Intervista sul suo libro, " Adrano, dimora di dei ."
Abbiamo parlato del terzo libro di Francesco Branchina, Dalla Skania alla Sikania. Testo che ha suscitato parecchio interesse. Questa volta, giocando a ritroso, puntiamo l'obiettivo sulla sua seconda pubblicazione attraverso un'intervista davvero piacevole.
D. Il titolo del suo secondo libro, Adrano, dimora di dei, nella storia del Mediterraneo greco, fa già riferimento al nostro mare, alla cultura greca e al sacro. Perché questa esigenza di mescolare tali ingredienti in un testo di storia?
R. La storia di un popolo è il frutto di molteplici fattori, fisici e metafisici. è innegabile che le scelte degli uomini, motore della storia, siano condizionate dalla percezione del sacro, dalla religione, così come dalla geografia che, soprattutto in tempi remoti, ha spesso determinato le condizioni di sviluppo di una civiltà.
Non per nulla i deserti dell' Africa e i ghiacciai del nord Europa hanno inibito per lungo tempo lo sviluppo dei popoli indigeni che hanno dovuto impegnare il meglio delle proprie energie fisiche e psichiche per sopravvivere lottando contro una natura ostile, mentre, ambienti climaticamente e geograficamente strategici, come il bacino del Mediterraneo, hanno creato condizioni ottimali allo sviluppo delle civiltà ivi sviluppatesi. La Sicilia, bagnata da tutti i lati dal Mare Nostrum, è divenuta nel tempo terreno di coltura di uomini eccellenti in tutti i campi, una sorta di laboratorio alchemico dal quale uscirono menti illustri quali Gorgia, Empedocle, Archimede, re di grande ingegno e capacità quali Gelone di Siracusa, Ruggero II d'Altavilla, Federico II.
Fu proprio in questo laboratorio d'ingegno e civiltà che nacque il primo Parlamento; proprio dalla nostra isola ebbero origine i Moti del Quarantotto , la cui eco si diffuse poi in tutta la Penisola.
In campo militare, basti ricordare che, la Sicilia, sconfisse Atene nella guerra del Peloponneso e, se poi cadde sotto Roma, fu solo per tradimento. Quando il console romano si trovò di fronte alle macerie di Siracusa pianse, poiché vedeva la città più bella e popolosa del mondo, a ferro e fuoco. Provò le stesse emozioni del console romano Cesare Abba che, entrando in Sicilia al seguito dei Mille , non poteva fare a meno di ricordare le parole del padre, il quale dichiarava di aver superato il periodo di carestia grazie alle mandorle che erano pervenute dalla lontana e feconda Sicilia.
L'Italia, che per tre quarti si abbevera in questo mare, diede vita all' Impero più longevo del mondo e lo plasmò interamente di sé con le proprie leggi, grazie al culto della Patria che grandi uomini avevano appreso succhiando il latte materno di Calpurnia, Clelia, Cornelia e imitando gli esempi di Coriolano , Cincinnato, Camillo.
In Grecia, che ebbe il privilegio di aver dato impulso per prima allo spirito occidentale, il terreno di coltura, alimentato dal Mare nostrum, creò eroi come Epaminonda , statisti come Pericle, legislatori come Solone e filosofi come Socrate e Platone, i quali ultimi ebbero, però, la responsabilità di aver infiacchito gli animi guerrieri dei cittadini contribuendo, in tal modo, alla fine della civiltà ateniese.
Fu così che gli Ateniesi si trasformarono in contemplatori inerti di statue e cedettero al primo colpo di daga dei Romani, i quali erano, invece, refrattari ad ogni vacua retorica proprio come Dionigi I di Siracusa era insensibile alle lusinghe della filosofia di Platone e determinato a continuare la sua politica di espansione territoriale fino in Etruria.
è appunto il Mediterraneo il contesto in cui si colloca la storia della nostra Adrano, il cui dio omonimo assume caratteristiche assimilabili a quelle indoeuropee degli déi greci, sempre partecipi delle umane vicende, come emerge dai testi omerici e romani, pronti a scendere a patti con gli uomini, con cui stipulavano veri e propri trattati. Anche il dio Adrano, secondo il racconto di Plutarco, si cala nelle vicende umane quando, muovendo la lancia della statua che lo raffigurava e spalancando le porte del proprio tempio, manifesta il proprio consenso all'adesione degli adraniti alla campagna antitirannica condotta dall'eroe Timoleonte; il contingente militare fornito dagli adraniti avrebbe avuto poi un ruolo determinante nel cambiare le sorti delle città siciliane sottoposte alla tirannide e a cui verrà sostituita la democrazia.
D. Il testo dispiega le ali sul concetto di rifondazione e propone una certa lettura delle nostre secolari mura. Ai più, una distesa di pietrose difese può sembrare una semplice accozzaglia di rocce laviche. Come scruta, un appassionato del passato, queste quasi irremovibili rappresentanti di una civiltà estinta?
R. Lo studioso del passato, superata la fase della percezione istintiva ed empatica suscitata dall'osservazione di qualsivoglia manufatto o testimonianza storica, si accinge allo studio metodico del medesimo avvalendosi, anche, di analisi comparative con civiltà coeve e affini rispetto all'evento o al manufatto in oggetto. Le rocce laviche delle nostre pietrose difese non sono databili con il metodo del carbonio 14 per cui bisogna utilizzare altri criteri per risalire alla datazione della cinta muraria; in tal senso, può essere utile il metodo comparativo. Le mura di Adrano non differiscono, infatti, per metodo di costruzione, dalle mura poligonali di città laziali come Alatri o Arpinio, definite anch'esse, come le nostre mura, Pelasgiche o Ciclopiche . Quelle del Lazio sono datate intorno al 1750 a.C. Non differiscono, inoltre, dalle mura di Micene e Tirinto, costruite nell'epoca micenea e, neppure, da quelle di Hattusa costruite in epoca Ittita, nel 1500 circa a. C.. Tra l'altro, gli studi compiuti mi hanno portato ad appurare l'esistenza di affinità etniche - ravvisabili nella lingua, nel culto, nelle usanze - tra i Sikani e i popoli che costruivano questa tipologia di mura.
Da storici quali Pausania, Tucidide e Erodoto, si traggono conferme circa il fatto che i Siciliani del II millennio a.C., conoscevano l'arte di costruire mura con siffatte caratteristiche; anzi, secondo Pausania, proprio i Ciclopi di Sicilia furono chiamati in Grecia per costruire le mura di Micene, Tirinto ed Argo. Questo significa che, in Sicilia, si costruivano mura poligonali o Ciclopiche o Pelasgiche, come si preferisce denominarle, prima ancora che in Grecia. Si consideri, inoltre, che il culto del dio Adrano era già millenario quando arrivarono i coloni greci in Sicilia e che il suo santuario, il quale presupponeva l'esistenza di un villaggio limitrofo, se non di una vera e propria città, doveva essere paragonabile ai santuari più importanti del bacino del Mediterraneo, quali quelli di Dodona o Eleusi. La vulgata, secondo la quale Adrano sarebbe stata fondata da Dionigi nel 400 a.C., attribuibile allo storico Diodoro, il cui testo non è privo del resto di imprecisioni è, pertanto, improponibile e in contraddizione con quanto sopra affermato. Ritengo, dunque, come argomentato con dovizia di particolari nel saggio in oggetto che la città sia stata non fondata dal tiranno di Siracusa, Dionigi, ma, piuttosto, conquistata e rinominata; è molto probabile, come dimostro nel libro in oggetto, che, precedentemente, la città venisse denominata Inessa e poi Etna. Tale uso era del resto molto diffuso e documentato. Perciò che concerne l'ultima parte della sua domanda, preferirei che si facesse riferimento, piuttosto che ad una civiltà estinta, ad un periodo storico concluso. Come emerge dalla lettura del Capitolo IX, La lingua e lo spirito di un popolo, ritengo che la forza interiore degli adraniti che di quei ciclopi hanno conservato intatti l'orgoglio, la potenza interiore e persino l'arroganza, non si sia ancora estinta. Non si commetta però l'errore, come spieghiamo nel Capitolo X, Calati juncu, di considerare Adraniti tutti gli abitanti della città, compresi quei pochi ma virulenti eredi dello schiavo Euno che, scampati alla daga romana, furono accolti nella nostra città per umana pietà: sono costoro che, aiutati dall'anarchia creata dalla burocrazia e dalla debolezza delle istituzioni, oggi come allora, rendono invivibili le nostre contrade. Ma ribadiamo: costoro sono gli eredi di quegli schiavi siri, egiziani, macedoni che, lasciati gli antenati nelle terre d'origine, irrigarono col loro sudore le altrui terre. è questa una genia di gente di cui si deve avere umana considerazione; ma non sono adraniti.
D. Tutto parte dal Mendolito. Dovesse spiegare, ad un curioso profano, cos'è il Mendolito, quali parole intreccerebbe?
R. Tutto parte dal Mendolito, poiché ritengo che, in questo sito, come a Pompei, si sia cristallizzata una sia pur vaga impronta della vita che, in quel luogo, s'è svolta fino al momento dell'abbandono: tale impronta può aiutarci a ricostruire le radici del popolo adranita e, per estensione, dell'intera Sicilia. Va notato che raramente i luoghi cambiano nel tempo la destinazione d'uso per la quale sono stati creati, a meno che essi non esauriscano quella funzione: una cava di marmo pregiato continuerà ad essere tale fin tanto che il marmo non si esaurisca o cessi di essere competitivo sul mercato. Tutte le città, tranne rare e motivate eccezioni, continuano a sorgere da millenni nello stesso loro luogo di fondazione; a Troia, per esempio, si sono ritrovati ben sette strati, a testimonianza del fatto che la città, dopo essere stata distrutta in seguito a guerre o catastrofi, veniva sempre ricostruita, esattamente, nello stesso luogo. Anche i luoghi di culto, generalmente, hanno mantenuto nel tempo la loro funzione: è il caso del Pantheon, dove agli dèi pagani sono stati sostituiti però i santi del paradiso cristiano. L'abitato vero e proprio della città di Adrano aveva tutto intorno, allora come oggi, un territorio di pertinenza che includeva anche il Mendolito, dove si svolgevano attività agricole, di pastorizia o artigianali; la città, due millenni fa, aveva le medesime caratteristiche di oggi, brulla e incenerita dalle lave del vulcano a nord e fertilissima giù a valle, dove scorre il fiume Simeto: con queste parole Strabone descriveva la città di Inessa che ritengo identificabile con Etna e poi con Adrano. Ancora oggi, ritroviamo le medesime attività di allora nell'area del Mendolito: fabbriche di laterizi per la presenza di argille, coltivazione di grano nei rilievi sovrastanti la contrada, pastorizia presso le sponde e le valli del fiume. L'interpretazione che ho fornito dell'iscrizione sicula ritrovata nella torre delle mura del Mendolito, se esatta, confermerebbe quanto affermato. Dunque, il Mendolito, in epoca Sicano\Sicula, cioè fino al VI sec. a.C., sotto la giurisdizione del Principe sicano Teute, fu, probabilmente, un emporio dove venivano stoccati i prodotti dell'agricoltura, della pastorizia, i manufatti delle fabbriche di ceramiche, delle fonderie di bronzi e della tessitura. Si noti che resti di tali attività sono ancora visibili: si pensi ai grossi pesi da telaio ivi ritrovati che lasciano pensare a grandi telai "industriali" o al ritrovamento del deposito dei bronzi destinati alla fonderia. A partire dalla morte di Gelone di Siracusa, dovette trasformarsi in un avamposto militare o castello, come viene definito da Diodoro Siculo, a motivo del fatto che, sotto Gerone, fratello di Gelone, i rapporti tra Siculi dell'interno dell'isola e i Greci della costa si guastarono definitivamente. è probabile che il sito venga dismesso come luogo militarizzato sotto il longevo regno di Dionigi I di Siracusa che riduce i paesi della Sicilia orientale in tributari. Solo due secoli dopo, sotto l'Impero Romano, il Mendolito si trasformerà definitivamente in un territorio agricolo, così come è arrivato fino a noi. Se venissero intrapresi scavi archeologici sistematici nel territorio del Mendolito sarebbe possibile ricostruire la storia pre-greca del nostro territorio. Sono, infatti, convinto che il sito abbia conservato inalterate tracce del suo lontano passato: le epigrafi del Mendolito e la simbologia scolpita in ceramiche e pietre denunciano chiaramente, a mio parere, il retaggio protogermanico degli Adraniti in particolare e dei Sicano\Siculi in generale. Auspichiamo pertanto che scavi e reperti di questa importante area archeologica vengano ripresi e resi fruibili agli spiriti più sensibili che, fra gli Adraniti, sono ancora numerosi.
D. Nel suo testo, si (ri)parla del dio Adranos, del suo culto, dalla genesi alla cessazione interrogandosi, pure, sulla sua possibile natura umana. Con quali occhi osserva, un uomo occidentale e del nuovo millennio, qual è Lei, tale sacralità?
R. In questi tre anni intercorsi dalla stesura del testo cui Lei fa riferimento, lo studio è continuato ed è approdato a nuovi e più stimolanti conclusioni. Di conseguenza, ho dovuto aggiustare il tiro in base ai nuovi esiti dei miei studi. Oggi, possiedo nuovi elementi per poter affermare che il termine Adranos, come l'appellativo ebraico Iahvè o quello sumero An, non era originariamente un nome proprio, ma un lessema con il quale veniva indicato il concetto del divino. La trasformazione dei termini succitati in nomi propri, con i quali indicare specifiche divinità, avviene molto tempo dopo. Da Erodoto, si apprende tra l'altro che i Pelasgi non davano nomi ai loro dèi e che il dio ittita della tempesta non veniva designato con un nome in particolare. Il termine Adrano - che originariamente, ribadisco, era un sostantivo che rimandava al concetto indefinito e astratto del divino - risulta formato dai lessemi dhr e an: dhr sta per forza impetuosa e violenta, furore; An è stato tradotto dai sumerologi come dio del cielo. Ora, prendendo per buono che Adranos è coevo del sumero An, dio del cielo, e che Sumeri ed Adraniti facevano parte della stessa migrazione avvenuta intorno al IV millennio a.C. - argomento affrontato nel mio saggio Il paganesimo di Gesù, di imminente uscita per le edizioni Simple - è altresì evidente come, sia per i Sumeri che per gli Adraniti, An o Dhr - An era il dio per eccellenza e, probabilmente, esprimeva già un primordiale concetto di monoteismo. Il Sumero An, dio che sovrastava le enormi e tranquille distese della fertile Mesopotamia, dovette diventare in Sicilia, Dhr - An, cioè potenza irruente o furore (così G. Dumezil, col consenso di Adamo da Brera, traduce il termine dhr) e ciò in virtù della presenza del vulcano Etna che, con le sue paurose colate laviche, i cupi boati e i terremoti di assestamento, incuteva, allora come oggi, sacro timore. I Sumeri riservavano al loro dio An una casta sacerdotale, quella degli Annunaki. Il termine Annunaki è un nome composto da An + nun + Akt (Dio + adesso + azione): infatti, essi, in qualità di sacerdoti, erano lo strumento dell'azione di dio. Forzando il ragionamento, potrebbe essere valida l'equazione secondo la quale se ai Sumeri stanno gli Annunaki, come sacerdoti del dio An, ai Sicani dovrebbero stare gli Adraniti, come sacerdoti del dio Dhr - An. Spingendo ancora oltre la nostra fantasia, noteremo che il termine Adraniti o Adranitani, come li chiama Plinio, risulterebbe composto da Dhr - an - eiti o - hiti: sennonché la parola eiti è riportata in un'iscrizione funebre sicula proveniente dal Mendolito; in un altro tegolo funebre si trova la variante hiti. Nel testo Dalla Skania alla S(i)kania, nel II Capitolo, facevo derivare il termine dal protogermanico Heitan, col significato di chiamare, evocare (lo stesso significato ha, a mio parere, il nome Ittiti). Se, dunque, il nome adraniti venisse scomposto in dhr + an + hiti, avremo furore + dio + evocare: gli Adraniti sarebbero pertanto coloro che invocano il furore di dio. Tale interpretazione è coerente tra l'altro con la rappresentazione del dio Adrano armato di scudo, elmo e lancia, attributi costanti di Spartani, Ittiti, Micenei. Gli Adraniti, dunque, al pari di Druidi, Arvales, Annunaki, Magi ., potrebbero essere stati, in origine, una casta sacerdotale; successivamente, il termine, per estensione, avrebbe indicato anche gli abitanti dell'insediamento che ospitava il santuario. Sulla base delle considerazioni di cui sopra si dovrebbe dedurre inoltre che il nome Sikani deriva da sich + an: sich, in tedesco, è pronome riflessivo; an sta ad indicare dio. Il nome sarebbe perciò traducibile con l'espressione dio in sé, una sorta di particella di dio, insomma, prendendo a prestito un'espressione utilizzata, tre millenni dopo, da Orazio (Satira II).
D. Il Capitolo II sembra preannunciare i lavori, già da Lei svolti per l'avvenuta pubblicazione del terzo libro, Dalla Skania alla