Testo

Il pastore nella mitologia

Un alone di poesia circonda, da tempi immemorabili, i racconti e le leggende, aventi come protagonisti personaggi ed ambienti del mondo della pastorizia.

Nei dipinti rinascimentali e barocchi i pastori vengono raffigurati sempre con visi onesti, volti teneri e fanciulleschi. Le greggi fanno da sfondo a dei sentimenti di pace e tranquillità che riempiono gli orizzonti e permeano tutto il dipinto.

Molti scrittori, poeti, musicisti e pittori si sono rivolti al mondo della pastorizia per trarne spunti di serenità, messaggi d’amore per la Natura e per l’Uomo. Beethoven ha dato il nome di “Pastorale” alla sesta che é, forse, la più melodiosa delle sue nove sinfonie.

Sempre con questo termine viene chiamato l’insegnamento che, attraverso un messaggio fraterno e coinvolgente, i vescovi trasmettono ai fedeli. Il Papa e gli altri vescovi, per molti figure di uomini miti, evocano ancora una volta l’immagine di pastori che devono guidare le loro greggi verso la salvezza.

Essi vengono indicati, infatti, come pastori di anime, rapportandosi ancora una volta alla visione metaforica che si ha di questo mondo, ritenuto un’isola felice nel tempestoso mare della vita, lontano dagli uragani delle passioni, dai contrasti, a volte dolorosi, dei forti e accesi sentimenti che la quotidianità suscita.

Molto suggestiva, infine, la parabola, contenuta nel Vangelo secondo Matteo, della pecorella smarrita e del buon pastore che abbandona il gregge per andarla a cercare e salvare.

La realtà, però, é ben diversa da quella sorta di mitologia che avvolge questo mondo. La descrizione di una vita beata, fonte di gioie e soddisfazioni, contenuta in libri e testi antichi, riferita ad un’attività, ritenuta a torto tra le più semplici, non corrisponde alla verità.

Essa é, invece, una delle attività più povere e faticose, caratterizzata da un grande impegno fisico. Ai sacrifici di una giornata lavorativa che comincia poche ore dopo che é finita quella precedente, ad una vita di lavoro iniziata quando gli altri bambini solevano rincorrersi e giocare, ad un’infanzia e a una fanciullezza negate. A notti passate all’addiaccio sotto una coperta di stelle, a momenti di paura quando bastava un ululato per gelare le pareti del cuore, a visi di mogli, di figli non pienamente goduti e, improvvisamente, cresciuti, non hanno mai corrisposto quelle gratificazioni che ogni uomo desidera, come suggello della sua bravura e come premio alla sua fatica.

Scrittori e poeti, tranne alcune eccezioni, ci hanno fatto pensare ai pastori come ad uomini felici di vivere in mezzo alla Natura.

Virgilio il grande scrittore latino, autore tra l’altro dell’Eneide, attinse a questo mondo per le sue Bucoliche, presentando e proponendo il loro modello di vita, ecocompatibile si direbbe oggi.

Un modello diametralmente opposto a quello che si viveva nell’Urbe, lontano dai vizi e dagli ozi che fiaccarono l’animo dei Romani, facendo loro perdere di vista i valori su cui poggiava la forza che aveva fatto grande Roma, aprendo la strada alla sua dissoluzione e rovina.

I Romani davano tanta importanza alle mandrie che esse diventarono metri di paragone per valutare il benessere e la ricchezza di un uomo, socialmente stimato dal numero di pecore che egli possedeva. Più “pecus” possedeva, più era ricco. Da pecus derivò, poi, il temine di pecunia che ancora oggi usiamo come sinonimo di moneta e simbolo di ricchezza.

Presso i Greci questa attività era ritenuta così vicina alla Natura, al cielo e agli dei da essere oggetto d’invidia. Presso questo stesso popolo c’era l’usanza di consacrare gli animali alle divinità. Così come il lupo e il cavallo erano consacrati a Marte, l’aquila a Giove, il pavone a Giunone, la cerva a Diana, il leone a Vulcano, il corvo e il cigno ad Apollo e la colomba a Venere, in questo contesto, la pecora era un animale consacrato alle Furie, forse come contrappasso alla loro inesistente mansuetudine.

Molti racconti mitologici vedono come protagonisti giovani pastori, amati dalle dee e dalle ninfe per la loro forza e bellezza o per il suono melodioso dei loro strumenti, essenzialmente a fiato, come l’ocarina, lo zufolo, la zampogna e il flauto di Pan, una sorta di zufolo complesso, composto di canne di diversa lunghezza e suono, uniti a costituire uno strumento di forma triangolare.

In altri racconti li vediamo intenti ad inseguire giovani ninfe, restie ad accettare le profferte amorose, spesso insensibili al sentimento che agitava, invece, i loro cuori.

Famosa la figura di Aci che nella mitologia viene ricordato come un pastore siciliano, un ragazzo bellissimo, di cui si era innamorata Galatea, una Nereide, cioè una ninfa del mare, che per lui aveva rifiutato l’amore di un altro famosissimo pastore: il ciclope Polifemo.

Noi non vogliamo entrare nel merito delle scelte amorose di Galatea, ma certamente, per come andarono a finire le cose, Polifemo non riuscì nel suo intento. Accecato, non ancora da Ulisse ma da un sentimento di gelosia, egli uccise Aci, scagliandogli contro una rupe dell’Etna.

Il dio Nettuno, commosso da quanto accaduto, trasformò il giovane pastore in un monte, da cui sgorgò una fonte di nome Acilia, che diede origine al fiume Aci, permettendo così allo sfortunato giovane di ricongiungersi con l’amata fanciulla.

Ulisse, figlio di Laerte, nell’Odissea vendica in un certo senso questo delitto, frutto della malvagità di Polifemo.

“Dafni sono io, che i bovi soleva al pascolo addurre,

Dafni sono io, che tori guidava e giovenchi alla fonte.”

Così Teocrito, poeta siracusano, vissuto a cavallo del IV e III secolo a.C., nel suo I Idillio ci presenta Dafni, un altro giovane pastore siciliano, di grande bellezza e abile nel canto, figlio di Ermes (Mercurio). Come riporta Rodolfo Furneri nel suo interessante ed esauriente sito www.miti3000.it: “Nella mitologia greca Dafni, pastore siciliano nato dall’unione di Ermes con una ninfa, molto amato da Apollo, Pan e Artemide, è considerato l’inventore della poesia bucolica. Secondo una versione del mito, Dafni perse la vista per non essere stato fedele alla ninfa Nomia, ma in questa condizione non visse a lungo.

Allora, Ermes per ricordarlo lo mutò in pietra e a Siracusa fece nascere una fonte che prese il nome di Dafni, in onore del giovane poeta. In un'altra versione del mito amò Pimplea, schiava di Litierse, re di Frigia: per liberare la ninfa sfidò il re in una competizione agreste, ma perse e stava per essere da lui decapitato quando l’eroe Eracle accorse in suo aiuto e uccise Litierse. Famosissima, sempre su Dafni, l’opera di Longo Sofista, “Gli amori pastorali di Dafni e Cloe”, una tra le prime opere letterarie a trattare il tema dell’amore con un particolare interesse psicologico, ragion per cui il suo autore è tuttora considerato tra i precursori del romanzo.”

Nel III Idillio un altro pastore, dopo avere affidato a Titiro le capre, perché le porti a pascolare e a bere, invoca Amarillide che non ricambia più il suo amore. Anche qui un sentimento non corrisposto che porta ad una conclusione tragica

Pastori sono anche Batto e Marsia. Il primo viveva in Tessaglia e non va confuso con uno degli Argonauti. Egli fu testimone di un furto di bestiame subito da Apollo da parte di Mercurio. Questi regalò la vacca più bella a Batto a patto che lui tenesse la bocca chiusa. Poi, non fidandosi del pastore, gli si presentò sotto altre sembianze e lo indusse a rivelargli il nome del responsabile del furto, promettendogli una vacca e un bue.

Vinto dalla sua cupidigia, Batto rivelò il nome che si era impegnato a non rivelare e Mercurio lo punì, trasformandolo nella pietra di paragone che può servire a confrontare e a misurare la purezza dell’oro, ma non é della stessa natura.

Marsia, invece, abitava in Frigia. Inventore e suonatore di flauto, avrebbe osato sfidare in una gara di bravura musicale Apollo, il quale avrebbe posto come premio la possibilità di infliggere la punizione al perdente.

Apollo, com’era prevedibile, vinse sullo sprovveduto Marsia il quale subì una terribile punizione. Legato ad un palo, fu scorticato vivo.

Gli dei, a quanto pare, non andavano tanto per il sottile e se si arrabbiavano erano “ guai con la pala”, tanto per dirla in maniera colorita.

Altro nome famoso nella mitologia greca é Amaltèa, la capra che nutrì Zeus nell’isola di Creta, dopo che la madre Rea lo salvò da Crono che lo voleva divorare.

Per questo Amaltéa, secondo il racconto di Ovidio, fu fatta salire in cielo nella costellazione del Capricorno con i suoi cuccioli; un suo corno rotto, riempito di fiori e frutta, fu donato a Zeus.

Questo oggetto, che da Zeus ricevette il dono di riempirsi di tutto ciò che si desiderava, fu chiamato Cornucopia o Corno dell’Abbondanza; simboleggia ancora oggi la fortuna, anche in famosi spot pubblicitari che hanno come tema concorsi e lotterie.

Lo scudo di Zeus ricoperto della pelle della capra Amaltéa venne chiamato egida, che in italiano é sinonimo di protezione, riparo, difesa. Secondo un’altra versione il nome di Amaltéa si riferirebbe ad una ninfa, figlia di Oceano, che nutrì di latte di capra e miele Zeus, sempre nascosto a Creta dentro una grotta del monte Ditteo, a causa delle brame di Crono.

Anche i Romani ebbero il loro pastore famoso: Faustolo che salvò, addirittura, il fondatore di Roma, Romolo, insieme al gemello Remo, nel frattempo allattati dalla lupa. Meno famosa, ma pur sempre ricordata con simpatia é la moglie di Faustolo: Acca Laurenzia.

Passando al Vangelo rimane famosa la parabola della pecorella smarrita e del pastore che, abbandonando il gregge, si muove per andarla a salvare e recuperarla.

Pastori furono anche i primi testimoni della natività in quel di Betlem che vide nascere un nuovo verbo di fratellanza e di amore tra le genti.

Non poteva mancare, infine, un riferimento al Vecchio Testamento dove Abele e Caino, i due fratelli figli di Adamo, che rappresentano simbolicamente il bene e il male, non sono altro che due pastori, a testimonianza di un’attività che viene ricondotta, in maniera così autorevole, all’inizio del Mondo o quanto meno dell’Umanità.

Tino Insolia