Testo

Ovidio o Shakespeare?

Inauguriamo la sezione degli amori mitologici, narrando una storia resa immortale dal grande Shakespeare, ma che Ovidio aveva raccontato oltre un millennio prima di lui. Il poeta latino, nelle sue Metamorfosi (che trovate nella nostra biblioteca) narra del triste amore di Piramo e Tisbe. Piramo, un giovane assiro, e Tisbe, una fanciulla babilonese, si amavano perdutamente; il loro amore era nato anche grazie al fatto che le loro case erano attigue, ma le famiglie, che erano in forte contrasto tra loro, impedirono ai due giovani di amarsi liberamente e di sposarsi, come tutti gli innamorati sognano di fare.

Ma impedire non poterono che perdutamente ardessero l'uno dell'altra (Ovidio, Metamorfosi IV, vv.61-62), prosegue Ovidio. Infatti il loro amore continuò a crescere nelle dolci parole che i due innamorati riuscivano a scambiarsi attraverso una piccola fessura del muro che divideva entrambi e le loro case. Ma l'apertura nel muro era talmente piccola da non permettere, alla tenera coppia, neanche di scambiarsi un bacio o sfiorarsi appena le dita. Piramo e Tisbe, dunque, decisero di fuggire lontano dalle loro ostili famiglie, e raggiungere un luogo dove avrebbero potuto coronare il loro sogno d'amore e, per fare ciò, concordarono di incontrarsi di notte, quando era più facile eludere la sorveglianza delle famiglie, sotto un alto albero di gelso imbiancato di bacche nei pressi del sepolcro di Nino. Tisbe, col volto nascosto da un velo, arrivò per prima e si sedette sotto l'albero in attesa del suo amato Piramo. Ma all'improvviso arrivò una leonessa con le fauci schiumanti di sangue (Ovidio, Metamorfosi IV, vv.96-98) che si recava alla fonte lì vicina per dissetarsi dopo il pasto; alla sua vista Tisbe, tremante di paura, scappò via lontano in cerca di un rifugio sicuro, ma nella fuga perse il velo che le copriva il volto, questo fu raccolto dalla leonessa che, con le fauci ancora sporche di sangue, lo ridusse in pezzi. Nel frattempo Piramo si dirigeva verso il luogo dell'appuntamento e già lungo la strada, avendo visto le impronte della belva feroce, iniziò a preoccuparsi; poi, ritrovato il velo di Tisbe dilaniato e sporco di sangue, immaginò che la sua dolce amata fosse stata sbranata dalla leonessa. Il giovane fu allora preda della disperazione e, da innamorato, riversò la colpa dell'accaduto su se stesso dicendo che, oltre a spingerla a raggiungerlo in un posto pericoloso di notte, era giunto anche dopo di lei.

Al culmine della disperazione, il giovane raccolse il velo dell'amata e si pose sotto l'albero di giglio, quindi, dopo aver baciato e intriso di lacrime il velo di Tisbe, esclamò: "imbeviti ora anche di un fiotto di sangue mio! e si trafisse col suo pugnale, poi, prima di morire, lo trasse dalla ferita aperta e cadde a terra supino (Ovidio, Metamorfosi IV, vv.118-121); quest'ultimo gesto fece schizzare violentemente il sangue e, scrive splendidamente Ovidio, I frutti dell'albero, spruzzati di sangue, divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice tinge di vermiglio i grappoli delle bacche. (Ovidio, Metamorfosi IV, vv.125-127).
Nel frattempo Tisbe, ancora impaurita, si dirigeva trepidamente verso il luogo dell'appuntamento, ma, una volta giunta lì, non riconobbe il colore dell'albero che ricordava dai bianchi frutti e quando vide il corpo del suo amato sotto l'albero, lo abbracciò, lo baciò e chiamò, disperata, il nome di Piramo supplicandolo di risponderle. Piramo, udendo la voce della sua amata Tisbe, levò gli occhi ormai appesantiti dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse. (Ovidio, Metamorfosi IV, vv.145-146). E solo nell'attimo in cui Piramo emise il suo ultimo soffio di vita, Tisbe notò il suo velo sporco di sangue e si accorse che il fodero del suo amato non conteneva più il pugnale, quindi, avendo compreso la tragica verità, decise di seguire Piramo anche nella morte; ma prima rivolse ai loro genitori e all'albero di giglio, luogo della loro sventura, una preghiera che lasciamo raccontare a Ovidio con le sue bellissime parole: non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì. E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi, serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue! (Ovidio, Metamorfosi IV, vv.156-161) Detto ciò, Tisbe rivolse verso di se il pugnale ancora caldo del sangue di Piramo e se lo conficcò nel petto unendosi per sempre al suo amato. Gli déi, commossi dalla triste storia d'amore, accolsero la preghiera e da allora il fiore del giglio cambiò colore; anche i genitori dei due sfortunati innamorati piansero commossi, ma troppo tardi capirono quanto Eros fosse più forte di Ares, le loro rosse lacrime non potevano più restituire la vita ai figli e dunque non poterono fare altro che unire eternamente in morte ciò che non seppero unire in vita.

Tralasciamo di riportare la versione Shakespeariana che non è di nostra pertinenza e che, sicuramente, tutti voi conoscete e vi lasciamo scegliere quale delle due preferite, mentre noi passiamo al prossimo mito.