Testo

Il coraggio di amare

Tutti gli innamorati dicono alla persona amata darei la vita per te, amore mio , ma pochi, fortunatamente per loro, hanno l'occasione di dimostrare che le loro non sono solo parole e che, se necessario, amano veramente al punto di sacrificare la propria vita.
Questo mito narra di una donna che ha amato con tale intensità il marito da trovare davvero il coraggio di sacrificare la propria vita per amor suo.
Lei si chiamava Alcesti (Ἄλκηστις) ed era la più bella delle figlie di Pelia, re di Iolco; com'è ovvio per una donna della sua bellezza e posizione, era richiesta in sposa da molti principi e re, ma Pelia, per non alterare i delicati equilibri politici, escogitò uno stratagemma per la scelta del prescelto e indisse una gara apparentemente impossibile da vincere: Alcesti sarebbe andata in sposa all'uomo che fosse stato capace di gareggiare con un cocchio a cui fossero aggiogati un leone ed un cinghiale selvatico. La cosa appariva irrealizzabile a tutti, ma tra i pretendenti di Alcesti vi era anche Admeto, re di Fere, il quale aveva avuto la fortuna di ospitare Apollo quando il dio fu punito da Zeus per aver ucciso i Ciclopi. La punizione consisteva nel servire un mortale per un anno e il mortale scelto da Zeus fu proprio il nostro Admeto, il quale trattò talmente bene Apollo che questi non poté non essergli grato. Ma nonostante Apollo si fosse già disobbligato facendo sì che le femmine della mandria di Admeto partorissero sempre gemelli, non gli negò un ulteriore aiuto quando questi gli chiese di fargli vincere la gara che avrebbe decretato lo sposo della bella Alcesti. Le malelingue dell'epoca sostengono che Apollo aiutò Admeto anche perché segretamente innamorato di lui (Callimaco, Inno ad Apollo vv.61-69); che fosse o meno così, il dio aiutò Admeto, secondo alcuni di persona, secondo altri tramite Eracle il quale s'incarico di domare il leone e il cinghiale selvatico e aggiogarli al cocchio di Admeto che, con simili aiuti, non poteva certo non vincere la gara e così coronò il suo sogno d'amore sposando la bella Alcesti. (Igino, Fabulae,50; Apollodoro, Biblioteca, I,9)

Euripide, nella sua Alcesti , ci narra che i due innamorati vivevano felici nella loro unione, nonostante un inizio non proprio da favola, dato che Admeto dimenticò di celebrare i riti ad Artemide com'era d'uso fare prima dei matrimoni, e la dea, offesa, fece sì che Admeto, la prima notte di nozze, anziché trovare nel talamo nuziale la bella moglie, trovasse un nido di serpenti. Ancora una volta Admeto corse a chiedere aiuto ad Apollo e questi, ancora una volta, lo aiutò intercedendo presso la sorella Artemide la quale, una volta ricevuti i sacrifici di rito, placò la sua ira e acconsentì anche, dietro richiesta di Apollo, che quando fosse venuto il giorno della sua morte Admeto potesse evitare il trapasso se qualcuno della famiglia avesse preso il suo posto. Ma le Moire avevano in serbo una brutta sorpresa per Admeto; infatti il giorno della sua morte arrivò molto prima di quanto egli stesso pensasse e Ermes andò a prelevarlo per portarlo nell'Ade. Anche questa volta intervenne Apollo, il quale fece ubriacare le Moire facendo guadagnare tempo a Admeto. Questi si recò subito dai propri genitori chiedendo loro di morire al posto suo, come gli era stato concesso, ma i genitori non cedettero alle suppliche del figlio e risposero che anche loro volevano vivere e godere delle gioie della vita finché non fosse giunto il loro momento. Vedendo che nessuno era disposto a salvare il marito, Alcesti bevve un veleno e silenziosamente raggiunse l'Ade al posto dell'amato Admeto. Ma quando Alcesti sembrava inevitabilmente destinata all'Ade, accompagnata dalle splendide parole che Euripide fa dire al coro: "Addio, figlia di Pelia,
sii felice laggiù
nelle oscure case dell'Ade.
Deve sapere l'Ade, il dio dai neri capelli,
e il vecchio che traghetta le ombre
stando ai remi e al timone,
deve sapere di avere portato sulla sua barca
oltre la palude di Acheronte
la donna più nobile,
sì, la più nobile che esista."
(Euripide, Alcesti vv.435-444)

gli dèi le riservano un destino diverso. Ma qui, come già immaginerete, le versioni sono diverse. Secondo Apollodoro (Bibl.I,9,15) Persefone fu talmente colpita dal sacrificio di Alcesti che non volle accoglierla nell'Ade e la rispedì tra i vivi. Ma lo stesso Apollodoro ci rimanda a Euripide che invece, nella sua tragedia "Alcesti", narra che durante i riti funebri di Alcesti si trovò a passare da Fere Eracle, vecchio compagno di Admeto con gli Argonauti, il quale, vedendo la città in lutto, si fece narrare l'accaduto e, commosso dalla vicenda e dall'ospitalità di Admeto, che pur di non negargliela non gli rivelò chi fosse la donna morta, esclamò:
"Tu mio cuore, che molto hai osato, e voi, mie mani mostrate ora quale figlio Alcmena di Tirinto, nata da Elettrione, ha generato a Zeus. Devo salvare la donna spirata di recente, riportare tra queste mura Alcesti, ricambiare la gran cortesia di Admeto. Mi precipito laggiù e aspetto al varco il signore dei morti, Thanatos dalle nere vesti: penso di sorprenderlo mentre beve il sangue delle vittime, vicino alla tomba. Balzando dal luogo della mia imboscata, lo agguanterò, lo stringerò nella morsa delle mie mani e nessuno potrà strapparlo, semisoffocato, dalla mia presa finché non mi abbia restituito Alcesti. Se fallisco questa caccia perché Thanatos non viene alle libagioni di sangue, scenderò giù, alle oscure dimore di Core e di Ade, e chiederò che mi sia consegnata Alcesti. Sono convinto che la riporterò su, la rimetterò nelle mani di chi mi ha accolto benevolmente nella reggia e non mi ha respinto, nonostante il grave lutto che lo aveva colpito. Fedele alla sua nobiltà, me ne aveva tenuto all'oscuro per rispetto verso di me. C'è qualcuno fra i Tessali, fra i Greci che abbia maggior senso di ospitalità di lui? Ma non dovrà dire di avere beneficato, nella sua generosità, un uomo indegno." (Euripide, Alcesti vv.837-860)
Eracle mantenne la sua promessa riportando Alcesti tra i vivi più bella di prima. E di questo amore così profondo, coraggioso e sincero, rimase colpito anche Platone, che nel Simposio scrive:
"Soltanto quelli che amano vogliono morire per un altro: sia gli uomini che le donne. E Alcesti figlia di Pelia offre l'esempio perfetto di questa verità: poiché lei sola volle morire per il suo uomo, che pure aveva padre e madre. Ma a tal punto essa li superò nel legame che nasce dall'amore, che li fece apparire estranei al figlio, e legati a lui solo dal nome. Compì quest'atto, ed esso parve tanto bello non solo agli uomini, ma anche agli dèi che costoro, sebbene abbiano concesso il privilegio di tornare in vita solo a pochissimi fra tutti gli uomini che fecero azioni mirabili, rimandarono Alcesti dall'oltretomba alla luce, ammirati per il suo atto - poiché anche gli dèi onorano più di ogni altra virtù e gloria il bene che nasce dall'amore." (Platone, Simposio 179bc).