sicilia con molta gente, e superati i Sicani in battaglia, li cacciarono verso le parti meridionali e occidentali dell'isola, la quale di Sicania fecero che fosse chiamata Sicilia, ed abitarono le campagne più fertili, che dopo il loro tragitto ritenevano per quasi trecento anni, prima che vi venissero i Greci; ed anch'oggi ne posseggono i luoghi mediterranei e quelli verso tramontana. I Fenici per negoziare coi Siculi abitarono tutte all'intorno le costiere della Sicilia, occupati i promontori che sporgono in su quel mare, e le isolette adiacenti. Ma poiché vi approdarono molti Greci, quelli, abbandonata la maggior parte di quei luoghi, si riunirono insieme, e fermarono le sedi loro in Motia, in Soloente e in Palermo, vicino agli Elimi, tra perché confidavano nella confederazione di questi, e perché Cartagine è di là distante un tragitto cortissimo. Ed ecco come e quanti barbari abitarono la Sicilia.

3. Fra i Greci poi primi a navigarvi furono i Caldesi di Eubea, con Teucle capo di quella colonia; fondarono Nasso, ed eressero ad Apollo Archegeta l'altare che ora è fuori di città, sul quale i Teori, ogni volta che hanno a partire di Sicilia, fanno prima sacrificio. L'anno seguente Archia, uno degli Eraclidi di Corinto, fabbricò Siracusa, cacciati prima i Siculi da quell'isoletta che, non più oggi cinta dal mare, forma l'interno della città. Quella parte di città che ne resta fuori in terraferma, dopo qualche tempo le fu aggiunta con un muro, divenne assai popolosa. Cinque anni dopo fondata Siracusa, Teucle e i Calcidesi usciti di Nasso, e scacciati colla guerra i Siculi, fondarono Leontini, e quindi Catana: e i Catanesi presero da sé per capo della colonia Evarco.

4. Nel medesimo tempo anche Lamide da Megera arrivò con una colonia in Sicilia, e fabbricò sul fiume Pantacio un castello per nome Trotilo. Di là passò poi a Leontini, e per poco tempo ebbe parte nel governo coi Calcidesi, dai quali cacciato via, fondò la colonia di Taso dove morì. Da Taso furono parimente banditi i suoi compagni, i quali condotti da Iblone re dei Siculi, che aveva tradito quella terra, fondarono la colonia dei Megaresi, chiamati Iblei: e dopo avervi abitato quarantacinque e duecento anni furono mandati via della città e del territorio da Gelone tiranno di Siracusa. Ma prima di questa cacciata, cioè cent'anni dopo la fondazione della colonia, fabbricarono Selinunte speditovi a tal uopo Pammilo, il quale partito di Megara, che era la città madre, insieme con altra gente fornì quell'impresa. Quarantacinque anni dopo la fondazione di Siracusa, Antifemo ed Entimo fabbricarono in società Gela, conducendovi coloni l'uno da Rodi, l'altro da Creta; e la città prese nome dal fiume Gela. Il luogo però ove è ora la città, e che fu il primo ad essere murato, si chiama Lindii; e vi furono stabilite le leggi doriche. I Geloi, a un bel circa cent'otto anni dopo che ivi abitavano, fabbricarono la città di Acragante, che così la chiamarono dal fiume Acragante, destinati Aristoneo e Pistilo a conduttori della colonia, e le diedero le leggi stesse dei Geloi. Zancle fu in principio fondata dai ladroni andativi da Cuma città calcidica nella campagna opica: ma in seguito dalla Calcide e dal resto dell'Eubea vi andò gran gente che ne possedette in comune il territorio; e capi di quella colonia furono Periere e Cratemene, l'uno di Cuma, l'altro di Calcide. Da principio i Siculi la chiamavano Zancle, perché il castello ha la figura di una falce, e i Siculi chiamano appunto zanclo la falce. Dopo coloro furono cacciati via dai Sami e da altri Ioni che fuggendo i Medi approdarono in Sicilia.

5. Ma poco appresso Anassila, tiranno di Reggio, cacciati i Samii e fermatosi in quella città con della gente mescolata con la rimastavi, le mutò il nome in quello di Messene tolto dall'antica sua patria. Dopo Zancle, Euclide, Simo e Sacone fondarono Imera; ed i più che andarono in questa colonia furono Calcidesi; ma si unirono ad abitare con essi anche i così detti Miletidi esuli da Siracusa, ove erano stati vinti dalla fazione contraria. La lingua di cui uscivano era un po' calcidese, un po' dorica, quanto alle leggi vinsero le calcidesi. Acra e Casmene furono fondate dai Siracusani; Acra settant'anni dopo Siracusa, e Casmene quasi venti dopo Acra, o in quel torno. Parimente i Siracusani fondarono la prima volta Camarina quasi cento trentacinque anni dopo la fabbricazione di Siracusa, e capi della colonia furono Dascone e Menecolo: se non che i Camarinesi essendo stati scacciati come ribelli dalle armi dei Siracusani, poco dopo Ippocrate, tiranno di Gela, in riscatto di alcuni prigionieri siracusani ebbe il territorio camarinese; e fattosi capo della colonia riacconciò Camarina, la quale resa deserta nuovamente da Gelone, fu poi da lui medesimo per la terza volta ripopolata.

6. Tanti erano i popoli fra Greci e barbari che abitavano la Sicilia, contro alla quale (che pure era sì vasta) gli Ateniesi con grande animo voltavano le armi, veramente perché ardevano del desiderio di dominarla tutta: il qual desiderio volevano ad un tempo ricoprire col pretesto di soccorrere i loro consanguinei, e gli altri che si erano collegati con questi. Ma a ciò soprattutto li spinsero, e con gran calore li confortarono gli ambasciatori di Egesta venuti ad Atene; avvegnaché gli Egestei confinanti dei Selinunti si trovavano in guerra con essi per causa di diritti nuziali, e per controversie di territorio: ed i Selinunti, essendosi aggiunti in alleanza i Siracusani, li stringevano colla guerra per terra e per mare. Il perché gli Egestei ricordavano agli Ateniesi la lega fatta al tempo di Lachete, e della precedente guerra dei Leontini, e li pregavano a soccorrerli collo spedir loro delle navi. E tra le molte ragioni che adducevano la principale era, che se i Siracusani dopo aver disertato i Leontini restassero impuniti, e seguitando a guastare anche gli altri alleati s'impadronissero di tutte le forze di Sicilia, vi era pericolo che come Dorici volessero, attesa la parentela, soccorrere con grandi apparecchi i Dorici, ed insieme i Peloponnesi come colonia loro, e dar mano ad abbattere la potenza d'Atene. Esser dunque saggia cosa che insieme con gli alleati che vi restavano si opponessero ai Siracusani; tanto più che essi somministrerebbero denari a sufficienza per la guerra. Queste ragioni ripetute più volte nelle assemblee dagli Egestei e dagli oratori che patrocinavano la loro causa, mossero gli Ateniesi a decretare, che si spedissero prima dei legati ad Egesta a vedere se vi fossero nel pubblico erario e nei templi le ricchezze ch'essi dicevano, ed insieme ad informarsi dello stato della guerra contro i Selinunti.

7. Furono infatti spediti in Sicilia i legati. Nel medesimo inverno i Lacedemoni e i confederati, tranne i Corinti, portarono guerra sul territorio argivo, ne devastarono una piccola porzione, e dopo aver portato via del frumento su dei carri che avevano condotti, diedero stanza in Ornea ai fuorusciti d'Argo, ai quali lasciarono del resto dell'esercito poche genti. Quindi per un certo tempo fermata tregua, per la quale gli Orneati e gli Argivi non si molesterebbero, tornarono coll'esercito a casa. Ma poco dopo venuti gli Ateniesi con trenta navi e seicento soldati di grave armatura, gli Argivi insieme con essi uscirono ad oste con tutte le milizie; e per un intero giorno stettero assaltando quelli che erano in Ornea: e sulla notte avendo discostato l'esercito per trovare alloggiamento, quei di Ornea fuggirono. Il dì seguente gli Argivi visto ciò spianarono Ornea e si ritirarono; e gli Ateniesi anch'essi tornarono poi colle navi a casa. In Metona, sulle frontiere di Macedonia, furono per mare spediti dagli Ateniesi alcuni dei propri soldati a cavallo, insieme coi fuorusciti macedoni che si erano rifugiati tra loro; e di là danneggiavano gli stati di Perdicca. E i Lacedemoni mandarono ai Calcidesi di Tracia, che avevano tregua per dieci giorni con gli Ateniesi, che unissero le loro armi con Perdicca, lo che non vollero fare. Finiva intanto l'inverno, e con esso il sedicesimo anno di questa guerra che ha descritta Tucidide.

8. Nella seguente estate al cominciar di primavera tornarono di Sicilia i legati degli Ateniesi, e con essi quelli degli Egestei, recando sessanta talenti d'argento non coniato, da servire per la paga di un mese alle sessanta navi di che volevano domandare la spedizione. Gli Ateniesi tennero adunanza, ove tra le molte cose persuasive, ma non vere, riferite dagli Egestei e dai propri ambasciatori, intesero esservi in pronto molto denaro nei templi e nel pubblico erario. Laonde fermarono di spedire in Sicilia le sessanta navi capitanate con assoluto comando da Alcibiade di Clinia, Nicia di Nicerato, e Lamaco di Xenofane, i quali dovessero soccorrere gli Egestei contro i Selinunti, riunire in patria i Leontini (se pure quella guerra lasciasse loro il modo di farlo), e governare le altre cose di Sicilia in quella guisa che stimassero più profittevole ad Atene. Cinque giorni dopo fuvvi di nuovo adunanza per trattare del come si potesse il più prontamente preparare il bisognevole alle navi, e per decretare quel di più che potesse occorrere ai capitani per quella spedizione. Ma Nicia, che contro sua voglia era stato scelto a quel comando, tenendo per cattiva quella risoluzione della città, la quale con piccola e colorata cagione aspirava a conquistare tutta la Sicilia, impresa veramente grande, presentatosi agli Ateniesi cercava di distorli da ciò, e gli ammoniva con tali parole?

9. «Quest'assemblea, che ha per oggetto i nostri apparecchiamenti, si è qui raccolta, come che bisogni navigare in Sicilia. A me però sembra doversi appunto intorno a ciò discutere ancora se sia meglio o no spedire la flotta, e guardarsi dall'imprendere con sì breve consiglio una guerra che non ci appartiene, dando retta a gente estranea in cose rilevantissime. Eppure io in questa spedizione trovo il mio onore, e meno degli altri ho paura della mia vita; quantunque io stimi cittadino egualmente buono chi provvede al suo corpo e alla sua roba, perciocché questi, anche per riguardo suo, sommamente bramerà prospera la Repubblica. Con tutto ciò, non avendo mai nel tempo innanzi parlato contro la mia opinione per cagione di distinti onori, neanche adesso voglio farlo; ma dirò quello che tengo per migliore. Bene io veggo che negli animi vostri non avrebbe forza il mio discorso se vi esortassi a salvare quel che avete, e a non arrischiare il presente per cose incerte e future. Il perché intendo mostrarvi che vi affannate fuor di tempo, e che non è facile ad ottenere quello a cui correte.

10. «Dico dunque che navigando in Sicilia, voi, lasciati qua molti nemici, volete attirarne degli altri. E credete voi forse che la tregua successa abbia qualche fermezza? Ma sappiate che ella manterrà questo nome fino a che voi state quieti (che tale l'hanno resa alcuni dei nostri e degli avversari), e che a una sconfitta di qualche parte considerevole del nostro esercito, i nemici ci saranno subito addosso; primo perché (attese le loro calamità) quella convenzione fu per essi forzata, e più disonorevole che per noi; dopo perché in essa abbiamo molti articoli in controversia. Anzi vi sono di quelli (né già dei più deboli) che quest'accordo non approvarono, e che apertamente ci guerreggiano; altri, siccome i Lacedemoni non si muovono, così anch'essi sono ritenuti dalla tregua dei dieci giorni. Ma forse, e senza forse, se troveranno divise le forze nostre (lo che noi affrettiamo), ci assalteranno animosamente insieme coi Siciliani, l'alleanza dei quali avrebbero per l'innanzi avuta cara sopra molte cose. Laonde questo è ciò che dobbiamo osservare, invece di volere arrischiarci mentre la Repubblica tentenna, ed ambire nuovo impero prima d'aver fermato quello che abbiamo. I Calcidesi di Tracia, ribelli nostri da tanti anni, non sono ancora soggiogati, alcuni altri di terraferma sono instabili nell'obbedienza e e noi ci affrettiamo a soccorrere gli Egestei come oppressi, che al più ci sono alleati, e tranquilliamo ancora a vendicarci delle ingiurie di coloro che da gran tempo ci sono ribelli?

11. «Eppure abbattendo questi ultimi potremo tenerli in dovere; dove ancorché vinciamo i Siciliani difficilmente potremo dominarli a cagione della lontananza e moltitudine. Ora è stoltezza andar contro gente, vincendo la quale tu non possa ritenerla; e non vincendola, tu t'abbi a trovar peggio che prima d'averla assaltata. E parmi che i Siciliani, nel loro stato presente, siano per noi vie meno da temere, di quello che se i Siracusani gli sottomettano; di che principalmente gli Egestei ci fanno temere. Conciossiaché, divisi come or sono, potrebbe ciascun popolo venir contro di noi per gratuirsi i Lacedemoni: ma in quell'altro modo non è presumibile che un impero vada contro un altro impero; essendo che, siccome costoro coi Peloponnesi torrebbero a noi il nostro, così per la stessa ragione i Peloponnesi probabilmente torrebbero ad essi il loro. A volere sbigottir veramente i Greci di Sicilia, o bisogna non andar colà. o almeno ritornarsene ben presto dopo aver mostrato le forze nostre; perciocché tutti sappiamo che le cose lontane e che non hanno dato riprova dell'opinione che se ne ha, mettono di sé meraviglia. Che se avessimo una sconfitta ci piglierebbero subito in disprezzo, e coi Greci di là ci assalirebbero. E tale è appunto ora il caso vostro, o Ateniesi, rispetto ai Lacedemoni e loro alleati: perché siccome gli avete superati contro l'aspettativa in quel genere di guerra nel quale innanzi gli temevate, così ora gli dispregiate ed aspirate anche alla Sicilia. Badate però che non bisogna inorgoglire per le disgrazie dei nemici, ma prender fiducia quando si abbia depresso il loro animo, e stimare che i Lacedemoni mossi dalla vergogna non altro facciano che speculare in che modo possano, abbassati noi, trovare un bel compenso al proprio disdoro, tanto più che con moltissima cura e da moltissimo tempo van facendo procaccio di opinione di valore. Per lo che, se abbiamo senno, non dobbiamo pigliar gara per genti barbare, quali sono gli Egestei di Sicilia, ma guardarci animosamente da una città che per la sua oligarchia c'insidia.

12. «Oltre di che vuolsi rammentare che di recente ci siamo un poco riavuti e dal fiero morbo e dalla guerra, e però siamo cresciuti in denaro e in popolazione; le quali cose è giusto che si spendano quì per noi, e non per gente bandita chiedente soccorso, gente cui torna in vantaggio il mentir contamente, e che quand'altri è in pericolo va pascendolo sol di parole; e se ella vince non te ne sa grado condegnamente, e se mai perde avvolge nella sua rovina anche gli amici. E se vi ha chi gongolando per essere scelto a capitano, vi conforta alla spedizione solo perché mira al proprio vantaggio, tanto più che essendo ancor troppo giovine per il comando vuol farsi ammirare per la sua cavallerizza, e giovarsi della carica per mantenere la sua sontuosità; non date in mano neppure a costui di che brillare in privato con pericolo della Repubblica. Siate anzi persuasi che sì fatti cittadini danneggiano il pubblico, e rifiniscono il suo, che l'affare di cui si tratta è grande, e non tale da esser consigliato da un giovincello, né da governarsi così spacciatamente.

13. «Ed io, al veder in questo consesso gente di tal tempera che parteggiano per lui, vengo in timore, e dal canto mio esorto i più attempati che, se ad alcuno di loro seggano accanto, non si rechino a vergogna di passar per infingardi, ove non diano il voto per la guerra, e che (siccome accade nei giovani) non siano perdutamente innamorati delle cose lontane, sapendo che pochissimi affari si conducono a buon fine pel desiderio, moltissimi per la previdenza. Ed invece li prego che per amore di questa patria, che va a gettarsi in un pericolo grandissimo oltre ogni altro di pria, vogliano in ciò dar contrario il loro voto, e decretare che i Siciliani tengano le loro cose usando i confini di adesso (su di che non abbiamo nulla da ridire), cioè il seno ionico per chi navighi radendo la spiaggia, e quello di Sicilia per chi va in alto mare; che quanto alle differenze l'accomodino tra loro: che agli Egestei in diviso si risponda, che siccome attaccarono la guerra coi Selinunti, senza gli Ateniesi, così da sé la sciolgano; e che in seguito non ci facciamo alleati (come siamo soliti) di popoli, i quali ci convenga soccorrere quando si trovano male; e bisognando noi di aiuto, non possiamo ottenerlo.

14. «E tu, o Pritane, se credi tuo debito aver cura, della patria, e vuoi essere buon cittadino, riproponi la cosa e mandala nuovamente a partito, persuadendoti (qualora tu tema di rimetterla un'altra volta ai voti) che il trasgredire alle leggi fra tanti testimoni non ti sarà apposto a delitto, e che piuttosto tu sarai il medico della Repubblica che aveva malamente deliberato, e che ottimo magistrato è quegli che più giova alla patria, e che meno la danneggia volontariamente».

15. Così parlò Nicia, e la maggior parte degli Ateniesi che dopo lui si presentarono a parlare consigliavano si facesse la spedizione e non si cassasse il decreto; alcuni poi dicevano il contrario. Tra quelli che più caldamente insistevano per la spedizione, era Alcibiade di Clinia bramoso di opporsi a Nicia, dal quale d'altronde discordava in materia di politica, e dal quale era stato punto con parole, e desideroso principalmente di condurre quella impresa, come quegli che sperava che gli Ateniesi terrebbero da lui il conquisto di Sicilia e di Cartagine; le quali cose riuscendo prosperamente, anch'egli in privato avanzerebbe in ricchezze e in gloria. Ed invero essendo tenuto in gran conto dai concittadini aveva voglie troppo maggiori dei suoi averi sì rispetto alla cavallerizza che all'altre spese, lo che poi tornò in grandissimo abbassamento della Repubblica d'Atene. Conciossiachè la maggior parte impauriti per la smodata lautezza di sua persona, e per la vastità dei disegni in ogni cosa che intraprendeva, gli divennero nemici come affettasse tirannia. Onde sebbene quanto al pubblico avesse vigorosamente disposte le cose di guerra, nondimeno in particolare pesando a ciascuno le sue maniere, ne commisero il carico ad altri, e così in poco tempo rovinarono la Repubblica. Egli dunque allora fattori innanzi disse agli Ateniesi queste parole:

16. «Ateniesi, a me più che ad altri spetta il comando (giacché è forza cominciar di quì perché Nicia ha toccato me), e credo ancora di meritarlo. Quelle cose infatti ond'io sono celebrato apportano onore ai miei antenati ed a me, e vantaggio alla patria. Imperciocché i Greci, che prima credevano abbattuta la città nostra, sono venuti nella opinione che ella sia più potente di quel che invero non è per la mia splendidezza ai giochi d'Olimpia, ove corsi con sette cocchi e vinsi, ed ebbi il secondo e quarto premio, e gli altri apparati ordinai condegnamente alla vittoria. Queste cose sono per legge in onore; e la magnificenza nell'eseguirle desta insieme l'idea del potere della Repubblica; e le mie larghezze e tutto quello ond'io son chiaro in città muovono naturalmente ad invidia i cittadini, ma mostrano ai forestieri la potenza di lei. Onde siccome non è disutile questa follia di uno che a proprie spese giova non solo a sé stesso, ma eziandio alla patria, così non è ingiusto che chi sente altamente di sé non voglia stare alla pari cogli altri, dappoiché se egli si trova in disgrazia nessuno va di pari con esso nella sventura. Anzi in quella guisa che quando siamo disgraziati nessuno pur ci saluta, per egual modo soffra ciascuno in pace d'esser trascuralo da chi è felice, o tratti alla pari col miserabile, ed allora esiga altrettanto. Io so che le persone di questo calibro e tutti quelli che avanzano altrui di chiarezza in checchessia, sono incomodi durante la loro vita agli uguali principalmente, e poi anche agli altri coi quali usano: ma con tutto questo lasciano ad alcuni che vengono dopo, la gara di appropriarsene la parentela (sebbene non gli attengano per nulla), e alla patria in che nacquero danno materia di vanto, non quasi fossero gente straniera o dappoco, ma cittadini suoi propri e facitori di belle gesta. Queste sono le glorie che bramo; e quantunque io venga diffamato per questo mio privato contegno, osservate se governo gli affari pubblici peggio di verun'altro: avvegnaché vi so dire che io mi son quegli che, riunite a voi senza vostra grande spesa o pericolo le città più potenti del Peloponneso, ridussi i Lacedemoni a combattere in un sol giorno per la somma delle cose a Mantinea, ove sebbene vincessero la battaglia, pure da indi innanzi non si sono più sinora rassicurati stabilmente.

17. «Inoltre questa mia giovanile follia che sembra eccedere oltre l'età fu quella che con acconcie parole trattò colla potenza dei Peloponnesi, e che siccome col suo impeto ispirò loro fiducia, così persuase voi anche adesso a non temerla. Anzi mentre io sono nel vigore di essa, e Nicia sembra fortunato, valetevi pure di ambedue in quello a che siamo utili, e non mutate consiglio sulla spedizione di Sicilia, quasi che dovesse farsi contro a paese potente. Vero è che le città di quei luoghi sono assai popolate, ma di un miscuglio di gente, e però facili a cambiar di governo e a ricever chiunque. Ond'è che nessuno, come si farebbe per la propria patria, è fornito delle armi per difendere il suo corpo, o degli apparati che si richieggono in quel paese, ma quello che ciascuno spera di dover ottenere con persuasive parole, od anche di rapire dal comune erario nel bollore delle parti, e poi mutar suolo se la sua non vinca, questo è ciò che tutti si vanno procacciando. E non ci è pericolo che turba siffatta voglia udire d'un animo chi le favelli, o voltarsi di comun concordia ad operare; ma invece ciascun di loro aderirà a quello che sia detto a suo genio, tanto più se, come udiamo, sono in sedizione. Né già hanno essi tanti soldati quanti ne vantano, né gli altri Greci compariscono tanti quanti ciascuna provincia ne novera; anti quella Grecia, che ha grandemente ingannato costoro, si dura fatica a credere che abbia milizie sufficienti a questa guerra. Tali pertanto, per quello ch'io ne so d'udita, sono le cose di là, e forse anche più agevoli. Infatti vi troveremo molti barbari che per odio dei Siracusani si uniranno con noi ad assalirli, né le cose di qua potranno impedirci, ove dirittamente deliberiate. Imperciocché i padri nostri oltre i nemici, che al dir di costoro ci lasceremo dietro navigando in Sicilia, avevano nemico anche il Medo; e pure si acquistarono l'imperio non con altro che colla sovrabbondanza delle forze marittime. Ora i Peloponnesi tutto ché si trovino nel più vigoroso stato, sono disperati più di prima di poterci opprimere: e dato anche che la spedizione non si faccia, sono certo in forze da assaltare le nostre terre: ma non potranno danneggiarci colla flotta, perché altra ce ne resta, e tale da fronteggiarli.

18. «Laonde quale addurremo giusta ragione del nostro inritrosire, o scusa agli alleati del non aiutarli? Noi dobbiamo soccorrerli per via dei giuramenti, e non opporre che essi non ci soccorrono; avvegnaché non gli abbiamo aggiunti alla nostra lega perché dal canto loro venissero qua in nostro aiuto, ma perché inquietassero i nemici nostri di là, e impedissero loro venir qua contro noi. E noi e qualunqu'altri abbiamo impero, lo abbiamo acquistato in questo modo; cioè col soccorrere sollecitamente chi ci chiamasse fosse greco o fosse barbaro. Imperocché se tutti stiano quieti, o facciano rigorosa scelta di quelli che per ragione debbano aiutarsi, certo quand'anche volessimo accrescere d'un poco il nostro Stato, correremmo maggior pericolo per quello stesso che abbiamo: perché nessuno aspetta a difendersi dal più forte quando è da quello assalito, ma tenta furargli le mosse acciò non gli venga contro. Senza di che non sta in noi di contemperare l'impero nostro alla foggia dei nostri desideri: ma poiché siamo in questo stato ci è forza tendere insidie ad alcuni, ad alcuni poi non allentare la briglia, essendovi pericolo di soggiacere noi stessi all'altrui dominio se non sappiamo dominare sugli altri; tanto più che come gli altri non possiamo brigarci della tranquillità, ove non vogliate del pari con loro cambiar di maniere. Per lo che considerando che coll'andare colà accresceremo vie più lo stato nostro, facciamo la spedizione per abbassare la superbia dei Peloponnesi, mostrando che pieni di disprezzo per loro sappiamo preferire alla presente quiete anche la navigazione in Sicilia. Confido inoltre che coll'aggiunta delle forze di colà probabilmente ci assoggetteremo tutta la Grecia, o almeno danneggeremo i Siracusani; nel che avvantaggeremo noi stessi e gli alleati. La sicurezza poi o di restarvi, se alcuno si aggiunga a noi, o di tornare indietro, l'avremo dalle navi: avvegnaché ne potremo più di tutti i Siciliani insieme. E però l'inazione e la discordia fra giovani e vecchi, accennate dai discorsi di Nicia, non vi smuovano: anzi con quel solito buon ordine, la cui mercé i padri nostri tutti d'accordo e giovani e vecchi avanzarono a questo grado lo stato, nello stesso modo ora anche voi sforzatevi di ingrandire la Repubblica. E siate persuasi che la gioventù e la vecchiezza disgiunte tra loro non possono nulla; ma che ove siano unite, venendo a mescolarsi insieme tutto ciò che è debole, mediocre e buonissimo, sono sufficienti a tutto; che la città stando in ozio si consumerà da sé stessa, siccome avviene dell'altre cose, ed ogni maniera di sapere v'invecchierà; mentre esercitandosi in guerra acquisterà sempre nuova perizia, e si avvezzerà a difendersi non colle parole ma coi fatti. Insomma io quanto a me penso che una città operosa dovrà ben presto corrompersi passando ad una vita d'ozio; e che i più sicuri nel loro stato sono coloro, che di comune concordia si governano colle costumanze e leggi presenti, tuttoché non perfettissime».

19. Con tanto calore parlò Alcibiade: e gli Ateniesi udito lui e le domande degli Egestei e dei fuorusciti leontini, che fattisi avanti rammentavano loro le giurate convenzioni ed imploravano soccorso, molto più di prima s'invogliarono della spedizione. Di che Nicia avvistosi che con quelle sue medesime ragioni non li potrebbe più distorre, ma che forse, se ordinasse molti apparecchi, la grandiosità di questi farebbe loro mutare pensiero, di nuova presentatosi ad essi parlò così:

20. «Poiché, o Ateniesi, vi vedo al tutto infiammati per la spedizione, riescano pur le cose come bramiamo; ma io voglio al presente esporvi la mente mia. Le città contro le quali siamo per andare, a quel ch'io ne so d'udita, sono grandi e tra loro indipendenti, né cercano mutazione onde ciascuna da violenta servitù possa volenterosa passare a più mite governo; ed essendo molte per un'isola sola, e molte di queste greche, non vorranno probabilmente gradire il nostro impero invece della libertà. E senza parlare di Nasso e Catana (che per la parentela dei Leontini spero saranno con noi), ve ne sono altre sette di tutto fornite colla massima conformità al nostro esercito, e tra queste non ultime sono Selinunte e Siracusa, contro le quali principalmente navighiamo. Imperocché hanno esse molti soldati gravi, ed arcieri e saettatori, e molte triremi, e numerose ciurme da empirle: hanno denari parte in proprio, parte nei templi di Selinunte; e i Siracusani riscuotono tributo in generi da alcuni barbari. E quello in che di gran lunga elle ci avanzano, sono provviste di molti cavalli, ed usano frumento proprio non portato di fuori.

21. «Contro tante forze dunque non basta solo un navale e debole esercito, ma ci vogliono eziandio sulle navi molti soldati da sbarco, se vogliamo eseguire alcun che degno del nostro concetto, e non essere impediti di pigliar terra da grossa cavalleria, specialmente nel caso che le città impaurite si colleghino insieme, o che noi non troviamo altri amici (dagli Egestei in fuori) che ci somministrino cavalli da opporre al nemico. Sarebbe certo vergogna l'essere costretti a tornarcene, o chiedere dopo nuove truppe per aver deliberato inconsideratamente da primo: ond'è che conviene partire di qua con sufficiente apparecchio, sapendo che dobbiamo navigare molto di lungi dal paese nostro. Voi non uscite ora alla guerra siccome quando portate le armi contro alcuno fra genti a voi soggette, e però cavate facilmente i viveri da paese amico: ma andate a gettarvi lontani in terra straniera, donde non è facile avere qua nuove neppure in quattro mesi d'inverno.

22. «Il perché pare che dobbiamo traghettarvi molte milizie gravi delle nostre, degli alleati, dei vassalli (e potendo, cavarne alcune dal Peloponneso o colle persuasioni o col soldo) e molti arcieri e frombolieri per far testa alla loro cavalleria, e molto maggior numero di navi per trasportare più facilmente i viveri, e condurre di qua sulle barche da carico grano e orzo tostato, e panettieri salariati tolti ripartitamente dai mulini, acciocché, ovunque ci troviamo sorpresi da qualche fortuna di mare, il bisognevole non manchi all'armata, alla quale essendo sì grande non potrà ogni città dar ricovero. Insomma bisogna non fidarsi agli altri, e provvedersi per quanto si può d'ogni altra cosa, e soprattutto portar di qua moltissimo denaro; perché quel degli Egestei che si dice esser colà pronto, siate certi che è pronto più che altro in parole.

23. «Che se noi di qua vi andremo con apparecchio non solo equivalente ma anche superiore in ogni cosa (io eccettuo i loro soldati gravi che sono bene agguerriti) difficilmente anche così potremo vincere i nemici e salvare gli amici. Vuolsi poi far ragione che coloro che vanno ad impadronirsi di città posta in mezzo a gente straniera e contraria, bisogna nel primo giorno in che approdano si rechino in poter loro il territorio, o si aspettino al primo fallo di trovar nemici da per tutto. Lo che temendo e sapendo aver noi spesse volte bisogno di retto consiglio, e più anche di buona ventura (che agli uomini tocca difficilmente), voglio, nel mettermi in mare, darmi in balia della fortuna il men possibile, e navigar con apparecchio che ragionevolmente mi offra sicurezza. Queste, a mio avviso, sono le cose che più fanno sperare fermezza alla Repubblica intera, e salute a noi che dobbiamo militare: e se pur v'ha cui sembri altrimenti, io gli cedo il comando».

24. Tutte queste cose disse Nicia sperando o di rimuovere gli Ateniesi dall'impresa colla molteplicità degli ostacoli, o se fosse costretto alla spedizione di potere in quel modo navigare più sicuramente. Essi però con tutta quella farragine di apparecchiamenti non scemarono la brama della spedizione, ma s'infiammarono maggiormente; cosicché la cosa gli andò al contrario: perocché fu creduto che egli consigliasse bene, e che l'impresa nel modo detto da lui riuscirebbe prosperamente. E il desiderio di navigare entrò in tutti egualmente; nei vecchi perché speravano di soggiogare i luoghi contro i quali andavano, o almeno di non dovere esser battuti con si grossa armata; in quei di fresca età per la brama di vedere ed osservare un paese lontano, e per la fiducia di avere a tornar sani e salvi; e la numerosa moltitudine e i soldati ripromettevansene denaro al presente, e nuovo acquisto di potenza, onde otterrebbero gli stipendi a vita. Tantoché per quella viva generale bramosia, se alcuno v'era cui ciò non piacesse, se ne stava tranquillo, temendo di passare per malaffetto alla Repubblica ove col suo voto si opponesse.

25. Finalmente un Ateniese fattosi avanti e confortato Nicia, disse che non bisognava tergiversare né indugiare, ma dire in faccia a tutti quali preparamenti dovessero gli Ateniesi decretarli. E Nicia, benché malvolentieri, rispose che ne terrebbe posatamente più serio consiglio coi suoi colleghi: nondimeno parergli fin d'allora non doversi navigare con meno di cento triremi; che quelle destinate al trasporto delle truppe dovevano esser proprio degli Ateniesi in quel numero che essi credessero, le altre si facessero venire dagli alleati: che i soldati gravi tra degli Ateniesi e degli alleati dovevano essere in tutti non meno di cinque migliaia, e più se si potesse; e che bisognava allestire e condurvi tutti gli altri fornimenti in proporzione dell'esercito, e arcieri d'Atene e di Creta, e frombolieri e ogni cosa che giudicassero opportuna.

26. Gli Ateniesi udito ciò, subito decretarono che i capitani avessero illimitato comando, e che quanto al numero delle soldatesche ed a tutta la navigazione facessero in quel modo che credessero il meglio per Atene. Dopo di che cominciarono gli apparecchi, e mandarono per le truppe degli alleati, e facevano il ruolo di quelle di lì: e siccome la città si era da qualche tempo riavuta dalla pestilenza e dalla continua guerra, così vi era molta fresca gioventù, e copia di denaro stante la tregua; onde tutto somministravasi più agevolmente.

27. Ma frattanto che davano opera agli apparecchiamenti, quanti Mercuri di pietra erano in Atene ebbero la maggior parte smozzicata la faccia in una sola notte. Sono essi un lavoro di figura quadrangolare, e secondo l'usanza del paese trovansene molti negli atri delle case e nei luoghi sacri. Nessuno sapeva i rei di tal misfatto, ma erano essi inquisiti, proposti pubblicamente grandi premi a chi li scoprisse; e di più fu fatto un decreto col quale davasi l'impunità a chiunque cittadino, forestiero o servo, manifestasse qualsivoglia altro sacrilegio che sapesse essere stato commesso. E davano maggior peso a questa cosa perché pareva un malagurio per la spedizione, ed insieme fatta per congiura di tentare cose nuove ed abolire lo stato popolare.

28. Pertanto alcuni inquilini e servi diedero degli indizi non già riguardo ai Mercuri ma ad alcuni guasti di altre statue fatti per scherzo da dei giovani avvinazzati, ed insieme riguardo a dei misteri che per disprezzo si facevano nelle case; di che accusavano ancora Alcibiade. E quei principalmente che non lo potevano patire, perché sé lo vedevano d'impaccio a primeggiar sicuramente nel popolo, e che stimavano che cacciato lui rimarrebbero essi i primi, raccoglievano tali accuse, e le ingrandivano, e vociferavano che le mistiche cerimonie e il guasto dei Mercuri avevano per scopo il disfacimento della democrazia, e che nessuna di quelle cose erasi fatta senza di lui; adducendo in prova la sregolatezza nel resto di sua condotta non punto popolare.

29. Egli di presente si difendeva di tali indizi, e se nulla di ciò avesse commesso mostravasi pronto a sostenere il giudizio e pagare la pena prima di partire colla flotta (e già gli apparecchi erano stati fatti), ed a prendere il comando se venisse prosciolto. Li scongiurava a rigettare le accuse quando fosse assente, e se lo credessero reo ad ucciderlo subito; e diceva esser miglior consiglio il non mandarlo alla testa di sì grande armata con quelle imputazioni prima del giudizio. Ma i suoi nemici temendo che forse combattendo egli la propria causa avrebbe benevolo l'esercito, e il popolo a suo riguardo si ammollirebbe, perché aveva operato che gli Argivi ed i Mantineesi si unissero a questa spedizione, dissuadevano e sconsigliavano i cittadini da quelle sue domande, mettendo innanzi altri oratori, che dicevano dovere imbarcarsi allora e non prolungare la mossa dell'armata; che poi ritornato se ne farebbe giudizio in certi giorni. Volevano essi che richiamato tornasse a dire la sua causa contro imputazioni maggiori, che, lui assente, avrebbero trovate più agevolmente, e fu risoluto che allora partisse.

30. Dopo queste cose, essendo già a mezzo la state, facevano partenza per Sicilia. Prima però era stato intimato che il più degli alleati, e le navi annonarie e le barche e tutto il rifornimento che seguiva la flotta dovessero ridursi a Corfù, a fine di tragittare di là tutti insieme pel seno ionico al promontorio Iapigio. E gli Ateniesi, e se alcuni degli alleati si trovavano ad Atene, nel giorno stabilito scesero sull'aurora nel Pireo, e montarono sulle navi per far vela, e con essi scese tutta, per così dire, l'altra moltitudine della città, cittadini e forestieri, e quelli del paese, per accompagnare ciascuno chi gli amici, chi i parenti, chi i figlioli: e in andando erano in preda alla speranza ed al pianto, quella per le conquiste che essi potrebbero fare, questo perché forse non gli avrebbero a rivedere mai più, considerando il lungo viaggio a che erano spediti lontano dalla patria.

31. E fu allora appunto che dovendo darsi lo scambievole addio, col pensiero dei pericoli provarono raccapriccio maggiore che quando decretarono la spedizione. Con tutto ciò osservando particolarmente la grandezza degli apparati, ripigliavano cuore alla vista delle presenti forze. I forestieri poi e l'altra turba vi andò per godere di uno spettacolo quanto sublime, altrettanto maggiore d'ogni pensiero. Infatti quest'armata di soldatesca greca la prima a mettersi in mare da una città sola, fu sontuosissima e magnificentissima oltre ogni altra fino a quel tempo. Bene è vero che per il numero delle navi e delle milizie greche non fu ad essa inferiore quella che con Pericle andò ad Epidauro, e poi con Agnone a Potidea: poiché vi si unirono quattromila soldati gravi, e trecento cavalli, e cento triremi degli Ateniesi, e cinquanta di quelle dei Lesbi e Chii, con più molti confederati. Ma quelli si mossero a breve navigazione e con piccolo equipaggio: dove questo stuolo che doveva durare del tempo, e servire per terra e per mare (qual che si fosse il bisogno) era completamente fornito di navi e di truppe da sbarco. La flotta fu messa all'ordine con grandi spese dei trierarchi e della Repubblica. Il Comune dava una dramma il giorno per marinaro, e somministrava le navi vuote, sessanta leggere, quaranta per il trasporto dei soldati gravi, ed ottime barche a servigio di questi. I trierarchi oltre al soldo del Comune davano un aumento di paga ai marinari traniti, o vogliamo dire remiganti da poppa, ed a quelli delle barche; ed usavano anche nel resto di assise ed acconciamenti di gran pregio, e ciascuno studiavasi sommamente che la sua nave primeggiasse di gran lunga o per qualche bella fregiatura o per velocità. I soldati poi da sbarco erano stati scelti con ottime leve, e gareggiavano tra loro con gran cura della bellezza delle armi e delle altre cose che riguardavano la persona. A ciò aggiungevasi ancora gran competenza scambievolmente negli uffici assegnati a ciascuno, di qualità che pareva quella piuttosto una mostra di potenza e di forza a petto agli altri Greci, che un apparecchio contro ai nemici. Ed in vero se alcuno vorrà computare le pubbliche spese della città e quelle private dei soldati; cioè quanto alla città le spese già fatte di prima e l'equipaggio con che spediva i generali; quanto ai particolari, quel che ognuno aveva speso per la sua persona, e i trierarchi per la propria nave, e quel che erano ancora per spendere, e di più ciò che oltre al soldo del Comune ciascuno naturalmente si procurava pel viatico, trattandosi di lunga spedizione, e ciò che ogni soldato e altro navigante portava seco per farne commercio, troverà molti talenti in tutti essersi portati fuori di patria. Così questa armata più che per la maggioranza dell'esercito, a confronto dei nemici contro i quali andava, fu famigerata per lo stupendo ardimento e per la splendida comparsa, ed eziandio perché quello era il tragitto più lontano dal proprio paese, ed intrapreso con speranza troppo grande delle cose avvenire, avuto riguardo alle forze, presenti.

32. E poiché le navi furono piene di soldati con entro tutto ciò che partendo dovevano portare seco, fu dalla tromba intimato il silenzio, e le consuete preghiere prima di salpare non si facevano da ciascuna nave in particolare, ma da tutta insieme la flotta all'intonazione dell'araldo. Poi con tazze d'oro e d'argento i soprassaglienti e i capitani libavano il vino mesciuto in grandi vasi per tutta l'armata, e di sul lido si univa alle loro preci l'altra moltitudine di cittadini, e di quanti erano loro benevoli. Cantato quindi il Peana diedero le vele ai venti, e da prima movendo le navi in fila presero subito a gareggiare nel corso sino ad Egina, e si affrettavano di giungere a Corfù ove dovevano far capo le altre truppe alleate. Intanto a Siracusa venivano nuove da molte parti della mossa della flotta, e con tutto questo per un pezzo non ne credevano nulla. Ma tenutasi adunanza, vari parlarono secondo il loro avviso, stimando alcuni vera la spedizione degli Ateniesi, altri contraddicendo: ed Ermocrate di Ermone persuaso di essere bene informato di tali cose, parlò facendo queste esortazioni.

33. «Parrà forse che io, siccome alcuni altri, dica cose incredibili, se vi do per vera la mossa della flotta nemica. So che chi dice ed annunzia ciò che non ha faccia di credibile, non solo non persuade, ma passa ancora per dissennato: nientedimeno, pericolando la Repubblica, non vo' per questo timore rimanermi, essendo io convinto di parlare con più chiare notizie degli altri. Sì, gli Ateniesi (di che voi grandemente meravigliate) vengono contro noi con grosso esercito marittimo e terrestre, sotto colore di soccorrere come alleati gli Egestei, e di far rimpatriare i Leontini; ma nel vero perché bramano la Sicilia, e principalmente la città nostra, presa la quale credono facile occupare il rimanente. Per lo che aspettateveli quì ben presto, e vedete quale sia il modo più decoroso per resistere loro, e non vogliate, dispregiandoli, lasciarvi cogliere alla sprovvista; o non credendo a me trascurare l'universale. Se poi vi ha chi mi creda, costui non si sgomenti dell'audacia e potenza loro; perché essi non potranno più danneggiare noi che toccarne. La loro stessa venuta con numerosa flotta non è senza nostro vantaggio; anzi tanto meglio rispetto agli altri Siciliani, che impauriti di quella vorranno con più prontezza collegarsi con noi. E se noi potremo o disfarli o respingerli colle mani vuote di ciò che bramano (né io temo perdio che abbiano a conseguire quel che si aspettano) ci verrà fatta la più bella delle imprese, che quanto a me non dispero. Poche sono le armate o di Greci o di barbari che andate molto di lungi dal proprio paese abbiano avuto buon successo: perché esse non vanno colà in maggior numero degli abitanti e dei vicini, che tutti per la paura si riuniscono. E se per mancanza di viveri rovinano in paese straniero, tutto che per lo più cadano per propria colpa, pure lasciano rinomanza ai popoli insidiati. Così questi stessi Ateniesi nei molti e non presumibili tracolli del Medo, crebbero per la fama che egli andasse sol contro Atene: e noi non dobbiamo disperare che possa accaderci altrettanto.

34. «Laonde facciamo cuore e prepariamo qui le cose nostre; mandiamo ai Siculi per confermare meglio alcuni e per procurarci l'amicizia e la lega di altri; inviamo legati al resto di Sicilia mostrando che il pericolo è comune, ed in Italia acciò facciano alleanza con noi, o almeno non ricevano gli Ateniesi. Credo anche ben fatto spedire a Cartagine, perché anche là pur troppo si aspettano è sono sempre in timore che gli Ateniesi o prima o poi non assaltino la loro città; talché forse, al riflettere che non dandosi cura di queste cose potrebbero trovarsi anch'essi in travaglio, vorranno soccorrerci o di furto o alla scoperta, o in qualunque altro modo. E certo, volendo, possono farlo più di tutti i popoli d'ora, perché hanno molto oro ed argento, che come sono l'anima delle altre cose, così lo sono della guerra. Mandiamo eziandio a Sparta e a Corinto pregandoli di pronto soccorso per qua, e di mover la guerra nell'Attica. Ma non voglio tacervi qual io mi tenga miglior partito, benché voi non l'approverete tostamente per la vostra solita infingardia; cioè che noi Siciliani tutti insieme, se vorremo, o almeno moltissimi con esso noi, messo in mare quel che abbiamo di flotte andiamo col foraggio per due mesi ad incontrare gli Ateniesi a Taranto ed al capo Iapigio, ed a far loro chiaro che non avranno prima a combattere per la Sicilia, ma per aprirsi il passaggio dello Ionico. In questo modo gli sbigottiremo sommamente, e li ridurremo a pensare che noi difensori della patria avremo un ridotto, onde muoverci, in terra amica quale è Taranto ove saremo ricevuti, che essi dovranno valicar molto mare con tutti gli apparecchi; che difficilmente la loro flotta potrà mantenere l'ordine per la lunghezza del tragitto, e che muovendosi lentamente ed assaltandoci alla spartita, noi potremo con vantaggio assalirla. Nel caso poi che votate le navi leggere vengano con queste più serrate ad assalirci, allora, se useranno dei remi, gl'investiremo già stanchi; e dove non ci piaccia, potremo ritirarci a Taranto. Ed essi intanto che avranno fatto quel tragitto con scarse provvisioni, quasi si trattasse di una battaglia navale, saranno sorpresi dalla carestia in luoghi deserti, ove rimanendo saranno assediati; tentando di proseguire il corso dovranno abbandonare gli altri apparecchi e perdersi d'animo, non avendo la sicurezza che le città vogliano riceverli. Laonde io stimo che ristretti da questi pensieri, neanche sciorranno da Corfù, ma mentre deliberano e vanno spiando quanti e dove siamo, si troveranno dalla stagione spinti nell'inverno; o attoniti del nostro inaspettato ardimento porranno fine alla navigazione. E ciò tanto più quanto che (come sento) il più esperto dei loro generali li conduce a mal grado, e volentieri piglierebbe il pretesto di vedere per parte nostra che noi abbiamo di che stargli a petto. Io son certo che di noi avranno nuove maggiori di nostre forze: or le opinioni degli uomini vanno dietro alla fama, e più si teme chi primo assale, che chi per tempo mostrasi pronto a ributtare l'assalitore; perché lo crediamo pari a noi nel cimento. E tal sarà ora degli Ateniesi: conciossiachè dispregiandoci giustamente perché non ci siamo uniti coi Lacedemoni a distruggerli, ci vengono contro come a gente che non sappia difendersi. Ma se vedranno l'inaspettato nostro ardire, saranno più atterriti da questo impensato coraggio, che dal vero ragguaglio di nostre forze. Seguite dunque il mio consiglio soprattutto di mostrare questo ardire, o almeno di apparecchiare prontamente le altre cose per la guerra; richiamatevi tutti alla mente che il disprezzo per l'assalitore si mostra dal vigore dei fatti, e che sarà nostro grandissimo bene se per quanto stimiamo sicurissimi i preparamenti fatti per paura, nondimeno opereremo come se fossero mal sicuri. Ma già i nemici ci muovono incontro, già, lo so bene, sono in corso, già già son presenti».

¶ II

35. Con tanta forza parlò Ermocrate, e nel popolo siracusano fuvvi gran repetio, dicendo alcuni che gli Ateniesi non verrebbero in nessun modo, e che false erano le cose recitate da Ermocrate; altri che quand'anche venissero sarebbe più il danno che riceverebbero di quello che farebbero; altri poi dispregiavano affatto e volgevano in riso la cosa. Pochi vi erano che credessero ad Ermocrate, e temessero del futuro. Ma Atenagora, capo del popolo ed allora per la sua facondia accettissimo alla moltitudine, fattosi fra loro innanzi disse queste parole:

36. «Chi non desidera che gli Ateniesi siano giunti a tanto di stoltezza da venir qua per mettersi nelle nostre mani, o è un vile, o non vuol bene alla patria. Di quelli poi che vi annunziano tali cose e vi sbigottiscono, io ammiro non l'audacia ma la dabbenaggine, se credono non manifestarsi quali sono. Imperciocché quei che temono di qualche cosa in particolare, vogliono mettere in costernazione la città, per abbuiare la propria colla paura comune. Ed or tali nuove vanno a parare a questo; esse non si spargono da per sé, ma son composte da gente che siffatti movimenti di continuo rimugina. Voi però, se avrete senno, farete ragione di quel che può avvenire, considerandolo non dalle novelle che costoro vi arrecano, ma da ciò che dovranno fare uomini sottili e di molte cose esperti, quali io tengo gli Ateniesi. E vinca il vero, non è credibile che vogliano lasciarsi dietro i Peloponnesi, e senza aver per anche acconciata stabilmente la guerra di là, venire spontaneamente ad un'altra non minore; e si contenteranno, a mio avviso, che noi con tante e si grandi città non andiamo contro di loro.

37. «Se poi, siccome è fama, ci verranno, credo che la Sicilia tanto più del Peloponneso sia sufficiente a debellarli, in quanto è meglio fornita di tutto; e che la città nostra da sé sia molto più potente dell'armata che ora, siccome dicono, c'invade, foss'ella due cotanti. Io so infatti che non avranno seco cavalli (e non potranno procacciarli di quì tranne pochi dagli Egestei), né soldatesca grave numerosa al par della nostra, dovendo essi venire sulle navi. Imperciocché è di per sé stesso gran cosa il condursi qua per sì lungo tragitto colle sole navi leggere, e trasportare tutti gli altri apparati che abbisognano contro sì fatta città, i quali certo non denno essere pochi. Laonde tanto discordo dagli altri colla mia opinione, da pensare anzi, che qualora pure venissero qua possedendo città di egual potenza con Siracusa, e ci facessero guerra abitando a confine, appena potrebbero non essere totalmente disfatti. Quanto più poi lo saranno trovando nemica tutta Sicilia che si unirà contro loro, i quali dovranno usare solo di accampamenti piantati colle navi e di meschine trabacche e del solo necessario apparecchio, donde non potranno molto scostarsi perché impediti dai nostri cavalli. Insomma io stimo che non potranno nemmeno pigliare terra, tanta è a mio credere, la superiorità di nostre forze.

38. «Ma gli Ateniesi che pensano su di ciò come io dico, sono certo che vogliono conservare il loro stato; e tali cose che non hanno né avere possono consistenza vengono spacciate da alcuni di qui, i quali non ora per la prima volta ma sempre li ho veduti desiderosi di occupare il dominio della Repubblica collo spaventarvi o mediante tali ciance e di più maligne ancora, o col terrore dei fatti; e, perdio, temo non abbia una volta a seguir l'effetto dei loro replicati sforzi. E noi non siamo da tanto per guardarci innanzi di patire ciò, né per punirli quando scopriamo le loro trame. Però poco riposa la città nostra, ed è soggetta a molte sedizioni e contrasti più contro sé medesima che contro i nemici, e talora contro a tirannidi e ingiuste signorie. Delle quali malvagità, ove vogliate assecondarmi, mi sforzerò che neppure una intervenga ai tempi nostri; userò con voi popolo le persuasioni, e coi macchinatori di tali scelleratezze il castigo, non solo quando siano colti in sul fatto (che è difficile coglierveli) ma eziandio quando meditino qualche cosa, e non possano eseguirlo. Conciossiachè non si vuole punire il nemico solo di quel che commette, ma ancora preoccuparne i pensieri, ove pur con tutta la precauzione ti riesca non essere offeso. Scoprirò poi all'occorrenza i fautori dell'oligarchia, veglierò sopra loro, li istruirò; parendomi queste le maniere più profittevoli al rimuoverli dal misfare. Ed in fede vostra o giovani (cosa che spesso ho tra me considerato) dite che mai volete? forse aver subito parte al governo? Ma il vieta la legge, e tal legge è stabilita piuttosto in riguardo alla vostra insufficienza che per farvi disonore. O volete forse non stare alla pari col popolo? Ma come è egli giusto che uomini tra sé eguali non abbiano eguali diritti?

39. «Dirà taluno che la democrazia manca di accorgimento e di giustezza, e che i denarosi sono i più idonei a comandare ottimamente: ed io rispondo, primo che il nome popolo comprende tutto lo stato, quello d'oligarchia una parte: di poi che i migliori custodi del denaro sono i ricchi, consiglieri ottimi i saggi, ed ottimo giudice il popolo, inteso che abbia le cose. E tutte queste classi di cittadini, sì in diviso sì in comune, trovano eguaglianza nella democrazia; laddove l'oligarchia fa parte dei pericoli al popolo; quanto però ai vantaggi, non solo la maggior parte, ma anche tutti glieli toglie e gli usurpa per sé. Ecco quello di che si brigano tra voi i potenti ed i giovani, ma che è impossibile ad ottenere in città grande. Anzi, o gente dissennata sopra tutte, voi fin d'ora vi mostrate o i più imbecilli di quanti Greci conosco, se non vi accorgete che così correte alla rovina, o i più ingiusti se sapendolo, nondimeno l'osate.

40. «Laonde istruiti dalle mie parole, ovvero mutando proponimento, aumenterete il bene della Repubblica comune a tutti, se andrete convinti che i buoni tra voi ne avranno eguale anzi maggior frutto che non la moltitudine; dove pensando altramente risicherete di restar privi di tutto. E cessate da tali nuove, persuasi che noi presentiamo la mente vostra, e che non lasceremo che ne segua l'effetto. Imperciocché ove pur vengano gli Ateniesi, questa città saprà respingerli in modo degno di lei, ed a noi sono capitani che a ciò provvederanno. Che se nessuna di tali cose è vera (com'io non dubito), la città non vorrà mica sbigottire delle vostre novelle, né scegliendo voi a capitani imporsi spontanea schiavitù. Che anzi consultando da per sé, punirà i discorsi vostri come equivalenti ai fatti, né si lascerà torre la libertà presente coll'udir voi, ma guardandosi di fatto coll'impedire i disegni vostri, procaccerà di conservarla».

41. Così parlò Atenagora; ed alzatosi uno dei generali non volle che alcun altra si facesse avanti, e nel caso presente disse egli stesso: «non esser prudenza che alcuni si dicano dei motti scambievolmente, e che gli uditori vi acconsentano; ma quanto alle cose annunziate ciascuno in particolare e la città tutta insieme dover vedere come prepararsi condegnamente a respingere il nemico assalitore. E se nulla verrà a bisogno non tornerà in danno che il Comune si sia provvisto di cavalli e di armi e d'ogni altra cosa di che si allegra la guerra. Noi generali avremo cura di queste forze e ne faremo il novero, e procureremo di spedire gente ad osservare le città, e quant'altro sembri opportuno. E già in parte vi abbiamo pensato, e tutto ciò che sapremo lo riferiremo a voi». Avendo così parlato il generale, i Siracusani si sciolsero dall'adunanza.

42. E già gli Ateniesi con gli alleati erano tutti a Corfù, ove i capitani fecero primieramente la rassegna dell'armata, e l'ordinarono nel modo col quale doveva far porto e pigliar campo. La divisero in tre squadre, per ognuna delle quali gettarono le sorti, affinché assegnata ciascuna squadra ad un capitano, tenendo l'alto non avessero a mancare di acqua e di porti e di provvisioni nei luoghi di fermata, ed affinché nel restante serbassero più esatta disciplina, e più facilmente obbedissero ai comandi. Dopo spedirono innanzi tre navi in Italia e in Sicilia ad intendere quali città vorrebbero riceverli; ed ordinarono ad esse di tornare per tempo a raggiungerli per approdare secondo gli avvisi che riceverebbero.

43. Dopo le quali cose finalmente gli Ateniesi sciolsero da Corfù per tragittare in Sicilia con apparato si grande, cioè con cento trentaquattro triremi in tutte, e due navi di Rodi a cinquanta remi. Di queste triremi cento erano d'Atene, sessanta leggere, e quaranta per trasportare le truppe: il restante della flotta parte era dei Chii, parte degli altri alleati, ed avevano a bordo cinquemila cento soldati gravi fra tutti. Mille cinquecento di questi erano proprio del ruolo d'Atene, con più settecento servi per combattere di sulle navi. Quanto agli altri alleati che concorsero a questa spedizione, ottocento ne vennero vassalli d'Atene, degli Argivi cinquecento, e duecento cinquanta dei Mantineesi coi mercenari. Gli arcieri erano in tutti ottanta e quattrocento, e di questi gli ottanta erano Cretesi, e settecento frombolieri di Rodi, e centoventi banditi di Megara armati alla leggera. Una sola nave conduceva a bordo trenta cavalieri.

44. Cotanta era la prima armata che navigava, a questa guerra, e ad essa tenevano dietro trenta barche annonarie con viveri e panettieri e muratori e fabbri, e tutto il necessario a fabbricare, più cento legni astretti a convogliare le barche. Molti altri navigli e barche andavano spontanee di conserva coll'armata per far mercatura, e tutti insieme da Corfù. tragittarono il seno ionico. Ed essendo tutta intera l'armata approdata al capo Iapigio e a Taranto, e ovunque ciascuno poté, costeggiavano l'Italia non volendo le città riceverli né dentro le mura né al mercato, ma solo permettendo loro di fare acqua e stare alla rada; le quali cose non concessero né Taranto né i Locresi. Finalmente pervennero a Reggio promontorio d'Italia, e qui oramai si riunivano; e non essendo accolti in città, acconciarono il campo al di fuori, nel luogo consacrato a Diana, ove fu loro accordato il mercato; e tirate in sull'asciutto le navi stavano quieti. Tennero anche parola coi Regini che essendo Calcidesi dovevano aiutare i Leontini che pur erano Calcidesi; ed ebbero in risposta che essi volevano starsene di mezzo, e che farebbero tutto quello di che convenissero gli altri Italiani. Frattanto gli Ateniesi pensavano quale fosse il miglior modo da seguitare per le cose di Sicilia, ed aspettavano da Egesta le navi spedite innanzi, volendo chiarirsi se veramente vi erano quelle ricchezze, di che gli ambasciatori parlarono in Atene.

45. In questo i Siracusani da molti luoghi e dagli esploratori avevano già chiare notizie che la flotta era a Reggio; e senza più dubitare attendevano con tutto l'animo a prepararsi siccome è solito in tali urgenze, e spedivano in giro ai Siculi, dove presidi, dove legati, e mettevano guarnigioni nei castelli del paese all'intorno, ed esaminavano se l'interno della città fosse in buon punto, facendo la rivista dell'armi e dei cavalli; e tutto il restante ordinavano come per pronta guerra, e poco meno che presente.

46. Ma le tre navi spedite anticipatamente, tornano da Egesta a Reggio e riferiscono agli Ateniesi non esistere il denaro promesso, e solo vedervisi trenta talenti. I generali si persero subito d'animo, si perché avevano trovato quel primo incaglio, sì ancora perché i Regini, dai quali avevano cominciato il primo invito, non avevano voluto unirsi con loro, quantunque ciò doveva grandemente sperarsi per essere consanguinei coi Leontini, e con essi in amicizia. Tali nuove degli Egestei furono per Nicia quali se le aspettava, ma per gli altri due generali furono fuori dell'opinione. Imperciocché gli Egestei, quando andarono ad essi i primi ambasciatori ateniesi per osservarne le ricchezze, usarono quest'inganno. Li condussero ad Erice nel tempio di Venere, e mostrarono loro i voti, le tazze, i vasi, gl'incensieri e gli altri molti arredi, che essendo d'argento facevano di sé troppo gran mostra di ricchezza, rispetto al poco valore di essi. E negli inviti ospitali che facevano i particolari a quei delle triremi, riunivano tutti i vasi d'oro e d'argento che erano in Egesta, ed eziandio quelli chiesti alle città vicine fenicie e greche, e li producevano nei conviti, come se appartenessero a ciascuno in privato. Cosicché usando tutti ordinariamente dei medesimi, e però vedendosene molti da per tutto, indussero grande stupore negli Ateniesi andativi sulle triremi. i quali giunti ad Atene divulgarono aver viste ricchezze inestimabili. In questo modo ingannati costoro, e persuasi gli altri del medesimo inganno, allorché andò la voce non esservi denari in Egesta, erano vituperati grandemente dai soldati. Ma i generali andavano deliberando del presente stato di cose.

47. La mente di Nicia era doversi navigare con tutta l'armata a Selinunte, ove principalmente erano inviati; e se gli Egestei somministrassero il denaro per tutto l'esercito governarsi secondo quello; altrimenti esigere da loro il foraggio per le sessanta navi richieste, fermarsi a Selinunte, riconciliarla con gli Egestei o per forza o per accordo, e allora scorrere per le costiere delle altre città, e mostrare così la potenza della Repubblica ateniese. Quindi, fatto conoscere il proprio zelo per gli amici e confederati, tornare a casa; salvo che nel caso di potere in breve tempo e per qualche imprevista opportunità recare giovamento ai Leontini, o farsi amica alcuna delle altre città; e così non spendere del suo con pericolo della Repubblica.

48. Alcibiade all'opposto diceva che dopo essersi messi in mare con sì grossa armata, non volevasi partire turpemente e senza effetto, ma si spedissero araldi varie città (tranne Selinunte e Siracusa), si tentassero animi dei Siculi, parte per ribellarli ai Siracusani, parte per farseli amici acciò si ottenessero soldati e frumento e si cominciasse dal persuadere Messina situata acconciamente per passare ed approdare in Sicilia, e fornita di porto e di ricovero sufficiente per l'armata; e procacciatasi l'amicizia delle città, e sapendo con chi ciascuna si unirebbero alla guerra, si andasse subito contro Siracusa e Selinunte ove questa non si accordi con gli Egestei, e l'altra non permetta ai Leontini di rimpatriare.

49. Lamaco poi diceva apertamente che bisognava navigare a Siracusa, e combatter prontamente la città mentre è tuttora sprovvista e nel massimo sbigottimento: ed ogni esercito essere alla prima formidabile; se poi indugiavano a mostrarsi, la gente ripiglia cuore, e quando si mostri lo dispregia maggiormente, che se assalissero all'improvviso i Siracusani mentre attoniti ciò si aspettano, affermava che facilmente li vincerebbero, e ad ogni modo gli spaventerebbero coll'aspetto dell'esercito (che certo ora comparirebbe grandissimo), e coll'aspettativa dei danni che avranno a soffrire, e soprattutto col subitaneo pericolo della battaglia. Soggiungeva che senza dubbio avrebbero sorpresa molta gente alla campagna, perché non si credeva alla loro venuta; e dato anche che si ricoverassero entro le mura, l'esercito, padrone del territorio, non mancherebbe del bisognevole quando si fermasse all'assedio della città. Allora gli altri Siciliani tanto più ricuseranno di unir le armi loro coi Siracusani, e si accosteranno agli Ateniesi senza aspettare di vedere quale dei due ottenga vittoria. Finalmente diceva che in caso di doverne partire e mettersi all'ancora, si doveva aver per sicuro ridotto alle navi Megara, luogo abbandonato e poco lontano da Siracusa, sì per mare che per terra.

50. Quantunque Lamaco avesse parlato così, pure si scostò anch'egli al consiglio di Alcibtade, il quale dopo andò colla sua nave a Messina, e parlò dell'alleanza coi Messinesi. E perché non gli potè persuadere, ed anzi gli facessero chiaro che non riceverebbero gli Ateniesi in città, e solo al di fuori gli accorderebbero il mercato, ritornò a Reggio. I generali, armate subito tra tutte sessanta navi e preso il bisognevole, passarono a Nasso, lasciando in Reggio uno di loro col resto dell'armata. Accolti in città dai Nassii seguitarono il corso verso Catana ove dai Catanesi non furono ricevuti, perché in città vi erano dei fautori di Siracusa, e vennero al fiume Teria e vi pernottarono. Il giorno dopo colle altre navi attelate in una sola fila si avviarono verso Siracusa, e già ne avevano spedite innanzi dieci perché nel loro corso osservassero se alcun naviglio fosse tirato in mare, e perché avanzandosi dappresso bandissero da bordo, che arrivavano gli Ateniesi a rimettere nella patria i Leontini per titolo d'alleanza e parentela; e che però quanti Leontini si trovavano a Siracusa si accostassero senza timore agli Ateniesi come ad amici e benefattori. Avendo bandito ciò, esaminarono la città ed i porti ed il paese all'intorno, per vedere donde avessero a muovere le armi, e rinavigarono a Catana.

51. I Catanesi tenuta adunanza non vollero dar ricovero all'esercito in città, ma introdotti i generali intimarono loro di dire quel che volessero. Ed essendosi Alcibiade fatto a parlare, tutta la gente di città si rivolse verso l'assemblea, per lo che i soldati furtivamente sfondarono una postierla mal rimurata, ed entrati in città si fermarono nella piazza. Laonde quei pochi tra i Catanesi che parteggiavano per Siracusa, impauriti subito oltre modo al veder dentro l'esercito, si trafugarono, e gli altri fermarono alleanza con gli Ateniesi, e gli confortarono di condurre là da Reggio il rimanente dell'esercito. Dopo di che gli Ateniesi navigarono a Reggio, donde con tutto l'esercito si mossero alla volta di Catana, ed arrivati che furono vi piantarono il campo.

52. Ivi avendo avuto nuova da Camarina che se andasser colà quella città si renderebbe, e che i Siracusani allestivano la flotta, andarono prima con tutta l'armata a Siracusa. E non trovandovi veruno apparecchio di navi tornarono indietro a Camarina, fermaronsi al lido e spedirono un araldo che dai Camarinesi non fu ricevuto, allegando il giuramento di non raccettare gli Ateniesi se non con una sola nave, tranne il caso che ne avessero chiamati di più essi medesimi. E però andata a vuoto la cosa gli Ateniesi partirono, ed approdarono ad una terra del siracusano e vi fecero saccheggio; ma poi sopraggiunta la cavalleria dei Siracusani, che uccise alcuni soldati leggeri qua e là sparsi, si ricondussero a Catana.

53. Colà trovarono la nave salaminia venuta da Atene per Alcibiade, coll'ordine ch'ei tornasse a difendersi di ciò onde la città lo accusava, e per alcuni altri soldati del suo seguito, parte designati come profanatori dei misteri, parte come complici nel fatto dei Mercuri. Imperciocché dopo la partita della flotta gli Ateniesi non si erano rimasti dal far ricerca quanto al delitto dei misteri e dei Mercuri; e qualunque fossero gli accusatori, in mezzo a quei sospetti, tutti gli udivano. Cosicché dando fede a gente malvagia, i più onesti cittadini arrestavano e imprigionavano, stimando meglio investigare e chiarirsi di questi fatti, di quello che l'accusato (fosse egli pur creduto dabbene) avesse ad uscirne impunito, considerata la malvagità del delatore. Ed il popolo che sapeva per udita come la tirannide di Pisistrato e dei suoi figli si era da ultimo resa grave, e di più era stata abbattuta non dai cittadini o da Armodio ma dagli Spartani, temeva sempre e sospettava di tutto.

54. Ed invero Aristogitone ed Armodio si accinsero a quell'ardito fatto a causa d'un'avventura amorosa, col narrare la quale stesamente, io intendo di mostrare che né gli altri né gli stessi Ateniesi nulla raccontano di esatto intorno ai loro tiranni ed a questo avvenimento. Dico dunque che venuto a morte Pisistrato già vecchio e in possesso della tirannide, gli successe nel comando non Ipparco, come si crede generalmente, ma Ippia fratello maggiore; e che allora essendo Armodio in fiore di bellezza e gioventù, di lui innamorossi un tale Aristogitone cittadino di mezzana condizione che presso di sé lo teneva. Armodio poi tentato inutilmente da Ipparco di Pisistrato, riferì la cosa ad Aristogitone, il quale fuori di modo punto d'amore, e temendo che Ipparco usando di suo potere non avesse ad indurvelo a forza, con quel credito che godeva disegnò subito di abolire la tirannide. Frattanto Ipparco tentato nuovamente Armodio e sempre senza pro, si preparava ad oltraggiarlo in un modo coperto, senza parere di farlo per quella sua ripulsa, siccome quegli che non voleva usare violenza. Conciossiachè nel resto di suo governo non era grave al popolo, ma si diportava senza mal contento dei cittadini: e certamente tutti quei tiranni esercitarono lungamente virtù e prudenza. E benché esigessero dagli Ateniesi solo il ventesimo delle rendite, pure adornarono in bel modo la città, ed amministrarono le guerre e i sacrifici nei templi. Del rimanente la città usava le leggi stabilite di prima, se non che essi si davano cura che fosse sempre in carica qualcuno dei suoi. E tra gli altri che ebbero in Atene la carica annuale di arconte fu ancora Pisistrato figliolo d'Ippia stato tiranno, e chiamato col nome stesso dell'avo, il quale, quando era arconte, innalzò nella piazza l'altare dei dodici Dei e quello d'Apollo nel luogo sacro ad Apollo Pitio. Ed in seguito il popolo d'Atene fatta un'aggiunta con cui estese l'altare della piazza, cancellò l'appostavi iscrizione; ma quella d'Apollo Pitio si scorge ancora, sebbene con caratteri sparuti, e dice così:
Figlio d'Ippia Pisistrato nel luogo
Sacro ad Apollo da Piton nomato
Di suo governo tal memoria pose.

55. Che poi Ippia come maggiore avesse il comando posso io accettarlo sapendolo anche d'udita più esattamente degli altri; ed ognuno dovrà andarne convinto da questo, che tra i fratelli legittimi solo egli apparisce aver avuto figlioli, come mostra l'ara e la colonna eretta nella rocca d'Atene in memoria della iniquità dei tiranni, nella quale non è descritto alcun figlio né di Tessalo né d'Ipparco, ma bensì cinque d'Ippia che egli ebbe da Mirrine figliola di Callia d'Iperochida. E certo Ippia come maggiore doveva essere il primo ad ammogliarsi. Inoltre nella prima colonna egli è notato il primo dopo suo padre, né senza ragione, avvegnaché fosse il maggiore e gli succedesse nella signoria. Anzi per me credo che Ippia non avrebbe potuto in quel frangente ritenere con facilità il dominio, se Ipparco fosse morto quando aveva nelle mani il comando, ed egli vi si fosse stabilito il giorno medesimo. Ma all'opposto per l'uso che innanzi aveva del comando, e pel timore che di sé metteva nei cittadini, e per la diligente guardia dei suoi satelliti, avrà con fatta sicurezza ritenuto l'imperio; né qual fratello minore si sarà trovato avviluppato, come se di prima non fosse stato avvezzo continuamente al governo. Ipparco poi accadde che diventò famoso per la sventura di quel caso, ed ebbe voce tra i posteri di occupata tirannia.

56. Ipparco dunque, siccome aveva in animo, fece oltraggio ad Armodio, che non aveva aderito alle sue istigazioni, in questo modo. Invitarono Una sorella di lui a venire a portare la cestella in una tal pompa, e poi la discacciarono dicendo non averla mai invitata siccome quella che n'era indegna; lo che dispiacque forte ad Armodio, e più di lui ne restò esacerbato Aristogitone per l'amore che gli aveva. E già avevano essi ordinato coi loro complici ogni altra cosa spettante al fatto; se non che aspettavano le grandi feste Panatenee, nel qual giorno solo la riunione dei cittadini armati ad accompagnare la pompa non dava materia di sospetto. Armodio ed Aristogitone dovevano dar la mossa, e gli altri si sarebbero subito uniti ad aiutarli, per difenderli dai satelliti. Né i congiurati erano molti per riguardo alla propria sicurezza, imperocché speravano che anche gli altri i quali non erano a parte della congiura, trovandosi armati, al più piccolo remore si sarebbero subito uniti cupidamente a mettersi in libertà.

57. Venuto il dì della festa, Ippia accompagnato dalle sue guardie disponeva fuori di città, nel così detto Ceramico, il modo col quale doveva procedere ciascuna cosa destinata per la pompa; ed Armodio e Aristogitone con dei pugnali si avanzavano per fare il colpo. Ma vedendo uno dei loro congiurati parlare familiarmente con Ippia, che con tutti era di facile abbordo, impaurirono e si tennero scoperti e poco meno che arrestati. E però prima di esserlo in effetto determinarono, se possibile fosse, di vendicarsi d'Ipparco che gli aveva offesi, e per cui arrischiavano tutto. Onde senza più, corsi dentro la porta s'imbatterono in Ipparco presso il così detto Leocorio, e posto giù ogni riguardo tosto l'assalirono; e spinti entrambi dal più gran furore, questi per gelosia, quegli per l'oltraggio, lo feriscono e l'uccidono. Aristogitone si sottrasse subito alle guardie per essere accorsa gran folla, ma poi fu arrestato e non la passò troppo leggermente: Armodio restò ucciso in sul fatto.

58. Riferita la cosa ad Ippia nel Ceramico, egli, prima che nulla ne traspirasse, essendo il luogo a qualche distanza, si portò subito non dove era seguita la cosa, ma verso i cittadini armati, che dovevano accompagnare la pompa. E compostosi in volto in modo da non dare indizio del misfatto, additò loro un luogo, e ordinò che lasciate le armi vi si recassero. Infatti i cittadini credendo che egli avesse qualche cosa a dire vi andarono; ed allora Ippia fatte prender quelle armi dalle sue guardie, ne arrestò quanti stimava complici della congiura, e quanti vi si trovavano col pugnale, avvegnaché tali pompe si solessero accompagnare solamente collo scudo e coll'asta. 59. In tal maniera questa trama prese cominciamento da un disgusto amoroso, e lo sconsigliato ardire di Armodio ed Aristogitone da quel forte ed improvviso timore. Dopo questo fatto la tirannide si fece più grave agli Ateniesi. Ed Ippia impaurito maggiormente fece morire molti cittadini, e portava il suo sguardo al di fuori per vedere di trovare da qualche parte di che assicurarsi, se mai succedesse una rivoluzione. Però dopo questo caso sposò la sua figliola Archedice con Eantide d'Ippocle tiranno di Lamsaco (egli ateniese con uno di Lamsaco) perché sapeva tal famiglia essere assai potente presso il re Dario. E vi è in Lamsaco il monumento di lei con questa iscrizione:
Tal polve copre Archedice, la figlia
D'Ippia, ai suoi dì fra tutti i Greci il primo;
Che sebbene di regi e figlia e suora
E sposa e madre non ne andò superba.

Ippia tenne ancora tre anni la tirannia d'Atene; il quarto anno ne fu spogliato dai Lacedemoni e dai banditi discendenti d'Alcmeone, e con salvacondotto si ritirò a Sigeo, quindi a Lamsaco presso Eantide, e di li presso il re Dario, donde vent'anni dopo già vecchio partissi, e coi Medi militò a Maratona.

60. Le quali cose considerando il popolo ateniese, e rammemorandone tutte le circostanze che sapeva d'udita, era allora fiero e sospettoso con gl'imputati della profanazione dei misteri, e credeva tutto ciò essersi commesso per cospirazione di stabilire l'oligarchia od anche la tirannide. E adirati come erano per questo appunto, avevano già nelle carceri molti e dei più reputati cittadini, né pareva che volessero far sosta; ma ogni giorno montavano in più ferocità, e più gente ancora arrestavano. Frattanto uno dei detenuti creduto colpevolissimo viene indotto da un altro imprigionato insieme con lui a denunciare i complici (fosse vero o no, che vi sono congetture pro e contro, e nessuno né allora né poi può dir nulla di certo intorno ai rei del misfatto), e ve lo induce col dirgli che anche non reo doveva prendere l'impunità e salvarsi, e liberare la città dai presenti sospetti, essendo ché più sicuramente egli avrebbe salvezza confessando con l'impunità, di quello che negando subire il giudizio. Allora egli scopre sé ed altri rei del fatto dei Mercuri; e il popolo ateniese contento d'aver saputo il vero, come credeva, laddove prima era indispettito del non conoscere gl'insidiatori del governo democratico, mise subito in libertà il delatore e con esso tutti gli altri da lui non accusati. E fatto il giudizio degl'incolpati, uccisero tutti quelli che poterono arrestare, e bandirono una taglia per chi ammazzasse quelli che condannati a morte erano fuggiti. In questo modo restò incerto se i giustiziati furono o no puniti ingiustamente; nulladimeno il rimanente della città ne risentì evidentissimo vantaggio.

61. Ma tornando ad Alcibiade, siccome i medesimi suoi nemici, che prima della spedizione l'avevano attaccata con lui, insistevano, gli Ateniesi la presero fieramente contro esso. E poiché giudicavano di aver certezza del fatto dei Mercuri, molto più pare va che la profanazione dei misteri onde veniva imputato fosse stata fatta da lui per lo stesso fine, e per cospirazione d'abolire il governo popolare. Imperciocché mentre essi erano in perturbazione per quei processi un piccolo esercito di Lacedemoni si avanzò per avventura fino all'istmo per trattare di non so ché coi Beozi, onde stimavano che fosse venuto non per causa dei Beozi ma a sommossa d'Alcibiade, il quale gli avesse dato la posta; e che se non avessero sollecitato l'imprigionamento della gente sospetta. secondo gl'indizi, la città sarebbe stata tradita. E però passarono anche una notte sull'armi nel luogo sacro a Teseo in città, e nel medesimo tempo avevano preso ombra che gli ospiti d'Alcibiade in Argo volessero pigliare le armi contro lo stato popolare; ed allora consegnarono al popolo argivo tutti gli statichi depositati nelle isole perché gli uccidessero. Insomma da ogni parte i sospetti andavano a ferire in Alcibiade. Per lo che volendo gli Ateniesi col citarlo in giudizio dargli la sentenza capitale, spediscono finalmente in Sicilia la nave Salaminia per lui e per gli altri denunciati, alla quale ordinarono di intimargli che tornasse a difendersi; ma che però non fosse arrestato. Intendevano essi con questo ad impedire i tumulti in Sicilia sì tra propri soldati che tra i nemici, e soprattutto volevano che non si partissero dall'esercito i Mantineesi e gli Argivi, che si credevano essersi uniti alla spedizione a riguardo d'Alcibiade. Il quale salito sulla sua nave e accompagnato dagli altri accusati partì di Sicilia insieme con la Salaminia; e poiché giunsero a Turio, non altrimenti le tennero dietro, ma scesi a terra non comparvero più, siccome quei che temevano tra quel le accuse di tornare al giudizio in Atene. Quei della Salaminia cercarono per un poco di Alcibiade e degli altri che erano seco, ma non trovatili in alcun luogo, imbarcaronsi e partirono. Ed Alcibiade oramai esule, non molto dopo dalla costa di Turio tragittò sopra una barca nel Peloponneso, e gli Ateniesi dannarono a morte, come contumaci, lui e gli altri che erano con lui.

62. Dopo di che i generali degli Ateniesi restati in Sicilia, fatte due parti dell'armata, e presa ciascuno quella che gli era toccata in sorte, navigarono con tutta insieme sopra Selinunte ed Egesta, per vedere se gli Egestei somministrerebbero il denaro, e per spiare le cose dei Selinunti ed intendere le differenze che avevano con gli Egestei. E costeggiando la Sicilia sulla sinistra da quella banda che guarda il seno tirreno, fermaronsi ad Imera unica città greca in questa parte di Sicilia. Ivi non essendo ricevuti seguitarono il corso, e in tragittando espugnano Iccara cittadella marittima della Sicania e nemica degli Egestei, ai quali la consegnarono dopo averne cattivati gli abitanti. E già la cavalleria d'Egesta era venuta a raggiungerli; ed essi colla fanteria nuovamente passarono a traverso le terre dei Siculi, finché pervennero a Catana, ove giunsero anche le navi con i prigionieri girando la costa. Ma Nicia da Iccara navigò tostamente ad Egesta ove trattò di varie cose, ed avuti trenta talenti venne a raggiungere l'esercito. Venderono quindi i prigionieri, e ne cavarono la somma di centoventi talenti; e scorrendo all'intorno vennero ai Siculi confederati, ordinando loro di mandar soldatesche, e con la metà dell'armata recaronsi ad Ibla terra nemica in su quel di Gela, e non poterono espugnarla: e così finiva l'estate.

63. Sopravvenendo l'inverno gli Ateniesi subito preparavansi ad assaltar Siracusa, e i Siracusani anch'essi per andare contro loro. Conciossiachè gli Ateniesi non avendoli stretti colla guerra in quella prima battisoffiola, com'essi s'aspettavano, ad ogni dì che passava ripigliavano cuore maggiormente. E allora quando gli ebbero visti molto lontani da Siracusa navigare oltre sulla costa di Sicilia, e venuti ad Ibla tentare inutilmente di espugnarla, li ebbero anche in dispregio più grande. E siccome suol fare il volgo inanimito pregavano i loro capitani a condurli contro Catana, da che i nemici non muovevano contraessi, e spingendo innanzi continuamente dei cavalli ad osservare il campo degli Ateniesi domandavano loro, tra gli altri insulti, se fossero venuti ad accasarsi tra essi in paese straniero, piuttosto che a rimettere nelle proprie sedie i Leontini.

64. Considerandosi queste cose pei generali ateniesi volevano attirarli con tutte le forze il più possibilmente lontano dalla città, ed essi intanto favoriti dalla notte avanzarsi a pigliar campo senza contrasto in luogo vantaggioso. Bene vedevano che essendo scoperti nessuna di queste due cose sarebbe loro riuscita, sia che volessero scendere dalle navi in faccia al nemico preparato, sia che volessero tenere la via di terra. Atteso ché, mancando essi di cavalli, quelli dei Siracusani, che erano in gran numero, danneggerebbero assai i loro soldati leggeri e la moltitudine leggera; laddove in quest'altra maniera occuperebbero un posto tale da non poter essere molto offesi dalla cavalleria nemica. E gli usciti siracusani che li seguivano, gli avevano avvertiti di un luogo presso l'Olimpico che occuparono di fatto. Per recare dunque ad effetto le loro intenzioni i generali ateniesi macchinarono quest'astuzia. Spediscono a Siracusa un tale catanese persona fidata, e creduta non meno amica dai generali siracusani, il quale asseriva di venir da Catana per parte di alcuni cittadini che essi conoscevano per nome, e che sapevano esser dei loro partigiani rimasti in quella città. Diceva egli che gli Ateniesi lasciato il campo pernottavano in città; e che se i Siracusani con tutto l'esercito volessero sul far dell'alba presentarsi all'accampamento in un certo giorno, i medesimi partigiani terrebbero chiusi in città quegli Ateniesi che vi erano, e brucerebbero le navi; ed essi intanto assalendo la palizzata di leggeri s'impadronirebbero del campo. Aggiungeva inoltre che molli dei Catanesi darebbero loro mano, e che quelli dai quali era spedito erano già all'ordine.

65. I capitani di Siracusa tra perché nel restante erano pieni di baldanza, e perché anche senza queste notizie erano nel pensiero di andar contro Catana, troppo inconsideratamente dettero fede a quell'uomo; e convenutisi del giorno in che vi andrebbero, lo rimandarono. Dopo essendo arrivati i Selinunti ed altri alleati, ordinarono che tutti i Siracusani in generale dovessero uscire a quell' impresa; e siccome gli apparecchi erano pronti, ed era vicino il giorno fermato per andarvi, partirono per Catana e pernottarono presso il fiume Simeto in su quel dei Leontini. Saputosi dagli Ateniesi che i nemici erano in cammino, salirono sulle navi e sulle barche con tutte le loro soldatesche e con tutti i Siculi e gli altri che si erano loro aggiunti, e nella notte si avviarono a Siracusa. Era già l'alba quando gli Ateniesi sbarcavano nel luogo vicino ad Olimpico per prendervi campo; e i cavalli siracusani che primi si erano spinti avanti a Catana, poiché intesero essere partita tutta l'armata, tornarono ad avvisare la fanteria, cosicché voltato cammino tutti insieme accorrevano in soccorso di Siracusa.

66. Frattanto, siccome avevano da percorrere lunga strada, gli Ateniesi ebbero tutto l'agio di accampar l'esercito in luogo favorevole, ove potevano ingaggiare la battaglia quando volessero, e non avevano a temere d'esser molestati dalla cavalleria siracusana né prima né durante il conflitto: imperciocché per una parte sarebbero d'impedimento al nemico i muri e le case che v'erano, e gli alberi e la palude; per l'altra i dirupati. Tagliarono inoltre i vicini alberi, e portatili giù al mare ne formarono una palizzata presso la flotta e verso Dascone; e nei siti più ac accessibili al nemico rizzarono prontamente un battifolle con pietre tolte alla rinfusa e legni, e ruppero il ponte dell'Anapo. Mentre attendevano a queste opere nessuno uscì di città a contrastarli, e la prima ad accorrervi fu la cavalleria siracusana, e poi dopo vi si raccolse tutta la fanteria. E da prima fattisi vicini all'accampamento degli Ateniesi, poiché videro che questi non si movevano contro di loro, tornarono addietro, e andarono ad accamparsi al di là della via Elorina.

67. Il giorno appresso gli Ateniesi con gli alleati preparavansi alla battaglia, e ordinarono le schiere in questo modo. Tenevano l'ala destra gli Argivi ed i Mantineesi, il centro gli Ateniesi, e l'altr'ala il resto degli alleati. La metà dell'esercito posta in avanti era schierata con otto di fronte, e l'altra metà presso le tende schierata anch'essa con otto di fronte formava un rettangolo, ed aveva ordine di osservare attentamente dove che l'esercito patisse per accorrervi; e in mezzo a queste genti di riserva collocarono i saccomanni. I Siracusani poi schierarono con sedici sulla fronte le milizie gravi composte di tutte le classi del popolo di Siracusa e degli alleati che v'erano presenti. Tra questi vennero principalmente in loro aiuto i Selinunti, poi anche i cavalli dei Geloi, in tutti duecento, e venti soli dei Camarinesi, e circa cinquanta arcieri. Posero sull'ala destra i cavalieri che non erano meno di dodici centinaia, e presso a loro i lanciatori. E poiché gli Ateniesi erano vicini ad attaccare i primi la battaglia, Nicia percorrendo le file ove stavano le genti di ciascuno popolo, gl'incoraggiava tutti insieme con queste parole:

68. «Che bisogno v'ha egli, prodi soldati, di lunga esortazione per noi che ci troviamo proprio al momento della battaglia? Mi pare che questo nostro apparecchio sia più idoneo ad inspirare coraggio, che non le belle parole con esercito debole. Infatti dove siamo insieme e Argivi, e Mantineesi, e Ateniesi, e i primi tra gl'isolani, come non deve ognuno con tanti e siffatti commilitoni aver grande speranza di vittoria? Tanto più con a fronte un ragunaticcio di genti, e non scelte come le nostre; e poi contro i Siciliani che ci dispregiano sì, ma che non resisteranno, perché più audaci che esperti? Richiamatevi inoltre alla mente che noi siamo assai lontani dal paese nostro e non vicini a veruna terra amica se pur non ce la procacciamo coll'armi. E però vi suggerisco il contrario di quello con che i nemici (ben lo so) s'incoraggiano. Essi dicono che combatteranno per la patria, ed io vi ripeto che non combattiamo nel patrio suolo, ma in tale che bisogna uscirne vincitori, od avere una difficile ritirata; perché i loro numerosi cavalli ci stringeranno. Laonde memori del vostro decoro assaltate coraggiosamente il nemico, stimando più formidabile di lui la presente necessità ed incertezza».

69. Fatta questa esortazione Nicia fece avanzare subito il campo. I Siracusani non si aspettavano allora di dover tosto combattere, onde alcuni di loro erano rientrati nella vicina città, altri sebbene si affrettassero correndo di rinforzare i suoi, arrivarono tardi; e ciascuno ponevasi dove incontrava un corpo più numeroso. E certamente né in questa né nelle altre battaglie mancavano di prontezza e di ardire; che anzi in coraggio ci erano eguali fin dove giungeva la loro perizia, ma a loro dispetto la volontà era tradita dalla mancanza di quella. Ciò non pertanto benché non si aspettassero che gli Ateniesi volessero essere i primi ad assalirli, e benché si trovassero a un tratto nella necessità di resistere, pigliavano le armi e prestamente venivano contro al nemico. Primi ad assaggiare la battaglia furono da ambe le parti i gittatori di pietre e i funditori e gli arcieri, e al solito delle truppe leggere fugavansi scambievolmente. Dopo gli aruspici offrivano le vittime cerimoniali, e i trombettieri invitavano i soldati gravi al conflitto. Muovevano gli eserciti: da una parte i Siracusani per combattere per la patria, e ciascuno per la propria salvezza di presente, e per la libertà in avvenire: dall'altra, gli Ateniesi per far sua una terra straniera e per non nuocere, perdendo, alla patria, e gli Argivi e i confederati indipendenti per aver parte con essi alle conquiste per cui erano là venuti, e per rivedere vittoriosi la patria loro. Gli alleati poi che erano sudditi usavano di tutta la sollecitudine, si perché senza la vittoria vedevano disperata la presente loro salvezza, si eziandio perché cooperando con gli Ateniesi a nuove conquiste speravano per soprappiù da essi più discreto governo.

70. E già la battaglia era nelle mani, e lungamente entrambi resistevano; quand'ecco sopravvenire dei tuoni e folgori e copiosa pioggia, talché anche questo accrebbe la paura in quei che per la prima volta combattevano ed erano pochissimo versati di guerra, laddove gli altri che ne erano più pratici riguardavano quei fenomeni come effetti della stagione dell'anno, e piuttosto restavano attoniti che i nemici non cedessero. Finalmente gli Argivi avendo i primi respinto l'ala sinistra dei Siracusani, e gli Ateniesi dopo di essi quelli che avevano a fronte, allora tutto l'esercito siracusano fu rotto e si diede alla fuga. E gli Ateniesi non l'inseguirono molto lontano, perché la grossa ed intera cavalleria siracusana vi si opponeva, e scagliandosi sui loro soldati gravi che cacciassero i fuggitivi li reprimeva. Però tutti riuniti li perseguitarono finché poterono con sicurezza, poi tornarono indietro ed ersero trofeo. I Siracusani si ridussero sulla strada Elorina, ordinaronsi in quel modo che permettevano le cose presenti, e spedirono nondimeno un presidio di loro all'Olimpico per paura che gli Ateniesi non prendessero i tesori che vi erano. Gli altri tornarono in città.

71. Ma gli Ateniesi non andarono al tempio olimpico; anzi accolti i cadaveri dei loro e postili in sul rogo, passarono ivi la notte. Il dì seguente con salvacondotto resero i morti ai Siracusani (che compresivi gli alleati erano circa duecentosessanta), radunarono le ossa dei suoi, dei quali contando gli alleati morirono intorno di cinquanta, e prese le spoglie nemiche rinavigarono a Catana. Conciossiachè era inverno, e non pareva ancor possibile proseguir subito la guerra, prima d'aver fatto venire dei cavalieri da Atene e d'averne radunati dagli alleati di Sicilia (per non esser del tutto inferiori in cavalleria), e prima d'aver raccolti denari di li oltre quelli che verrebbero d'Atene; e d'essersi aggiunte città che speravano doversi piegare all'obbedienza più facilmente dopo quella battaglia; e finalmente d'avere apparecchiato tutte le altre cose, e frumento e ciò che potesse occorrere per assaltare Siracusa a primavera.

72. Con questa intenzione navigarono a Nasso e Catana per svernarvi. I Siracusani sepolti i loro morti tennero adunanza, ove presentatosi Ermocrate di Ermone, personaggio che in prudenza non era del resto addietro a nessuno altro, e che in guerra si era mostrato per esperienza sufficiente e per valore illustre, li inanimiva e non lasciava che per l'accaduto invilissero. Poiché diceva che non era stato vinto il loro animo ma aveva nociuto ad essi il disordine; che sebbene essi rozzi artigiani, per così dire, si fossero messi in lizza coi primi e più esperti Greci, nondimeno non erano andati al disotto quanto era da aspettarsi; che di gran nocumento era stata loro la molteplicità dei duci e comandanti (perché avevano quindici generali), e la non governabile turba disordinata. Che se pochi, proseguiva, e pratici saranno i generali, e in quest'inverno prepareranno le milizie gravi, e procacceranno le armi a chi non le ha, acciocché siano in grandissimo numero, e le astringeranno ad ogni altro guerresco esercizio, certamente e potrebbero superare i nemici; atteso ché all'attuale loro coraggio aggiungeranno il buon ordine che si richiede nelle azioni. Imperocché queste due cose verranno crescendo: la disciplina perché praticata tra i pericoli: il coraggio perché avvalorato dalla fiducia del sapere, da per sé stesso diverrà più animoso. In ultimo poi soggiungeva che bisognava scegliere pochi generali ma con autorità illimitata, e prestare ad essi giuramento di lasciarli comandare comunque sapranno; avvegnaché in questo modo starebbero più coperte le cose che voglionsi celare, e le altre verrebbero con ordine apprestate inescusabilmente.

73. I Siracusani dopo averlo udito decretarono tutto come egli suggeriva, ed elessero a capitano lo stesso Ermocrate con Eraclide di Lisimaco e Sicano d'Esecesto; essi tre soli. Spedirono ancora legati a Corinto ed a Sparta per averne soccorso secondo l'alleanza, e per indurre i Lacedemoni a far guerra alla scoperta e con più fermezza contro gli Ateniesi; a volere ritirarli dalla Sicilia, o almeno far sì che non vi mandassero nuovi rinforzi.

74. E l'armata ateniese che era a Catana navigò subito a Messina sperando d'averla proditoriamente; ma le pratiche svanirono. Conciossiachè Alcibiade consapevole di quelle, allorché richiamato ad Atene depose il comando, essendo certo che verrebbe sbandito, le palesa agli amici dei Siracusani in Messina. Onde essi uccisero i colpevoli prima che arrivasse la flotta nemica; e tutti quelli che tenevano con loro levato il rumore, prese le armi vinsero che non si dovessero ricevere gli Ateniesi. I quali fermativisi da trenta giorni, poiché erano molestati dalla fredda stagione e mancavano di vettovaglia, tornarono a Nasso ove circondarono di un vallo l'alloggiamento, e vi svernarono. Spedirono inoltre una trireme ad Atene per avere a primavera denari e cavalli.

¶ III

75. E nell'invernata anche i Siracusani aggiunsero alla città una muraglia da tutta quella parte che guarda Epipole, chiudendovi dentro Temenite, col fine che se mai fossero sconfitti, il troppo breve circuito non rendesse facile al nemico il cingerli di muro. Misero poi un presidio in Megara ed un altro in Olimpico, e munirono di palizzate tutti quei luoghi in sul mare ove potevasi fare scala. E sapendo che gli Ateniesi vernavano in Nasso, andarono tutti ad oste contro Catana, ne devastarono la campagna, bruciarono le tende e l'accampamento degli Ateniesi, e partirono per a casa. Inoltre informati che gli Ateniesi, secondo la lega fatta al tempo di Lachete, avevano mandato ambasceria a Camarina per vedere di guadagnarsela, vi mandarono anch'essi. Imperciocché sospettavano che i Camarinesi avessero mandato loro a mal cuore anche il soccorso inviato alla prima battaglia, e che in seguito non volessero più aiutarli, visti i felici successi degli Ateniesi in quella; ma che piuttosto pensassero di accostarsi con quest'ultimi per impulso della primiera amicizia. Arrivati dunque a Camarina Ermocrate ed altri pei Siracusani, ed Eufemo con altri per gli Ateniesi, vi fu tenuta assemblea, ove Ermocrate, volendo prima mettere in discredito gli Ateniesi, orò in questa sentenza:

76. «Non siamo, o Camarinesi, venuti qua ambasciatori perché temiamo che voi sbigottiate della presente armata ateniese, ma invece perché i discorsi che udirete da costoro non abbiano a persuadervi, prima d'aver sentito un poco anche noi. Ed invero vengono essi in Sicilia con quel pretesto che ascoltate, ma intatto con l'intenzione di che tutti sospettiamo: e parmi nonché vogliano rimettere in patria i Leontini, ma cacciarne via noi stessi. Perciocché non sta certo in ragione che essi sovvertano le cittadi di là, e poi vogliano riacconciare quelle che sono qui; né che per titolo di parentela si brighino pei Leontini perché Calcidesi, mentre tengono schiavi i Calcidesi d'Eubea, donde questi per colonia discendono. E però in quel modo che occuparono le cose di là, con quello stesso tentano di far qua il somigliante. Conciossiaché scelti per duci spontaneamente dagli Ionii e dagli altri confederati discendenti da loro col fine di vendicarsi del Medo, gli hanno poi soggiogati tutti, incolpandone alcuni di abbandonata milizia, altri di guerra scambievole, altri finalmente di quel delitto che secondo lo stato di ciascheduno pareva meglio colorato. Talché né gli Ateniesi si opposero al Medo per proteggere la libertà dei Greci, né i Greci la loro; ma quelli per assoggettarli a sé stessi invece del Medo, questi per mutare un padrone in un altro non già meno accorto, ma più furbescamente maligno.

77. «Nondimeno per agevole che sia accusare la Repubblica d'Atene, noi non venimmo qua per dichiarare le ingiustizie di lei a voi che le sapete; ma più presto per incolpare noi stessi che avendo ad esempio i Greci di là fatti schiavi, per aver trascurato la propria difesa, ed ora questi sofismi che ci vengono addotti, cioè il rimpatriamento dei Leontini come consanguinei, il soccorso agli Egestei come alleati, non sappiamo riunirci tutti a mostrare loro vigorosamente che quì non sono né Ionii, né Ellespontii, né isolani, i quali col mutar sempre padrone, sia il Medo, sia qualunque altro, rimangono servi; ma Doriesi, e liberi, e venuti ad abitare la Sicilia dal Peloponneso anch'esso indipendente. O tranquilliamo forse finché ci vediamo oppressi tutti città per città? Noi che sappiamo essere questa l'unica via ad esser vinti, noi che veggiamo gli Ateniesi voltarsi appunto a questa, parte per dividerci colle ciarle loro, parte per metterci in guerra l'un l'altro colla speranza d'averci alleati, parte per farci quel male che possono col dare pasto a ciascuno? O forse pensiamo che se prima rovini un nostro paesano di lungi, non abbia a piombare la sciagura anche sul capo d'ognuno di noi, ma che piuttosto debba essere infelice quello solo che prima di noi sia oppresso?

78. «Se poi alcuno si dà a credere non egli ma il Siracusano esser nemico all'Ateniese, e però gli pare grave il cimentarsi per la mia patria, rifletta che non principalmente combatterà per il mio paese, ma sì nel mio, e nel tempo stesso egualmente anche pel suo; e tanto più sicuramente in quanto che, non essendo io stato prima disfatto, mi avrà compagno nell'armi e non si troverà solo alla battaglia. Rifletta ancora che l'Ateniese non vuole già vendicare l'inimicizia del Siracusano, ma col pretesto di me attende piuttosto a confermarsi l'amicizia di lui. E se vi ha chi piglia gelosia e timore di Siracusa (due cose alle quali soggiacciono i maggiori), e però brama che ella venga danneggiata per averci più discreti, e che nondimeno ella si regga per sua sicurezza, costui spera quello che eccede l'umana possibilità. Imperciocché non v'è modo che uno stess'uomo possa prescrivere regola alle sue voglie insieme e alla fortuna. E se mal avvenga ch'ei resti frustrato nei suoi desideri, forse o senza forse lamentando i propri mali vorrà potere invidiare nuovamente le mie prosperità. Lo che è impossibile per chi ci abbia abbandonati, e non abbia voluto partecipare di quei pericoli che sono gli stessi per lui e per noi, non di nome, ma di fatto; conciossiachè egli in nome conserverà la nostra potenza, in fatto però la sua salvezza. E ragione voleva sopra tutto, o Camarinesi, che voi nostri confinanti e secondi nel pericolo prevedeste tali cose, e non ci soccorreste debolmente, siccome ora; ma che di vostro veniste da noi, e vi mostraste anche adesso incoraggiarci con eguale calore a far quello a che nel vostro bisogno ci avreste invitati (se gli Ateniesi fossero venuti prima contro Camarina), cioè a non perderci punto d'animo. Finora però né voi né gli altri vi siete mossi a questo.

79. «Ma voi forse spinti da timidità pretenderete di rispettare la giustizia dicendo d'essere in alleanza con gli Ateniesi, la quale faceste non a pregiudizio degli amici, ma per difesa contro ai nemici se alcuno vi assalisse, e per soccorrere (credo io) gli Ateniesi, quando da altri fossero offesi, non quando eglino offendessero altrui, da poiché nemmeno i Regini che sono Calcidesi vogliono dar loro mano a rimettere in patria i Leontini anch'essi Calcidesi.

E orribile cosa mi sembra che laddove i Regini, sospettando di questo fatto onestato con belle giustificazioni, usano prudenza che sembra irragionevole, voi all'incontro nonostante un motivo ragionevolissimo vogliate aiutare gli Ateniesi che vi sono avversi per natura, e rovinare quelli che anche più naturalmente vi appartengono, d'accordo coi nostri mortali nemici. Ma ciò non è giusto. Dovete invece soccorrere noi, e non temere le forze loro che formidabili non sono ove tutti stiamo uniti, e che tali diventano ove al contrario ci dividiamo, come essi agognano. Ed invero benché venissero contro noi soli e vincessero la battaglia, non eseguirono l'intento, ma si ritirarono in furia.

80. «Il perché ragione vuole che stando tutti uniti non ci perdiamo d'animo, ma che piuttosto ci colleghiamo insieme con tutto l'ardore, tanto più che avremo soccorsi dai Peloponnesi, i quali al postutto sono più valenti in guerra di costoro. Né lo starvene neutrali, come alleati d'entrambi, vuole credersi prudenza per essere ella imparziale con noi, e sicura per voi; conciossiachè questa neutralità non è tale in fatto quale si mostra in diritto. Infatti se per il vostro rifiuto della lega nostra Siracusa percossa cadrà, e gli Ateniesi vincitori trionferanno, che altro avrete fatto colla vostra assenza se non troncato a quella la via di salvezza, e non impedita a questi la via di malvagità? Eppure è per voi più decoroso l'unirvi con noi ingiuriati e insieme parenti vostri, e mantenere così la comune sicurezza di Sicilia, e non permettere agli Ateniesi, vostri amici, salmisia, tali soprusi. In somma noi Siracusani diciamo non esser uopo l'insegnare chiaramente né a voi né agli altri cose che non meno bene sapete: ma preghiamo e testimoniano, ove non ci ascoltiate, che siamo insidiati dagli Ionii perpetui nostri nemici, e come Doriesi traditi da voi pur Doriesi. Che se gli Ateniesi ci sottometteranno, si recheranno la vittoria dal vostro modo di pensare, e l'onore verrà ascritto al loro nome, e nessun altro premio avranno di quella, se non il popolo che ad essi la procurò. Se poi la vittoria sarà nostra, dovrete voi stessi portare la pena d'aver causato i nostri pericoli. Riflettete dunque e fin d'ora scegliete, o essere schiavi subito senza cimentarvi, ovvero vincendo insieme con noi, non aver vituperosamente costoro per padroni, e sfuggire la nostra inimicizia che certo lieve non sarebbe».

81. Così parlò Ermocrate, e dopo lui Eufemo ambasciatore ateniese così:

82. «Noi certamente eravamo venuti qua per rinnovare l'alleanza di prima: ma sentendoci tocchi dal Siracusano, ci è forza parlare anche intorno al nostro impero, mostrando che giustamente lo abbiamo. Egli pertanto ne ha addotta la più gran testimonianza col dire che gli Ionii sono mai sempre nemici ai Doriesi. E la cosa sta pure così. Imperciocché noi che siamo Ionii abbiamo sempre studiato il modo di non obbedire in nulla ai Peloponnesi che Doriesi sono, e in più numero di noi e confinanti. E dopo la guerra dei Medi, essendoci procacciata una flotta, ci liberammo dal dominio e dalla capitaneria dei Lacedemoni che non avevano diritto di comandare a noi, più che noi a loro, se non in quanto erano allora più forti. Divenuti poi duci dei Greci stati prima sotto il re, ne riteniamo il governo, perché credemmo che avendo così forze da resistere, non ci troveremmo in balia dei Peloponnesi. E a parlare rigorosamente, non abbiamo soggiogato a torto gli Ionii e gli isolani, cui i Siracusani dicono avere noi assoggettati benché parenti. No, perché insieme col Medo erano venuti contro noi, città madre, e non avevano avuto il cuore di ribellarsi a lui, e di disestare le cose domestiche, siccome noi che abbandonammo la città, e non contenti della loro servitù, volevano imporre anco a noi lo stesso giogo.

83. «Laonde meritamente abbiamo imperio, perché offrimmo grandissimo numero di navi e risoluta sollecitudine a pro dei Greci, e perché essi, facendo altrettanto prontamente d'accordo col Medo, operavano a danno nostro, ed insieme perché cerchiamo forze contro i Peloponnesi. Né vogliamo recarci sotto gli altrui vessilli, mentre a noi spetta il comando, o come soli distruggitori del barbaro, o come quelli che abbiamo affrontato pericoli maggiori per la libertà di codesti Ionii ed isolani, che non per quella di tutti i Greci e di noi medesimi. Ora non vuolsi biasimare chiunque si procaccia quella salvezza alla quale ha diritto. E benché adesso ci troviamo qua per la sicurezza nostra, pure vediamo che in questo si comprende ancora la vostra utilità. Lo che dimostriamo per le calunnie che i Siracusani ci danno, e pei sospetti che di noi avete in mezzo al più gran timore; ben sapendo che quelli i quali nel colmo della paura sono presi da qualche sospetto, restano in sul momento allettati dal piacer d'un'arringa; ma quando poi si viene al fatto operano il convenevole. Conciossiaché abbiamo protestato che per timore riteniamo l'impero di là, e pel motivo stesso veniamo ad assicurare le cose di qua con l'aiuto degli amici; e non a mettervi in servitù, ma più presto ad impedire che non abbiate a soffrire questo giogo.

84. «Né alcuno venga a dire che ci diamo pensiero di voi senza che punto ci apparteniate, dovendo costui sapere che rimanendo voi salvi, ed essendo anche sufficienti a resistere ai Siracusani, sarebbe minore il danno che soffriremmo da qualche rinforzo che essi mandassero ai Peloponnesi; e per questo motivo appunto voi moltissimo ci appartenete. Però ogni ragione vuole che rimettiamo in patria i Leontini non in qualità di nostri vassalli, siccome i loro consanguinei nell'Eubea, ma nel più vigoroso stato di forze, a volere che dalle loro terre inquietino a pro nostro i Siracusani coi quali confinano. Imperciocché quanto alle cose di là noi soli bastiamo contro i nemici; ed i Calcidesi (dopo avere assoggettati i quali dice Ermocrate essere assurdo che vogliamo liberare quest'altri) ci sono utili perché non hanno militari apparecchi, e solo ci pagano tributo in denaro: laddove per le cose di qua, ci mette bene che i Leontini e gli altri amici godano della massima indipendenza.

85. «Ma pel tiranno o per città sovrana tutto è ragionevole quel che è utile, ed amico quel che è fidato; e in ogni caso conviene fare il nemico o l'amico secondo il tempo. E questo appunto giova qui a noi non per danneggiare gli amici, ma per rendere impotenti col braccio loro i nemici. Né voi dovete diffidare di noi. Imperocché anche gli alleati di là li governiamo secondo che ciascuno ci è utile; così i Chii ed i Metimnei con indipendenza perché ci somministrino navi, molti altri più severamente perché paghino tributo; altri (quantunque isolani e però più facili ad espugnarsi) con piena libertà, col patto che ci aiutino nelle guerre, poiché riseggono vantaggiosamente nei contorni del Peloponneso. Cosicché è da credere che anche qui vogliamo acconciare le cose in rispetto all'utile nostro, e al timore che confessiamo avere dei Siracusani. Poiché essi aspirano a dominarvi, e col farvi sospettare di noi vogliono riunirvi dalla parte loro, acciocché, partiti che siamo a mani vuote, possano signoreggiare tutta la Sicilia, o per forza o mediante il vostro abbandonamento. E ciò è inevitabile ove vi alleghiate con essi, giacché noi non avremo più in mano facilmente altrettante forze riunite insieme per un solo oggetto, ed essi in nostra assenza non saranno impotenti contro di voi.

86. «Chi poi non pensa così, il fatto stesso lo convince. Voi infatti da prima ci invitaste minacciandoci solo del pericolo a che noi pure ci troveremmo, se trascurassimo che foste assoggettati dai Siracusani. Però ora non è giusto che neghiate fede a quella ragione, della quale credevate importante persuadere noi colle vostre parole; né ché vi adombriate perché siamo qua con armata maggiore di quella che ci vorrebbe contro i Siracusani, dei quali invece dovete molto più diffidare. Noi di sicuro non potremmo senza di voi neppure fermarci in Sicilia, e quand'anche per slealtà la soggiogassimo, saremmo insufficienti a ritenerla, attesa la lunghezza del tragitto e la difficoltà di presidiare città grandi, per le quali si richieggono apparecchi terrestri. I Siracusani all'opposto che vi stanno quasi a ridosso, non con un campo militare, ma con città più potente di questo nostro esercito, sono sempre alle vedette contro di voi; e quand'abbiano colta l'occasione di qualche colpo, non se la lasceranno scappare. E ciò, per tacere delle altre cose, hanno dimostrato verso i Leontini, e adesso osano di incitar voi, quasi foste insensati, contro quelli che attraversano tali loro disegni, e che finora sostengono la Sicilia perché non cada sotto di essi. Ma noi d'altronde vi invitiamo ad assai più vera salvezza, pregandovi a non tradire quella che ambedue abbiamo mercé del mutuo soccorso, ed a persuadervi che a costoro anche senza alleati, stante il gran numero, è sempre spianata la strada contro di voi; e che a voi raramente si presenterà il modo di respingerli con soccorsi sì grandi. I quali se per sospetto lascerete partire o senza effetto o vinti, bramerete dopo rivederne anche una minimissima parte, allora quando sebbene venga tra voi non potrà più in nulla giovarvi.

87. «Laonde né voi né gli altri, o Camarinesi, non vi lasciate svolgere dall'impostura di costoro. Già vi abbiamo parlato la verità intorno ai sospetti addossatici; e nella fiducia di persuadervi vogliamo in succinto ridurvela a memoria. Noi diciamo di avere imperio sulla gente di là per non esser noi stessi soggetti ad un altro; di proteggere la libertà di quelli di qui, per non venire offesi da loro; d'essere costretti a mettere le mani in molte cose, perché molte sono quelle dalle quali abbiamo a guardarci; infine d'essere venuti e prima e adesso a soccorso degli oppressi qua tra voi, non già spontaneamente ma invitati. E voi non vogliate farvi giudici del nostro operare, né provarvi come riformatori a distogliercene (che ormai dura cosa sarebbe), ma prendete tutto quello che dalla nostra curiosità e dalle nostre maniere può tornarvi bene, e valetevene. Tenete per certo ancora che questo nostro genio, non che nuoccia egualmente a tutti, giova piuttosto alla molto maggiore parte dei Greci. Conciossiachè in ogni luogo, anche dove non imperiamo, tanto chi sospetta di vedersi oppresso che chi ha in mira di farlo, per la non manchevole aspettativa in che sono, quegli d'avere da noi soccorso da fare fronte, questi di non arrischiarsi senza timore andando noi colà, sono entrambi astretti l'uno a mettere senno a suo dispetto, l'altro a starsene quietamente in salvo. Anche voi dunque non rigettate questo sicuro rifugio comune a chiunque ne abbisogna, ed apparecchiato ora per voi; ma facendo quello che gli altri uomini fare sogliono, invece di stare sempre in guardia contro i Siracusani, date opera una volta insieme con noi ad opporre del pari macchinazioni a macchinazioni».

88. Tali cose disse Eufemo, ed i Camarinesi erano così affetti dell'animo: per una parte volevano bene agli Ateniesi, se non in quanto sospettavano che volessero soggiogare la Sicilia; per l'altra erano sempre in discordia coi Siracusani per causa dei confini. E siccome temevano non di meno che questi coi quali vicinavano, ottenessero vittoria anche senza loro, così da prima avevano mandato ad essi pochi cavalli, ed erano risoluti d'aiutarli in seguito il più mezzanamente che si potesse coi fatti. Ma nel caso presente per non parere d'essersi raffreddali in benevolenza verso gli Ateniesi, tanto più che erano stati vincitori della battaglia, fermarono di dare le medesime parole di risposta ad entrambi. E secondo questo consiglio risposero, che poiché si dava il caso della guerra fra due alleati loro, al presente credevansi in dovere per giuramento di starsene di mezzo. E gli ambasciatori delle due parti se n'andarono. I Siracusani disponevano le cose loro per la guerra; e gli Ateniesi accampati in Nasso trattavano coi Siculi per aggiungerne il più che potessero alla parte loro. Non molti tra essi che più che altro abitavano per la pianura ed erano soggetti ai Siracusani, si alienarono; quelli poi più dentro terra (ove sempre anche di prima indipendentemente abitavano) di subito, salvo pochi, furono con gli Ateniesi, e portarono all'esercito frumento, ed alcuni eziandio del denaro. E gli Ateniesi guerreggiando coloro che non si unissero con essi, ve ne costringevano alcuni, ad altri impedivano la comunicazione coi Siracusani, che mandavano presidii e soccorsi; e nell'inverno levatisi da Nasso e andati a Catana, rimisero in piedi gli alloggiamenti bruciati già dai Siracusani, e vi svernarono. Spedirono poi una trireme a Cartagine ricercandone l'amicizia, se possibile fosse cavarne qualche vantaggio; e mandarono in Etruria ove alcune città si esibivano di unirsi anch'esse con loro a questa guerra. Fecero inoltre andare in giro dei messaggi ai Siculi e ad Egesta ordinando di allestire per loro più cavalli che potessero; e preparavano tutte le altre cose per la circonvallazione, come mattoni e ferro e quanto occorreva, intendendo di ricominciare la guerra alla primavera. Frattanto i legati siracusani inviati a Corinto ed a Sparta nel trascorrere la costa si davano cura di persuadere gli Itali a non volere porre in non cale quello che facevano gli Ateniesi, perché di sicuro macchinato anche contro loro; e poiché furono a Corinto tennero discorso facendo intendere che dovevano soccorrere i Siracusani per titolo di parentela. I Corintii decretarono subito di voler essere i primi a soccorrerli con tutta sollecitudine, e mandarono con loro ambasciatori a Sparta perché cooperassero a persuadere i Lacedemoni di fare guerra più apertamente agli Ateniesi, e di spedire qualche aiuto in Sicilia. E già gli ambasciatori dei Corintii erano pervenuti a Sparta ove era andato anche Alcibiade, il quale insieme con gli altri usciti era subito da Turio sopra una nave oneraria, tragittato in principio a Cillene, donde ultimamente fu dai Lacedemoni richiamato a Sparta con salvacondotto, perché temeva di loro a cagione delle cose dei Mantineesi. E nell'assemblea ivi tenuta accadde che i Corintii, i Siracusani ed Alcibiade persuadevano i Lacedemoni domandando tutti lo stesso. Ma perché gli efori e gli altri magistrati pensavano di mandare ambasciatori ai Siracusani per impedire loro di pattuire cogli Ateniesi, e non erano disposti a spedire aiuti, allora Alcibiade fattosi innanzi rinfocolava ed eccitava gli animi dei Lacedemoni con queste parole:

89. «Egli mi è forza parlarvi innanzi tratto del mio discredito, acciò pel sospetto di me concepito non abbiate ad udire con animo meno che benevolo le cose comuni. Dico dunque che volendo io riassumere il diritto di ospitalità presso voi, per non so quale colpa dai miei maggiori disdetto, vi facevo piacere tra le altre nella sconfitta a Pilo. Con tutto ciò, benché io stessi fermo in tal premura, voi nel riacconciarvi con gli Ateniesi, servendovi dell'opera dei miei nemici procuraste ad essi potenza, e me vestiste d'ignominia. E però giustamente aveste danno da me quando mi volsi alla parte dei Mantineesi e degli Argivi, e in tutte le altre cose in che mi vi opposi. Onde se alcuno allora che ebbe a soffrire si adirava con meco, si ricreda adesso, osservando ciò col lume del vero. Se poi vi ha chi mi tenga meno buono perché fui piuttosto dalla parte del popolo, sappia che neppur in questo caso egli è dirittamente sdegnato. Conciossiachè noi siamo mai sempre nemici ai tiranni. Ora, tutto quel che si oppone al dominio assoluto si chiama popolo; e da ciò mi è rimasta sempre la qualità di protettore della moltitudine. Inoltre siccome la città nostra si governa a comune, così era necessità seguitare la corrente nelle varie bisogne. Nonostante nell'amministrare la Repubblica noi ci sforzavamo d'essere più discreti di quel che permettesse la sfrenatezza che vi regna. Altri però vi furono, e ancor vi sono, che spingevano la plebe al peggio; e di costoro è fattura il mio bando. Ma noi presedemmo sull'universale, reputando dovere di giustizia il conservare nello stato quella forma di governo con che trovavasi grandissimo e liberissimo, e che a ciascuno era stata consegnata. Essendo ché quanti abbiamo fior di senno sappiamo che sia democrazia, ed io non meno bene di veruno altro, in quanto avrei più ragione di vituperarla. Ma nulla di nuovo può dirsi intorno a questa riconosciuta scempiaggine. D'altronde il cambiarla non ci pareva sicuro con voi nemici alle spalle.

90. «Tali sono le cause concorse a questo mio discredito. Udite ora quello di che voi dovete deliberare, ed io esporvi se pur nulla ne so di più. Primieramente navigammo in Sicilia con animo di soggiogare, potendo, i Siciliani, e dopo loro anche gl'Itali; e quindi per tentare eziandio gli stati di Cartagine e Cartagine stessa. Riuscendo tutte o la maggior parte di queste imprese, allora volevamo assaltare il Peloponneso conducendovi tutte le forze dei Greci di Sicilia che si sarebbero aggiunte a noi, e molti barbari presi a soldo, e gl'Iberi, ed altri dei barbari di quel luoghi, che oggi sono a confessione di tutti i più guerreschi. Dopo fabbricate molte triremi oltre le nostre (giacché l'Italia abbonda di legname) volevamo con esse assediare intorno il Peloponneso, e al tempo stesso investirlo colla fanteria dalla parte di terra, e così espugnando a forza alcune città, ed altre serrandone con muro, speravamo di agevolmente debellarlo, ed in ultimo avere impero sull'universale dei Greci. Quanto al denaro ed ai viveri, perché più facilmente ci riuscisse ciascuna di queste cose, li avrebbero somministrati abbastanza le città ivi conquistate, senza toccare le entrate che qui abbiamo.

91. «Voi avete inteso per la bocca di tale che ne ha la più minuta contezza quali fossero le nostre intenzioni circa la flotta andata ora in Sicilia, e gli altri capitani restativi le metteranno ad effetto, potendo, come s'io vi fossi. State ora a sentire che senza il vostro soccorso le cose di là non saranno salve. I Siciliani certamente, quanto che siano poco esperti, pure accogliendosi insieme potrebbero anche adesso scamparla. Ma i Siracusani da sé soli, e già vinti con tutte le loro genti, e al tempo stesso ristretti dalle navi, saranno inabili a resistere all'armata ateniese di là; e se questa città sarà presa, ecco vinta tutta Sicilia, e subito ancora l'Italia. E quel pericolo, che io testé vi prediceva da quella parte, non starà molto a cadervi addosso. Laonde s'immagini ciascuno di voi di deliberare non solo sulla Sicilia, ma anche sul Peloponneso, se non farete prontamente quanto sono per dirvi. Manderete colà sulle navi truppe tali che facendo nel cammino il servizio di remiganti siano poi atte a far quello di milizia grave; e (quel ch'io credo anche più utile dell'armata stessa) un generale spartano idoneo a ridurre al buon ordine quelle genti che hanno prese le armi, ed a costringervi quelle che si ricusino. In questo modo quei che vi sono amici s'incoraggeranno maggiormente, e gl'irresoluti più francamente vi si accosteranno. Nel medesimo tempo bisogna rompere quì la guerra più scopertamente, a volere che i Siracusani veggano che vi date cura di loro, e resistano con più calore, e così gli Ateniesi siano meno in grado di mandare nuovo soccorso all'esercito loro. Fa d'uopo inoltre fortificare Decelia nell'Attica, di che soprattutto temono sempre gli Ateniesi, e tra i mali della guerra questo solo pensano non avere assaggiato. Ora il mezzo più sicuro per nuocere ai nemici è questo: che quando uno s'accorga di ciò che principalmente temono, di quello appunto s'informi con certezza, e lo porti loro in sul viso. Imperocché è da credere che quel timore nasca dal conoscere bene ognuno di essi dove sta il suo male. E per non parlare di tutti i vantaggi che con quella fortificazione procaccerete a voi stessi ed impedirete ai nemici, io voglio ridurvi insomma i più rilevanti. Primieramente il più di quelle cose onde è fornito il dominio ateniese verrà a voi, parte preso a forza, parte spontaneo. Dopo saranno loro tolte subito l'entrate delle miniere d'argento che sono in Laureo, e tutti i vantaggi che presentemente ricavano dalla campagna e dai tribunali. In ultimo (e questo è il più importante) riceveranno non esattamente le rendite dagli alleati, i quali stimando che voi vigorosamente guerreggiate gli Ateniesi, metteranno dall'un dei lati ogni rispetto per essi.

92. «Che poi queste cose si eseguano con prestezza ed energia, sta in voi o Lacedemoni; poiché senza tema d'ingannarmi confido che elle siano al tutto possibili. E credo avere diritto di non decadere di stima presso veruno di voi, se reputato una volta amatore della patria, vado ora gagliardamente contro essa coi suoi acerrimi nemici; e di non essere preso in sospetto per le mie parole quasi nascano dalla baldanza propria degli esuli. Perocché esule io sono dalla scelleratezza di quelli che mi bandirono, ma non dal vostro vantaggio ove vogliate udirmi; né tengo per nemici maggiori quelli che mi offesero nemico (voglio dir voi) di quelli che costrinsero gli amici a diventare nemici. Ho serbato amore alla patria non in mezzo alle ingiustizie, ma finché ho vissuto in sicuro da cittadino; e credo non andare ad assalire quella che tuttora è mia patria, ma ben piuttosto a ricuperare quella che più non mi è tale. Amante vero della patria non è già colui che avendola ingiustamente perduta si astiene d'andarle contro, ma bensì quegli che per lo desiderio di lei tenti in ogni modo di riaverla. Per lo che, o Lacedemoni, stimo avere ben donde richiedervi che vi valiate di me francamente in ogni pericolo ed in ogni travaglio, sapendo voi bene quel discorso che è per le bocche di tutti, che se da nemico grandemente vi nocqui, potrò giovarvi moltissimo da amico, perché conoscitore delle cose d'Atene argomentavo pure delle vostre; che pensiate che trattate di cose rilevantissime, e però non v'incresca la spedizione in Sicilia e nell'Attica, acciocché riunendovi là in soccorso con piccola porzione di truppe possiate salvare i grandi interessi dei Siciliani, ed abbattere qua l'attuale e la futura potenza degli Ateniesi, ed abitare poi sicuri nelle vostre sedi, ed essere duci di tutta la Grecia che a voi s'inchinerà non per forza ma per benevolenza».

93. Così parlò Alcibiade. E i Lacedemoni che anch'essi di prima avevano il pensiero di militare contro Atene, e che per circospezione tuttora indugiavano, viemaggiormente ne restarono confortati per gl'insegnamenti di lui sopra ciascuna cosa, stimando averli uditi da tale che ne era ottimo conoscitore. Cosicché applicarono subito l'animo a munire Decelia, ed a mandare tostamente qualche soccorso a quei di Sicilia. Ed avendo destinato a capitano dei Siracusani Gilippo di Cleandrida gli commisero che consigliandosi con essi e coi Corintii operasse sì che quelli di là avessero il più vigoroso e sollecito aiuto, secondo che il comportavano i tempi presenti. Chiese Gilippo ai Corintii che immantinente gli mandassero due navi ad Asine e preparassero tutte le altre che pensavano di spedire, e che all'occasione le avessero pronte a navigare. Ed essi convenutisi di queste'cose partirono da Sparta. Intanto giunse di Sicilia in Atene la trireme spedita dai generali per denari e cavalli. Gli Ateniesi, udite le domande, decretarono di mandare nutrimento e cavalieri all'esercito; e così compievasi l'inverno e l'anno decimo settimo di questa guerra che Tucidide ha descritto.

94. Incominciata appena la primavera della seguente estate, gli Ateniesi di Sicilia salpando da Catana navigarono sopra i Megaresi di Sicilia, le terre dei quali ritengono i Siracusani, fin da quando li ebbero cacciati dalle sedie loro al tempo di Gelone tiranno, siccome per me innanzi è stato detto. Colà scesi a terra diedero il guasto alla campagna, e venuti ad un forte dei Siracusani senza averlo potuto espugnare, si ricondussero per la via di terra e colle navi al fiume Terea; e recatisi alla pianura la devastavano ed bruciavano le messi. Uccisero ancora alcuni dei non molti Siracusani che incontrarono, ed alzato il trofeo ritornarono alle navi, colle quali andarono a Catana; e di là presa vettovaglia marciarono con tutto l'esercito sopra Centoripa cittadella dei Siculi. Ottenuta questa per capitolazione partirono; e in ritornando davano fuoco alle granaglie degli Inessei e degli Iblei. E pervenuti a Catana vi trovano giunti da Atene duecentocinquanta di cavalleria coi suoi finimenti ma senza cavalli (credendosi che questi si procaccerebbero di lì) con più trenta arcieri da cavallo, e trecento talenti in moneta.

95. Nella stessa primavera i Lacedemoni si mossero ad oste contro Argo e vennero sino a Cleone, donde, sopravvenuto il terremoto, retrocederono. Dopo di questo gli Argivi entrarono in su quel di Turea col quale confinavano, e presero gran bottino ai Lacedemoni, che fu venduto non meno di venticinque talenti. E non molto appresso, in questa estate, la parte popolare di Tespia assalì i magistrati, ma non poté averli nelle mani: anzi benché fosse soccorsa dagli Ateniesi, alcuni di essa furono arrestati, altri andarono in bando ad Atene.

96. Nell'estate medesima i Siracusani, poiché intesero che arrivavano cavalli agli Ateniesi, e che già erano per andar contro loro, discorrevano che se il nemico non s'impadronisse d'Epipole, luogo scosceso e situato immediatamente a cavaliere della città, non sarebbe facile ch'essi potessero essere cinti all'intorno dalle fortificazioni, quand'anche perdessero la battaglia. E però intendevano di guardare le strade che ad esso menano, acciocché i nemici non per queste vi salissero inosservati; che per altra via era impossibile. Imperciocché tutto il rimanente di quel luogo è ripido ed acclive fino alla città, donde tutta la parte interna di esso è visibile, e dai Siracusani è chiamata Epipole la punta perché di molto sovrasta al restante. Usciti dunque in sul fare del giorno con tutte le genti in una prateria lungo il fiume Anapo (e già Ermocrate e gli altri suoi colleghi poco avanti avevano assunto il comando) fecero la rivista delle genti, e prima di tutto separarono settecento scelti soldati gravi sotto il comando di Diomilo bandito da Andro perché stessero a guardia d'Epipole, e riuniti accorressero prestamente dovunque abbisognasse.

97. Il giorno dopo questa notte gli Ateniesi fecero la rassegna delle soldatesche; e già di soppiatto al nemico da Catana erano approdati con tutta l'armata ad una terra detta Leone, distante da Epipole sei o sette stadi, ove sbarcarono la fanteria, e colle navi fermaronsi a Tapso che è una penisola in un angusto istmo e sporge verso l'alto, ed è poco lontana da Siracusa sì per la via di terra che di mare. Pertanto l'esercito navale degli Ateniesi in Tapso afforzato l'istmo con palizzata stavasi quieto: ma le genti da piè marciavano subito correndo verso Epipole, e furono in tempo a salirvi dalla parte di Eurialo prima che accortisene i Siracusani vi arrivassero dalla prateria ove facevasi la rivista. E sebbene per arrivare dalla prateria a quel luogo vi fosse uno spazio non minore di venticinque stadi, nondimeno ciascuno vi accorse il più frettolosamente possibile, e in specie Diomilo coi suoi settecento. In questo modo dunque i Siracusani, azzuffatisi disordinatamente e vinti nella battaglia presso Epipole, si ritirarono in città, perduto Diomilo con altri trecento in circa. Dopo gli Ateniesi ersero trofeo, e con salvacondotto resero i morti ai Siracusani. Il giorno seguente scesi proprio sotto la città, poiché i nemici non uscivano loro incontro, tornarono indietro e fabbricarono a Labdalo un battifolle che guardava Megara in cima a quei dirupati, per avere un deposito di bagagli e provvisioni, caso che volessero avanzarsi per combattere o per edificare fortificazioni.

98. E poco dopo arrivarono ad essi trecento cavalieri da Egesta, e cento incirca tra dei Siculi, dei Nassii e d'alcuni altri; e duecento cinquanta vi erano degli Ateniesi che avevano ricevuto parte dei cavalli dagli Egestei e dai Catanesi, parte gli avevano comprati: talché ebbero accolti in tutti seicentocinquanta cavalieri. Gli Ateniesi dunque collocato il corpo di guardia in Labdalo andarono verso Sica, ove fermatisi alzarono prontamente il muro all'intorno. La prestezza loro nel fabbricare atterrì i Siracusani, che però uscirono fuori con animo di fare battaglia e non lasciar correre la cosa. E già i due eserciti si schieravano di fronte; quando i generali dei Siracusani vedendo sbandate le proprie genti e non facili a potersi riordinare, le ricondussero in città, salvo una parte dei cavalli che ivi rimasero per impedire agli Ateniesi di trasportare i sassi e di spargersi più lontano. E gli Ateniesi con una squadra di soldati gravi e insieme con tutta la cavalleria, azzuffatisi coi cavalli siracusani li misero in fuga ed alcuni ne uccisero, ed alzarono il trofeo per questo equestre conflitto.

99. Il dì seguente alcuni degli Ateniesi lavoravano al muro circolare dalla parte di tramontana, altri unitisi a portare sassi e legnami li deponevano nel luogo chiamato Trogilo, di mano in mano dove mostravasi più corta la linea del muro dal porto grande all'altro mare. E i Siracusani, per le persuasioni d'Ermocrate più che degli altri capitani, non altrimenti volevano arrischiarsi con tutto l'esercito contro gli Ateniesi, ma determinarono per il meglio di edificare un contrammuro più al basso, dove i nemici condurrebbero il suo; poiché se si potessero prevenire, essi rimarrebbero serrati fuori. E se in questo mentre gli Ateniesi accorressero ad inquietarli, essi spedirebbero loro incontro parte dell'esercito, e sarebbero in tempo a preoccupare e munire con palificate gli sbocchi: se poi si voltassero tutti a contrastarli, dovrebbero allora cessare dal cominciato lavoro. Uscirono dunque i Siracusani, e principiando dalla loro città tiravano un muro obliquo sotto a quello circolare degli Ateniesi, e tagliavano gli olivi del sacro recinto per piantarvi delle torri di legno. Le navi ateniesi non ancora da Tapso avevano fatto il giro per entrare nel porto grande; che anzi i Siracusani erano tuttora padroni del mare all'intorno; e però gli Ateniesi facevano da Tapso venire per terra il bisognevole.

100. Ma i Siracusani, poiché credettero bastantemente assicurata la palizzata e la fabbrica del contrammuro, e poiché gli Ateniesi, parte per timore di essere con troppa facilità assaltati se si dividessero, parte per la premura che si davano del loro muro circolare, non erano andati a disturbarli; lasciata una sola compagnia a guardia del fabbricato ritornarono in città. Gli Ateniesi guastarono ad essi i condotti che sotterra portavano in città l'acqua da bere: ed avendo osservato che alcuni degli altri Siracusani in sul mezzogiorno tenevansi entro le tende, che alcuni poi erano rientrati in città, e che quelli della palizzata la guardavano negligentemente, misero nella prima schiera trecento dei loro scelti soldati, e pochi altri parimente scelti di grave armatura, con ordine di lanciarsi improvvisamente di corsa sul contrammuro. E intanto, fatte due parti del rimanente dell'esercito, la prima marciava con uno dei due capitani verso la città, caso che ne uscisse qualche soccorso, l'altra con l'altro capitano andava contro la palizzata presso la postierla. I trecento, dato l'assalto, espugnano il vallo cui le guardie nemiche abbandonarono, rifugiandosi dentro l'antemurale che cingeva il Temenite, e con esse vi si precipitarono gl'inseguitori; ma entrati dentro furono a forza ricacciati dai Siracusani. Alcuni degli Argivi e non molti degli Ateniesi vi rimasero morti, e l'esercito tutto insieme nel retrocedere rovinarono il contrammuro, svelsero la palizzata, ne portarono seco i pali ed alzarono trofeo.

101. Il giorno appresso gli Ateniesi ripigliando il muro circolare lo conducevano sul dirupato che sovrasta al padule, e che da questo lato dell' Epipole guarda il porto grande, e per dove calando a traverso la pianura e il padule riusciva loro brevissimo il giro fino al detto porto. Frattanto i Siracusani usciti fuori anch'essi, presero a rifare la palizzata cominciando dalla città, e conducendola per mezzo il padule; ed insieme accanto ad essa scavavano una fossa, perché gli Ateniesi non potessero tirare il muro sino al mare. Ma questi fornito il lavoro dinanzi al dirupato, e volendo nuovamente assaltare la palizzata e la fossa dei Siracusani, ordinarono alle navi di girare da Tapso fino al porto grande dei Siracusani; e a bruzzolo scesi da Epipole nel piano gettarono a traverso il padule, ove era melmoso e più consistente, delle imposte ed assi larghe, e valicati su queste prendono in sull'aurora la palizzata quasi tutta, e la fossa; e poi s'impadronirono anche del restante. E qui si commise battaglia nella quale vinsero gli Ateniesi; e i Siracusani che tenevano l'ala destra fuggirono alla città; quelli della sinistra al fiume. I trecento soldati scelti ateniesi volendo precludere a questi il tragitto, s'affrettavano correndo alla volta del ponte; di che impauriti i Siracusani, siccome avevano lì presentì molti cavalli gl'investono, e li mettono in fuga, e sboccano sul corno destro degli Ateniesi. A quest'urto impetuoso rimase spaventata la prima squadra di quel corno; e Lamaco a tale vista accorreva colà dalla sua ala sinistra con non molti arcieri e con gli Argivi che prese seco. Ma varcata una fossa e rimasto isolato con altri pochi che 1'avevano varcata insieme con lui, cade morto egli e cinque o sei di quelli che erano seco; e subito i Siracusani furono in tempo a trascinarli in sicuro al di là del fiume. E vedendosi ormai venire addosso il resto dell'esercito ateniese facevano la ritirata.

102. Frattanto quei che da prima erano rifuggiti alla città, alla vista di tali cose ripresero animo, e schieraronsi di fronte agli Ateniesi che contro loro si avanzavano. Spediscono inoltre una mano di loro genti ad occupare il recinto d'Epipole che credevano abbandonato. Infatti prendono e guastano il muro esterno che era della misura di dieci jugeri, e furono impediti di pigliare anche lo stesso recinto da Nicia ivi rimasto casualmente per malattia. Il quale vedendo che per mancanza di uomini non potrebbero salvarsi per altra via ordinò ai servi di mettere fuoco a quanto vi era di macchine e di legnami dinanzi al muro. E la cosa riuscì come Nicia s'aspettava, essendo ché i Siracusani a cagione del fuoco non seguitarono più innanzi, ma retrocederono, tanto più che gli Ateniesi dalla pianura ove avevano dato la caccia al nemico risalivano al soccorso del recinto, mentre ché le navi, secondo l'ordine avuto, da Tapso, entravano nel porto grande. Alla vista delle quali cose quei Siracusani che erano in sull'altura e con essi tutto il resto dell'esercito si avviarono a gran passi alla città, credendosi inabili colle presenti loro forze a contrastare al nemico di condurre il muro insino al mare.

103. Dopo di che gli Ateniesi ersero il trofeo e con salvacondotto restituirono i morti ai Siracusani, e riebbero Lamaco e gli altri uccisi con lui. E già trovandosi loro presente tutto l'esercito e navale e terrestre, fatto cominciamento da Epipole e da quel dirupato, serrarono i Siracusani con doppio muro fino al mare. I viveri erano portati all'oste da ogni parte d'Italia; e molti dei Siculi che innanzi se ne stavano a vedere, vennero alleati agli Ateniesi, e dall'Etruria tre navi a cinquanta remi. Parimente tutte le altre cose procedevano ad essi in modo da dare speranza, imperocché i Siracusani giudicavano di non più potere restare vittoriosi nella guerra, da che non veniva pur loro aiuto veruno dal Peloponneso. E tenevano discorsi d'accomodamento tra loro stessi, ed anche con Nicia, che solo dopo la morte di Lamaco aveva in mano il comando. Ma non si veniva con fermezza a capo di nulla; e come doveva aspettarsi da gente sconcertata e assediata più strettamente di prima, molte cose si dicevano a Nicia, e più ancora in città. Inoltre per le presenti calamità era entrato tra loro il sospetto; e però rimossero i generali sotto i quali erano esse accadute, attribuendo il proprio danno alla disgrazia o al tradimento di quelli, ed altri ne sostituirono, cioè, Eraclide, Eucle e Tellia.

104. Frattanto Gilippo lacedemone e le navi di Corinto erano già nelle acque di Leucade con animo di recare pronto soccorso in Sicilia. E perché spesseggiavano ad essi le cattive novelle e tutte false in questo stesso che già Siracusa era al tutto cinta da muro. Gilippo non aveva più veruna speranza di salvare la Sicilia. Se non che volendo conservare l'Italia, egli e Pitene corintio con due navi laconiche e due corintie tragittarono lo Ionio colla massima sollecitudine, e vennero a Taranto. I Corintii poi armate due navi leucadie e tre ambraciote, oltre le loro dieci, dovevano mettersi in mare più tardi. Gilippo prima di tutto da Taranto andò come ambasciatore a Turio, stante il diritto di cittadinanza godutavi una volta dal padre. E non avendo potuto recare a sé gli animi degli abitanti, partì di là e andava radendo la costa d'Italia, quando nel golfo Terineo sorpreso dal vento che alzandosi verso tramontana vi soffia impetuosamente, è trasportato in alto mare; donde, sbalzato da grandissima tempesta torna ad approdare a Taranto; e tirate in sull'asciutto quelle navi che avevano sofferto nella burrasca le rabberciava. Nicia avuto lingua che Gilippo era in corso, non faceva nessun conto della pochezza di quelle navi (e il simigliante fecero i Turii ) e gli parve che navigasse con apparecchio, anzi che no corsalesco, e però non se ne prendeva nessuna guardia.

105. Nei medesimi tempi di questa estate i Lacedemoni con gli alleati invasero il territorio d'Argo, e ne guastarono buona parte. Gli Ateniesi soccorsero gli Argivi con trenta navi, le quali manifestissimamente ruppero la tregua che avevano coi Lacedemoni. Conciossiachè per l'innanzi invece di sbarcare nella Laconia e farvi la guerra insieme cogli Argivi e coi Mantineesi, si ristringevano ad uscire di Pilo ed infestare coi ladronecci le costiere del Peloponneso. E sebbene gli Argivi li avessero spesse volte confortati almeno ad approdare armati nella Laconia, a patto anche di partirne dopo avervi dato il guasto insieme con loro a minimissima parte, avevano sempre ricusato di farlo. Ma allora con gli sbarchi fatti in Epidauro, Limera e in Prasia, sotto il comando di Pitoro, di Lespodio e di Demarato, e negli altri luoghi ove devastarono il territorio, operarono sì che i Lacedemoni avessero più onesto motivo di difendersi contro gli Ateniesi. Partiti i quali da Argo colla flotta, e dopo loro i Lacedemoni, gli Argivi entrarono in su quel di Fliasia, diedero il guasto a porzione di quelle terre, uccisero alcuni abitanti, e ritornarono a casa.

FINE DEL LIBRO VI.