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L'ARTE REGIA DI RAMNES\ROMOLO E LA FONDAZIONE DI ROMA

Chi ha seguito le nostre ricerche, avendo imparato a conoscere lo stile che le contraddistingue, non si stupirà del titolo, a prima vista bizzarro o addirittura incongruente, di questo articolo, tanto più che le nostre teorie vanno spesso contro corrente rispetto alla storia ufficiale e alle tesi accreditate dagli accademici. In particolare quest'ultimo studio propone ai lettori un'attenta rilettura integrata delle versioni della fondazione di Roma di Tito Livio e di Plutarco.

La ritualità messa in atto per la fondazione dell'Urbe ma anche la semplice evocazione del racconto, tramandato oralmente per otto secoli, era certamente impregnata di forza magica se lo storico greco poté esclamare che Roma era certo sorta per volontà divina e Plinio il Vecchio poté affermare che l'Urbe era stata scelta dai numi per adempiere una missione terrena, quella di riunire attorno a sé i popoli dispersi. Per capire il rituale della fondazione dell'Urbe celebrato dal primo re\sacerdote, Romolo, è necessario conoscere il brodo di coltura del quale il nostro si nutriva.

È inutile ricordare ai lettori che, se Roma viene fondata nell'VIII sec. a.C., la cultura, che sarebbe stata successivamente definita latina, era presente nel centro Italia già da molti millenni. Infatti abbiamo notizia, attraverso una tradizione orale messa per iscritto da Virgilio, che il fondatore di Troia proveniva dalla Tirrenia, cioè dall'Italia centrale. Ricordiamo inoltre che in una delle venticinquemila tavolette di argilla scritte in cuneiformi sepolte sotto le rovine di Mari, nell'attuale Siria, si trova un riferimento alla città di Alatri ed alle sue possenti mura; si osservi che il nome e le caratteristiche della città, ritenuta dagli accademici siriana per il semplice fatto che il ritrovamento delle tavolette è avvenuto in Siria, coincidono perfettamente con la nota città del centro Italia. In questa tavoletta, che faceva parte di un carteggio tra il signore di Mari e suo figlio, il re comunicava al principe, rimasto evidentemente in città per reggere il regno in assenza del padre, che le mura di Alatri erano possenti ed inespugnabili, “ciclopiche”, motivo per cui egli rinunciava al tentativo di conquistarla. Questa lettera, datata 1700 a.C., che descrive una città fortificata, conferma quanto sostenuto dal geografo greco Pausania circa l'arte di costruire città fortificate, attribuita ai Ciclopi.

Il nome di questi arditi costruttori, formato dai lessemi Ki, terra, e Kopflen, percuotere, allude proprio alla loro arte costruttiva, per l'esercizio della quale erano famosi visto che furono chiamati dai Greci, come afferma Pausania, per costruire le fortificazioni delle prestigiose città di Corinto, Argo, Micene e il Pelargicon di Atene. Si potrebbe affermare che anche le mura di Troia fossero state opera loro visto che il costruttore della città, Poseidone, era padre dei Ciclopi e perciò il detentore, per antonomasia, dell'arte della costruzione tramite enormi pietre poligonali. I Ciclopi, originari della Sicilia, avevano imparato e messo in atto l'arte della costruzione delle mura ciclopiche per la prima volta nell'isola, motivo per cui riteniamo che le mura della città siciliana di Adrano, le uniche sopravvissute, siano più antiche o almeno coeve rispetto a quelle che circoscrivono le cinque città saturnie del Lazio, anch'esse opera dei “ciclopi” visto che il loro fondatore, Saturno, stando al mito, era fratello dei Ciclopi. Se gli studi del reverendo don Giuseppe Capone hanno colto nel segno, come noi crediamo, e le mura poligonali di Alatri rappresentano una proiezione in scala ridotta della costellazione dei Gemelli, le mura dovettero essere erette tra il 6650 e il 4490 a. C., cioè nel periodo in cui il sole stazionava nella casa zodiacale dei Gemelli.

Alatri era una delle cinque città fondate da Saturno. Questo dio, spodestato dal figlio Giove, si era recato supplice nella reggia di Giano, che governava nell'Italia centrale. Questo re ospitale, detto bifronte e raffigurato con due facce diametralmente opposte, non solo accolse amichevolmente il supplice Saturno, ma lo associò al regno. Si noti, per le importanti conseguenze che avrà nelle nostre argomentazioni, che anche in Mesopotamia è attestata la raffigurazione di un dio bifronte in un cilindro sumero, oltre che in Anatolia, dove simili incisioni sono state ritrovate su medaglie e cilindri. In un precedente articolo (Sumer. Gli Dei vengono dall'occidente), facendo riferimento a tale dio bifronte sumero, si ipotizzava che potesse trattarsi di una rappresentazione allegorica di Enki, detto Ea cioè acqua, e si effettuava un parallelismo tra il dio sumero e Giano.

Secondo il mito sumero, Enki era arrivato in Mesopotamia provenendo dal mare occidentale che, a nostro giudizio, doveva essere il mare Mediterraneo, dal momento che Enki era Signore delle terre africane. Anche Giano era, a nostro parere, un dio arrivato per mare, come sospettato da Plutarco che, in Questioni romane, si interrogava sul significato simbolico della prima moneta coniata a Roma, nella quale veniva raffigurato nel dritto la testa bifronte di Giano e nel verso una poppa o una prua di nave, e si chiedeva se tale raffigurazione potesse significare appunto che il dio era arrivato per mare.

Giano, per noi identificabile o sovrapponibile ad Enki, come conseguenza dell'affinità delle due culture, era dunque un navigatore e, se da un lato è impossibile ricostruire le varie tappe e i porti in cui questo argonauta primordiale attraccò nel suo lungo navigare, dall'altro si può facilmente ipotizzare che, dopo aver toccato la Sicilia, giungesse nell'Italia centrale. Il Mare Mediterraneo era, per Ea, un ambiente familiare, nel quale egli navigava con una tale disinvoltura da guadagnarsi l'epiteto di Acqua. Dopo aver costeggiato in lungo e in largo l'Italia e tutte le coste che circoscrivevano il “Mare Suo”, questo instancabile navigatore, partito dalla Tirrenia, doveva essere approdato nelle coste medio orientali e poi in Mesopotamia così come gli antenati di Enea, partendo dallo stesso luogo, sarebbero giunti in Anatolia, dove avrebbero fondato Troia.

Affinché la comparazione tra il dio Enki e Giano, già adombrata nell'articolo sopra citato, non appaia troppo ardita, si sottolinea un altro aspetto che li accomuna a tal punto da far ritenere che siano lo stesso personaggio: Ea era considerato, secondo il mito sumero, il dio creatore ed aveva creato l'uomo plasmandolo dall'argilla; Giano viene definito da Varrone “creatore” e “consivio” cioè propagatore o seminatore del genere umano, epiteto utilizzato solo per lui e per nessun altro dio del pantheon latino. Alla luce di quanto esposto sopra, non stupirà l'affinità della toponomastica italiana e mediorientale. L'antica patria degli Iraniani, come racconta Zarathustra nel libro sacro Avesta, Vaejo, ha il suo corrispettivo nella toscana Veio così come la mesopotamica Uruk con la sabina Curi, la città del secondo re di Roma Numa Pompilio; la Ebla siriana fa eco alle tre Ebla siciliane e alla dea Ebla evocata alle pendici dell'Etna; la reggia del padre di Enki ad Uruk si chiama Eanna, come la città siciliana Enna, definita da Cicerone l'ombelico dell'isola; il nome del dio supremo è il medesimo in Sicilia (Adr-Ano), nel Lazio (jah-Ano), a Sumer (Ano). Si potrebbe ipotizzare persino che il sostantivo “urbs” (città), con il quale per antonomasia si indica Roma, l'Urbe, la città per eccellenza o, secondo noi, “la più antica”, derivi dal nome proprio di un'antichissima città italica, denominata Ur (antica) come le città mesopotamiche Ur ed Ur-uk.

Questo era dunque l'humus nel quale aveva affondato le proprie radici Romolo, una terra abitata e popolata fin dai primordi da dèi navigatori, costruttori di fortezze ed esportatori di civiltà. Di conseguenza non stupirà quanto sarà di seguito affermato in merito a Romolo, il primo re\sacerdote, reggitore dell'Urbe “destinata” dagli dèi a plasmare il mondo occidentale.

RAMNES\ROMOLO

Nel racconto di Tito Livio in merito alla fondazione di Roma, emerge indirettamente il nome segreto di Romolo: Ramnes. Infatti, lo storico afferma che una delle tre centurie di cavalieri istituite prese il nome di Romolo e venne denominata Ramnense.

Ipotizziamo altresì che il nome della terza centuria di cavalieri, i Luceri, la cui etimologia non è nota a Tito Livio, fosse stato attribuito all'ordine equestre in onore del re\sacerdote primordiale Giano, dal momento che, come afferma Quinto Terenzio Scauro nel secondo frammento dell'inno scritto in versi saturni riportato nella sua opera, De Orthographia, questi veniva definito Leucesie, cioè dio della luce.

Inoltrandoci in un territorio che non ci appartiene, notiamo che, nel racconto di Tito Livo sulla storia di Romolo, ricorrono dei numeri, ai quali è possibile dare un'interpretazione allegorica. Nel XV capitolo della sua storia di Roma, Livio afferma che Romolo aveva reso Roma tanto potente “da godere in seguito sicura pace per quaranta anni”, lo stesso numero di anni di regno dei re Saul e Davide, lo stesso numero dei giorni trascorsi in digiuno nel deserto da Gesù; apprendiamo inoltre che Romolo aveva istituito una guardia personale di trecento armati, chiamati Celeri, provenienti da tre centurie di cavalieri e aveva concesso ai Veienti una tregua di cento anni; Livio continua affermando che, dopo la scomparsa di Romolo, trasportato in cielo su una nube (come Elia nell'Antico Testamento), cento senatori avevano istituito dieci decurie con a capo dieci uomini, uno per ciascuna decuria, con il compito di governare per cinque giorni ciascuno. Lasciamo agli esperti del settore il compito di interpretare il significato simbolico di tali numeri, ma non possiamo fare a meno di azzardare l'interpretazione del significato nascosto nel numero dei trecento celerini. Il numero dei trecento celerini richiama i trecento giorni, distribuiti nei dieci mesi, che formavano l'anno del calendario romano arcaico. Il calendario romano arcaico, come apprendiamo da Plutarco, era basato su un anno di dieci mesi; dicembre era chiamato così perché il decimo e ultimo mese dell'anno. Stando così le cose, dopo dicembre si smetteva di contare i giorni, per riprendere nuovamente il conteggio al marzo successivo; questo fino a Numa Pompilio che nel 713 a.C. aggiunse i mesi di gennaio e febbraio ai dieci preesistenti o semplicemente diede un nome a questo spazio di tempo “innominato”. Le dieci decurie sarebbero dunque i dieci mesi e il numero dei celerini si riferisce, allegoricamente, alla somma dei giorni contenuti in dieci mesi, che sorvegliano, custodiscono o rendono prigioniero, l'anno.

Il fatto che i Romani attribuissero una tale importanza ai dieci mesi “nominati” del loro calendario arcaico, trova il suo equivalente nel racconto contenuto nel libro sacro degli Irani, l'Avesta. In questo testo Zarathustra, narrando del dio malvagio Angra Mainyu, ricorda che questi aveva dato al mondo dieci mesi di gelo, concedendo soltanto due mesi meno freddi. A dieci mesi di buio rispetto ai due di luce, fa cenno, nei suoi studi, l'Indiano Baal Gandahar Tilak, nel saggio La Dimora artica nei Veda. Dunque i Romani, come gli Irani, non fecero altro che tramandare il comune ricordo di un'emigrazione dalla patria primordiale (Ur) nella quale dieci mesi assurgevano ad un'importanza particolare poiché le condizioni di vita di quei mesi erano proibitive. La suddetta tesi che mette in relazione Romolo con Zarathustra, l'Iran con il Lazio, i dieci mesi del calendario romano e i dieci mesi di gelo nell'antica patria degli Irani apparirà meno fantastica se si terrà conto della omonimia tra il nome della patria ariana citata nell'Avesta, Vaejo, dove vi erano i dieci mesi di gelo, e il nome della più antica città del centro Italia Veio.1

Per ciò che concerne gli altri numeri evidenziati nel racconto di Livio siamo certi che alcuni di questi si riferiscano al calcolo della precessione degli equinozi, fenomeno astronomico in base al quale ogni anno il sole raggiunge il “punto vernale” con qualche frazione di anticipo nell'orbita rispetto all'anno precedente, con il risultato che nell'arco di 72 anni “si sposta” di circa un grado all'interno di ogni casa zodiacale, nell'arco di 2160 si sposta di circa 30 gradi e transita in un altro segno dello zodiaco, nell'arco di 26.000 anni percorre i 360 gradi dello zodiaco, ritornando nel segno zodiacale di partenza. Si consideri inoltre che, come riferito da Tito Livio, Numa Pompilio era un esperto in scienze astronomiche e matematiche2. Alla luce di quanto sopra affermato ipotizziamo che l'uomo scelto da ogni decuria per governare a turno con gli altri nove corrisponda al ciclo di 72 anni necessario perché il sole “si sposti” di 1 grado nello zodiaco. Altresì il prodotto delle 10 decurie per 3 centurie, pari a 30, corrisponde ai trenta gradi che deve “percorrere” il sole all'interno di ogni casa zodiacale. Supportati da questa nuova scienza che è l'archeoastronomia, non crediamo sia azzardato vedere nei numeri citati da Livio in merito all'istituzione dello Stato l'allegoria di un ordinamento astrologico, di cui altre culture, quali la babilonese, la sumera, l'egizia, erano già a conoscenza. Infatti i numeri legati al calcolo della precessione degli equinozi, 360, 72, 30 e 12, sono tutti contenuti nella narrazione di Livio e sono i medesimi di cui si avvale Sellers per spiegare le conoscenze astronomiche possedute dagli Egiziani e da loro diffuse attraverso il racconto allegorico dell'uccisione di Osiride. Non diremo oltre sul 3, dal momento che le nostre competenze in materia non sono tali da consentirci di azzardare ulteriori ipotesi; ci auguriamo però che i progressi dell'archeoastronomia possano consentire di verificare se dietro i numeri sopra citati si nasconda davvero la prova di un'approfondita conoscenza astronomica da parte degli abitatori arcaici del centro Italia, come sembrerebbe emergere dalle ricerche astronomiche di don Giuseppe Capone, il quale riteneva che la cinta muraria di Alatri fosse una proiezione del segno zodiacale dei Gemelli. Inoltre vogliamo segnalare, onde rafforzare l'intuizione di don Capone, che questa città è stata costruita, crediamo non a caso, su un colle bigemino. Se le cinque città saturnie fossero state costruite in modo da entrare, tutte, in relazione con la costellazione dei Gemelli, si potrebbe ipotizzare che anche le altre quattro città saturnie, Anagni, Arpino, Atinia e Ferentino, contengano celati riferimenti a questo segno zodiacale.

Ma torniamo a Romolo. Personaggio storico o simbolico, sta di fatto che il rito esercitato dal nostro italico fondatore di città, trova delle analogie con i riti esercitati nel nord e centro Europa da una casta sacerdotale che ha esercitato un fascino particolare nell'immaginario collettivo e che è stata ben descritta da Cesare, Plinio il vecchio, Pomponio Mela ed altri: quella dei Druidi.

Tito Livio, nella sua storia di Roma (Libro I, capitolo 10), afferma che nel Campidoglio si trovava una quercia ritenuta sacra dai Romani; Pomponio Mela e Plinio il Vecchio asseriscono che anche i druidi consideravano sacro tale albero. Ancora più sconcertante è la constatazione che gli atti rituali compiuti da Romolo, fondatore di Roma, ricalchino gli stessi atti attribuiti da Zarathustra nell'Avestā al dio Ahura Mainyu, il dio che “crea con la mente”. Infatti, nei pressi della suddetta quercia, Romolo decide di erigere un tempio a Giove, da lui appellato “Giove Feretrio”4, pronunciando le seguenti parole: «Io Romolo, re vittorioso, ti offro queste armi regali, e in questo spazio che ora mentalmente ho delineato, ti dedico un tempio». Il fatto di “delineare mentalmente”, che va ben oltre il concetto di un semplice pensare, non solo mette Romolo in relazione con Ahura Mainyu, il dio “che crea con la mente”, ma illumina di nuova luce il suo nome arcaico qualora tale nome fosse, come riteniamo, Ramnes.

Ritorniamo per un attimo sul nome segreto di Romolo poiché, decriptandone il significato, comprenderemo pure il suo ruolo sacerdotale. Siamo indotti a ritenere che Ramnes fosse il nome arcaico di Romolo in quanto Tito Livio, riferendosi a Ramnes, la centuria equitum di Romolo identificabile anche con una delle tre antichissime tribù romane, afferma che prese nome proprio dal primo re di Roma. Se il nome cui allude Livio fosse Romolo la centuria equitum avrebbe dovuto chiamarsi Romulea, così come Romulare fu denominato il fico sotto il quale fu ritrovato in fasce il futuro re; più probabilmente invece il primo nome arcaico o attributo sacro del primo re di Roma era proprio Ramnes. Questo ci pare significativo in quanto l'origine filologica di Ramnes, a nostro parere riconducibile ai lessemi germanici Rahe-Mn-es, confermerebbe il ruolo sacerdotale del primo re di Roma, avvalorato anche dal fatto che, secondo il mito, egli non morì ma fu involato in una nube e poi assimilato al dio Quirino, protettore dei Romani. Rahe, infatti, in lingua germanica designa l'antenna delle navi vichinghe nella quale era issata la vela; mn indica mente; es potrebbe semplicemente identificarsi con il pronome personale di terza persona; pertanto Rahe-Mn-es è “colui che capta con la mente il vento divino”. Pure nell'ebraico (derivato probabilmente dalla lingua filistea) il vocabolo ruha ha il significato di vento, soffio divino; è cioè quell'alito di vita che Jahvè infonde nelle narici del primo uomo creato, Adamo. L'atto di compiere un rito attraverso la concentrazione della mente, vera attivatrice del rito, ci conduce ancora in India, dove un altro popolo ario, quello dei Veda, agisce in sintonia con quello romano. Infatti nelle Upaniṣad (sesto Adhyaya, Quarto Brahmana) il sacerdote può affermare: « Io sacrifico con la mente le mie energie vitali trasferendole in te».

La tradizione druidica continua a Roma anche attraverso il secondo re, Numa Pompilio. Diversamente da quanto tramandato circa l'indole sacerdotale di Numa Pompilio, noi riteniamo che questi non fosse un re-sacerdote, diversamente da Romolo. Mentre Romolo compie personalmente i riti sacri della fondazione ed erige templi “delimitandone mentalmente” lo spazio sacro, cosa che potrebbe fare solo un sacerdote particolarmente carismatico, Numa non solo viene investito re da un sacerdote dalle chiare parvenze druidiche, ma deve servirsi di un Augure affinché compia, in sua vece, ogni sorta di riti magico-religioso propiziatori. A proposito delle parvenze druidiche del sacerdote che proclama re Numa Pompilio è il caso di rileggere Tito Livio:

« L'Augure prese posto alla sua sinistra, col capo velato, tenendo nella mano destra un bastoncino ricurvo, senza nodi, che fu chiamato lituo. Quando poi, rivolto lo sguardo alla città e alla campagna e invocati gli dèi, ebbe delimitato le zone da oriente ad occidente e proclamate fauste quelle verso mezzogiorno, infauste quelle verso settentrione, fissò mentalmente il punto più lontano cui poteva spingersi lo sguardo; allora passato il lituo nella mano sinistra e posata la destra sul capo di Numa, così pregò: “Giove padre, se è destino che questo Numa Pompilio, di cui io tocco il capo, sia re di Roma, daccene sicuri segni entro i limiti che io ho tracciato” (…). Numa, proclamato re, discese dal recinto augurale».
(Storia di Roma, libro I, Cap. 18)
LA FONDAZIONE DI ROMA

Che il solco tracciato da Romolo fosse circolare non è esplicitamente affermato da Tito Livio, ma è presumibile, non tanto perché Livio fa riferimento alla “cerchia delle mura”, quanto piuttosto perché al centro della città stava un fossato certamente circolare chiamato mundus, che rappresentava il centro d'irradiazione della sacralità della stessa. Se proviamo ora a tracciare la pianta della città sacra vedremo definirsi sulla carta uno spazio circolare delimitato dalla doppia cerchia di mura costituita dal mundus e dal pomerium e diviso perpendicolarmente in quattro settori da due strade principali: si viene così a configurare una figura molto familiare cioè il simbolo solare del cerchio raggiato o croce celtica, scolpito in abbondanza nelle rupi scandinave, nei monti del nord Italia, nei capitelli della sicana Adrano e perduratosi fin nel Medioevo. Inoltre, Plutarco presenta, senza mezzi termini, Romolo come un sacerdote. Scrive infatti che, mentre Remo viene rapito dai servi di Numitore, Romolo era “intento in un certo sacrificio (imperciocchè egli era dedito ai sacrifici e versato in vaticini)”. Ed ancora, Plutarco, facendo riferimento a Fabio Pittore, racconta di un Romolo “dedito al culto degli dèi” e afferma “che egli era anche indovino e che per ragioni del vaticinare portava il lituo, che è una verga incurvata ad uso di disegnarsi gli spazi del cielo (…)”. Ma le connotazioni druidiche di Romolo sono più esplicite nel passo in cui si descrive come egli disponga l'esercito “per centurie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava legata intorno alla cima di un'asta una brancata di erba e di frondi”. Plutarco scrive ancora che il rito della fondazione dell'urbe sarebbe avvenuto durante un'eclisse di sole, causata dalla “congiunzione di luna”. Ora si sa che i sacerdoti druidi descritti da Plinio e Pomponio Mela che amavano disporsi in cerchio durante i riti, erano esperti astrologi, dividevano gli spazi celesti col loro bastone ed utilizzavano il vischio per i riti sacri.

Alla luce di quanto ricostruito circa il rito della fondazione di una città che, a distanza di tre millenni dal suo apparire, continua ad esercitare un fascino ed un'attrazione senza pari, verificato che l'immortale sua aura avvolge, nonostante gli infausti tempi odierni, l'Urbe con eguale sacra reverenza, non possiamo che concludere, con Plutarco e Plinio, che davvero gli dèi decretarono unanimi per essa un felice destino e che mai alcun rito fu così efficace come quello che la tradizione attribuì a Ramnes.

Prof. Francesco Branchina