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Testo

Ovidio - Le metamorfosi

Libro Quattordicesimo

Già Glauco, l'abitante del mare di Eubea, s'era lasciato

alle spalle l'Etna, che al gigante Tifeo schiaccia la gola,

e la terra dei Ciclopi, che ignora l'uso del rastrello,

dell'aratro e nulla deve al lavoro dei buoi sotto il giogo.

E alle spalle s'era lasciato Zancle, le opposte mura di Reggio

e lo stretto che, chiuso tra due sponde, procura tanti naufragi

e segna il confine fra le terre d'Ausonia e di Sicilia.

Da lì, nuotando a grandi bracciate nelle acque del Tirreno,

Glauco arriva ai colli erbosi e al palazzo di Circe, la figlia

del Sole, gremito di bestie d'ogni specie. Appena

la vede, rivolte e ricevute parole di saluto:

"O dea," le dice, "abbi pietà di un dio, ti prego: tu sei l'unica,

se ti sembro degno, che possa alleviare l'amore mio.

Quale potere abbiano le erbe, o figlia del Titano,

nessuno lo sa meglio di me, che da un'erba fui mutato.

Ma perché tu conosca la ragione della mia passione:

sulla sponda d'Italia, di fronte alle mura di Messina,

mi è apparsa Scilla. Mi vergogno troppo a riferirti le promesse,

le suppliche, le lusinghe e le parole mie: tutto ha disprezzato.

E tu, se qualche efficacia hanno gli incantesimi, pronuncia

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un incantesimo magico; o se per vincerla è più adatta un'erba,

serviti di un'erba che abbia poteri di provato effetto.

Non ti chiedo di curare e sanare la ferita mia: non voglio

che tu me ne liberi, ma che Scilla bruci dello stesso fuoco".

E Circe (nessuna è più di lei portata a provare

questi ardori, o perché così è la sua natura o perché così vuole

Venere, offesa dalla denuncia che suo padre le fece)

gli risponde: "Meglio sarebbe che tu vagheggiassi chi ti vuole,

chi ha gli stessi desideri ed è presa da uguale passione.

Tu eri degno d'essere pregato, e potevi esserlo;

se mi concedi fiducia, credi a me, lo sarai.

E perché tu non abbia dubbi sul valore della tua bellezza,

ecco, io, benché sia una dea e figlia del Sole splendente,

benché sia tanto potente con erbe ed incantesimi,

io vorrei essere tua. Disprezza chi ti disprezza, dònati

a chi ti seconda, dando a due donne insieme ciò che meritano".

Circe lo tenta, ma Glauco risponde: "Fronde nasceranno in mare,

alghe sulla cima dei monti, prima che per Scilla

muti questo mio amore, finché lei vive".

La dea si sdegna e, non potendo nuocergli direttamente,

né lo vorrebbe, innamorata com'è, s'adira con la donna

che le è stata preferita. Offesa dal rifiuto del suo amore,

s'affretta a tritare erbe maligne dai succhi spaventosi

e nel tritarle le impregna di formule infernali.

Poi indossa un velo azzurro e, passando tra lo stuolo

servile delle sue fiere, esce dal palazzo.

Diretta a Reggio che sta dirimpetto agli scogli di Zancle,

s'inoltra sul mare che ribolle per le correnti,

posandovi i piedi sopra come se fosse terraferma,

e corre sul filo dell'acqua senza bagnarsi le piante.

C'era una piccola cala dai contorni sinuosi,

dove Scilla amava riposare per ripararsi

dalle burrasche o dalla canicola, quando al culmine del cielo

il sole a picco riduceva le ombre a un filo.

La dea la contamina inquinandola con veleni

pestiferi: vi sparge liquidi spremuti da radici

malefiche, mormorando, nove volte per tre, una cantilena

incantata, groviglio oscuro di misteriose parole.

Scilla arriva e non appena s'immerge con metà del corpo in acqua,

vede i suoi fianchi deformarsi in orribili mostri

ringhianti. Non potendo credere che quei cani appartengano

al suo corpo, tenta terrorizzata di schivarne e di respingerne

le fauci furiose. Ma anche quando fugge li trascina con sé

e quando cerca nel suo corpo cosce, stinchi e piedi,

al loro posto altro non trova che musi di Cerbero.

Si regge su cani rabbiosi e col ventre che sporge

sull'inguine mozzo, schiaccia, sotto, il dorso di quelle fiere.

Pianse Glauco che l'amava, sfuggendo agli amplessi di Circe,

che del potere delle erbe con troppo livore s'era servita.

Bloccata in quel luogo, alla prima occasione Scilla sfogò

il suo odio per Circe privando Ulisse dei suoi compagni.

Poi avrebbe affondato anche le navi dei Troiani,

se prima non fosse stata mutata in scoglio, in una roccia

che ancora sporge sul mare: uno scoglio dai marinai evitato.

Dopo essersi sottratte a forza di remi a Scilla e all'ingorda

Cariddi, le navi troiane, ormai in vista della costa

d'Ausonia, furono respinte dal vento sulle spiagge di Libia.

Qui, donandogli il proprio cuore, Didone accolse nella sua casa

Enea, ma poi non sopportando che il marito frigio

l'abbandonasse, in cima a un rogo eretto col pretesto di una sagra,

si gettò sulla spada e, ingannata com'era stata, ingannò tutti.

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Lasciata la città da lei fondata in quella regione sabbiosa,

Enea ritorna nella terra di Èrice, presso il fedele Aceste,

e fa un sacrificio per onorare la tomba del proprio padre.

Quindi salpa con le navi, che Iride, fedele a Giunone,

per poco non ha bruciato, e oltrepassa il regno del figlio di Ippota,

le terre fumanti di zolfo ardente e gli scogli delle Sirene,

figlie dell'Achelòo. Poi, perduto il nocchiero, la flotta costeggia

Pròchite e Inàrime, nell'arcipelago brullo e rupestre

delle Pitecuse, così chiamato dai suoi abitanti.

Il padre degli dei infatti, non tollerando più gli spergiuri

e le frodi dei Cercopi, i misfatti di questa gente intrigante,

li trasformò da uomini in animali, deformandoli in modo

che apparissero insieme diversi e simili all'uomo.

Ridusse le membra, appiattì e rincagnò nella fronte

il naso, solcò il loro viso di rughe senili

e, coperto tutto il loro corpo di pelo fulvo,

li confinò in questa terra. Ma prima tolse loro l'uso

della parola, d'una lingua ferrata nei più turpi spergiuri:

soltanto di lamentarsi con rochi squittii lasciò facoltà.

Oltrepassate queste isole, lasciate le mura di Partenope

sulla destra, verso ponente la tomba del melodioso

Eolide e una contrada piena di paludi, Enea

giunge alle spiagge di Cuma e all'antro dell'antica Sibilla.

La prega di guidarlo nell'Averno sino all'ombra

di suo padre. La Sibilla, rimasta a lungo con lo sguardo a terra,

finalmente invasata dal dio, alza gli occhi e dice:

"Grande cosa chiedi, o eroe grandissimo per le tue imprese,

che in guerra hai brillato col braccio e in mezzo al fuoco

per pietà filiale. Non temere dunque, o Troiano: avrai

quello che chiedi e guidato da me vedrai la sede dell'Eliso,

l'ultimo regno del mondo, e lì l'ombra cara di tuo padre.

Nessuna via è preclusa alla virtù". Così dice e gli indica

un ramo d'oro che brilla nel bosco di Persefone,

la Giunone infernale, e gli ordina di staccarlo dal tronco.

Enea obbedisce e così riesce a vedere la terrificante

maestà dell'Averno, i propri avi e l'ombra del suo vecchio padre,

il magnanimo Anchise; apprende pure le leggi del luogo

e quali pericoli dovrà affrontare in guerre future.

Poi, risalendo il sentiero con passo stanco,

allevia la fatica conversando con la sua guida cumana.

E mentre in un livore d'ombre percorre quell'orrido tratturo:

"Io non so se tu sia una dea o solo diletta agli dei" le dice,

"ma per me sarai sempre un nume e sempre ti sarò riconoscente

per avermi permesso di scendere in questi luoghi della morte

e di sfuggirli dopo aver visto la morte.

Per questi meriti, quando sarò di nuovo all'aria sotto il cielo,

ti erigerò un tempio e ti onorerò con l'incenso".

La profetessa si volge a guardarlo e con un profondo sospiro:

"Non sono una dea" risponde; "non venerare con l'incenso sacro

un essere umano. E perché la cecità non t'induca in errore,

sappi che luce eterna e senza fine avrei potuto ottenere,

se la mia verginità si fosse concessa a Febo, che mi amava.

Nella speranza di ottenerla, corrompendomi con i suoi doni,

Febo mi disse: "Esprimi un desiderio, vergine cumana:

sarà esaudito". Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai,

chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita

quanti granelli di sabbia c'erano in quel mucchietto.

Sciocca, mi scordai di chiedere che anni fossero di giovinezza.

Eppure anche questo m'avrebbe concesso, un'eterna giovinezza,

se avessi ceduto alle sue voglie. Disprezzato il dono di Febo,

eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l'età più bella

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mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un'acida vecchiaia,

che a lungo dovrò sopportare. Vedi, sette secoli

son già vissuta: per eguagliare il numero dei granelli,

trecento raccolti e trecento vendemmie devo ancora vedere.

Tempo verrà che la lunga esistenza renderà il mio corpo piccolo

da grande che era, e le mie membra consunte dalla vecchiaia

si ridurranno a niente. E non si potrà credere che m'abbia amata

un dio, che a lui sia piaciuta. E forse persino Febo

non mi riconoscerà o negherà d'avermi mai amata,

tanto sarò mutata. Alla fine nessuno più mi vedrà: solo

la voce mi rivelerà, la voce che il fato vorrà lasciarmi".

Questo raccontava la Sibilla lungo la ripida salita,

quando dalle profondità dello Stige l'eroe troiano emerse

nella città di Cuma. Fatti i sacrifici d'uso, scese

alla spiaggia che ancora non aveva il nome della sua nutrice.

Qui s'era fermato, dopo lunghe e penose avversità,

anche Macareo di Nèrito, compagno dell'ingegnoso Ulisse.

E Macareo riconosce Achemènide, tempo fa abbandonato

fra le rupi dell'Etna; stupito di ritrovarselo davanti

sano e salvo, gli dice: "Quale caso o quale nume ti ha salvato,

Achemènide? E come mai tu, che sei greco, viaggi

su nave straniera? A che terra è diretta la vostra nave?".

A queste domande Achemènide, non più conciato da selvaggio,

ma vestito ammodo, senza più stracci addosso uniti

con le spine, risponde: "Che io torni a vedere Polifemo

e quel suo ceffo grondante di sangue umano,

se questa nave non mi è più cara della mia casa e di Itaca,

se non venero Enea più di mio padre. Per quanto possa donargli,

mai potrei dimostrargli appieno la mia gratitudine.

Se ora parlo e respiro, se contemplo il cielo e la luce del sole,

come potrei essere ingrato e smemorato?

Grazie a lui, quest'anima mia non è finita in bocca

al Ciclope, e se anche ora lasciassi la luce della vita,

sarò sepolto in una tomba e non certo in quel ventre.

Che cosa non provai (ma il terrore m'aveva tolto ogni coscienza

dal cuore), quando vi vidi far vela verso il largo

abbandonandomi! Avrei voluto gridare, ma temetti

di svelarmi al nemico. Anche le grida di Ulisse per poco

non vi fecero naufragare. Io vedevo tutto, quando il Ciclope,

divelta dal monte una roccia immane, la scagliò in mezzo al mare;

vedevo tutto, quando col suo braccio gigantesco e con la forza

di una balestra continuò a lanciare macigni mostruosi

e, dimenticandomi che non ero più a bordo,

temetti che i flutti o i colpi di vento sommergessero la nave.

Quando poi la fuga vi sottrasse a morte precoce,

lui si mise a vagare gemendo per tutto l'Etna,

e tastava con le mani gli alberi, cozzava contro le rupi,

cieco com'era, e tendendo verso il mare le braccia

tutte lorde di sangue, malediceva la razza degli Achei,

urlando: "Oh se la fortuna mi riportasse qui Ulisse

o qualcuno dei suoi compagni, per sfogare la mia rabbia,

per mangiarne le viscere, per dilaniarlo vivo

con queste mani, per saziare la mia gola col suo sangue

e sentirmi palpitare sotto i denti le membra stritolate!

Allora poco o nulla mi peserebbe la perdita dell'occhio!".

Questo ed altro dice inferocito. Io livido inorridisco,

mentre osservo il suo volto ancora fradicio di strage,

le mani spietate, l'orbita vuota del suo occhio,

le sue membra e la barba incrostata di sangue umano.

Avevo la morte davanti agli occhi e pur era il male minore.

Già temevo che mi ghermisse, che ingoiasse nelle sue

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le mie viscere. In mente avevo fissa la visione

di quando l'avevo visto sbattere contro il suolo

tre, quattro volte il corpo di due miei compagni

e lui accucciato sopra quei corpi, come un leone selvaggio,

che nel ventre ingordo si cacciava interiora, carni,

ossa col bianco midollo e membra in parte ancora animate.

Mi prese un tremito; abbattuto, esangue stavo lì

a vederlo masticare e sputare cibo

sanguinolento, a vederlo vomitare bocconi insieme al vino,

e immaginavo che avrei fatto la stessa misera fine.

Per molti giorni mi tenni nascosto, ansando al minimo fruscio,

con la paura della morte e insieme augurandomi di morire,

scacciando la fame con le ghiande, con erbe e qualche foglia,

solo, inerme, disperato, lasciato allo strazio di quella fine;

finché dopo lungo tempo scorsi in lontananza una nave, questa,

e a gesti scongiurai che mi salvassero, corsi alla spiaggia:

ebbero pietà e la nave troiana prese a bordo un greco.

Ma ora anche tu, compagno mio carissimo, racconta le vicende

tue, di Ulisse e del gruppo che con te si avventurò sul mare".

E Macareo racconta che sul mare etrusco regna Eolo,

Eolo, figlio di Ippota, che in carcere tiene imbrigliati i venti;

racconta come Ulisse, il re di Dulichio, li ricevesse in dono,

eccezionale dono, chiusi in un otre di cuoio, e al loro soffio

navigasse nove giorni sino in vista della terra agognata;

ma che poi, all'alba della decima aurora, i suoi compagni,

spinti da invidia e avidità, convinti che nell'otre

si trovasse dell'oro, l'aprirono scatenando i venti;

e la nave fu rigettata indietro, in acque appena percorse,

ritrovandosi di nuovo nel porto del signore delle Eolie.

"Da lì", prosegue Macareo, "giungemmo all'antica città

dei Lestrìgoni, fondata da Lamo, in cui regnava Antìfate.

Io fui inviato da lui con la scorta di due compagni:

solo a stento in due ci salvammo con la fuga;

col suo sangue il terzo arrossò la bocca scellerata

del Lestrìgone. Fuggiamo e, scatenandoci dietro una masnada,

Antìfate c'insegue: ci incalzano e, scagliando macigni

e tronchi, sommergono uomini, affondano navi.

Una comunque, solo quella che trasportava Ulisse e me stesso,

si salvò. Affranti per la perdita di tanti compagni,

piangendo la loro sorte, approdammo a quella terra,

che in lontananza laggiù si vede. È un'isola questa, credi a me,

che va guardata solo da lontano. E tu, il più giusto dei Troiani,

Enea, figlio di dea (non ho più motivo di chiamarti nemico

ora che la guerra è finita), attento, evita le spiagge di Circe!

Noi stessi, dopo aver ormeggiato la nave su quel lido,

memori di Antìfate e dello spietato Ciclope,

non volevamo sbarcare e inoltrarci in territori sconosciuti.

Fummo tirati a sorte, e al palazzo di Circe la sorte mandò

me e il fedele Polite, con Eurìloco ed Elpènore,

troppo dedito al vino, e altri diciotto compagni.

Come arrivammo e ci affacciammo alla porta di casa,

migliaia di lupi, mischiati ad orsi e leonesse,

ci atterrirono venendoci incontro. Ma non c'era da temere:

nessuna belva avrebbe fatto un graffio al nostro corpo.

Anzi, si misero a scodinzolare mansuete,

a farci festa, seguendo in corteo i nostri passi, finché ancelle

non ci accolsero e, attraverso un atrio rivestito di marmi,

ci condussero dalla padrona: sedeva su un trono solenne

in una bella stanza appartata, indossava una veste splendente,

sulla quale si avvolgeva un manto dorato.

Attorno a lei Nereidi e Ninfe non filano con le dita

i bioccoli di lana e non ne tramano poi nell'ordito i fili,

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ma dividono erbe e dispongono in canestri, secondo i tipi,

fiori ammucchiati alla rinfusa e steli di vario colore.

Lei controlla il lavoro che fanno, perché conosce

l'impiego d'ogni foglia, l'armonia delle combinazioni,

ed esamina con occhio esperto i dosaggi delle varie erbe.

Come ci vide, ricevute e rivolte parole di saluto,

distese il volto e ci accolse nel modo migliore possibile.

E subito ordina di stemperare chicchi d'orzo tostato

in miele, vino robusto e latte appena cagliato; ma vi aggiunge

di nascosto succhi che non si avvertono fra il dolce.

Noi accettiamo le coppe offerte da quella mano maledetta.

Ma appena con la gola secca bevemmo assetati

e con la verga quella dea tremenda ci sfiorò i capelli

(mi vergogno a narrarlo), cominciai a coprirmi d'orrende setole,

a non poter più parlare, a emettere in luogo di parole

sordi grugniti, a cadere carponi con tutta la faccia a terra;

sentii il mio viso incallirsi in un curvo grugno, il collo

gonfiarsi di muscoli, e con le mani, con cui un attimo prima

impugnavo la coppa, impressi in terra le orme di una bestia.

E con le altre vittime della stessa sorte (tanto può quel filtro)

fui rinchiuso in un porcile. Il solo che evitò di mutarsi in porco

fu, come vedemmo, Eurìloco, il solo a non bere la coppa offerta.

Se non l'avesse evitata, farei ancora parte di quel branco

setoloso, perché Ulisse, senza che lui l'informasse di quella

sciagura immane, non sarebbe venuto da Circe a liberarci.

A Ulisse Mercurio, che infonde pace, diede un fiore bianco:

'moly' lo chiamano gli dei, si attacca al suolo con radici nere.

Protetto da quel fiore e grazie ai consigli celesti, Ulisse

entra nella casa di Circe e invitato a bere l'infida

bevanda, quando lei cerca di sfiorargli i capelli con la verga,

la respinge e impugnando la spada l'obbliga a ritrarsi atterrita.

Costretta a giurargli fedeltà, l'accoglie nel letto come amante,

e lui le chiede in dote che renda i suoi compagni com'erano.

Siamo cosparsi di succhi benigni d'una pianta sconosciuta,

con la verga capovolta ci viene percossa la testa,

son pronunciate parole contrarie a quelle dette prima:

man mano che Circe recita la formula, noi ci drizziamo

sempre più da terra, cadono le setole e i piedi biforcuti

perdono la fessura, tornano le spalle e le braccia si allungano

in avambracci. Piange Ulisse, piangiamo noi abbracciandolo;

ci avvinghiamo al collo del nostro capo e le prime parole

che diciamo altro non sono che parole di gratitudine.

Ci trattenemmo lì un anno e in tutto quel tempo con i miei occhi

vidi molte cose e molte altre ancora sentii raccontare.

Fra le tante anche questa, che mi fu confidata in segreto

da una delle quattro ancelle addette a quei sortilegi misteriosi.

Mentre da sola Circe intratteneva Ulisse,

quell'ancella mi mostrò la statua scolpita in marmo bianco

di un giovane, che aveva sulla testa un picchio,

ed era collocata in un sacello e tutta ornata di ghirlande.

Incuriosito le chiesi chi fosse e perché venisse onorato

in un sacello quel giovane, perché avesse sul capo un uccello.

"Ascolta, Macareo," mi rispose, "anche da qui capirai

quanto sia potente la mia signora. Seguimi con attenzione.

In terra d'Ausonia regnava Pico, un figlio di Saturno

appassionato di cavalli addestrati al combattimento.

Il suo aspetto era quello che vedi: tu stesso puoi ammirarne

la bellezza e giudicare da questo ritratto com'era in vita.

Pari all'aspetto era il suo cuore, e non aveva l'età d'aver visto

quattro volte i ludi che ogni quattro anni si svolgono in Grecia,

in Elide. Col suo volto aveva affascinato le Driadi nate

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sui monti del Lazio, per lui sospiravano le divinità

delle fonti e le Naiadi tutte, quelle dell'Albula,

del Numicio, dell'Aniene, dell'Almone dal brevissimo corso

o dell'impetuoso Nare, del Fàrfaro dall'onda scura,

quelle che vivono nel regno boscoso di Diana Scìtica

o nel lago vicino. Ma lui tutte le disprezza;

una ninfa sola corteggia, una ninfa che si diceva

partorita da Venilia sul Palatino a Giano, il dio bifronte.

Non appena fu in età da marito, la fanciulla

andò sposa al laurentino Pico, preferito fra tutti.

Di rara bellezza, ma per l'arte ancor più rara con cui cantava,

fu chiamata Canente. Col suo canto riusciva a commuovere

selve e sassi, ad ammansire le belve, riusciva a frenare

le correnti dei fiumi, a trattenere nel volo gli uccelli.

Un giorno, mentre lei con la sua dolce voce di donna cantava,

Pico uscì di casa per andare nelle campagne di Laurento

a caccia di cinghiali; in groppa a un focoso cavallo,

stringeva nella sinistra due giavellotti e indosso aveva

un mantello purpureo fermato da una fulgente borchia d'oro.

In quello stesso bosco si era recata anche la figlia del Sole,

lasciando i campi che Circei son detti dal suo nome,

per raccogliere su quei fiorenti colli erbe rare.

E quando, nascosta in una macchia, vide il giovane Pico,

ne fu colpita: di mano le caddero le erbe che aveva colto

e si sentì percorrere da un fuoco in tutte le sue vene.

Come si riebbe da quella violenta vampata, fu sul punto

di svelargli il suo desiderio, ma la corsa del cavallo

e la scorta stretta intorno a lui le impedirono d'avvicinarlo.

'No, non mi sfuggirai,' proruppe, 'e ti rapisse pure il vento,

se mi conosco, se non è del tutto svanito

il potere delle mie erbe e le mie formule non mi tradiscono.'

Detto questo, evocò il fantasma inconsistente di un cinghiale

e lo fece correre davanti agli occhi del re,

fingendo che andasse a rintanarsi in un bosco fitto d'alberi,

dove la vegetazione è più folta e un cavallo non può addentrarsi.

Subito Pico ignaro si lancia all'inseguimento d'una preda

fantasma, smonta d'un balzo dalla groppa sudata del cavallo

e inseguendo una chimera, s'inoltra a piedi nel cuore del bosco.

Circe recita preghiere, pronuncia parole infernali

e adora dèi misteriosi con una nenia misteriosa,

che usa per annebbiare il volto niveo della luna e stendere

una coltre di nuvole davanti a quello di suo padre.

E anche questa volta a quella nenia il cielo si oscura,

esala nebbie la terra e i compagni di Pico si perdono

in un intrico di sentieri, finché nessuno scorta più il re.

Trovato luogo e momento adatto: 'Per questi tuoi occhi,' gli dice,

'che hanno ammaliato i miei, per la tua bellezza, delizia mia,

che mi spinge a supplicarti anche se son dea, prenditi a cuore

la mia passione e accetta come suocero il Sole, che tutto penetra

con lo sguardo: non disprezzare, ingrato, Circe, figlia del Titano!'.

Ma lui, sprezzante, la respinge, respinge le sue preghiere:

'Chiunque tu sia, non sono tuo. Un'altra, sì, un'altra mi lega a sé

e prego il cielo che mi leghi per quanto è lunga la vita!

Finché il destino mi conserverà la figlia di Giano, Canente,

mai violerò per un altro amore il patto che a lei mi lega'.

Dopo avere invano tentato e ritentato di commuoverlo:

'Me la pagherai' esclamò; 'non rivedrai mai più Canente;

imparerai coi fatti di cosa sia capace una donna offesa

nel suo amore, e Circe è donna, e innamorata e offesa'.

Due volte allora si girò verso ponente, due verso levante;

tre volte lo toccò con la verga e tre volte recitò una formula.

Il giovane fugge, ma con stupore si accorge di correre

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più veloce del solito; si scopre addosso delle penne

e, sdegnato di dover vivere d'un tratto nei boschi del Lazio

mutato in uccello, trafigge le querce selvatiche

col duro becco e furioso infligge ferite lungo i rami.

Le penne assumono il color purpureo del mantello;

la borchia d'oro, che prima fermava la sua veste,

diventa una piuma e di riflessi d'oro si cinge il collo;

di ciò che appartenne a Pico l'unica cosa che rimane è il nome.

Intanto i compagni, sgolatisi a chiamarlo

per la campagna, senza riuscire a trovarlo,

scoprono Circe (ormai lei aveva attenuato la foschia

lasciando squarciare le nebbie dal vento e dal sole),

la investono di giuste accuse, reclamano il loro re e, passando

ai fatti, si accingono ad assalirla minacciandola con le armi.

Lei allora sparge veleni di morte e succhi malefici,

dall'Èrebo e dal Caos chiama a raccolta la Notte e gli dei

della Notte, invoca Ecate con lunghe grida selvagge.

Sussultarono (incredibile a dirsi) le foreste,

gemette il suolo, impallidirono gli alberi accanto,

trasudarono i pascoli intorno gocce di sangue,

sembrò che le pietre emettessero sordi muggiti,

che latrassero i cani, che il suolo brulicasse di neri

serpenti e in volo si librassero gli spiriti dei morti.

Inorridito dai prodigi, il gruppo trema e lei con la bacchetta

magica tocca il loro volto istupidito dal terrore,

e a quel tocco i giovani mutano il loro aspetto in quello mostruoso

di svariati animali: nessuno conservò la propria natura.

Sulle spiagge di Tartesso si spegneva il tramonto del sole

e invano gli occhi e il cuore di Canente avevano atteso il ritorno

del marito. Servitori e popolo al lume delle torce

perlustrano in ogni luogo tutte le selve.

E la ninfa non si accontenta di piangere, di strapparsi

i capelli, di percuotersi il petto; fa, sì, tutto questo,

ma poi corre fuori e vaga impazzita per le campagne del Lazio.

Per sei notti e per sei giorni, quando tornava a splendere

il sole, fu vista vagare senza dormire e senza cibarsi

per monti e valli, dove la guidava il caso.

L'ultimo a vederla fu il Tevere: stanca per il dolore

e il cammino, ormai accasciata lungo la sua riva.

Lì afflitta sussurrava fra le lacrime fievoli parole

che pur nel dolore si scioglievano in melodia,

come il funebre canto che il cigno intona in punto di morte.

Poi, struggendosi per lo strazio, sin nell'intimo del cuore,

si dissolse e a poco a poco svanì nella leggerezza dell'aria.

Il luogo, però, serba il suo ricordo: le antiche Camene

dal nome della ninfa lo chiamarono per rispetto Canente".

Molte altre cose mi furono narrate in quell'anno senza fine

o le vidi. Impigriti e infiacchiti dall'inattività,

ci fu poi imposto di riprendere il mare spiegando le vele.

Circe ci aveva detto dell'incertezza e lunghezza del percorso,

e dei pericoli che ci attendevano sul mare ostile.

Mi spaventai, lo confesso: trovata questa terra, vi rimasi".

Macareo aveva finito. E ormai la nutrice di Enea, sepolta

in un'urna di marmo, aveva un tumulo con un breve epitaffio:

"Qui riposa Caieta: il mio figlioccio, noto per la sua pietà,

sottrattami alle fiamme argive, per rito, qui mi ha cremato".

I Troiani sciolgono dal terrapieno erboso le gómene

e, fuggendo lontano dalle insidie e dal palazzo

di quell'infame dea, si dirigono verso i boschi, dove il Tevere,

incupito dall'ombra, si getta in mare con la sua rena bionda.

Dal figlio di Fauno, Latino, Enea ottiene asilo e figlia in moglie;

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ma non senza combattere: una gente feroce gli muove guerra

e per non perdere la sposa promessa si scatena anche Turno.

Tutta l'Etruria si lancia all'assalto del Lazio e per lungo tempo

si cerca col martirio delle armi una vittoria impossibile.

Entrambe le parti si rafforzano con alleati stranieri;

molti appoggiano i Rùtuli, molti il campo troiano.

Con buon esito Enea s'era recato nel territorio di Evandro,

senza fortuna Vènulo nella città che il profugo Diomede

aveva fondato nella Iapigia, quando vi regnava Dàuno,

città grandissima che controllava anche le terre avute in dote.

Dopo che Vènulo gli ebbe infatti esposto l'ambasciata di Turno,

chiedendo aiuti, l'eroe dell'Etolia rifiutò,

adducendo a discarico di non voler coinvolgere in guerra

i popoli di suo suocero e di non aver d'altra parte gente

propria da potere armare: "E perché non pensiate che siano fole,

anche se ricordare un lutto ne rinnova l'amarezza,

mi sforzerò di narrare. Dopo l'incendio della grande Troia,

dopo che Pergamo divenne preda delle fiamme greche

e l'eroe di Nàrice, strappando vergine a Vergine,

ebbe attirato su tutti disgrazie che meritava lui solo,

fummo dispersi e noi Dànai, trascinati dai venti

sui flutti ostili, subimmo fulmini, tenebra, diluvi e l'ira

di cielo e mare, sino al disastro finale di capo Cafàreo.

Ma per non stancarvi narrando ad una ad una quelle traversie,

dirò che allora la Grecia avrebbe fatto pena persino a Priamo.

Io, grazie all'aiuto della bellicosa Minerva, mi salvai,

scampando ai flutti; ma ancora una volta fui bandito dalla patria,

e l'alma Venere, pensando alla ferita che un giorno le infersi,

volle vendetta: così, tanti furono i travagli che soffersi

in mare aperto e tanti quelli che soffersi in battaglie terrestri,

da sorprendermi spesso a chiamare fortunati i compagni

affogati tra i flutti della tempesta o davanti al tragico

Cafàreo: sì, essere uno di loro, questo avrei voluto.

Ridotti ormai allo stremo dai flutti e dalle guerre, i miei compagni

cedettero e chiesero che si smettesse di navigare. Ma Acmone,

d'indole impetuosa, inasprita in più dalle sventure, esplose:

"Qualcosa ancora esiste che voi prodi non possiate sopportare?

Che potrebbe mai fare, più di quel che ha fatto, la dea di Citera,

anche se volesse? Finché si teme il peggio,

si è esposti ai colpi, ma quando la sorte è la peggiore che ci sia,

non c'è paura che valga: al colmo della sventura si sta in pace.

Che Venere mi senta pure e detesti, come fa, tutti gli uomini

al seguito di Diomede: del suo odio a noi non importa niente,

per quanto cara possa costarci la nostra presunzione!".

Con questo beffardo discorso Acmone di Pleurone

provoca Venere e ne rinfocola l'antico rancore.

A pochi piacciono le sue parole. Noi, la maggioranza

dei suoi amici, lo rimproveriamo, e quando lui ci vuol rispondere,

la voce, e con lei la sua via, si assottiglia, le chiome

finiscono in piume e piume gli ricoprono un collo tutto nuovo,

e il petto e il dorso; sulle braccia spuntano penne più lunghe

e i gomiti s'incurvano in ali leggere;

nei piedi si allarga una membrana che ingloba le dita; la bocca

s'irrigidisce in duro corno e termina alla fine in una punta.

Lico lo guarda inorridito, inorriditi lo guardano Ida,

Nicteo, Ressènore e Abante, e mentre lo guardano

assumono lo stesso aspetto. Gran parte di loro poi

si leva in volo e, sbattendo le ali, volteggia intorno ai remi.

Se mi chiedi la forma di questi uccelli apparsi improvvisamente,

non era quella dei bianchi cigni, ma molto simile alla loro.

Ed ora, genero di Dàuno, qui nella Iapigia reggo a stento,

con pochissimi dei miei, questa città e quest'arida terra".

180

Così il nipote di Eneo. Vènulo lascia il regno di Calidone,

il golfo di Peucezi e la contrada dei Messapi.

Qui aveva visto, tra l'ondeggiare di canne leggere,

le grotte immerse nell'ombra fitta di un bosco, dove vive Pan,

un dio mezzo caprone, ma dove un tempo vivevano le ninfe.

Un pastore d'Apulia le atterrì facendole fuggire:

prima le aveva sconvolte spaventandole all'improvviso,

ma poi loro si riebbero, sprezzando l'inseguitore,

e muovendo a ritmo i piedi, intrecciarono le loro danze.

Allora il pastore le derise e, mimando il loro movimento

con goffi salti, le coprì di sarcasmo e di insulti osceni,

né tacque, prima che una corteccia gli serrasse la gola.

Ora infatti è un albero, l'oleastro, che dal succo delle bacche

rivela quale fosse il suo carattere: nel loro gusto amaro

è il marchio di quella lingua, l'asprezza impressa dal linguaggio.

Quando da lì ritornarono gli ambasciatori con la notizia

che Diomede si rifiutava d'aiutarli, i Rùtuli da soli

proseguirono la guerra iniziata: molto sangue fu versato

da entrambe le parti. Ed ecco Turno che contro gli scafi di pino

getta torce in fiamme: risparmiati dai flutti, ora temono il fuoco.

Il fuoco ormai bruciava pece, cera e tutto ciò che l'alimenta,

le fiamme salivano lungo gli alberi sino alle vele

e i banchi nel fondo della chiglia erano avvolti dal fumo,

quando la santa Madre degli dei, ricordando che sulla vetta

dell'Ida quei pini erano stati tagliati, riempì il cielo

col rombo metallico dei suoi bronzi, col lamento dei suoi flauti

e, calando dall'etere trasportata da docili leoni,

disse: "Inutilmente, Turno, con mano sacrilega appicchi incendi!

Io salverò queste parti e membra dei boschi miei

e non permetterò che la voracità del fuoco le distrugga".

Mentre la dea parlava, rimbombò un tuono e subito dopo

scrosciarono a dirotto piogge e cascate di grandine;

confluendo all'improvviso e azzuffandosi fra loro,

i fratelli Astrei sconvolsero il cielo e le profondità del mare.

Avvalendosi delle raffiche di uno dei venti, l'alma Madre

spezzò le funi che tenevano ormeggiata la flotta dei Frigi,

spinse le navi inclinate in avanti e le sommerse in alto mare.

S'imbeve d'acqua il legno e si trasforma in corpi umani,

le curve poppe prendono le fattezze del viso,

i remi diventano dita e gambe in grado di nuotare,

quelle che erano le fiancate sono i fianchi, la chiglia che corre

sotto e lungo gli scafi assume la funzione di spina dorsale,

i cordami si mutano in morbidi capelli, i pennoni in braccia.

Come prima, azzurro è il loro colore. Naiadi marine,

con allegria di fanciulle, ora solcano quel mare

che un tempo temevano. Nate sulle dure rocce di montagna,

ora si fanno cullare dai flutti, incuranti di dove vengono.

Ma non avendo scordato i tanti pericoli patiti

sul mare in tempesta, spesso sorreggono con le mani le navi

che rischiano d'affondare, purché non trasportino Achei.

Memori delle distruzioni operate in Frigia, odiano i Pelasgi,

ed è con volto lieto che vedono sfasciarsi la nave

di Nèrito, è con volto lieto che vedono la nave di Alcìnoo

immobilizzarsi e il suo legno trasformarsi in pietra.

Animata la flotta in ninfe marine, era lecito sperare

che i Rùtuli, atterriti dal prodigio, cessassero di combattere;

ma loro insistono, e ogni parte ha propri dei o, cosa che equivale

a un nume, ha coraggio. Ormai non si battono più per un regno,

né per lo scettro del suocero o per te, vergine Lavinia,

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ma per vincere, e guerreggiano per non affrontare il disonore

di deporre le armi. Alla fine Venere vede suo figlio

trionfare, e Turno cade. Cade anche Ardea, stimata invincibile

finché Turno era vivo. Ma dopo che il fuoco dei Troiani

la rase al suolo coprendo di ceneri calde le case,

un uccello mai visto si levò in volo dalle macerie,

sferzando col battito delle sue ali la cenere.

Grido, magrezza e pallore, tutto s'addice

a una città distrutta, e della città gli rimane il nome:

Ardea piange la propria sorte con quel suo battito d'ali.

Ormai il valore di Enea aveva costretto tutti gli dei

e la stessa Giunone a seppellire gli antichi rancori.

Posto su solide basi il potere del fiorente Iulo,

l'eroe era maturo per il cielo: Venere, la dea

di Citera, aveva lusingato gli dei, poi, abbracciata al collo

del proprio genitore, disse: "Padre mio, che mai

sei stato con me severo, ora sii ancora più buono, ti prego,

e al mio Enea, che essendo del mio sangue, nonno

ti ha reso, concedi rango divino, anche se piccolo,

ma concediglielo. Già una volta ha visto l'odioso regno

dei morti, già una volta ha solcato i fiumi infernali: può bastare".

Acconsentirono gli dei e anche la consorte di Giove

non restò impassibile, assentendo col volto rabbonito.

Allora il padre disse: "Siete entrambi degni di un dono celeste,

tu che chiedi, lui per il quale chiedi: sia come desideri".

Questo disse. Esultante la dea rende grazie al genitore,

e trasportata da una coppia di colombe nello spazio aperto,

scende sulla costa laurentina, dove nascosto fra i canneti

si snoda verso il mare vicino il Numicio con la sua corrente.

Al fiume lei ordina di mondare e di disperdere nel mare

col suo tacito corso tutto ciò che in Enea è soggetto a morte.

Il nume del fiume esegue l'ordine della dea: purifica

col flusso delle sue acque Enea di tutto quanto era in lui

mortale, lasciandogli solo la parte più pura.

Unse allora la madre con unguento divino il suo corpo

purificato, gli sfiorò la bocca con dolce nèttare e ambrosia,

e lo rese un dio; un dio che il popolo dei Quiriti

chiama Indìgete e onora con templi e con altari.

Alba e il regno latino passarono poi sotto il dominio

di Ascanio o Iulo che dir si voglia. A lui succedette Silvio,

quindi fu il figlio di questi, Latino, ad avere l'antico scettro

con lo stesso nome dell'avo. A Latino subentrò Alba il grande,

a lui il figlio Èpito. Vennero poi Càpeto e Capi,

ma Capi per primo. Da loro il regno passò a Tiberino,

che, travolto dalla rotta del fiume etrusco,

a questo diede il nome. Da Tiberino nacquero Rèmolo

e il fiero Acrota: Rèmolo, più maturo d'anni,

perì colpito da un fulmine nello sforzo d'imitarlo;

Acrota, più prudente del fratello, trasmise lo scettro

al forte Aventino, che giace sepolto nel colle

sul quale aveva regnato, lasciandogli il suo nome.

E già a governare il popolo del Palatino era Proca.

Sotto il suo regno visse Pomona, che pari non ebbe nessuna

fra le Amadriadi latine a coltivare giardini,

nessuna più appassionata delle piante da frutto:

da qui viene il suo nome. E non sono boschi o fiumi a piacerle,

quanto la campagna e i rami carichi di frutti maturi.

La sua destra non stringe un giavellotto, ma una falce adunca

con cui sfoltisce la vegetazione che trabocca e pota i rami

che s'intrecciano fra loro o incide una corteccia per innestarvi

182

una marza e offrire linfa al tralcio di un'altra pianta.

E non tollerando che soffrano la sete, irriga

con rivoli d'acqua le fibre contorte delle avide radici.

Questo è l'amor suo, il suo impegno, e di amplessi non ha brama.

Ma temendo la violenza dei contadini, recinge i frutteti

ed evita l'intrusione dei maschi vietando loro l'accesso.

Cosa non fecero per possederla i Satiri, giovani dediti

alle danze, e i Pan con le corna inghirlandate d'aghi

di pino, e Silvano, sempre più giovanile

dei suoi anni, e quel dio che spaventa i ladruncoli

con la falce e il pene! Ma chi l'amava più di tutti

era Vertumno, anche se non con fortuna migliore.

Oh, quante volte camuffato da robusto mietitore

portò spighe in una cesta, e del mietitore era il vero ritratto!

Cingendosi a volte le tempie di fieno fresco, poteva

sembrare che avesse rivoltato l'erba falciata.

A volte nella mano rigida portava un pungolo,

sì da giurare che avesse appena tolto il giogo ai giovenchi stanchi.

Con una falce in mano era un colono che sfronda e pota le viti;

con una scala in spalla pensavi che andasse a cogliere la frutta;

con la spada era un soldato, presa la canna un pescatore.

Insomma sotto gli aspetti più diversi trovava sempre il modo

di godersi lo spettacolo di Pomona, della sua bellezza.

Un giorno poi, avvolto il capo in una cuffia colorata

e imbiancatisi i capelli sulle tempie, appoggiandosi a un bastone,

si camuffò da vecchia, penetrò nelle sue piantagioni

e ammirandone i frutti, esclamò: "Quanto sei brava, Pomona!".

E alle lodi aggiunse una quantità di baci, come mai

una vecchia vera ne avrebbe dati. Poi sedette tutta curva

su una zolla, ammirando i rami incurvati dai frutti dell'autunno.

C'era di fronte un olmo avvolto da un rigoglio d'uva luccicante.

Elogiato l'olmo insieme alla vite che l'accompagnava, disse:

"Però se questo tronco se ne stesse lì celibe, senza tralci,

non avrebbe nulla di attraente se non le proprie fronde.

E anche la vite, che si abbandona abbracciata all'olmo,

se non gli fosse unita, per terra giacerebbe afflosciata.

Ma a te l'esempio di questa pianta non dice nulla

ed eviti l'accoppiamento, non ti curi di congiungerti.

Oh, se tu lo volessi! Più numerosi spasimanti dei tuoi

non avrebbero afflitto Elena, colei che scatenò la guerra

dei Làpiti e la moglie del pavido o, se vuoi, coraggioso Ulisse.

E anche ora, ora che fuggi e respingi chi ti vorrebbe,

migliaia d'uomini ti bramano e dei, semidei

e tutte le divinità che vivono sui monti Albani.

Ma se vuoi essere saggia, se vuoi maritarti bene e ascoltare

questa vecchia che ti ama più di tutti questi, e più di quanto

tu creda, non accettare nozze banali e scegli

come compagno di letto Vertumno. Sul suo conto

posso garantirti io: lui non si conosce più di quanto

lo conosca io. Non vaga qua e là frivolo per il mondo,

mondanità niente, e non fa come tanti che s'innamorano

d'ogni donna che vedono: tu sarai la sua prima e ultima

fiamma e a te sola dedicherà tutta la sua vita.

Considera poi che è giovane e da natura ha il dono

della bellezza, che ha l'abilità di trasformarsi in ogni aspetto:

ordinagli l'impossibile, all'ordine diverrà ciò che vuoi.

E poi non avete gli stessi gusti? Non è il primo a prendersi

i frutti che ti stanno a cuore, a stringere lieto in mano i tuoi doni?

Ma ora non desidera i frutti spiccati dall'albero

o le succose verdure che crescono nel tuo giardino:

non desidera che te. Abbi pietà del suo fuoco e ciò

che implora, pensa che sia lui stesso per bocca mia a chiederlo.

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Non temi il castigo degli dei, di Venere che detesta

gli animi duri, l'ira di Nèmesi che nulla dimentica?

E perché cresca il tuo timore (molte cose la vecchiaia

mi ha permesso di sapere), ti narrerò un episodio notissimo

in tutta Cipro, che credo possa piegarti e renderti più mite.

Ifi, uomo d'umili natali, aveva visto Anassàrete,

una nobile fanciulla dell'antica stirpe di Teucro;

l'aveva vista e in tutte le sue ossa aveva avvertito una vampa.

Dopo aver lottato a lungo, non riuscendo a vincere col giudizio

quella folle passione, andò a spasimare davanti alla sua porta.

E lì, confessato il suo infelice amore alla nutrice,

la scongiura, per il bene della fanciulla, d'essergli propizio;

oppure, blandendo questo o quello dei numerosi servitori,

si raccomanda angosciato che gli conceda il proprio appoggio.

Ma spesso affidava le sue parole a teneri biglietti,

e a volte appendeva alla sua porta ghirlande intrise

d'un fiume di lacrime o stendeva il suo corpo delicato

davanti alla soglia sbarrata, inveendo in pianto contro la spranga.

Lei, più spietata del mare che si gonfia al tramonto dei Capretti,

più dura del ferro temprato nelle fucine del Nòrico

e della roccia viva che si abbarbica alla terra,

lo sprezza e lo deride, aggiungendo con perfidia alla crudeltà

dei suoi atti parole arroganti e privandolo d'ogni speranza.

Dopo tanto penare Ifi non resse più al dolore

e davanti alla porta pronunciò queste estreme parole:

"Hai vinto, Anassàrete: smetterò d'infastidirti

coi miei lamenti. Prepara in letizia il tuo trionfo,

inneggia alla vittoria e incoronati di splendido alloro.

Hai vinto e io muoio senza rimpianti. Gioisci, donna di ferro!

Una volta almeno sarai costretta a lodare una mia azione:

ti faccio cosa gradita e dovrai riconoscermi qualche merito.

Sappi però che la mia passione per te si spegnerà

solo con la morte e sarà per me come se morissi due volte.

Non saranno voci a recarti notizia della mia morte.

Io ti comparirò davanti, non dubitare, potrai vedermi,

perché tu possa saziare i tuoi occhi crudeli col mio cadavere.

E se è vero che voi, numi, vedete le vicende dei mortali,

ricordatevi di me (la mia lingua non ha più la forza

di pregarvi), fate che per secoli si parli ancora di me:

il tempo che m'avete tolto in vita, assegnatelo al mio ricordo".

Questo disse e, levando gli occhi in lacrime e le braccia pallide

verso quella porta che tante volte aveva ornato di ghirlande,

nell'atto di fissare un cappio all'architrave, urlò: "È questo,

dimmi, il serto che ti piace, donna crudele e scellerata?".

V'infilò il capo, ma sempre rivolto verso di lei,

e come peso morto penzolò strozzato.

Urtata dallo scalciare dei piedi, la porta, con cigolii

che parevano d'angoscia e sgomento, si aprì e rivelò

l'accaduto. Levano un urlo i servitori e staccato (ormai tardi)

il corpo, lo riportano (morto il padre) alla casa della madre.

Lo strinse a sé la madre, abbracciò la salma fredda del figliolo

e, dopo aver levato i lamenti resi dai genitori in lutto,

dopo avere adempiuto ai rituali di tutte le madri in lutto,

guidò piangente il funerale per le vie della città,

portando smorta la salma sul feretro destinato alle fiamme.

Volle il fato che il dolente corteo passasse vicino alla casa

di Anassàrete e che l'eco del pianto giungesse sino alle orecchie

di quella barbara, ormai incalzata dalla vendetta divina.

Turbata, mormorò: "Guardiamo questo triste funerale",

e salì in cima alla casa affacciandosi a un'ampia finestra.

Ma non appena scorse Ifi disteso sul feretro,

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le s'irrigidirono gli occhi, dal corpo velato di pallore

dileguò il tepore del sangue e, quando tentò di ritrarsi,

rimase inchiodata dov'era, quando tentò di girare il viso,

neppure questo poté; e a poco a poco quella pietra che da tempo

aveva nel suo duro cuore, le invase tutte le membra.

Non mento, credimi: a Salamina esiste ancora la statua

che serba la sua immagine e un tempio dedicato

a Venere lungimirante. Memore di ciò, ninfa mia cara,

tronca, ti prego, la tua cruda ritrosia e unisciti a chi t'ama.

E io t'auguro che una gelata primaverile non danneggi

i frutti nascenti e che venti impetuosi non strappino i tuoi fiori".

Dopo aver parlato inutilmente come s'addiceva a una vecchia,

Vertumno riprese l'aspetto giovanile, abbandonando

gli abiti senili, e apparve a Pomona in tutto il suo splendore,

come quando il disco del sole, squarciando la coltre

delle nubi, senza che nulla l'offuschi, rifulge luminoso.

E si apprestava a prenderla con la forza, ma questa non servì:

sedotta dalla bellezza del nume, anche lei fu vinta da amore.

Poi resse il regno di Ausonia il governo militare

dell'iniquo Amulio, finché il vecchio Numitore, grazie ai nipoti,

non riprese il trono perduto. Nel corso delle feste Palilie

fu fondata la città di Roma. Tazio e i capi sabini

mossero guerra e Tarpea, che aveva aperto la strada della rocca,

rese l'anima, per giusta punizione, sotto un cumulo d'armi.

Poi i giovani di Curi, in silenzio come lupi,

soffocando la propria voce, aggredirono le vedette vinte

dal sonno, arrivando alle porte che il figlio d'Ilia aveva sprangato

con solide travi. Ma fu la stessa figlia di Saturno

ad aprirne una, che girò sui cardini senza far rumore.

Soltanto Venere si accorse che le sbarre avevano ceduto,

e l'avrebbe richiusa, se a un dio fosse permesso disfare ciò

che un dio ha fatto. Accanto al tempio di Giano, dove scorreva

una fonte freschissima, vivevano le Naiadi d'Ausonia.

A queste Venere chiese aiuto e le ninfe non ebbero cuore

di respingere la sua giusta richiesta: schiusero della fonte

tutte le vene e i getti. Tuttavia l'entrata del tempio di Giano,

allora aperta, era ancora accessibile, e l'acqua non la sbarrava.

Versarono allora nelle acque della sorgente livido zolfo,

incendiando con fumante bitume la cavità delle vene.

Con questi e altri accorgimenti il vapore penetrò fin nelle falde

più profonde, e voi, acque, che poco prima competere osavate

col gelo delle Alpi, ora non cedete in calore neppure al fuoco.

Fumano entrambi i battenti sotto quella pioggia di fiamme

e la porta, vanamente promessa ai severi Sabini,

fu sbarrata da quell'insolita fiumana per dare ai Romani

il tempo di prendere le armi. E dopo che Romolo scese in campo,

il suolo di Roma si coprì di cadaveri sabini,

ma anche dei propri: empiamente le spade mescolarono

sangue di generi e sangue di suoceri. Alla fine

si ritenne opportuno porre fine alla guerra, senza combattere

all'ultimo sangue, e fare pace associando Tazio al potere.

Poi Tazio morì e tu, Romolo, rimanesti a governare

su entrambi i popoli, fin quando Marte, riposto il suo elmo,

con queste parole si rivolse al padre di uomini e dei:

"Ormai è tempo, padre mio, ora che la potenza dei Romani

poggia su solide basi e dipende da un unico capo,

di concedere il premio promesso a me e al tuo valoroso nipote:

sì, di rapire Romolo alla terra e collocarlo in cielo.

Un giorno tu, di fronte agli dei riuniti a concilio, mi dicesti

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(ricordo ancora la tua predizione e la porto scolpita in cuore):

"Un uomo vi sarà, che tu porterai negli spazi azzurri

del cielo". Quanto dicesti dunque si compia".

Annuì l'onnipotente, ottenebrò d'impenetrabili nubi

il cielo e atterrì il mondo con folgori e tuoni.

Marte avvertì in quei segni la conferma dell'assunzione promessa

e, appoggiandosi alla lancia, salì sul suo carro, incitò

con la frusta gli impavidi cavalli aggiogati al timone

insanguinato e, tuffandosi attraverso lo spazio,

si fermò sulla cima erbosa del colle Palatino:

qui rapì il figlio d'Ilia che governava da re

i suoi Quiriti. Penetrando negli strati sottili dell'aria,

il corpo di Romolo si dissolse, come una palla di piombo,

scagliata da una balestra, si strugge volando nel cielo.

E apparve una figura di grande bellezza, più degna dei sogli

divini: l'immagine di Quirino avvolto nel suo manto.

La moglie Ersilia piangeva Romolo per morto; e allora Giunone,

la regina degli dei, ordinò a Iride di scendere

lungo il suo arco e di riferire alla vedova questo messaggio:

"Signora, che del Lazio e della gente sabina sei vanto sommo,

degnissima consorte sinora di un eroe così grande

e degnissima d'essere d'ora in poi sposa di Quirino,

non piangere più, e se hai desiderio di rivedere il tuo uomo,

seguimi sino al bosco che verdeggia sul colle Quirino

e che avvolge d'ombra il tempio del re romano".

Iride obbedisce, scende sulla terra lungo il suo arco

variopinto e parla a Ersilia come le era stato ordinato.

E lei, nella sua deferente modestia, levando appena il viso:

"O dea, anche se non saprei dire quale tu sia,

ma che sei dea lo so, conducimi", risponde, "e mostrami

il volto del mio sposo. Se il destino anche una sola volta

mi concederà di rivederlo, dirò d'aver toccato il cielo".

E senza indugio, insieme alla vergine figlia di Taumante,

sale sul colle di Romolo. Lì, staccatasi dall'etere,

una stella cade sulla terra e la chioma di Ersilia, incendiata

dal suo fulgore, svanisce con la stella nell'aria.

Il fondatore di Roma la moglie accoglie con affetto

tra le braccia e col corpo le muta il nome che aveva:

la chiama Ora, una dea che oggi è associata a Quirino.