Testo

Biblioteca di Stato della Repubblica di San Marino

LA STORIA DIMENTICATA: PERCHÉ SI CHIAMA TITANO

Gli annali sulle origini della Comunità di San Marino narrano dì un certo monaco Eugippio vissuto agli inizi del '500 dopo Cristo.
Egli, che alternava alla contemplazione la raccolta biografica di Santi, parla di un certo Monastero posto su un monte chiamato Titano situato sopra Rimini (... in monasterium montis cui vocabulum est Titas super Ariminum commoratus). Perché quel Monte fu chiamato Titano?
Ne parla in una minuscola monografia della fine dell'800 Francesco Gola dal titolo "Montefeltro". Egli dà due versioni esemplificative sulla denominazione "Titano".
L'una è mitologica la quale afferma che i Titani, orribili giganti come li descrive Dante, figli di Titano, fratello di Saturno e zio paterno di Giove, abituati a fare i bravacci, come deviare fiumi, spianare monti ed altro del genere, in un giorno caldo d'estate, dopo aver arrostito e ingoiato allegramente un centinaio di vitelli, in un momento dì eccitazione dopo il lauto pasto e le abbondanti libagioni, decisero di assaltare Giove dormiente e perciò accumularono macigni su macigni per scalare il cielo. Ma Giove, avvertito dalla dea Cibele li accolse colla sua potenza e li precipitò tutti sulla terra. Restò la montagna fatta dì macigni che fu chiamata percìò Titano.

L'altra versione è più attendibile: scavando su una delle erte cime del monte fu rinvenuta una tomba di un soldato del gran Pompeo, chiamato Titano. Di qui la denominazione del Monte Titano.
L'interesse per questa versione mi suggerì due cose; approfondire la ricerca della presenza di quell'antico sepolcro e scrivere il racconto dal titolo Il segreto del mulino delle polveri. Invero la ricerca mi ha portato molto vicino alla conferma della straordinaria, versione della tomba di Titano, perché la signora Clio Franciosi, figlia dell'Illustre concittadino Pietro Franciosi, abitava nella contrada presso le monache Clarisse sulla cima a nord della Città di San Marino, mi assicurò di aver visto, da bambina, le enormi ossa di uno scheletro gigantesco, custodite in un cassone conservato entro il convento delle figlie di Santa Chiara.
Certamente scavando per erigere il convento secentesco furono trovate quelle ossa e custodite per qualche secolo pietosamente, ma oggi disperse come quelle del celebre Giovan Battista  Bellucci. E su questo i Sammarinesi devono rammaricarsi e trarre miglior consiglio nel conservare.


Biblioteca Comunale di Adrano (Catania)

All'antica città fu dato il nome dei nume dei Siculi, il cui tempio sorgeva nelle vicinanze: Adranos, dio della guerra e del fuoco.

Chi potrebbe temere il dio Adrano che incede a grandi passi, se non colui che mente e che ruba; ancor più da evitare sono i mille cani, temibile corteo della divinità, che festosi accolgono i visitatori dei tempio e benevolmente accompagnano gli ubriachi alle proprie dimore; chi ha rubato sarà sbranato dai guardiani dell'epichotiou daimonos che si erge con la lunga lancia nel tempio venerato dalle popolazioni dell'intera Isola. Così avrebbero raccontato gli antichi abitanti dei numerosi centri posti alle pendici del monte Etna al tiranno di Siracusa, Dionigi, quando, fondando una nuova città, le diede il nome del grande nume della gente sicula venerato in località diverse, come nei territorio di Messina, presso i Mamertini, ad Alesa e persino nella Sicilia occidentale, a Monte Adranone, tanto da non potere essere direttamente assimilata nell'Olimpo ellenico. In piena età greca conservò, dunque, il suo nome (di derivazione orientale secondo alcuni studiosi, di origine italica secondo altri) ed il carattere di divinità fluviale. Una casa sacra, un fuoco eterno e schiere di cani dovettero richiamare alla mente dei Greci, penetrati nel territorio siculo, Efesto, il dio de; fuoco, divenuto per loro quasi personificazione dello stesso monte Etna ove si ergeva solitario il suo tempio. Come bene sottolineò Adolf Holm nella sua Storia della Sicilia nell'antichità, è più probabile che siano state attribuite a due divinità e a due templi diversi delle notizie che si riferivano ad un solo tempio e ad una sola divinità Adrano riunì quindi in sé il carattere di dio della guerra, indicato dalla lancia, con quello di dio dei fuoco, così da essere identificato con Efesto.
Sia Adrano che Efesto sono ritenuti, indifferentemente ora l'uno ora l'altro, genitori dei Palici figli di Etna o di Zeus e della ninfa Thalia, i quali, dapprima occultati dalla Terra per timore di Era, "nuovamente" (dal greco palin) erompono da essa. La leggenda primitiva li identifica coi crateri o loci ebullientes nelle cui acque sempre gorgoglianti si lanciavano le tavolette, che galleggiavano se erano veritieri i giuramenti scritti su di esse. Nel suo Viaggio per tutte le antichità di Sicilia (1781), Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari, ricorda che "se cercherà il Viaggiatore alcun vestigio di questo Tempio (dei dio Adrano, n.d.a.) gli sarà mostrato un robustissimo pezzo di gran fabbrica, costrutto di smisurati sassi riquadrati, ed ogni strato di questi ritirandosi un palmo, mostra, che possa essere un forte riparo per sostenere l'appoggiato terreno, sopra il quale poté essere alcun considerevole edificio; e vuole la volgare tradizione dei Paese, che un avanzo questo sia del Tempio dei Dio Adrano". Dopo alcuni decenni, Giovanni Sangiorgio Mazza, illustre studioso delle memorie storiche cittadine, affermava l'esistenza di parti dei tempio nell'Orto di Cartilemi, per il Biscari vestigia delle imponenti mura che cingevano la città dionigiana, deboli avanzi che non permettono di ritrovare l'architettura dell'edificio né "quant'altro serviva al Sacerdozio, ed ai sacrifici". Un'oscura fatalità avrebbe impedito la conservazione di tale luogo di culto, malgrado la gelosa sorveglianza de' Sopraintendenti alle antichità" (cfr. Storia di Adernò dell'avvocato Giovanni Sangiorgio Mazza, Catania, 1820), come poi in seguito accadrà per tanta parte dei resti archeologici adraniti. Colui che ebbe a possedere le terre di Frajeilo e di Cartilemi, Maestro Domenico dell'Erba, disperse vasi, distrusse monumenti, ridusse in calce colonne di pietra bianca, levò di mezzo quelle in pietra lavica e "un gran numero de' riquadrati sassi che frastornavano l'agricoltore nell'occupato terreno".

Maria Grazia Branciforti


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