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Testo

Platone - La Repubblica

Libro Decimo

"Comunque", dissi, "molte altre sono le ragioni per cui comprendo che abbiamo fondato la città nella maniera più giusta, e lo dico con particolare riferimento alla questione della poesia".

[1] "In che senso?"

"Perché rifiutiamo decisamente tutta quella che si fonda sull'imitazione: che essa non debba essere assolutamente accolta risulta, a mio parere, ancora più evidente dopo che abbiamo distinto una per una le parti dell'anima".

"Che cosa vuoi dire?"

"A voi parlerò chiaro, perché non lo andrete a riferire ai poeti tragici e a tutti gli altri che sono dediti all'imitazione: tutto ciò sembra essere una rovina per l'animo degli ascoltatori che non possiedono come farmaco la conoscenza della vera natura di queste opere".

"A che cosa pensi per parlare così?", chiese.

"Bisogna pur che te lo dica", risposi, "anche se una certa amicizia e reverenza che ho sin da ragazzo per Omero mi impedisce di farlo: mi pare infatti che egli sia stato il primo maestro e caposcuola di tutti questi bravi poeti tragici. Ma dato che un uomo non va onorato più della verità, debbo parlare com'è nelle mie intenzioni".

"Senza dubbio", disse.

"Ascolta dunque, o meglio rispondi".

"Chiedi pure".

"Saresti capace di spiegarmi in che cosa consiste, nel suo complesso, l'imitazione? Io stesso non capisco bene che cosa vuole essere".

"Allora sarò io a capirlo!", esclamò.

"Non ci sarebbe nulla di strano", ribattei, "perché certe persone dalla vista più debole vedono molte cose prima di altre dalla vista più acuta".

"È così", confermò.

"Ma in tua presenza non riuscirei a sforzarmi di parlare neppure di ciò che appare evidente; guarda piuttosto tu stesso".

"Vuoi dunque che cominciamo la nostra indagine secondo il solito metodo? Abbiamo preso l'abitudine di porre un'idea singola per ogni genere di oggetti molteplici cui assegniamo lo stesso nome. Mi capisci o no?"

"Ti capisco".

"Prendiamo anche ora un oggetto qualsiasi tra i tanti. Ad esempio, se ti va bene, esistono molti letti e molti tavoli".

"Come no?"

"Ma questi oggetti si possono raggruppare in due idee, quella di letto e quella di tavolo".

"Sì".

"E non siamo anche soliti dire che l'artefice di ciascuno dei due oggetti guarda all'idea per fabbricare l'uno i letti, l'altro i tavoli di cui noi ci serviamo, e lo stesso vale per ogni altro oggetto? Nessun costruttore infatti realizza l'idea in sé: come potrebbe?"

"Non potrebbe assolutamente".

"Ma bada bene a come chiami questo costruttore".

"Quale?"

"Quel lo che fa tutto ciò che vien fatto da ogni singolo artigiano".

"Stai parlando di un uomo straordinario e mirabile!".

"Non ancora, ma presto la tua ammirazione per lui crescerà. Questo stesso artigiano non solo è capace di fabbricare ogni oggetto, ma fa anche spuntare tutte le piante dalla terra e crea tutti gli esseri viventi, compreso se stesso, e oltre a ciò crea la terra, il cielo, gli dèi e tutto quanto sta nel cielo e sottoterra nell'Ade".

"Il tuo è un sofista davvero prodigioso!", esclamò.

"Non ci credi?", dissi. "Rispondimi: ti pare che un simile artefice non esista in assoluto, o credi che in date condizioni qualcuno possa creare tutte queste cose? Non ti rendi conto che tu stesso in certo qual modo potresti essere in grado di creare tutto questo?"

"E qual è questo modo?", domandò.

"Non è difficile", risposi: "si tratta di una realizzazione frequente e veloce, anzi velocissima, se vuoi prendere uno specchio e girarlo in ogni direzione; rapidamente creerai il sole e i corpi celesti, la terra, te stesso e gli altri esseri viventi, gli oggetti, le piante e tutto ciò che abbiamo menzionato poco fa".

"Sì", disse, "apparenze, non dotate però di una realtà effettiva".

"Bene", ripresi, "la tua riflessione giunge a proposito. Perché anche il pittore, credo, fa parte di questi artefici. Non è vero?"

"Come no?"

"Ma forse tu dirai che le sue creazioni non sono vere. Eppure in certo qual modo anche il pittore crea un letto. O no?"

"Sì", rispose, "anche lui solo in apparenza".

"E il costruttore di letti? Non hai appena detto che non realizza l'idea, ovvero ciò che noi abbiamo de finito l'essenza di un letto, ma un letto qualsiasi?"

"Sì, l'ho detto".

"Ma se non realizza l'essenza, non potrà creare la realtà, bensì solo qualcosa che assomiglia alla realtà, ma non la è; e chi dicesse che l'opera del costruttore di letti o di un altro artigiano è compiutamente reale non correrebbe il rischio di non dire il vero?"

"Sicuro", rispose, "o almeno così sembrerebbe a chi si occupa di questioni simili".

"Quindi non meravigliamoci se anche quest'opera viene ad essere un po' debole in rapporto alla verità".

"No di certo".

"Vuoi allora", domandai, "che proprio sulla base di questi elementi cerchiamo di scoprire chi mai sia il nostro imitatore?"

"Se vuoi...", rispose.

"Ci sono, dunque, queste tre specie di letti: una è quella che esiste in natura, e che a mio parere possiamo definire opera di un dio. O di chi altri?"

"Di nessuno, credo".

"La seconda è quella costruita dal falegname".

"Sì", disse.

"La terza è l'opera del pittore. O no?"

"Va bene".

"Il pittore, il costruttore di letti, il dio: ecco i tre autori delle tre specie di letti".

"Sì, sono tre".

"Il dio, sia che non volesse, sia che per una qualche necessità non potesse creare in natura più di un solo letto, ne realizzò dunque un unico esemplare, quello che è il letto in sé; due o più come quello non furono creati dal dio né mai lo saranno".

"E perché?", chiese.

"Perché", spiegai, "se ne avesse creati anche solo due, ne apparirebbe a sua volta un terzo, di cui essi avrebbero entrambi l'idea, e quello sarebbe il letto in sé, non gli altri due".

"Giusto", disse.

"Ben conscio di questo, penso, il dio, volendo essere il reale creatore di un letto reale, non un costruttore qualsiasi di un letto qualsiasi, lo creò per natura unico".

"Così pare".

"Vuoi dunque che lo chiamiamo naturale creatore di questo oggetto, o con un termine simile?"

"È giusto", rispose, "perché ha creato questa e ogni altra cosa secondo natura".

"E il falegname? Non lo chiameremo artefice del letto?"

"Sì".

"E non chiameremo anche il pittore artefice e creatore di quest'oggetto?"

"Nient'affatto! ".

"Ma allora quale rapporto avrà, secondo te, con il letto?"

"Mi sembra", rispose, "che la definizione più appropriata sia questa: imitatore dell'oggetto di cui gli altri due sono artefici".

"Bene", dissi. "Quindi tu chiami imitatore chi fa parte della terza generazione a partire dalla natura?"

"Precisamente", rispose.

"Di conseguenza anche il poeta tragico, in quanto imitatore, verrà per terzo dopo il re e la verità, come tutti gli altri imitatori".

[2] "È probabile".

"Sull'imitatore siamo dunque d'accordo. Ma ora dimmi una cosa a proposito del pittore, e cioè se ti sembra che egli tenti di imitare ogni singola realtà esistente in natura oppure i prodotti degli artigiani".

"I prodotti degli artigiani", rispose.

"Come sono realmente o come appaiono? Definisci ancora questo punto".

"Che cosa intendi dire?", domandò.

"Questo: un letto, a seconda che lo si guardi di lato o di fronte o in qualunque altro modo, è forse diverso da se stesso oppure appare diverso, ma non lo è affatto? La stessa cosa non vale anche per gli altri oggetti?"

"È così", rispose: "appare diverso, ma non lo è".

"Ora fa' questa considerazione: qual è lo scopo della pittura verso ogni singolo oggetto? Imitarlo com'è in realtà o come appare? Insomma, è imitazione dell'apparenza o della verità?"

"Dell'apparenza", rispose.

"Quindi l'arte dell'imitazione è lontana dal vero, e a quanto pare realizza ogni cosa perché coglie una piccola parte, che per di più è una parvenza, di ogni singolo oggetto. Ad esempio noi affermiamo che il pittore ci dipingerà un calzolaio, un falegname, gli altri artigiani, senza avere alcuna competenza di queste arti; tuttavia, se fosse un buon pittore, dipingendo un falegname e mostrandolo da lontano riuscirebbe a ingannare fanciulli e uomini sciocchi, perché lo farebbe sembrare un vero falegname".

"Certamente".

"Ma io, caro amico, penso che in casi del genere si debba ragionare così: quando uno ci annuncia di essersi imbattuto in un uomo che è esperto in tutti i mestieri e in tutte le altre discipline di competenza dei singoli specialisti e conosce ogni cosa più a fondo di chiunque altro, bisogna rispondergli che è un semplìciotto e probabilmente si è imbattuto in un imitatore ciarlatano che lo ha ingannato a tal punto da apparirgli onnisciente, ma solo perché lui è incapace di distinguere la scienza, l'ignoranza e l'imitazione".

"Verissimo", disse.

"Ora", proseguii, "bisogna esaminare la tragedia e il suo caposcuola Omero, [3] dal momento che sentiamo dire da alcuni che i poeti tragici conoscono tutte le arti, tutte le cose umane attinenti alla virtù e al vizio e persino le cose divine; secondo loro infatti il buon poeta, se vuole rappresentare bene i temi che intende trattare, deve conoscere ciò che rappresenta, altrimenti è incapace di creare. Bisogna dunque esaminare se costoro, imbattutisi negli imitatori cui facevo riferimento prima, si sono lasciati ingannare e quando guardano le loro opere non si accorgono che esse sono tre volte distanti dalla realtà e si possono eseguire facilmente anche senza conoscere la verità, poiché si tratta di apparenze, non di cose reali, o se invece dicono qualcosa di sensato e i buoni poeti hanno una reale conoscenza di ciò in cui il volgo li giudica esperti".

"Proprio questa dev'essere la nostra indagine", assentì.

"Credi dunque che se qualcuno potesse creare entrambe le cose, l'oggetto da imitare e la sua parvenza, si applicherebbe sul serio alla fabbricazione di parvenze e ne farebbe lo scopo della propria vita, convinto che sia il meglio?"

"Io no di certo".

"Ma se fosse davvero esperto di ciò che imita, penso che si preoccuperebbe delle opere molto prima che delle imitazioni, cercherebbe di lasciare come ricordo di sé molte belle azioni e preferirebbe essere l'oggetto dell'encomio piuttosto che l'autore".

"Penso di sì", disse, "perché l'onore e il vantaggio che se ne trae non sono pari".

"Ora non pretendiamo che Omero o a qualsiasi altro poeta ci dia ragione degli altri punti, domandando se qualcuno di loro sia stato medico e non solamente imitatore di discorsi medici, quali malati un poeta antico o moderno abbia fama, come Asclepio, di avere guarito, o quali discepoli della medicina abbia lasciato, come fece Asclepio con i suoi discendenti; e non interroghiamoli neppure sulle altre arti, anzi lasciamo perdere. Ma sugli argomenti più importanti e più belli trattati da Omero, cioè la guerra, il comando dell'esercito, l'amministrazione delle città e l'educazione dell'uomo, è giusto chiedergli informazioni e interrogarlo così: "Caro Omero, se è vero che non sei terzo in distanza dalla verità quanto a virtù, ovvero non sei artefice di parvenza secondo la nostra definizione di imitatore, ma vieni almeno al secondo posto [4] e sei stato capace di conoscere quali attività rendono migliori o peggiori gli uomini nella vita privata e pubblica, puoi dirci quale città è stata amministrata meglio grazie a te, come Sparta grazie a Licurgo e molte altre, grandi e piccole, grazie a molti altri? Quale città rivendica il fatto che tu sei stato un buon legislatore e le hai giovato? L'Italia e la Sicilia rivendicano Caronda, [5] noi Solone: ma chi rivendica te? Sei in grado di indicare qualcuno?""

"Non credo", rispose Glaucone. "Neppure gli stessi Omeridi [6] ne parlano".

"Ma si ricorda una guerra ai tempi di Omero che sia stata ben combattuta sotto il suo comando o grazie ai suoi consigli?"

"Nessuna".

"Allora viene citato come un uomo abile nelle attività pratiche per le sue molte trovate ingegnose nelle arti e in altri campi d'azione, al pari di Talete di Mileto e Anacarsi di Scizia?"

[7] "No, niente del genere".

"Ma se non nella sfera pubblica, almeno in quella privata Omero ha fama di aver diretto l'educazione di alcuni, che amarono la sua compagnia e tramandarono ai posteri un sistema di vita omerico, come lo stesso Pitagora fu straordinariamente amato per questo e ancora adesso i suoi discepoli, chiamando pitagorico il loro modo di vivere, sembrano in un certo senso distinguersi dagli altri?"

[8] "No", rispose, "non si tramanda niente del genere. E forse, Socrate, l'educazione di Creofilo, il compagno di Omero, apparirebbe ancora più ridicola del suo nome, [9] se quanto si dice di Omero corrisponde a verità. Si narra infatti che durante tutta la sua vita fu molto trascurato da lui".

"In effetti si racconta questo", dissi. "Ma tu, Glaucone, credi che, se Omero fosse stato realmente in grado di educare gli uomini e di renderli migliori grazie a un'effettiva competenza in questo ambito anziché a una semplice capacità di imitazione, non si sarebbe procurato molti compagni e non sarebbe stato onorato e amato da loro? Eppure Protagora di Abdera, Prodico di Ceo [10] e moltissimi altri riescono, in riunioni private, a convincere i loro seguaci che non saranno in grado di amministrare né la propria casa né la propria città se non si affideranno alla loro educazione, e per questa sapienza sono tanto amati che i compagni li portano quasi in trionfo a spalle; ma i contemporanei di Omero o di Esiodo, se essi fossero stati veramente capaci di giovare agli uomini indirizzandoli alla virtù, li avrebbero forse lasciati andare in giro a fare i rapsodi invece di tenerseli stretti più dell'oro e costringerli a dimorare nella loro casa, o qualora non fossero riusciti a persuaderli non li avrebbero seguiti dovunque andassero, fino ad apprendere a sufficienza la loro cultura?"

"Mi sembra, Socrate, che tu dica in tutto e per tutto la verità", rispose.

"Stabiliamo dunque che tutti i poeti, a cominciare da Omero, imitano simulacri della virtù e di tutti gli altri temi sui quali compongono le loro opere, e non attingono alla verità; del resto, come abbiamo detto prima, il pittore non creerà l'apparenza di un calzolaio, senza avere una personale conoscenza dell'arte del calzolaio, per uomini che non se ne intendono e giudicano dai colori e dalle forme?"

"Senz'altro".

"Allo stesso modo, penso, diremo che anche il poeta colora con parole e frasi ogni singola arte senza intendersi d'altro che di imitazione. Di conseguenza, quando tratta dell'arte del calzolaio, della strategia o di qualsiasi altro argomento usando il metro, il ritmo e l'armonia, chi come lui giudica dalle parole ha l'impressione che ne parli davvero bene; tanto grande è l'incanto che esercitano per natura questi ornamenti! Ma le opere dei poeti, spogliate dei colori della musica e ridotte alle pure parole, credo che tu sappia come appaiono, poiché l'hai già visto".

"Sì, certo", disse.

"Non assomigliano", domandai, "all'aspetto che hanno i volti dei ragazzi in fiore, ma non belli, quando il culmine della giovinezza li ha abbandonati?"

"Il paragone è perfetto", rispose.

"Considera questo, allora: noi sosteniamo che il creatore del simulacro, cioè l'imitatore, non si intende affatto della realtà, ma solo dell'apparenza. Non è così?"

"Sì".

"Non lasciamo dunque la questione a metà, ma esaminiamola a fondo".

"Parla!", disse.

"Un pittore, ad esempio, dipingerà delle briglie e un morso?"

"Sì".

"Ma li realizzeranno il calzolaio e il fabbro?"

"Certo".

"E il pittore sa come debbono essere le briglie e il morso? O lo ignora anche chi li realizza, cioè il calzolaio e il fabbro, e lo sa soltanto colui che è capace di servirsene, cioè il cavaliere?"

"Verissimo".

"E non diremo che la stessa cosa vale per tutti gli oggetti?"

"Ossia?"

"Che per ogni oggetto esistono tre arti: quella che ne farà uso, quella che lo realizzerà, quella che lo imiterà?"

"Sì"

"Ma la virtù, la bellezza, la perfezione di ogni singolo oggetto, essere vivente e azione non riguardano soltanto l'uso per il quale ciascuno di essi è fabbricato o esiste in natura?"

"È così".

"Allora chi adopera ogni singolo oggetto deve per forza averne la maggiore esperienza e riferire al fabbricante i pregi e i difetti che si rivelano all'uso; ad esempio un flautista dà spiegazioni al costruttore di flauti sugli strumenti che gli servono nel suo mestiere e gli ordinerà come deve fabbricarli, e quello obbedirà".

"Come no?"

"Quindi l'esperto si pronuncia sui flauti buoni e su quelli scadenti, e l'altro, fidandosi di lui, li realizzerà?"

"Sì".

"Perciò il fabbricante avrà delle idee giuste sulla perfezione e l'imperfezione dello stesso oggetto, perché frequenta l'esperto ed è costretto ad ascoltarlo, ma solo chi lo utilizza ne avrà la scienza".

"Certamente".

"Ma l'imitatore potrà sapere dall'uso se ciò che dipinge è o non è bello e ben fatto, o ricavare una corretta opinione dal suo necessario contatto con l'esperto che gli ordina come deve dipingere?"

"Né l'una né l'altra cosa".

"Quindi l'imitatore non possederà né la conoscenza né la retta opinione sui pregi e i difetti di ciò che imita".

"Pare di no".

"Ma che bravo, l'imitatore nella poesia, se è così esperto nel suo campo!".

"Non proprio".

"Tuttavia imiterà, senza sapere che cosa determina la buona o cattiva qualità di ciascun oggetto; ma a quanto pare, imiterà ciò che sembra bello al volgo ignorante".

"E che altro?"

"Mi sembra che tra noi ci sia un pieno accordo su questi punti: l'imitatore non sa nulla di essenziale in merito a ciò che imita, ma la sua imitazione è una sorta di scherzo, non un'attività seria, e coloro che si dedicano alla poesia tragica in metri giambici ed epici sono tutti, e al massimo grado, imitatori".

"Senza dubbio".

"Per Zeus!", esclamai. "Questo atto dell'imitare non riguarda qualcosa tre volte distante dalla verità? Sì o no?"

"Sì".

"E su quale parte dell'uomo esercita il suo potere?"

"Di quale parte stai parlando?"

"Di questa: la stessa grandezza non appare uguale alla vista da vicino e da lontano".

"No di certo".

"E le stesse cose appaiono curve e diritte a seconda che le si guardi dentro o fuori dall'acqua, e concave e convesse a causa dell'illusione ottica relativa ai colori; ed è evidente che tutta questa confusione si produce nell'anima. Perciò la pittura a chiaroscuro, puntando su questa debolezza della nostra natura, non tralascia nessuna forma di inganno, così come la magia e tutti gli altri artifizi del genere".

"È vero".

"Ma misurare, contare e pesare non sono apparsi validissimi ausili contro questi effetti, cosicché in noi non prevale ciò che appare più grande o più piccolo o più numeroso o più pesante, bensì la facoltà capace di calcolare, misurare e pesare?"

"Come no?"

"E ciò sarà opera della facoltà razionale dell'anima".

"Sì, di questa".

"Spesso però questa facoltà, pur misurando e indicando che certe cose sono maggiori o minori o uguali le une alle altre, riceve impressioni contrarie sui medesimi oggetti".

"Sì".

"Ma non abbiamo detto che la stessa persona non può avere opinioni contrarie sui medesimi oggetti?"

"E avevamo ragione a dirlo!".

"Dunque la parte dell'anima che formula un'opinione senza tener conto della misura non sarà identica a quella che la formula tenendone conto".

"Certo che no".

"E quella che si affida alla misura e al calcolo sarà la parte migliore dell'anima".

"Senz'altro".

"Mentre la parte contraria a questa sarà la più scadente delle nostre facoltà".

[11] "Per forza".

"E proprio con l'intenzione di giungere a un comune accordo su questo punto ho affermato che la pittura, e in generale l'arte imitativa, realizza la sua opera ben lungi dalla verità, ha uno stretto rapporto di familiarità e amicizia con ciò che in noi è lontano dall'intelletto e non si prefigge alcuno scopo sano e veritiero".

"Precisamente", disse.

"Pertanto l'arte imitativa, scadente compagna di ciò che è scadente, genera una prole scadente".

"Pare di sì".

"Solo quella che si realizza attraverso la vista", chiesi, "o anche quella che si realizza attraverso l'udito, e che chiamiamo poesia?"

"Anche questa, è logico", rispose.

"Non fidiamoci dunque soltanto dell'analogia con la pittura", dissi, "ma arriviamo proprio fino a quella parte dell'animo cui si rivolge l'imitazione poetica, e vediamo se è una cosa scadente o di valore".

"Bisogna farlo, certo".

"Impostiamo il problema così: l'arte imitativa, noi diciamo, rappresenta uomini che compiono azioni forzate o volontarie e ritengono che esse determinino la loro situazione buona o cattiva, e in tutto ciò provano dolore o gioia. Può forse essere qualcosa di diverso da questo?"

"No".

"Ma in tutto ciò l'uomo si trova in una disposizione d'animo concorde? Oppure, come nella vista era diviso e nutriva contemporaneamente dentro di sé opinioni contrarie sui medesimi oggetti, così anche nelle azioni è in discordia e in conflitto con se stesso? Ricordo però che almeno su questo punto non abbiamo più alcun bisogno di metterci d'accordo, poiché nei discorsi precedenti abbiamo convenuto a sufficienza che la nostra anima è piena di infinite contraddizioni del genere, che si manifestano contemporaneamente".

"Giusto", disse.

"Sì, giusto", ripresi. "Ma ora mi sembra necessario discorrere di ciò che allora avevamo tralasciato".

"Cioè?"

"Un uomo equilibrato", incominciai, "che abbia la sventura di perdere un figlio o qualche altra cosa a lui molto cara, abbiamo detto già allora che sopporterà questa disgrazia più facilmente degli altri".

"Proprio così".

"Ora esaminiamo se non soffrirà assolutamente, oppure ciò è impossibile ed egli si limiterà a moderare il suo dolore".

"La verità sarà piuttosto questa", osservò.

"Dimmi ancora questo su di lui: credi che lotterà e resisterà di più al dolore quando sarà visto dai suoi simili o quando si troverà completamente solo con se stesso?"

"Molto di più quando sarà visto", rispose.

"Ma quando resterà solo, penso, avrà il coraggio di pronunciare molte parole di cui si vergognerebbe se qualcuno lo ascoltasse, e farà molte cose per le quali non gli piacerebbe avere testimoni".

"È così", disse.

"Ma non sono forse la ragione e la legge che impongono di dominarsi, mentre è la sofferenza stessa che trascina verso il dolore?"

"È vero".

"Quando nell'uomo si manifestano a un tempo due moti contrari riguardo alla stessa situazione, diciamo che dentro di lui ci sono inevitabilmente due impulsi".

"Come no?"

"E uno dei due non è pronto a obbedire a tutto ciò che la legge prescrive?"

"Ossia?"

"Grosso modo la legge dice che nelle disgrazie la cosa migliore è stare il più possibile calmi e non agitarsi, perché il bene e il male di questi eventi non è chiaro e chi li sopporta di malanimo non ne ricava alcun miglioramento per l'avvenire; inoltre nessuna delle cose umane è degna di essere presa troppo sul serio e il dolore ostacola ciò che in questi casi deve soccorrerci al più presto".

"A che cosa alludi?", domandò.

"Alla capacità di riflettere sull'accaduto", risposi, "e di adattare, come in un tiro di dadi, la propria condizione alla casualità degli eventi, a seconda della scelta che la ragione indica come la migliore; e se abbiamo ricevuto un colpo, non dobbiamo passare il tempo a gridare come fanciulli, tenendo con la mano la parte colpita, bensì abituare sempre l'anima a guarire e raddrizzare il più presto possibile la parte caduta ammalata, eliminando il piagnisteo con la medicina".

"Questo", disse, "sarebbe il modo più corretto di comportarsi nelle disgrazie".

"Perciò, lo ripetiamo, la parte migliore di noi vuole seguire questo ragionamento".

"È chiaro".

"Ma quella che ci spinge a ricordare la sofferenza e a lamentarci senza mai saziarsene, non la definiremo irrazionale, pigra e amica della viltà?"

"Sì, le daremo questa definizione".

"Perciò soltanto il carattere emotivo diviene oggetto di una ricca e varia imitazione, mentre quello riflessivo e calmo, essendo quasi sempre uguale a se stesso, non è facile da imitare né da capire se viene imitato, tanto più tra uomini d'ogni sorta riuniti nei teatri in occasione di una festa pubblica, poiché per loro l'imitazione riguarda un sentimento altrui".

"Appunto".

"Quindi è evidente che il poeta imitatore non ha una propensione naturale per questa parte dell'anima e la sua bravura non è fatta per piacere ad essa, se vuole acquistare fama tra la gente, ma è incline al carattere emotivo e volubile, perché lo si imita facilmente".

"È chiaro".

"Avremmo dunque ragione di criticarlo e di paragonarlo al pittore, al quale assomiglia sia perché crea opere scadenti rispetto alla verità, sia perché frequenta un'altra parte dell'anima, a lui affine, e non quella migliore. Così ora possiamo a buon diritto non ammetterlo nella città che dev'essere ben governata, in quanto risveglia, alimenta e fortifica questa parte dell'anima distruggendo quella razionale, come quando in una città si dà il potere ai malvagi e si affida loro il governo, e nel contempo si annientano le persone dabbene; allo stesso modo diremo che il poeta imitatore crea in privato una cattiva costituzione nell'anima di ciascun individuo, compiacendo la sua parte irrazionale, quella che non sa distinguere ciò che è più grande o più piccolo, ma giudica le stesse cose ora grandi ora piccole, fabbricando parvenze illusorie e rimanendo assai distante dal vero".

"Proprio così".

"Eppure non abbiamo mosso alla poesia l'accusa più grave. L'aspetto che più fa paura è infatti la sua capacità di guastare anche gli uomini equilibrati, tranne poche eccezioni".

"Come no, se produce questo effetto?"

"Ascolta attentamente. Tu sai che i migliori tra noi, quando sentono Omero o un altro poeta tragico imitare qualche eroe in lutto che fa una lunga tirata piena di gemiti oppure persone che cantano e si battono il petto, provano piacere e li seguono con trasporto, immedesimandosi nella loro passione, anzi lodano sul serio come buon poeta chi produce in loro questo stato d'animo nella maniera più viva".

[12] "Come potrei non saperlo?"

"Ma quando ci capita un dolore personale, vedi che ci vantiamo del contrario, ossia di riuscire a conservare la calma e la forza d'animo, e consideriamo questo comportamento proprio di un uomo, quell'altro che lodavamo allora proprio di una donna".

"Me ne rendo conto", disse.

"Ed è forse bella", domandai, "una lode come questa? Provare piacere e ammirazione, anziché disgusto, per la rappresentazione di un uomo quale personalmente non si vorrebbe essere, di cui anzi ci si vergognerebbe?"

"No, per Zeus, non sembra ragionevole!", esclamò.

"E invece sì", replicai, "se lo consideri da questo punto di vista!".

"Quale?"

"Se tieni conto che i poeti soddisfano e compiacciono proprio quello sfogo del sentimento che nelle disgrazie personali viene trattenuto a forza e che ha fame di lacrime e gemiti a volontà fino a saziarsene, dato che la sua natura lo porta a nutrire questi desideri; al contrario la parte per natura migliore di noi, non essendo adeguatamente educata dalla ragione e dall'abitudine, allenta la sorveglianza su questo elemento piagnucoloso, poiché contempla sofferenze altrui e non considera affatto vergognoso lodare e compiangere un uomo che afferma di essere buono e piange inopportunamente, anzi crede di ricavarne come guadagno il godimento estetico e non accetterebbe di esserne privata disprezzando l'intero componimento. A pochi, penso, è dato di arguire che inevitabilmente le esperienze altrui influenzano le proprie, perché non è facile trattenere la compassione nelle sofferenze personali dopo averla rinvigorita in quelle degli estranei".

"Verissimo", disse.

"E lo stesso non vale anche per il ridicolo? Se in una rappresentazione comica o in privato provi un grande piacere ad ascoltare una buffonata che ti vergogneresti di fare tu stesso e non la disprezzi come cosa disonesta, non assumi lo stesso atteggiamento che hai di fronte alle azioni compassionevoli? In questi casi infatti dai libero corso e infondi coraggio a quell'impulso che frenavi in te stesso con la ragione malgrado volesse suscitare il riso, poiché temevi la nomea dì buffone, e spesso nelle conversazioni private ti lasci trascinare senza avvedertene a fare il commediante".

"E come!", esclamò.

"L'imitazione poetica produce questo effetto anche nei confronti dei piaceri amorosi, dell'ira e di tutte le passioni dolorose e piacevoli dell'anima, che secondo noi accompagnano ogni nostra azione: irriga e fa crescere questi sentimenti, mentre dovrebbe disseccarli, e li mette a capo della nostra persona, mentre dovremmo essere noi a dominarli per diventare migliori e più felici anziché peggiori e più infelici".

"Non posso darti torto", disse.

"Pertanto, Glaucone", ripresi, "quando ti imbatti in qualche ammiratore di Omero, il quale sostiene che questo poeta ha educato la Grecia e che per il governo e l'educazione dell'umanità vale la pena di riprenderlo in mano, di studiarlo e di organizzare tutta la vita secondo i suoi precetti, devi salutare e baciare queste persone come le migliori del mondo e concedere che Omero sia il poeta sommo e il primo dei poeti tragici, ma d'altro canto devi sapere che in fatto di poesia bisogna accogliere in città soltanto inni agli dèi ed encomi di uomini virtuosi; se invece accoglierai la Musa corrotta della poesia lirica o epica, nella tua città regneranno piacere e dolore invece che la legge e quel principio che di volta in volta l'opinione comune riconosce come il migliore".

"Verissimo", disse.

"Ora che abbiamo fatto di nuovo menzione della poesia", proseguii, "questi argomenti valgano a nostra difesa per averla allora ragionevolmente bandita dalla città, date le sue caratteristiche: la ragione ci obbligava a farlo. Inoltre, perché non ci accusi di una certa durezza e rozzezza, dobbiamo aggiungere che esiste un antico dissidio tra filosofia e poesia: "la cagna latrante che abbaia contro il padrone", "l'uomo grande nelle ciarle degli stolti", "la folla delle teste onniscienti", "i ragionatori sottili" in quanto "affamati" e infinite altre sono le prove della loro antica opposizione. [13] Diciamo comunque che se l'imitazione poetica volta al diletto potesse indicare una ragione per la quale dev'essere presente in una città ben governata, la accetteremmo volentieri, perché noi stessi siamo consci di subire il suo fascino; ma non è lecito abbandonare ciò che ci sembra vero. D'altronde, caro amico, non ne sei affascinato anche tu, soprattutto quando la contempli nei versi di Omero?"

"E anche molto!".

"Quindi è giusto lasciarla entrare, a condizione che sappia difendersi in un canto lirico o in qualche altro metro?"

"Certamente".

"E possiamo concedere anche ai suoi sostenitori, quanti non sono poeti, ma amanti della poesia, di perorare in prosa la sua causa, sostenendo che essa non è soltanto piacevole, ma anche utile agli Stati e alla vita umana; noi li ascolteremo con benevolenza. Forse ne trarremo un guadagno, se la poesia risulta non solo piacevole, ma anche utile".

"E come potremo non guadagnarci?", disse.

"Altrimenti, caro amico, come gli innamorati, se ritengono che l'amore non frutti alcuna utilità, se ne ritraggono, sia pure a forza, così anche noi, in virtù dell'amore istillatoci dall'educazione che abbiamo ricevuto sotto i nostri buoni governi, saremo lieti di riconoscere che questo genere di poesia risulta il migliore e il più veritiero, ma finché non sarà in grado di difendersi lo ascolteremo ripetendoci il nostro ragionamento a mo' di incantesimo, stando attenti a non ricadere nell'amore tipico dei fanciulli e del volgo. In ogni caso ci rendiamo conto [14] che questo genere di poesia non va preso sul serio, come se cogliesse la verità e fosse importante, ma chi l'ascolta deve stare in guardia, temendo per la sua costituzione interiore, e credere a ciò che abbiamo detto sul suo conto".

"Sono pienamente d'accordo!", esclamò.

"Grande", dissi, "caro Glaucone, più grande di quanto sembri è la lotta attraverso la quale si diventa buoni o malvagi, tanto che non c'è onore, ricchezza, carica o poesia per cui valga la pena di inorgoglirci e di trascurare la giustizia e ogni altra virtù".

"In base alla nostra esposizione sono d'accordo con te", rispose, "come credo lo sia chiunque altro".

"Eppure", ripresi, "non abbiamo ancora trattato delle massime ricompense e dei massimi premi riservati alla virtù".

"Le tue parole", disse, "fanno pensare a una grandezza straordinaria, se esistono altri premi maggiori di quelli già elencati!".

"Ma che cosa può esserci di grande in un periodo di tempo breve?", ribattei. "Tutto questo tempo che intercorre tra l'infanzia e la vecchiaia è ben poca cosa in confronto all'eternità".

"Sì, è un nulla".

"Credi dunque che un essere immortale debba preoccuparsi di questa piccola quantità di tempo e non dell'eternità?"

"Credo di no", rispose; "ma che cosa vuoi dire con questo?"

"Non ti sei reso conto", chiesi, "che la nostra anima è immortale e non perisce mai?" Ed egli, guardandomi meravigliato, rispose: "Io no, per Zeus! Ma tu sei in grado di sostenere questa affermazione?"

"Sì", dissi, "almeno se non mi inganno. Ma credo che ne saresti capace anche tu, perché non è difficile".

"Per me lo è, invece!", obiettò. "Ma avrei piacere di sentire da te questa facile dimostrazione".

"Allora ascolta", feci io.

"E tu parla!", esclamò.

"C'è qualcosa che tu chiami bene e male?", domandai.

"Sì".

"E su di essi la pensi come me?"

"Ossia?"

"Tutto ciò che porta rovina e distruzione è il male, ciò che dà salvezza e giovamento è il bene".

"Sì".

"E non riconosci che esiste un male e un bene per ogni cosa? Ad esempio l'oftalmia per gli occhi, la malattia per tutto quanto il corpo, la golpe per il grano, la putredine per il legno, la ruggine per il bronzo e il ferro; insomma, quasi ogni essere ha un difetto e un male congenito?"

"Sì, certo", rispose.

"E quando uno di questi mali si attacca a una cosa la indebolisce, e alla fine la porta alla completa dissoluzione e alla morte?"

"Come no?"

"Quindi ogni cosa è portata alla rovina dal suo male congenito e dal suo vizio; e se ciò non la farà perire, nient'altro mai potrà distruggerla. Infatti non c'è da temere che il bene rovini qualcosa, e neppure ciò che non è né male né bene".

"E come potrebbe?", disse.

"Se dunque troveremo un essere nel quale è presente un male che lo rende malvagio, ma non è in grado di condurlo alla dissoluzione e alla morte, non avremo la certezza che un tale essere non è destinato a perire?"

"In questo caso è probabile", rispose.

"Ebbene", domandai, nell'anima non c'è forse qualcosa che la rende malvagia?"

"Altro che!", rispose. "Tutto ciò che prima abbiamo passato in rassegna: ingiustizia, intemperanza, viltà e ignoranza".

"E viene forse condotta alla dissoluzione e alla morte da uno di questi vizi? Bada che non ci inganniamo pensando che l'uomo ingiusto e stolto perisca per effetto dell'ingiustizia, cioè del vizio connaturato alla sua anima, quando viene sorpreso a commetterla. Procedi invece così: come la malattia, che è il vizio del corpo, lo consuma e distrugge riducendolo a non essere più neanche corpo, così anche tutte le cose che abbiamo citato prima giungono all'annientamento per effetto del male loro proprio, che le distrugge con la sua costante presenza dentro di esse. Non è così?"

"Sì".

"Ebbene, considera allo stesso modo anche l'anima. L'ingiustizia e gli altri vizi che dimorano costantemente dentro di lei la corrompono e la guastano fino a separarla dal corpo, conducendola alla morte?"

"Assolutamente no!", rispose.

"Tuttavia", osservai, "è strano che il vizio altrui faccia perire e quello proprio no".

"Sì, è strano".

"Inoltre, Glaucone", continuai, "tieni presente che a nostro giudizio il corpo non deve perire neanche per la cattiva qualità dei cibi, che sia dovuta a vecchiezza, corruzione o altro. Se i cibi guasti generano di per sé il cattivo stato del corpo, diremo che esso è perito tramite i cibi a causa del male suo proprio, cioè della malattia; ma non crederemo mai che il corpo, la cui natura è del tutto diversa da quella dei cibi, venga rovinato dalla cattiva qualità di questi ultimi, cioè da un male estraneo, a meno che esso non produca il male congenito".

"Hai perfettamente ragione", disse.

"Analogamente", ripresi "se un difetto del corpo non provoca nell'anima un vizìo dell'anima, non pretenderemo mai che l'anima perisca per effetto di un male estraneo senza che intervenga quello suo proprio, cioè che l'una perisca per il male dell'altro".

"È logico", disse.

"Pertanto, o dobbiamo confutare la validità delle nostre argomentazioni, oppure, fino a prova contraria, non dobbiamo sostenere che l'anima perisce per una febbre o per un'altra malattia o per una morte violenta, neppure se tutto il corpo venisse tagliato nei pezzettini più minuti, a meno che prima non si dimostri che a causa di queste sofferenze fisiche essa stessa diventa più ingiusta ed empia; ma quando in un essere si manifesta un male estraneo senza che vi si manifesti quello suo proprio, non dobbiamo permettere a nessuno di affermare che l'anima o altra cosa perisce".

"Nessuno però", disse, "riuscirà mai a dimostrare che l'anima di chi muore diventa più ingiusta a causa della morte".

"Ma se qualcuno", replicai, "oserà opporsi a questo ragionamento e sostenere, per non essere costretto a riconoscere l'immortalità dell'anima, che chi muore diventa più malvagio e ingiusto, ne dedurremo che, se dice il vero, l'ingiustizia per chi la possiede è letale come una malattia ed essendo per natura omicida fa perire coloro che la contraggono, più o meno velocemente a seconda dell'intensità del morbo, al contrario di quanto si dice ora, ossia che gli ingiusti muoiono sì per le loro colpe, ma per mano di altri che infliggono loro la pena".

"Per Zeus!", esclamò. "Allora l'ingiustizia non apparirà un male gravissimo, se condurrà alla morte chi la contrae, poiché sarebbe una liberazione dai mali. [15] A mio giudizio risulterà piuttosto l'esatto contrario: essa uccide gli altri, se davvero ne è capace, mentre conserva pieno di vita e inoltre insonne chi la possiede; tanto è lontana, a quanto pare, dal procurare la morte!".

"Hai ragione", dissi. "Quando il vizio e il male a lei propri non sono in grado di uccidere e annientare l'anima, difficilmente il male destinato a distruggere un altro essere farà perire l'anima o un essere diverso da quello cui è destinato".

"Sì, è difficile", assentì, "almeno così sembra".

"Quando dunque un essere non perisce a causa di un male, né proprio né estraneo, ne consegue l'evidente necessità che esso sia eterno; e se è eterno, è immortale".

"Per forza", disse.

"Consideriamo quindi chiuso l'argomento", ripresi. "Ma se le cose stanno così, tu capisci che le anime saranno sempre le stesse. Esse non possono né diminuire né aumentare, dato che nessuna perisce; se infatti un qualsiasi gruppo di esseri immortali aumentasse, sai che ciò andrebbe a scapito dell'elemento mortale e alla fine tutti gli esseri sarebbero immortali".

"È vero".

"Ma non dobbiamo credere a questo", dissi, "perché la ragione non ce lo permetterà, così come non dobbiamo pensare che l'anima nella sua più vera natura sia tale da traboccare di una grande varietà, disuguaglianza e discordia in rapporto a se stessa".

"Che cosa vuoi dire?", domandò.

"Non è facile", spiegai, "che una cosa composta di molte parti sia eterna, a meno che non goda di una composizione perfetta come ora ci è apparso evidente a proposito dell'anima".

[16] "No, o per lo meno non è probabile".

"Perciò sia la dimostrazione fatta adesso sia le precedenti obbligheranno a riconoscere che l'anima è immortale. Ma per sapere qual è la sua vera natura non bisogna osservarla, come facciamo noi ora, quando è guastata dalla comunanza con il corpo e con gli altri vizi; l'intelletto deve invece contemplarla a fondo com'è allo stato puro, e allora scoprirà che è molto più bella e distinguerà più chiaramente le manifestazioni dì giustizia e di ingiustizia e tutto ciò di cui abbiamo parlato ora. Le nostre affermazioni sono vere in rapporto a come essa ci appare in questo momento: in effetti l'abbiamo vista in una condizione analoga a quella di chi, guardando il Glauco marino, [17] non riuscirebbe più a scorgere facilmente la sua natura originaria, perché delle parti antiche del suo corpo alcune sono state rotte, altre sono state schiacciate e completamente corrose dai flutti, e vi sono cresciuti sopra altri elementi, conchiglie, alghe e pietre; questo è lo stato in cui vediamo ridotta l'anima a causa di infiniti mali. Ma bisogna dirigere lo sguardo là, Glaucone".

"Dove?", domandò.

"Al suo amore per la sapienza. Inoltre dobbiamo osservare attentamente a che cosa si applica e quali compagnie desidera, data la sua parentela con ciò che è divino, immortale ed eterno, e come potrebbe diventare se tutta quanta seguisse questa realtà e per effetto di un tale slancio fosse portata fuori dal mare in cui giace e si scuotesse di dosso le pietre e le conchiglie che ora, a causa dei cosiddetti festini beati, hanno formato intorno a lei una concrezione spessa e ruvida di materiali terrosi e rocciosi, dovuti appunto al fatto che si nutre di terra. Allora si potrebbe vedere la sua vera natura, se è multiforme o uniforme, com'è costituita e quali elementi la compongono; ora però credo che abbiamo esposto a sufficienza i caratteri e gli aspetti che assume nella vita umana".

"Senza alcun dubbio", concordò.

"Ebbene", dissi, "nella nostra discussione abbiamo risolto tutte le altre difficoltà senza addurre le ricompense e la buona fama che frutta la giustizia, come secondo voi fanno Esiodo e Omero, ma abbiamo scoperto che la giustizia in sé è il bene più prezioso per l'anima in sé, cui deve attenersi il giusto nel suo operato, possieda o meno l'anello di Gige, e con esso l'elmo di Ade".

[18] "Hai pienamente ragione", disse.

"Quindi, Glaucone", continuai, "nulla ora ci vieta di assegnare alla giustizia e a ogni altra virtù, oltre a quei privilegi, anche tutti i premi che gli uomini e gli dèi offrono all'anima sia quando l'uomo vive ancora, sia dopo la sua morte?"

"Senz'altro", rispose.

"Allora mi restituirete ciò che avevate preso a prestito nel corso della nostra discussione?"

"Che cosa precisamente?"

"Vi avevo concesso che l'uomo giusto sembrasse ingiusto e l'uomo ingiusto sembrasse giusto; voi infatti pensavate [19] che questa concessione, quand'anche non la si potesse tenere nascosta agli dèi e agli uomini, andasse comunque fatta nell'interesse della discussione, per confrontare la giustizia in sé con l'ingiustizia in sé. Non ti ricordi?"

"Sarei disonesto se non mi ricordassi!", esclamò.

"Ora che il giudizio è stato formulato", ripresi, "vi chiedo di nuovo, a nome della giustizia, di riconoscerle quella fama di cui gode presso gli dèi e gli uomini, affinché ottenga anche i premi della vittoria che si acquista in virtù della sua reputazione e che dona ai suoi cultori; d'altronde è un fatto ormai assodato che elargisce beni derivati dal suo essere e non inganna chi la segue veramente".

"La tua richiesta è giusta", disse.

"E per prima cosa", domandai, "non mi concederete che almeno agli dèi non sfugge la distinzione tra il giusto e l'ingiusto?"

"Te lo concederemo", rispose.

"In tal caso l'uno sarà amato dagli dèi, l'altro aborrito, proprio come abbiamo convenuto sin dall'inizio".

"È così".

"E non ammetteremo che l'uomo caro agli dèi, qualunque cosa riceva da loro, la riceve nel modo più perfetto, a meno che gli capiti un male inevitabile dovuto a una colpa precedente?"

[20] "Senz'altro".

"Questo è il concetto che dobbiamo farci dell'uomo giusto, anche se è vittima della povertà, della malattia o di qualche altro male apparente: tutto ciò si risolverà per lui in un bene, da vivo o dopo la sua morte. Gli dèi non trascurano mai chi si adopera con ogni sforzo per diventare giusto e assomigliare a un dio mediante la pratica della virtù, per quanto è possibile a un uomo".

"È naturale", disse, "che un tale individuo non sia trascurato da chi è simile a lui".

"E circa l'ingiusto non dobbiamo pensare l'esatto contrario?"

"Certamente".

"Ora, questi saranno i premi concessi dagli dèi all'uomo giusto".

"Così almeno io penso", disse.

"E dagli uomini?", domandai. "Le cose non stanno forse così, se dobbiamo attenerci alla realtà? Gli scellerati e gli ingiusti non fanno come quegli atleti che corrono bene all'andata, ma non al ritorno? All'inizio scattano veloci, ma alla fine si coprono di ridicolo e filano via con le orecchie basse senza ricevere la corona; invece i veri corridori, giunti alla mèta, riportano il premio e vengono incoronati. Di solito non accade così anche coi giusti, che al termine di ogni azione, dei rapporti con gli altri e della loro vita ottengono buona fama e sono premiati dagli uomini?"

"E come!".

"Mi permetterai dunque di ripetere sul loro conto le parole che tu stesso hai usato a proposito degli ingiusti? Io dirò che i giusti, quando arrivano alla vecchiaia, assumono il governo della loro città, se vogliono, prendono moglie dalla famiglia che vogliono e danno le figlie in sposa a chi vogliono; e riferisco a questi tutto ciò che tu dicevi a proposito di quelli. Quanto poi agli ingiusti, io affermo che in genere, anche se da giovani la passano liscia, alla fine della corsa vengono scoperti e si coprono di ridicolo; nella loro infelice vecchiaia vengono umiliati dagli stranieri e dai concittadini, subiscono punizioni corporali e tutte quelle pene che a ragione tu definivi selvagge. [21] Fa' conto di aver sentito dire anche da me che patiscono tutti questi mali. Ora però vedi se potrai accettare le mie affermazioni".

"Senz'altro", rispose, "perché dici cose giuste".

"Questi", proseguii, "saranno dunque i premi, le ricompense e doni che, in aggiunta ai beni procurati dalla giustizia stessa, gli dèi e gli uomini assegnano al giusto finché è in vita".

"Sono davvero belli e stabili", disse.

"Eppure", ribattei, "non sono nulla, per numero e grandezza, in confronto a quelli che attendono dopo la morte sia il giusto sia l'ingiusto; e bisogna pure che li ascoltino, affinché ciascuno dei due riceva esattamente ciò che il nostro discorso gli deve".

"Parla pure", esortò: "pochi argomenti sono per me più piacevoli a udirsi".

"Tuttavia", incominciai, "non ti farò un racconto di Alcinoo, bensì di un uomo valoroso, [22] Er figlio di Armenio, di origine panfilica. [23] Costui era morto in guerra e quando, al decimo giorno, si portarono via dal campo i cadaveri già decomposti, fu raccolto intatto e ricondotto a casa per essere sepolto; al dodicesimo giorno, quando si trovava già disteso sulla pira, ritornò in vita e raccontò quello che aveva visto laggiù. Disse che la sua anima, dopo essere uscita dal corpo, si mise in viaggio assieme a molte altre, finché giunsero a un luogo meraviglioso [24] nel quale si aprivano due voragini contigue nel terreno e altre due, corrispondenti alle prime, in alto nel cielo. In mezzo ad esse stavano seduti dei giudici, i quali, dopo aver pronunciato la loro sentenza, ordinavano ai giusti di prendere la strada a destra che saliva verso il cielo, con un contrassegno della sentenza attaccato sul petto, agli ingiusti di prendere la strada a sinistra che scendeva verso il basso, anch'essi con un contrassegno sulla schiena dove erano indicate tutte le colpe che avevano commesso. [25] Giunto il suo turno, i giudici dissero a Er che avrebbe dovuto riferire agli uomini ciò che accadeva laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare ogni cosa di quel luogo. Così vide le anime che, dopo essere state giudicate, partivano verso una delle due voragini del cielo o della terra; dall'altra voragine della terra risalivano anime piene di lordura e di polvere, dall'altra posta nel cielo scendevano anime pure. Quelle che via via arrivavano sembravano reduci come da un lungo viaggio; liete di essere giunte a quel prato, vi si accampavano come in un'adunanza festiva. Le anime che si conoscevano si abbracciavano e quelle provenienti dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, e viceversa. Nello scambiarsi i racconti delle proprie vicende le une gemevano e piangevano, al ricordo di quante e quali sofferenze avevano patito e veduto durante il viaggio sottoterra (un viaggio di mille anni), [26] mentre quelle provenienti dal cielo riferivano le visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza che avevano contemplato. Ma per farne un resoconto minuzioso, Glaucone, ci vorrebbe troppo tempo; in ogni caso la sostanza, stando al racconto di Er, è la seguente: per ogni ingiustizia commessa e ogni persona offesa le anime avevano scontato una pena decupla; ciascuna pena era calcolata in cento anni, perché tale è la durata della vita umana, in modo che pagassero un fio dieci volte superiore alla colpa. Ad esempio, se alcuni erano stati responsabili della morte di molte persone, perché avevano tradito città o eserciti precipitandoli nella schiavitù o si erano resi colpevoli di qualche altro delitto, per ciascuna di queste colpe subivano patimenti dieci volte maggiori; se invece avevano fatto dei benefici e si erano comportati in modo giusto e pio, ricevevano la debita ricompensa nella stessa misura. Sul conto di quelli morti appena nati o vissuti per poco tempo disse altre cose che non vale la pena di ricordare. Aggiunse che la pietà e l'empietà verso gli dèi e i genitori e l'omicidio erano ripagati in misura ancora maggiore. Infatti raccontò di essersi trovato accanto a un tale a cui un altro chiedeva dove fosse Ardieo il grande. [27] Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia già mille anni prima d'allora, e a quanto si diceva aveva ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore e si era macchiato di molte altre scelleratezze. Er disse che l'interrogato rispose: "Non è venuto qui, né mai verrà. Infatti, tra i vari spettacoli terribili cui assistemmo, ci toccò anche questo: quando eravamo vicini all'imboccatura e stavamo ormai per risalire, dopo avere subito tutte le altre prove, all'improvviso vedemmo lui e gli altri; si trattava per lo più di tiranni, ma c'erano anche cittadini comuni che si erano resi colpevoli delle più gravi ingiustizie. Quando ormai erano convinti di risalire l'imboccatura non li lasciava passare, ma emetteva un muggito ogni volta che uno dei malvagi ìnguaribili [28] o di quelli non avevano scontato a sufficienza la loro pena tentava di uscire. Lì vicino stavano alcuni uomini selvaggi dall'aspetto infuocato, che non appena intesero quel suono ne afferrarono alcuni e li portarono via, mentre ad Ardieo e ad altri legarono le mani, i piedi e il capo, e dopo averli gettati a terra e scorticati li trascinarono lungo la strada, cardandoli su certe piante spinose; e a chiunque passasse indicavano il motivo di quel trattamento, spiegando che erano portati via per essere precipitati nel Tartaro". [29] Tra le varie paure che essi avevano provato laggiù, disse Er, quella che al momento di salire riecheggiasse il muggito le superava tutte, e ciascuno provava la massima gioia se al suo passaggio l'imboccatura taceva. Tali erano dunque le sentenze e le pene, e dall'altro lato le ricompense corrispondenti. Tutti i gruppi di anime, dopo aver trascorso sette giorni nel prato, all'ottavo dovevano alzarsi e partire da lì, per giungere dopo quattro giorni in un luogo da dove scorgevano, distesa dall'alto lungo tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all'arcobaleno, ma più splendente e più pura. Dopo un giorno di cammino arrivavano lì e vedevano al centro della luce le estremità delle catene che pendevano dal cielo; questa luce infatti teneva unito il cielo e ne abbracciava l'intera orbita, come i canapi che fasciano la chiglia delle triremi. [30] A quelle estremità stava appeso il fuso di Ananke, [31] che dava origine a tutti i moti rotatori; l'asta e l'uncino erano d'acciaio, il fusaiolo era una mescolanza di questo e altri metalli. La natura del fusaiolo, che nella forma ricalcava quello usato quaggiù, era la seguente: stando alla descrizione che ne ha fatto Er, bisogna immaginare un grande fusaiolo cavo, completamente svuotato all'interno, nel quale era incastrato un altro più piccolo, come le scatole che si infilano una dentro l'altra, e così un terzo, un quarto e altri quattro ancora. Complessivamente i fusaioli erano dunque otto, incastrati l'uno nell'altro: in alto si vedevano i bordi, simili a cerchi, che formavano il dorso continuo di un solo fusaiolo intorno all'asta; quest'ultima era conficcata da parte a parte dentro l'ottavo. Il primo fusaiolo, il più esterno, aveva il bordo circolare più largo; venivano poi, in ordine decrescente di larghezza, il sesto, il quarto, l'ottavo, il settimo, il quinto, il terzo, il secondo. Il bordo del fusaiolo più grande era variegato, quello del settimo il più splendente, quello dell'ottavo riceveva il suo colore dal settimo, che lo illuminava, i bordi del secondo e del quinto, molto simili tra loro, erano più gialli dei precedenti, il terzo aveva un colore bianchissimo, il quarto rossastro, il sesto veniva per secondo in bianchezza. [32] Il fuso si volgeva tutto quanto su se stesso con moto uniforme, e nella rotazione complessiva i sette cerchi interni giravano lentamente in direzione opposta all'insieme: il più rapido era l'ottavo, seguito dal settimo, dal sesto e dal quinto, che procedevano assieme; in questo moto retrogrado il quarto cerchio sembrava a quelle anime terzo in velocità, il terzo sembrava quarto e il quinto secondo. [33] Il fuso ruotava sulle ginocchia di Ananke. Su ciascuno di suoi cerchi, in alto, si muoveva una Sirena, che emetteva una sola nota di un unico tono; ma da tutte otto risuonava una sola armonia. [34] Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza, ciascuna sul proprio trono: erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo, vestite di bianco e col capo cinto di bende; sull'armonia delle Sirene Lachesi cantava il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto con la mano destra toccava a intervalli il cerchio esterno del fuso e lo aiutava a girare, e lo stesso faceva Atropo toccando con la sinistra i cerchi interni; Lachesi accompagnava entrambi i movimenti ora con l'una ora con l'altra mano. Appena giunti, essi dovettero subito presentarsi a Lachesi. Per prima cosa un araldo li mise in fila, poi prese dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i modelli di vita, salì su un'alta tribuna e disse: "Proclama della vergine Lachesi, figlia di Ananke! Anime effimere, ecco l'inizio di un altro ciclo di vita mortale, preludio di nuova morte. Non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il vostro demone. Chi è stato sorteggiato per primo, per primo scelga la vita alla quale sarà necessariamente congiunto. La virtù non ha padrone, e ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a seconda che la onori o la disprezzi. La responsabilità è di chi ha fatto la scelta; la divinità è incolpevole". [35] Dopo aver pronunciato queste parole, gettò su tutti le sorti e ognuno raccolse quella che gli era caduta vicino, tranne Er, al quale non fu permesso; e chi aveva raccolto la sorte vedeva chiaro il numero d'ordine che gli era toccato. Quindi l'araldo depose a terra davanti a loro i modelli di vita, in numero molto maggiore delle anime presenti. Ce n'erano d'ogni tipo: tutte le vite degli animali e degli uomini. Tra esse c'erano delle tirannidi, alcune perfette, altre rovinate a mezzo e finite in miseria, esilio e povertà; c'erano poi vite di uomini illustri, gli uni per l'aspetto, la bellezza e il vigore fisico in ogni campo, in particolare in quello agonistico, gli altri per nobiltà di stirpe e virtù degli antenati, ma c'erano anche vite di uomini oscuri per le stesse ragioni, e la cosa valeva anche per le donne. Le anime non erano disposte in un ordine gerarchico, perché un'anima diventava necessariamente diversa a seconda della vita che aveva scelto; per il resto i modelli di vita erano mescolati tra loro: gli uni erano uniti alla ricchezza, gli altri alla povertà, gli uni alla malattia, gli altri alla salute, altri ancora si trovavano in uno stato intermedio tra questi estremi. A quanto pare, caro Glaucone, lì sta il più grave pericolo per l'uomo, nonché il principale motivo per il quale ognuno di noi deve preoccuparsi di ricercare e apprendere questa cognizione trascurando le altre, nella speranza di poter riconoscere e trovare chi lo renda capace ed esperto a distinguere la vita buona da quella cattiva e a scegliere sempre e dovunque la migliore tra quelle possibili. Analizzando l'incidenza su una vita virtuosa dei princìpi che abbiamo esposto ora, considerati sia nel loro complesso sia separatamente, l'uomo deve sapere quale risultato, buono o cattivo, produce la bellezza unita alla povertà o alla ricchezza, quale disposizione dell'anima concorre a produrlo, e quale effetto determinano con la loro reciproca mescolanza la nobiltà e l'oscurità di natali, la condizione dì privato cittadino e le cariche, la forza e la debolezza, la facilità e a difficoltà ad apprendere e tutte le altre caratteristiche come queste, insite per natura nell'anima o acquisite, in modo che un'attenta riflessione sulla base di tutti questi elementi gli permetta di scegliere, guardando alla natura dell'anima, tra la vita peggiore e la migliore, chiamando peggiore quella che condurrà l'anima a diventare più ingiusta, migliore quella che la condurrà a diventare più giusta. Tutto il resto lo lascerà perdere, poiché abbiamo constatato che questa è la scelta migliore sia da vivi sia da morti. Bisogna quindi scendere nell'Ade con questa opinione di adamantina saldezza, per non lasciarsi attrarre anche laggiù dalle ricchezze e da simili mali e per non cadere nella tirannide e in altri comportamenti del genere, compiendo molte azioni di insanabile maivagità che causeranno patimenti ancora più gravi, ma per saper scegliere sempre la vita mediana ed evitare gli eccessi dall'una e dall'altra parte, sia in questa vita, per quanto è possibile, sia in tutte quelle future; così l'uomo raggiunse la massima felicità. Poi il messaggero venuto da laggiù riferì che proprio in quel momento l'araldo disse: "Anche chi è arrivato per ultimo, se sceglierà con giudizio e vivrà con rigore, può disporre di un'esistenza accettabile e non indecorosa. Il primo a scegliere non sia distratto e l'ultimo non si scoraggi!". Dopo che l'araldo ebbe proferito queste parole, Er narrò che il primo nel sorteggio andò subito a scegliere la più potente tirannide, non considerando a sufficienza ogni elemento per la sua stoltezza e la sua ingordigia e non accorgendosi che era destinato a divorare i suoi figli e incorrere in altre sventure. [36] Quando poi rifletté con mente lucida, si batté il petto e deplorò la sua scelta, compiuta senza attenersi alle prescrizioni dell'araldo: infatti non accusava se stesso dei propri mali, ma il fato, i demoni e tutto fuorché se stesso. Costui faceva parte di quelli provenienti dal cielo, e nella vita precedente era vissuto in uno Stato ben ordinato e aveva praticato la virtù per abitudine, senza l'ausilio della filosofia. A dire il vero, quelli provenienti dal cielo che si lasciavano sorprendere in simili imprudenze non erano meno degli altri, in quanto non avevano esperienza di travagli; al contrario, quelli che salivano dalla terra di solito non facevano una scelta avventata, poiché avevano sofferto personalmente e avevano visto altri soffrire. Perciò tra la maggior parte delle anime avveniva uno scambio dei mali e dei beni, anche per la casualità del sorteggio; se infatti chi viene a questa vita si applicasse genuinamente alla filosofia e il sorteggio non lo ponesse a scegliere tra gli ultimi, è probabile che, stando a quanto ci viene riferito dall'aldilà, non solo sarebbe felice su questa terra, ma compirebbe anche il viaggio da qui a laggiù e il ritorno qui per una strada non sotterranea e aspra, bensì liscia e celeste. Er disse che valeva la pena di vedere lo spettacolo delle singole anime intente a scegliere la propria vita: uno spettacolo compassionevole, ridicolo e singolare, dato che per lo più sceglievano in base alle abitudini della vita precedente. Raccontò di aver visto l'anima che era stata di Orfeo scegliere la vita di un cigno per odio verso la razza delle donne, poiché era morto per mano loro e quindi non voleva nascere dal grembo di una donna. Vide poi l'anima di Tamira [37] scegliere la vita di un usignolo, ma vide anche un cigno e altri animali canori scegliere di trasformarsi in uomini. L'anima sorteggiata per ventesima scelse la vita di un leone: era quella di Aiace Telamonio, che rifuggiva dal nascere uomo, ricordando il giudizio delle armi. [38] Dopo questa venne l'anima di Agamennone: anch'essa detestava il genere umano per le sofferenze subite, e prese in cambio la vita di un'aquila. [39] L'anima di Atalanta era invece capitata in sorte nei turni intermedi, e avendo visto i grandi onori riservati a un atleta non seppe passare oltre, ma scelse quelli. [40] Poi vide l'anima di Epeo, figlio di Panopeo, assumere la natura di una donna laboriosa; lontano, tra le ultime, scorse l'anima del buffone Tersite entrare in una scimmia. [41] Venne infine a fare la sua scelta l'anima di Odisseo, che per caso era stata sorteggiata per ultima; essendo ormai guarita dall'ambizione grazie al ricordo dei travagli passati, andò in giro per parecchio tempo a cercare la vita di uno sfaccendato qualsiasi, e a fatica ne trovò una che giaceva in un canto ed era stata trascurata dagli altri. Quando la vide disse che avrebbe fatto lo stesso anche se fosse stata sorteggiata per prima, e tutta contenta se la prese. Allo stesso modo gli animali si trasformavano in uomini o gli uni negli altri, quelli ingiusti in animali selvaggi, quelli giusti in animali domestici, e avvenivano mescolanze d'ogni sorta. Quando tutte le anime ebbero scelto la propria vita, si presentarono a Lachesi secondo l'ordine del sorteggio; a ciascuna ella assegnava come custode della sua vita ed esecutore della sua scelta il demone che si era preso. Questi per prima cosa guidava l'anima al cospetto di Cloto, perché sotto la mano di lei e sotto il volgersi del fuso sancisse il destino che aveva scelto al momento del sorteggio; dopo che aveva toccato il fuso la conduceva al filo di Atropo, perché rendesse immutabile la trama filata. Da lì l'anima andava senza voltarsi ai piedi del trono di Ananke e lo superava; quando anche le altre anime furono passate oltre, si avviarono tutte assieme verso la pianura del Lete in una calura soffocante e tremenda, poiché il luogo era spoglio di alberi e di tutto ciò che nasce dalla terra. Quando ormai era scesa la sera, si accamparono presso il fiume Amelete, [42] la cui acqua non può essere contenuta in nessun vaso. Poi tutte furono costrette a bere una certa quantità di quell'acqua, ma le anime che non erano protette dalla prudenza ne bevevano più della giusta misura; e chi via via beveva si dimenticava ogni cosa. Dopo che si furono addormentate, nel cuore della notte scoppiò un tuono e un terremoto, e all'improvviso esse si levarono da lì per correre chi in una, chi in un'altra direzione verso la nascita, filando veloci come stelle. Ma a Er fu impedito di bere l'acqua; non sapeva come e per quale via fosse tornato nel corpo, ma all'improvviso riaprì gli occhi e si vide disteso all'alba sulla pira. Così, Glaucone, il suo racconto si è conservato e non è andato perduto, e potrà salvare anche noi, se gli crederemo e attraverseremo felicemente il fiume Lete senza contaminare la nostra anima. Ma se daremo retta a me, considerando l'anima immortale e capace di sopportare ogni male e ogni bene, terremo sempre la via che porta in alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita alla saggezza; in questo modo saremo cari a noi stessi e agli dèi finché resteremo quaggiù e anche dopo che avremo riportato le ricompense della giustizia, come i vincitori che vanno in giro a raccogliere premi, e godremo della felicità su questa terra e nel cammino di mille anni che abbiamo descritto.

Note

1) La condanna della poesia che si fonda sull'imitazione, attuata nei libri 2 e 3 per ragioni pedagogiche ed etiche, viene qui approfondita sulla base di motivazioni metafisiche tratte dalla teoria delle idee, e soprattutto sulla negazione ai poeti di una sapienza teoretica; parimenti viene caricato di una valenza metafisica il concetto di imitazione, che nel libro 3 aveva un significato meramente stilistico. è da ricordare che per i Greci l'arte era essenzialmente imitazione, ovvero riproduzione sulla base di modelli prefissati, e che era assolutamente estranea allo spirito greco l'idea di creazione dal nulla.

2) Cfr. libro 3, 391c (per la metafora genealogica); libro 9, 587b; 588a.

3) Omero è definito padre della tragedia perché i poeti tragici attingono copiosamente dai suoi poemi i soggetti delle proprie opere. La definizione viene ripresa più avanti, ma in questo caso per tragedia si intende in generale la poesia di argomento serio e alto in opposizione alla commedia, senza una distinzione tra forma narrativa e drammatica.

4) Essere secondi significa creare una costituzione sulla base di un modello preesistente; chi è primo invece crea la sua costituzione in base all'idea.

5) Caronda, vissuto nel sesto secolo a.C., fu il legislatore della sua città natale, Catania. In seguito le sue leggi, o meglio le leggi a lui attribuite, furono imparate a memoria in molte altre città della Sicilia e della Magna Grecia; per questo Socrate dice che l'Italia e la Sicilia lo rivendicano come legislatore.

6) Con il nome Omeridi si indicava propriamente una scuola di aedi nell'isola di Chio, fondata, secondo la tradizione, dallo stesso Omero; cfr. anche Platone, Phaedrus 252b; Ion 530e. Qui però significa 'ammiratori di Omero' in generale.

7) Talete di Mileto, vissuto tra il settimo e il sesto secolo a.C., è comunemente considerato l'iniziatore della filosofia fisica. Matematico, astronomo, ingegnere, associò alla speculazione teoretica le applicazioni pratiche e per questo viene qui menzionato. Lo Scita Anacarsi è una figura dai contorni leggendari, che avrebbe soggiornato ad Atene all'epoca di Solone. Era considerato l'inventore dell'àncora e della ruota del vasaio e a lui erano attribuiti degli scritti di carattere religioso, riconducibili a un ambito sciamanico.

8) La scuola pitagorica si distingueva per il rigore delle prescrizioni alimentari e per il suo carattere elitario; politicamente era infatti vicina ai regimi aristocratici, e questo fu il motivo della sua persecuzione.

9) Secondo la tradizione epica Creofilo di Samo fu discepolo e genero di Omero. Il nome è ridicolo perché letteralmente Kreóphulos significa 'nato dalla carne', e secondo i Greci mangiare troppa carne istupidiva l'uomo; uguale valenza avrebbe la lezione di alcuni manoscritti Kreóphilos, cioè 'amico della carne'.

10) Protagora di Abdera (480-410 a.C. circa), protagonista dell'omonimo dialogo di Platone, visse ad Atene in età periclea. Esponente di spicco della sofistica, è noto soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse anche una condanna per empietà e per la massima secondo la quale l'uomo è misura di tutte le cose. Prodico di Ceo, vissuto nel quinto secolo, fu discepolo di Protagora e maestro di Socrate. I suoi studi etimologici influenzarono le speculazioni linguistiche dello stesso Platone.

11) La tripartizione dell'anima lascia qui il posto a una generale dicotomia tra la parte razionale e la parte irrazionale, che comprende sia l'elemento impulsivo sia quello concupiscibile.

12) Mentre per Aristotele (Poetica 1449b27) la compartecipazione alle vicende rappresentate nella tragedia è positiva perché produce la catarsi, cioè la liberazione dalle passioni che lo spettatore vede portate sulla scena, Platone giudica negativamente questo effetto, in quanto fonte di turbamento per l'anima.

13) Filosofi come Eraclito, Senofane ed Empedocle manifestarono un'aperta ostilità nei confronti della poesia omerica; dall'altra parte nelle commedie di Aristofane si incontrano spesso critiche pungenti alla filosofia, soprattutto ai Sofisti e a Socrate, accomunati in un unico bersaglio polemico. A prova di questo dissidio Platone riporta alcune citazioni, di cui non è però facile identificare la fonte. Il primo è un frammento adespoto (= anonimo) probabilmente di un comico: la cagna che latra allude forse al filosofo Anassagora, come risulterebbe da un'espressione analoga riportata nelle Leggi (libro 12 967c-d); non è invece sicuro che per padrone si intenda la poesia. Il secondo frammento, anch'esso probabilmente di un poeta comico, dovrebbe contenere una critica generale alla sofistica. Il testo del terzo frammento, attribuito da Adam a Euripide, non è sicuro: la traduzione segue la lezione di Adam ó tôn lían sophôn ochlos kratôn, ma il significato non cambia conservando diasóphon, tràdito dai manoscritti. è comunque evidente che si tratta di un attacco a qualche filosofo o a qualche scuola filosofica. Non è possibile identificare la fonte della quarta citazione, che ripercorre il luogo comune della povertà dei filosofi, uno dei bersagli preferiti dei comici.

14) Accettiamo la lezione dei manoscritti aisthómetha, da un presente "aisthomai" parallelo ad "aisthánomaia", che ci sembra più soddisfacente dei vari emendamenti proposti dagli editori.

15) L'immortalità dell'anima è un postulato fondamentale dell'ordinamento morale dell'universo; cfr. anche Platone, Phaedo 107c.

16) Secondo alcuni commentatori, alla tripartizione dell'anima teorizzata nel libro 4 subentrerebbe in questo passo una generale distinzione tra la parte razionale, l'unica immortale, e le altre due parti, che per la loro stretta asspciazione con il corpo sarebbero considerate mortali; cfr. Platone, Timaeus 61a; 69a e seguenti. E però più probabile che latone si riferisca in generale all'analisi dell'ingiustizia condotta nei libri 8 e 9 e voglia precisare che solo l'anima dell'ingiusto cade in preda alla confusione e alla discordia interna, ma non l'anima in sé, che non è caratterizzata dalla varietà perché la sua composizione è perfetta.

17) Glauco era un pescatore della Beozia che avendo mangiato una certa erba fu trasformato in divinità marina; protettore di marinai e pescatori, era raffigurato con il corpo ricoperto di incrostazioni di alghe che rendevano irriconoscibile la sua natura umana.

18) Per l'anello di Gige cfr. libro 2, 359e. L'elmo di Ade, che rendeva invisibile chi lo indossava, fu usato da Atena per aiutare Diomede contro Ares senza essere vista, cfr. Omero, Ilias, libro 5, versi 844-845.

19) Accogliamo la lezione dei codici "egheisthe" in luogo di "eteisthe" proposto da Burnet.

20) Ossia una colpa commessa nella vita precedente ed espiata in quella attuale. è una prolessi del mito di Er e della teoria della metempsicosi.

21) Il segmento "eita streblósontai kai ekkauthésontai", che precisa la natura di queste pene, è quasi certamente un'interpolazione, dovuta al richiamo di quanto Glaucone aveva detto al libro 2, 361e.

22) L'espressione "racconti di Alcinoo" designava i canti 9-12 dell'Odissea, in cui Ulisse narra al re dei Feaci le sue peregrinazioni e la discesa nell'Ade; qui però è usata nel senso di racconto lungo e noioso. Nel testo c'è inoltre un gioco di parole, intraducibile in italiano, tra "Alkinoos" e "alkimos", 'valoroso'.

23) Il mito di Er, come gli analoghi miti escatologici del Fedone, del Gorgia e del Fedro, tratta del destino delle anime dopo la morte e della loro reincarnazione. Il nome è di chiara derivazione orientale; d'altronde è testimoniata, negli ultimi anni della vita di Platone, una tendenza orientalizzante dell'Accademia, tanto che Clemente Alessandrino (Stromata, libro 5, 710) propose addirittura l'identificazione di Er con Zarathustra. Il mito rivela comunque la profonda influenza della dottrina orfico-pitagorica, che credeva nella metempsicosi e in una teodicea ultraterrena; casi di resurrezione non erano inoltre sconosciuti alla mitologia greca ed erano attribuiti anche a persone rivestite di un'aura di leggenda, come Aristea di Proconneso, Epimenide di Creta, Zamolxis il Trace.

24) Per questo "luogo meraviglioso", che ricorda il prato asfodelo (Omero, Odyssea, libro 11, versi 539, 573; libro 24, verso 13), cfr. Platone, Phaedo, 107d; Gorgias, 524a; Axiochus, 371c.

25) I particolari tradiscono l'influsso orfico-pitagorico; i Pitagorici infatti identificavano il bene con ciò che sta a destra, in alto e davanti, il male con ciò che sta a sinistra, in basso e dietro.

26) Anche la durata del viaggio ultraterreno è di derivazione pitagorica; cfr. Virgilio, Aeneis, libro 6, versi 748-749. Nel Fedro (249a) mille anni è la durata di ogni giro celeste compiuto dalle anime.

27) Attraverso questo personaggio, probabilmente inventato, che incarna la figura perfetta del tiranno com'è stata descritta nel libro 9, Platone vuole mostrare la punizione che tocca alla specie di uomo peggiore.

28) Per la distinzione tra peccatori curabili e peccatori incurabili, le cui anime sono escluse dalla reincarnazione, cfr. anche Platone, Phaedo, 113e; Gorgias, 526b.

29) Il Tartaro è tradizionalmente il luogo dell'aldilà dove sono puniti gli empi e i malvagi.

30) Questa rappresentazione dell'universo serve sostanzialmente a collegare il destino morale delle singole anime con l'ordine del cosmo. è stato ipotizzato che essa sia modellata sulla descrizione di un planetario, ma anche in tal caso si deve rilevare la grande libertà con cui Platone passa dal suo meccanismo alla descrizione del cielo visibile. La colonna di luce rappresenta l'asse dell'universo e della terra stessa, che nella cosmologia platonica è posta al centro dell'universo; perciò il viaggio delle anime destinate a reincarnarsi ha come mèta il centro della terra.

31) Ananke (letteralmente 'necessità'), simbolo della legge eterna e immutabile che regola l'universo, rappresenta qui l'ordine razionale e morale del cosmo. Secondo la variante del mito seguita da Platone, da lei nacquero per partenogenesi le Moire, ovvero le tre dee che presiedevano ai destini individuali degli uomini: Lachesi li assegnava per sorteggio, Cloto li filava, Atropo li rendeva immutabili e tagliava il filo al momento della morte. Per questo Ananke ha come suo attributo il fuso, che gira al centro della colonna di luce e imprime il moto rotatorio a tutte le sfere celesti.

32) Dall'esterno all'interno gli otto fusaioli concentrici rappresentano, secondo l'ordine pitagorico, il cielo delle stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, il Sole, la Luna.

33) Mentre l'insieme del fuso ruota da oriente a occidente, i singoli fusaioli ruotano in senso contrario, ad eccezione del primo; ciò simboleggia il moto regolare e concentrico del sole e degli altri pianeti, già noto nell'antichità.

34) Le Sirene rappresentano il cielo delle stelle fisse e i sette pianeti; il loro canto è quindi la musica delle sfere celesti.

35) "Daímon" qui indica il destino dei singolo individuo, che trasforma ogni sua azione in un'azione individuale ed è quindi il postulato indispensabile della vita morale. Con la combinazione di sorteggio e scelta Platone vuole dunque conciliare la necessità con il libero arbitrio; cfr. anche Platone, Phaedrus 249b.

36) Cfr. Libro 2, 378a-b. L'espressione significa che il tiranno è disposto a tutto pur di conservare il potere.

37) Tamira o Tamiri, un mitico cantore, osò sfidare le Muse, che lo accecarono e lo privarono della sua arte; cfr. Omero, Ilias, libro 2, verso 594 e seguenti.

38) Dopo la morte di Achille, i capi dei Greci si riunirono in consiglio per decidere a chi assegnare le sue armi; esse sarebbero dovute toccare ad Aiace Telamonio, il più forte guerriero acheo dopo il Pelide, ma Ulisse riuscì a ottenerle con l'inganno e con l'aiuto di Atena. Per il dolore Aiace dapprima impazzì, poi, tornato in sé, si uccise. Il leone simboleggia il carattere iracondo e coraggioso dell'eroe.

39) L'animale si confà alla vita futura di Agamennone perché è l'uccello di Zeus, da cui i re ricevono la legittimazione del loro potere.

40) Atalanta dichiarò che avrebbe sposato chi fosse riuscito a batterla nella corsa, dove era velocissima; chi avesse perso sarebbe stato da lei ucciso. Tutti i pretendenti furono vinti tranne Ippomene, che durante la gara le gettò innanzi i pomi d'oro delle Esperidi; Atalanta si fermò a raccoglierli e Ippomene riuscì a superarla.

41) Epeo aveva costruito il cavallo di Troia sotto la direzione di Atena, la dea che tra l'altro presiedeva ai lavori femminili; questo spiega la ragione della sua scelta. Molto evidente è la connessione tra la scimmia e Tersite, rappresentato nell'Iliade come il più brutto e il più vile dei soldati greci a Troia.

42) Le anime, prima di reincarnarsi, devono dimenticare la vita passata; per questo attraversano la pianura del Lete, cioè 'dell'oblio', e bevono alle acque dell'Amelete, 'il fiume della noncuranza'. L'Amelete è probabilmente un'invenzione platonica, in quanto il fiume infernale dell'oblio è solitamente indicato con il nome di Lete, come del resto avviene poco sotto, a 621b. Analogamente è ricollegabile alla teoria platonica dell'anamnesi il particolare dell'acqua che va bevuta in giusta misura: chi ne berrà in eccesso non conserverà un ricordo di ciò che ha contemplato prima di entrare nel corpo e non potrà quindi attuare la conoscenza.