Testo

ERO  E  LEANDRO

Le città di Sesto ed Abido, che sorgevano una di fronte all'altra sulle due opposte rive dell'Ellesponto, erano separate da un breve braccio di mare. Ora, a pochi passi da Sesto si trovava una torre nella quale viveva in solitudine la bellissima Ero, sacerdotessa consacrata ad Afrodite; essa, nella sua verecondia, rifuggiva tutte le tentazioni cui pure avrebbe potuto condurla il fiore della sua giovinezza, evitando di partecipare alle danze dei coetanei o di trattenersi in conversazioni con altre ragazze. Ma neppure così potè schivare gli strali dell'amore.

Giunse infatti il giorno della grande festa che si celebrava a Sesto in onore di Adone ed Afrodite, cui convennero in gran folla non solo genti dalle città vicine, ma anche dalle isole egee e da Cipro, dalla Tessaglia e dalla Frigia, dal Libano e dalla Fenicia. Anche la vergine Ero mosse verso il tempio della dea, irradiando grazia dal volto: le sue membra sembravano un prato di rose. Mentr'ella incedeva silenziosa per compiere i sacrifici in onore degl'immortali, molti giovani s'infiammarono a rimirarla, desiderandola come compagna di letto. Ma uno, Leandro, nativo di Abido, non trattenne la fiamma del petto: colto dapprima da stupore, poi da audacia, poi da tremore e vergogna, poi ancora da audacia, stupì del bellissimo aspetto e, tra la calca, si fece più vicino alla ragazza, cercandone lo sguardo con sguardo che implorava amore: ed Ero, per la prima volta, gioì della propria bellezza, anch'ella volgendo più volte gli occhi sul suo tacito ammiratore. Sul far della sera il giovane ruppe finalmente gli indugi e, favorito dalla scarsa luce, non visto la trasse in disparte; quindi raccolse il coraggio e le chiese di mantenere quanto gli occhi avevano già promesso. Straniero, rispose la ragazza arrossendo di vergogna, davvero nuovo è per me il turbamento del cuore che mi desti, ma noi non possiamo accostarci apertamente a sante nozze, perché questo non piace ai genitori miei. Essi vollero che io, abitando con una sola ancella davanti alla riva ondosa, avessi per casa una torre famosa e per solo vicino il mare. Nulla di buono è possibile per noi. Allora Leandro le ribattè: O fanciulla, per amor tuo varcherò anche il mare furioso, quand'anche ribollisse come per un gran fuoco e l'onda non fosse navigabile; per giungere al premio del tuo letto non temo violenta tempesta, né il risonante fragore del mare. Ogni notte io, rugiadoso consorte, venendo a te attraverserò a nuoto l'Ellesponto: non lungi infatti, di fronte alla tua città, io abito il castello di Abido. Ti prego solo di accendere una lampada sull'eccelsa tua torre, affinché faccia da stella al mio solitario cammino. Così essi stabilirono di unirsi in occulte nozze: al calar delle tenebre, Ero esponeva una lampada alla sommità della torre; alla vista di quella luce Leandro, che stava in attesa al castello di Abido, si tuffava in acqua per raggiungere l'amata. La notte allestiva loro le nozze, né mai l'aurora sorprese lo sposo Leandro nel ben noto letto; egli nuotava di nuovo verso il popolo dell'opposta Abido, ancora insaziato. Ed Ero, di nascosto ai genitori suoi, sacerdotessa di giorno, era sposa la notte.

Ma breve tempo durò la loro vita, né a lungo gioirono delle rose di Afrodite. Giungeva infatti la stagione poco adatta ai naviganti, quando il nocchiero traeva la nera nave sull'asciutta terra e schivava il mare procelloso e malfido.  Benché sempre più difficile riuscisse al nuotatore l'approdo all'amata riva, i giovani non si rassegnavano a starsene divisi: né Ero smetteva di accendere la fiaccola, né Leandro di sfidare i flutti. Una notte, mentre tutti i venti fischiavano minacciosi avventandosi sul mare, e già l'onda si sollevava sull'onda, e il mare si mescolava al cielo, il misero Leandro, tra gorghi implacabili, più volte pregò la marina Afrodite, più volte lo stesso dominatore del mare, Poseidone: ma nessuno gli diede soccorso. Gran copia d'acqua gli scorreva giù per la gola, e bevve suo malgrado fiotti di salso mare; finché un crudele vento spense insieme l'infida lampada e la vita dell'imprudente Leandro.

Ero aspettava insonne nell'alcova; l'affanno del petto le toglieva il respiro. Venne l'aurora, e non vedeva ancora lo sposo. Da ogni parte spingeva l'occhio sull'ampio dorso del mare, nel caso che in qualche luogo lo scorgesse, smarrito per la luce spenta. Ma quando, proprio ai piedi della torre, vide il corpo del consorte lacerato dagli scogli, senza vita, stracciatasi sul petto la bella veste si lanciò a capofitto per condividerne la sorte. E gioirono l'uno dell'altra per l'ultima volta.  E adesso leggi le meravigliose lettere che Ovidio fa scrivere ai due amanti.

Farsa fliacica

E' un particolare genere di rappresentazione comica fiorita in Magna Grecia tra IV e III secolo a. C. e condotta a dignità letteraria da Rintone di Taranto (acme ca. 285 a. C.). I fliaci, ossia gli attori protagonisti di questa farsa, cui danno nome, sono a noi noti quasi soltanto da raffigurazioni vascolari; il loro caratteristico travestimento, con la goffa sottolineatura di certe parti del corpo (ventre, natiche, membro virile) mediante un tipico costume imbottito e posticcio, insieme all'efficace gesticolio e alla forte deformazione caricaturale della testa (volti abnormi e spiritati, chiome scomposte, occhi ammiccanti, nasi camusi o aquilini, sopracciglia arcuate), testimoniano l'inesauribile vena umoristica della grecità d'Italia, che seppe apportare contributi originali alla commedia d'importazione attica. Anche gli argomenti di queste commedie, in mancanza di testi scritti superstiti, sono approssimativamente ricostruibili mediante i vasi: si tratta di parodie mitologiche, disavventure di Zeus, episodi di furti e bastonature, gustose scene di mercato e banchetto.

Ernesto