Salone della Meridiana, posto al primo piano e alla fine dello scalone monumentale. Si tratta di un enorme (m. 54 x 20; h. 27) salone seicentesco, di forma rettangolare, illuminato da porte-finestre che si aprono lungo tre pareti, quelle laterali affacciantesi sui cortili interni, mentre quelle della parete sud provviste di balconi, collocate subito al di sopra dell'ingresso principale del Museo. Altri due ordini di finestre scandiscono le pareti laterali, di cui quelle superiori sono poste all'attacco della volta. Quest'ultima, fin dal primo secolo di esistenza dell'edificio, in precarie condizioni statiche proprio per l'ampiezza del salone, a seguito dei terremoti del 1686 e 1688 divenne a tal punto fatiscente che nel 1735 il re Carlo incaricò Giovanni Antonio Medrano a ricostruire la copertura oramai completamente rovinata. Il Medrano escogitò la geniale soluzione del doppio tetto: uno interno di travi e tiranti lignei ai quali è sospesa la volta (successivamente affrescata); ed un secondo ordine di capriate più alto che copre il tutto e costituisce il tetto vero e proprio. Nel 1781 Pietro Bardellino realizzò sulla volta ricostruita l'affresco che ancora si può ammirare: si tratta di una celebrazione delle virtù di Ferdinando IV e di sua moglie la regina Maria Carolina (i cui ritratti ha raffigurato dipinti su di uno scudo bronzeo), quali protettori delle arti; queste ultime si riconoscono perfettamente nelle numerose figure allegoriche che popolano il cielo, ciascuna delle quali tiene dei simboli che la caratterizzano. La scritta "IACENT NISI PATEANT" suggerisce il programma e la liberalità del re che vuole affermare che le cose d'arte languono se non vengono esposte e fruite dal pubblico. Il grande affresco è stato restaurato nel 1904, mentre nel 1967-1968 sono stati intrapresi restauri al tetto del Gran Salone che hanno visto la sostituzione di capriate fatiscenti, l'impermeabilizzazione delle falde e la sostituzione delle tegole di copertura. Lungo le pareti del Salone, mentre nella parte inferiore vi sono diversi quadri ottocenteschi in stile "pompier" di soggetto mitologico o storico, di non grande valore (in prestito temporaneo dal Museo di Capodimonte), nel registro superiore invece vi sono numerose tele del pittore genovese G. B. Draghi, che celebrano le gesta di Alessandro Farnese nelle Fiandre, pitture un tempo esposte in Palazzo Farnese a Piacenza.
Ai lati della porta d'ingresso che dà sullo scalone monumentale, vi sono infine una coppia di epigrafi marmoree in latino del 1616. Collocate un tempo all'esterno del palazzo, al di sopra delle finestre che fiancheggiano l'attuale ingresso principale, esse celebrano l'una le benemerenze politiche del viceré don Pedro Fernández de Castro conte di Lemos, mentre l'altra ricorda il trasferimento dell'Università degli Studi nell'attuale palazzo del Museo. Si trova al primo piano, alla fine della rampa centrale dello scalone monumentale.
fonte Wikimedia.org
da Ercolano - inv. 4904.
Il cavallo fu ricomposto, per iniziativa regia, dall’infinito numero di frammenti di bronzo di una splendida quadriga rinvenuti nel 1739 a Ercolano, come l’erudito capuano Alessio Simmaco Mazzocchi ricordava nell’iscrizione collocata sulla base su cui l’opera era esposta nel cortile del Museo Ercolanese.
Winckelmann lo vide a Portici, e ne scrisse, non nei Monumenti antichi inediti, ma nel 1762 nella famosa lettera al conte von Brühl.
«In cima al teatro vi era una Quadriga [...] colla figura della persona sopra di esso di grandezza naturale, il tutto di bronzo dorato [...]. Queste opere sono state, com’è facile a concepirsi rovesciate, schiacciate e mutilate dalla lava, ma al momento in cui furono scoperte non ne mancava un solo pezzo. Come furono trattati quei preziosi avanzi? Si raccolsero tutti i pezzi [...], si trasportarono a Napoli, e si scaricarono nel cortile del palazzo reale, ove si gettarono alla rinfusa in un angolo. Colà giaceva quel metallo come vecchia ferramenta per lungo tempo, e [...] si prese alla fine la risoluzione di rendere a quegli avanzi il dovuto onore [...]. Una gran porzione fu fatta fondere per fare due gran busti in basso rilievo del re e della regina. [...] Gli altri pezzi del carro, dei cavalli e della figura furono alla fine trasportati di nuovo a Portici, e collocati nei sotterranei del palazzo reale furono tolti alla vista di chiunque.
Qualche tempo dopo l’ispettore del Museo propose che dei pezzi che rimanevano se ne mettesse insieme uno solo. [...] si riuscì alla fine a mettere insieme un cavallo, che si è collocato nella corte interna del Museo. [...] Questo cavallo, messo insieme bene o male, pareva che fosse tutto di un pezzo, finché le commettiture male unite non cominciarono ad aprirsi a poco a poco; [...] e quando nel marzo del 1758, essendovi io presente, venne una gran pioggia, l’acqua insinuossi nelle commettiture, ed il cavallo divenne idropico. Si cercò con ogni studio di nascondere questo obbrobrio della ristaurazione; la corte del Museo rimase chiusa per tre giorni, finché non fu fatta la parecentesi al cavallo, il quale è finora rimasto nel medesimo stato, senza che vi si ponesse rimedio, rimedio che non sarebbe stato facilissimo; e questa è la storia della Quadriga di metallo dorato ch’era sulla cima del Teatro d’Ercolano.»
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Fotografie di Giorgio Manusakis