Testo

LA LINGUA DEGLI DÉI. DA SARGON A OMERO

OMERO.

Poiché Omero è l'unico, tra gli antichi poeti occidentali, a fare riferimento ad una lingua parlata dagli dèi, ovvero una lingua criptica all'interno della quale si celava la divina conoscenza, vogliamo dedicargli questo breve studio, ripromettendoci tuttavia di riprendere in seguito un'indagine più approfondita delle antiche conoscenze trasmesse, tramite il suo ispirato libro sacro, da questo vate mosso dal vento divino. Certamente Omero conosceva questo linguaggio, caratterizzato dalle metafore e dalle plastiche allegorie che tanto bene narrano l'epopea e descrivono il mondo dell'Iliade, e se ne serviva per tramandare a chi aveva orecchi per udire, un vasto sapere, nascosto sotto gli eleganti veli di un linguaggio figurato, che spaziava sui vari livelli dello scibile umano. La descrizione figurata del "luminoso Achille", definito "cane", nasconde il riferimento astronomico alla stella Sirio. Nella descrizione della lotta tra Achille ed Ettore davanti le porte Scee (vedi Sumer. Gli Dei vengono dall'occidente), interpretata sul piano metafisico, si legge con chiarezza l'allegoria dell'eterna lotta tra il bene e il male. Nella cecità dei cantori, come l'aedo Demadoco alla corte di re Alcinoo o lo stesso Omero e molti altri poeti dell'antichità, si ravvisa la metafora dell'ispirazione divina. Del resto una variante della cecità era la ricerca dell'oscurità quale condizione essenziale per trovare l'ispirazione divina, come nel caso degli allievi dei Filid, poeti irlandesi grandi conoscitori delle tradizioni celtiche, i quali, per elaborare i loro componimenti trascorrevano la loro giornata nell'oscurità.

Noi, con il contributo dei nostri affezionati lettori, vorremmo cimentarci nell'ardua impresa di decriptare i messaggi trasmessi da poeti e profeti di tutte le culture utilizzando una lingua a loro comune, quella dei simboli. A tal fine, con questo breve studio, poggeremo la nostra leva sul condiviso fulcro che ha plasmato la visione del mondo nell'intera stirpe indoeuropea; visione basata sul concetto della creazione quale "atto d'amore" e "atto sacrificale" nei confronti delle proprie creature operati da un dio solitario, che decide di moltiplicarsi smembrandosi. Dall'unità del dio unico si perviene così alla molteplicità della creazione, che avviene per smembramento - come nella tradizione nordica, secondo la quale l'universo viene creato attraverso lo smembramento del corpo del gigante Ymir, o nella narrazione dell'Upanisad, in cui Prajàpati divide se stesso in tre parti dando vita al creato, dicendo "Che questo corpo sia per me adatto al sacrificio" - o per esplosione se utilizziamo il linguaggio scientifico, che fa partire dal Big Bang la formazione dell'universo. Comunque sia, crediamo che il linguaggio degli dèi abbia tramandato tale inesprimibile complessità del processo creativo attraverso la sintesi racchiusa in un semplice vocabolo, "l'Atto", Ac in latino, acht in tedesco.

In Brhadàranyaka Upanisad (II.II.4) viene sostenuto che "il nome Atri sta certamente per Atti" e ciò, come noi crediamo, a motivo della sua derivazione etimologica da Akt e tri traducibile con l'espressione " i tre sacrifici, le tre azioni o parti", con chiara allusione alla modalità con cui si pervenne alla creazione dell'universo, attraverso cioè il sacrificio del dio Prajàpati, che si smembra in tre parti. La creazione dunque, rappresenta l'atto per eccellenza, il primo compiuto da un Dio concepito come eternamente immobile fino al momento in cui egli si pronuncia: "Che questo corpo sia per me adatto al sacrificio".

Ma prima di argomentare le ragioni per le quali questa semplice e apparentemente innocua parola rappresenta, in fondo, l'anello mancante che sancisce la prova dell'unione, non solo linguistica ma anche spirituale, del popolo primordiale, dobbiamo dimostrare che "atto" e "sacrificio" sono semanticamente termini interscambiabili se inseriti in un'ottica che abbraccia la sfera del sacro.

AKT. L'ANELLO MANCANTE A DIMOSTRAZIONE DELL'UNITA' LINGUISTICA E SPIRITUALE DEL POPOLO PRIMORDIALE.

Per iniziare il percorso linguistico che vede questo vocabolo protagonista indiscusso, dal nord Europa al Lazio, dalla Persia alla Palestina, dalla Mesopotamia all'India, trarremo spunto dall'Antico testamento, libro sacro particolarmente caro alla civiltà occidentale benché redatto da un popolo del Medioriente, e in particolare da un suo personaggio, il figlio di Abramo, il cui nome, Is-akt (Isacco), in lingua nord-europea significa "egli è il sacrificio". Secondo il racconto biblico, Yawè, dio di Abramo, aveva chiesto Isacco in olocausto, salvo un ripensamento dell'ultimo momento, giustificato dalla prova di fedeltà che Abramo aveva dimostrato nei confronti del suo Signore. Tralasceremo, in questa sede, di disquisire circa lo stretto legame che intercorreva tra i concetti di "sacrificio" e di "figlio" nella cultura latina - nella quale il primogenito rappresentava un "atto" dovuto, un'offerta sacrificale agli Avi, ai quali, attraverso la "creazione", la nascita del figlio\erede, si garantiva la continuità della stirpe - o nella stessa cultura vedica, nella quale un rsi (saggio) morente, chiamato il proprio figlio al capezzale per trasmettergli la conoscenza, gli dice: "Tu sei il Brahman, tu sei il sacrificio1, tu sei il mondo". L'assioma figlio\sacrificio, del resto, viene tragicamente ripreso anche dal Cristianesimo; anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un figlio, consustanziale al dio\padre, che immola se stesso; anche in questo caso entra in gioco il termine nord europeo Akt come sinonimo di sacrificio nelle parole pronunciate, secondo la tradizione evangelica, da Gesù mentre esala l'ultimo respiro2. Tralasciando comunque di approfondire il significato di tale legame, porremo la nostra attenzione sul concetto di sacrificio, nel tentativo di penetrarne il valore religioso e la sua identificazione con l'"Atto", l'unico possibile per stabilire un ponte tra il divino e l'umano in un mondo nel quale ogni "atto" era permeato di religiosi intenti.

Il termine "atto", specialmente nei testi sacri, veniva caricato di un significato così forte che chiunque fosse investito dell'ufficio sacerdotale di "operatore della creazione", veniva designato tramite un prefisso anteposto al nome che derivava dal termine in oggetto: acta in lingua latina, aki nella filistea o semitica, akt in quella persiana di Zaratustra, ach-eo nella micenea ecc.

AKI, IL SACERDOTE

Basta sfogliare le pagine dei due libri di Samuele contenuti nell'Antico testamento per rendersi conto che Aki era un prefisso sacerdotale. Questa categoria di sacerdoti, che per comodità chiameremo creatori di atti, cioè Aki, furono ritenuti così indispensabili per la gestione del potere regio che transitarono per generazioni da una reggia all'altra con i medesimi uffici. Passarono dalla regia dimora di Saul a quella di Davide e poi di Salomone, conservando sempre gli stessi ruoli e attributi. Questa casta sacerdotale, in quanto operatrice di "atti" creativi, veniva dunque definita Aki; ma, secondo le specifiche attività diversamente utili ai fini di una migliore gestione del principato, ad ogni Aki seguiva un secondo nome che, molto probabilmente, indicava il compito specifico cui era destinato il sacerdote. Possiamo desumere, per esempio, che Akitofel, fosse "il custode del nome segreto (degli dèi?)" poiché in lingua nord europea taufen significa dare un nome, battezzare; non escludiamo tuttavia un'altra possibilità, secondo la quale il soprannome Toffeln, che significa tardo, imbecille, potesse essere stato apposto ad Aki post mortem, quando questi si suicidò, avendo constatato il risultato della scellerata scelta di aver abbandonato il re Davide per seguire i sogni di gloria di Assalonne, disposto ad eliminare il proprio padre Davide pur di conquistare il regno di Israele. Altri sacerdoti il cui prefisso era "Aki", che si occupavano degli affari di stato presso la reggia di Davide, erano Achimelek, Achitob, Achia.

Sulla derivazione filistea del prefisso sacerdotale Aki non diremo oltre in questa sede, avendo dimostrato in un nostro saggio3 le origini nord europee della lingua filistea nonché di quella utilizzata dai primi patriarchi ebrei. Tuttavia, ad ulteriore dimostrazione delle origini nord europee del prefisso sacro in questione, si osservi che lo si ritrova nel nome Achis del filisteo re di Gat, la città di Golia, nel sostantivo Anakiti, con il quale veniva designata un'intera collettività filistea (forse di sacerdoti?) o nel nome greco Achei, contemporanei degli Anakiti. Il prefisso sacerdotale Aki, comunque, fu utilizzato dai Filistei prima ancora degli Ebrei; si consideri per altro che i Filistei occuparono la Palestina già prima del II millennio a.C., quando Abramo, proveniente dalla mesopotamica Ur, città soggetta appena sei secoli prima al grande re Sargon figlio di Akki, giunse in Palestina.

SARGON DI AKKAD

Secondo l'interpretazione conferita al vocabolo ki o Aki, Sargon è un re\sacerdote creatore. Egli crea, infatti, l'impero4 accadico, un immenso impero messo su ricostruendo i cocci della civiltà Sumera che, per quanto splendida, non era riuscita a costituirsi come impero unitario. Sargon è il primo re equiparato ad un dio, ad un creatore e, per tal motivo, riteniamo che il nome Akkad attribuito al suo impero non sia casuale in quanto semanticamente affine ad Akt, atto, creazione, ad indicare la genesi non solo di un'estesa area geografica politicamente unita, ma anche un'idea, il concetto astratto di creazione5. Del resto lo stesso Sargon afferma, nella sua autobiografia, di aver avuto da una dea il mandato di "creare"; per di più, nella leggenda, egli è il figlio adottivo di Akki, giardiniere del re, fuor di metafora è il figlio dell'azione, dell'atto, del sacrificio, destinato a sua volta a creare nel mondo, identificabile con il giardino del re.

Lo stesso nome della città da cui il re accadico proviene, Accad, è una metafora che gioca attorno al significato etimologico del nome più che un luogo geografico, tanto più che nessuno scavo archeologico è mai riuscito a farla emergere dalle sabbie o dal mistero di cui è avvolta. Dal mito, che si fonde con l'esistenza storica di questo re, si apprende che il giardiniere Akki, divenuto suo padre adottivo, lo aveva raccolto da dentro una cesta galleggiante sul fiume, dove la madre, una sacerdotessa ingravidata da un dio, lo aveva deposto per sfuggire alle sanzioni previste per aver violato la sacralità del proprio ruolo, che prevedeva la verginità. Una storia molto familiare, che dovette servire da precedente per successivi casi simili di gravidanze indesiderate. Come l'attento lettore avrà intuito, numerosi sono i legami tra il nostro creatore di imperi e i nomi - Akki, Accad, Accadico, tutti legati al campo semantico Akt - che ruotano attorno al suo operato, perché possano essere attribuiti ad una semplice casualità. Il ruolo del padre Akki, giardiniere del re, ha il sapore della parabola di cristiana memoria. La terra rappresenta la forza che produce "l'atto", l'humus in cui il seme germoglia, nella quale il granello di senape produce l'albero più grande. Il nome del padre non è dunque casuale, ma legato alla volontà di farne l'allegoria del terreno di coltura dal quale sarebbe germogliato l'impero, la creazione, l'"atto". Per di più, il racconto della congiunzione carnale di Sargon con la dea Innanna, ha lo scopo di suggellare il suo status di creatore.

Il fenomeno legato al germogliare del seme dovette essere interpretato dai nostri padri, attenti osservatori dei fenomeni naturali, sempre ricondotti a legami con un mondo metafisico, come un inizio, un punto creativo di rottura rispetto all'inesistenza precedente, espresso linguisticamente tramite il suono onomatopeico del lessema nord europeo Kr. Non è un caso che, nella maggior parte delle lingue indoeuropee, questo nesso consonantico si trovi contenuto nei sostantivi (Aker, in tedesco, Ager in latino) che designano la terra intesa quale terra fecondante, agricola, che produce, anzi, crea vita; non è casuale nemmeno che l'Acarya, il maestro Indù che insegna al discepolo, sia equiparato al contadino, o, per usare lo stesso linguaggio upanisadico, al conoscitore del campo.

Il mito mesopotamico attribuiva al dio En.Ki la creazione del genere umano. I sumerologi hanno sempre tradotto il cuneiforme ki con il significato di terra, della quale si è già messo in evidenza il significato simbolico di forza creatrice. Tali considerazioni potrebbero sembrare in contraddizione con quanto sostenuto in un articolo precedente (Sumer...), nel quale, con l'ausilio della lingua norrena, si attribuiva il significato di niente, nessuno, nulla, al nome En.Ki, che designa il dio mesopotamico. In realtà l'una tesi non sconfessa l'altra, dal momento che l'atto creativo, cui fa riferimento il lessema akt , si manifesta venendo fuori da un pre-esitente "nulla" (enki per l'appunto), definito in termini scientifici vuoto cosmico. È, a tal fine, particolarmente significativo che il primo Adhyàya della Brhadàranyaka, che parla della creazione, si apra con la frase: "In principio qui non vi era proprio nulla". Appunto, la condizione perché venisse conferito ad un individuo il prefisso sacerdotale ki, stava nella sua capacità di "creare" dal "nulla".

Nel nome En.ki potrebbe dunque celarsi un duplice significato, forse simboleggiato nel famoso cilindro sumero in cui appare la figura di un individuo con due facce, al cospetto, secondo gli studiosi, di En.ki, raffigurato seduto sul trono. Secondo un'altra ipotesi, alternativa rispetto a quella fornita dagli archeologi, l'uomo bifronte potrebbe essere lo stesso dio En.Ki che, amando "giocare" con gli "indovinelli", mostra le due facce di una stessa verità, utilizzando e facendo intersecare i due piani del visibile e dell'invisibile, mentre l'uomo seduto sul trono potrebbe essere un Edipo sumero (o Yoista, interrogato dal mago Akt nel racconto avestico), che interrogato dal dio deve sciogliere l'enigma a lui sottoposto. Un illustre precedente di quanto affermiamo intorno alla possibilità che un nome possa celare due o più significati diversi se non proprio opposti, lo ritroviamo nel gioco linguistico che mette in atto lo stesso Yawè nei confronti di Abramo nel momento in cui, aggiungendo al nome un'indistinguibile sfumatura di pronuncia, lo nobilita stravolgendone il significato originario, "l'espulso", in un nuovo significato "colui che capta il vento divino". Ci conforta constatare che le medesime deduzioni sono state tratte dal filosofo ebreo Baruch Spinoza, esperto della lingua antica ebraica, il quale, soffermandosi sul significato della parola ebraica Ruagh, afferma che nel suo "genuino senso, significa vento (.) ma spessissimo, però, da questo nome derivano" altri significati (il fiato, l'animo, il coraggio e la forza, un'attitudine ecc.); "l'espressione ebraica Jadah", dice sempre lo Spinoza, "ha i due significati di scienza e amore". En.Ki, a nostro modo di vedere, rappresenta il capostipite degli acta o Aki, cioè i creatori dal nulla, anzi egli è il "signore della creazione", colui che, secondo il mito sumero, utilizzando l'argilla ha creato l'uomo; in questa accezione può essere giustificato anche il significato di "signore della terra", a lui attribuito, in quanto, per analogia, la terra produce la vita dal nulla, per virtù di una forza che le è intrinseca. Non esiste, infatti, un pezzo di terra che lasciata a se stessa non produca comunque forme di vita, siano esse di genere animale, dal lombrico all'insetto, o vegetale, dal più sottile filo d'erba alla possente quercia.

Tuttavia il pericolo dell'interpretazione errata di un vocabolo non molto familiare, dovuta magari ad un errore di pronuncia, corre sul filo del rasoio, poiché ogni comunicazione porta con sé il pericolo del travisamento. La metafora può essere interpretata ad esempio in senso letterale se il destinatario non appartiene alla medesima cultura o non possiede la stessa sensibilità del mittente. Sulla possibilità tutt'altro che remota di equivocare il significato di un nome, anche a causa della stessa inesatta pronuncia dello stesso, mette in guardia Eugenio Jacobitti (Il sacro nelle antiche scritture), anche lui, come Spinoza, un ebreo studioso della lingua ebraica antica. Questo studioso sosteneva che sarebbe stato sufficiente pronunciare male una consonante del nome Rachele perché il suo significato si trasformasse, da vento divino, in pecora. Anche Zarathustra dedicò interi capitoli di raccomandazioni ai propri discepoli sull'importanza della pronuncia nelle frasi rituali, al punto di consigliare ai sacerdoti di scandire le parole di forza pronunciate nei riti, affinché arrivassero chiare e inequivocabili al dio irano Haura Mazda. La Taittiriya Upanisad definisce la parola "la liana che attira" e, nel secondo Anuvaka, al fine di evitare equivoci e la conseguente inefficacia del rito, vengono illustrate le regole per ottenere un'esatta "pronuncia: le lettere, l'accento, la misura, l'enfasi, l'uniformità e la concatenazione". Queste sono componenti indispensabili perché le formule liturgiche siano convalidate e sortiscano l'effetto evocatorio desiderato, in quanto così facendo la parola si inserisce nella giusta lunghezza d'onda vibratoria.

È su questa premessa che potremmo ipotizzare, per esempio, che Abramo, un Caldeo della città mesopotamica di Ur, non padroneggiando la lingua ebraica con la quale il suo dio gli parlava, interpretando in senso letterale il significato del nome che il dio aveva scelto per il figlio, "Is Akt", cioè "egli è il sacrificio", stesse per sacrificarlo realmente, motivo per cui il suo dio dovette intervenire in extremis per salvare il ragazzo. Siamo propensi a credere che lo stesso equivoco si ingenerasse nei popoli del centro America che praticarono i sacrifici umani in modo regolare e non occasionale. Infatti è davvero incomprensibile, se non contraddittorio, il fatto che Quetzalcoatl, un dio venuto dal mare orientale che predicava amore, fratellanza, che aveva insegnato tutte le arti e le scienze per alleviare le fatiche degli uomini, da un lato venisse definito dagli Atzechi dio buono e caritatevole e dall'altro lato fosse destinatario dei più sanguinosi sacrifici umani, dal momento che a lui venivano offerti i cuori pulsanti strappati ancora caldi dal petto degli uomini sacrificati. Crediamo che, anche in questo caso, parole chiave con un chiaro intento metaforico, quali ad esempio "donate i vostri cuori a dio", pronunciate nella lingua degli dèi, potessero essere state interpretate alla lettera da uomini che non padroneggiavano i meccanismi allegorici.

Tornando al titolo introduttivo di questo breve studio, al di là del linguaggio metaforico, simbolico, allegorico di cui gli dèi di Omero facevano abbondante uso, ci chiediamo se Omero abbia davvero attribuito a loro una lingua vera e propria, con un suo codice e un suo lessico specifici. Se la risposta è affermativa, il poeta, come un moderno scrittore di romanzi polizieschi, ci ha lasciato solo un paio di indizi: a proposito del fiume Scamandro afferma infatti che gli dèi, nella loro lingua, lo chiamavano Xanto. Un altro importante indizio si trova nel libro XIV,290 dell'Iliade ove il poeta cieco, riferendosi ad un volatile, afferma: " (.) simile all'uccello canoro che sopra i monti gli dèi chiamano càlcide e gli uomini gufo". Omero, nella succitata frase, ha di fatto tradotto il nome càlcide nel momento in cui scrive che l'uccello è canoro; infatti, il nome del volatile è formato dai lessemi calla, che in lingua nord europea significa chiamare, invocare, intonare, cantare, e cynn che significa stirpe. Questo uccello rappresentava dunque il simbolo della "evocazione della stirpe", che si esprimeva attraverso il canto.

Ci chiediamo se sia un caso che il corvo, l'uccello di Odino, fosse considerato dagli antichi popoli del nord Europa il sacro uccello ispiratore (o consigliere) degli dèi. Ai lettori ulteriori conclusioni

NOTE:

1 Brhadàranyaka Upanisad I.V.14-17. Vogliamo segnalare un ulteriore passo dell'Upanisad ( VI, IV,19-28) dal quale emerge la ritualità dell'atto della creazione, attraverso la quale si evoca il consenso divino: "(.) io sono il cielo e tu sei la terra. Vieni, abbracciamoci e mescoliamo il seme per un figlio maschio (.) io sacrifico con la mente le mie energie vitali in te (.) in vero di lui diranno: Tu hai superato il padre, tu hai superato l'antenato".

2 I quattro evangelisti riportano versioni diverse circa le parole pronunciate da Gesù sulla croce. Noi abbiamo preso in esame quelle riportate da Marco e Matteo, pressoché simili: "Elì, Elì, lemà sabactani?". È evidente, in tale espressione, il lessema act, con allusione al sacrificio (act) che si sta compiendo sulla croce. Ma rinviamo chi volesse meglio indagare su questa frase, al nostro saggio Il paganesimo di Gesù.

3 Francesco Branchina Il paganesimodi Gesù ed. Simple.

4 In Brhadàranyaka Upanisad I.V.14-16 viene affermato che "qualunque cosa sia stata appresa, di tutto quello il Brahman è l'unità". Il concetto di unità quale idea di completezza e la conseguente volontà di ripristino di una primordiale armonica unità del tutto, andata perduta, dovette essere alla base di una volontà di ricostruzione di un originario governo del mondo. Questo desiderio potrebbe essere stato lo stimolo che indusse determinati individui, da Sargon ad Alessandro, da Cesare a Napoleone, ad operarsi per ricostruirla.

5 Fa riferimento ad un concetto astratto anche la regione greca dell'Acaia. Infatti, quest'ultima, se da un lato indicava un'area geografica ben definita, dalla quale si dipartirono "i figli degli Achei" per conquistare Troia (Vedi Sumer...), dall'altro lato indicava la terra da cui provenivano "i creatori", gli uomini d'azione: Agamennone, "mente eccelsa" (Hug e Mn); Menelao, "mente luminosa" (Mn e Lug); Akille, deputato all'apertura delle porte Scee o degli "accadimenti" (Aki, prefisso sacerdotale, ed Hell, aldilà).

Prof. Francesco Branchina