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La vera ‘identità’ del ‘Massimino Farnese’ esposto al MANN: ne parliamo col prof. Franciosi.

L’autore dello studio sulla scultura ci parla del ‘Massimino’ ma anche di altre sculture a cui ha dedicato suoi studi.

Nell’articolo che trovate a questo link Il Doriforo del Mann: un Teseo con scudo e spada?, vi abbiamo descritto brevemente lo studio con cui il prof. Vincenzo Franciosi, docente di archeologia presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, attraverso l’analisi di documenti storici e di altre sculture, è arrivato alla conclusione che il cosiddetto ‘Massimino Farnese’, scultura esposta al Museo Nazionale Archeologico di Napoli (MANN), raffiguri molto probabilmente il dio greco Hermes. Abbiamo intervistato il professore per approfondire quanto detto sul ‘Massimino Farnese’ e parlare anche di altri suoi interessanti studi.

D: Prof. Franciosi, ritiene conclusi i suoi studi circa l’identificazione del cosiddetto ‘Massimino Farnese’ quale raffigurazione di Hermes o è ancora alla ricerca di ulteriori testimonianze che lo confermino?

R: Per ora ritengo concluso lo studio, anche se non escludo di ritornare sull’argomento se dovessero presentarsi nuovi elementi a favore di tale identificazione.

D: Intende approfondire gli studi anche sulla testa non pertinente e finora attribuita a Marco Nonio Balbo?

R: No, non penso di interessarmi ulteriormente alla testa indipendentemente dal corpo al quale era stata erroneamente associata.

D: Chi ha studiato la statua prima di lei, ha ritenuto che la testa ne facesse parte anche perché ritrovata nei pressi della scultura. È possibile che la vera testa sia stata ritrovata in epoca diversa e ora giaccia in qualche deposito o ritiene più probabile che sia andata perduta?

R: Si è ritenuto che la testa fosse pertinente al corpo perché questa fu inserita in concomitanza con le integrazioni in gesso della parte inferiore degli arti eseguite tra il 1768, anno di rinvenimento della statua, senza testa e priva di gambe e avambracci, e il 1817, anno della prima pubblicazione della stessa, già con testa e integrazioni, da parte di Giovambattista Finati.
Inoltre, Lo stesso Finati nel 1843 sottopose il problema della pertinenza o meno della testa alla statua allo scultore e restauratore Angelo Solari, il quale, a mio avviso errando, ritenne la testa pertinente al corpo e opera “dello stesso scarpello”.
Riguardo alla testa originaria della statua non ho idea di che fine possa aver fatto.

D: Nell’intervista relativa al ‘Doriforo’ di Policleto (che trovate a questo link), lei ci disse che era in corso di stampa un suo studio sui celebri “Corridori” di Ercolano. Ci può dire qualcosa circa questo suo studio?

R: Le due notevolissime statue bronzee (inv.5626 e inv.5627) provenienti dallo scavo della Villa dei Papiri ad Ercolano, attualmente esposte al Museo Archeologico Nazionale di Napoli con la definizione di “corridori”, non sempre, dal momento del rinvenimento nel 1754 ad oggi, sono state considerate tali. Esse furono alternatamente identificate con lottatori, tuffatori, nuotatori, sommozzatori, discoboli, corridori.
Non prendendo in considerazione le proposte più assurde, ovvero quelle legate al nuoto o al disco, resta da stabilire se si tratti di corridori, come dai più è ritenuto, oppure di lottatori. Io propendo, senza dubbio alcuno, per quest’ultima ipotesi.
Innanzitutto va sottolineato che i concorrenti di una gara di corsa sono sempre numerosi, mai due.
Durante una gara di corsa, gli atleti hanno lo sguardo fisso davanti a sé, guardano la pista e non chi a destra, chi a sinistra, come succede alle nostre statue. Le mani sono quasi sempre strette a pugno, le braccia, appena scostate dai fianchi, sono piegate ad angolo acuto e il busto è piuttosto eretto.
Riguardo alla partenza, il corridore, inizialmente, guarda in terra, immediatamente oltre i propri piedi, per poi alzare, una volta partito, lo sguardo, che terrà fisso davanti a sé per tutta la durata della gara. Spesso le mani sono poggiate ai quadricipiti, per potersi dare lo slancio iniziale.
Proviamo, ora, a mettere affrontati i due bronzi ercolanesi, come affrontati dovevano essere collocati, a detta delle due planimetrie di Karl Weber pubblicate da Giulio De Petra, nel grande peristilio della villa, al momento dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. I due ragazzi, che presentano la torsione del collo in direzione opposta, vengono ad osservarsi perfettamente l’un l’altro. La loro struttura muscolare è più che consona a due lottatori della classe páides, trattandosi di due fanciulli prepuberi. La gamba sinistra avanzata, con le dita del piede retratte come per ancorarsi meglio al suolo (inv.5627), non è concepibile per un corridore che scatta alla partenza, ma è naturale per un lottatore che attende l’assalto iniziale da parte dell’avversario (inv.5626). La notevole curvatura in avanti del busto, che porterebbe allo sbilanciamento e alla conseguente perdita dell’equilibrio un corridore, si spiega perfettamente in un lottatore, che andrà a scontrarsi con l’ostacolo costituito dal suo avversario. Anche la posizione delle braccia, entrambe piegate ad angolo retto e avanzate rispetto al bacino, e delle mani con le dita divaricate e leggermente arcuate per poter afferrare l’avversario è tipica del lottatore.

D: Nella stessa intervista affermava che andrebbero riviste con occhio critico e privo di pregiudizio anche altre sculture celebri del MANN, quali sono il gruppo dei ‘Tirannicidi’ e le ‘danzatrici’ di Ercolano. Qual è la sua idea, in particolare per ciò che riguarda i ‘Tirannicidi’, di cui si ritiene che al mondo solo il museo napoletano abbia entrambe le statue?

R: Riguardo alle “Danzatrici”, definite tali da Johann Joachim Winckelmann, queste sogliono essere considerate un gruppo.
Le cinque ragazze vestite di peplo sono state identificate da alcuni con il 10% delle 50 figlie di Danao. Sembra un’assurdità, eppure, tale identificazione, senza basi concrete, va per la maggiore.
Osservando con un minimo di attenzione le cinque statue bronzee, si noteranno almeno tre, se non quattro, mani distinte. Completamente diversa è la resa delle labbra (alcune carnose in lamina di rame, altre più sottili nello stesso bronzo del resto della figura), del taglio degli occhi (alcuni più piccoli e allungati orizzontalmente, altri più grandi e disposti obliquamente con gli angoli esterni cadenti), della forma del viso (alcune con mascella pronunciata, di tipo severo, altre sfuggente), delle dita dei piedi (alcune lunghe e ossute, in profonda tensione, altre più corte e rilassate), di particolari quali la decorazione dell’apóptygma (una parte in stoffa che completava il peplo n.d.r.) o della parte inferiore del peplo (alcune con inserti in lamina di rame, altre del tutto prive), delle fibule (alcune a cupoletta, altre a rosetta), solo per enumerare alcune differenze. La inv.5619, addirittura, vista di profilo, a differenza delle altre quattro ragazze, che presentano sotto il peplo il ginocchio sporgente (alcune il destro, altre il sinistro), risulta completamente piatta, quasi bidimensionale, come compresa tra due piani paralleli.
Sembrerebbe, pertanto, che le cinque figure non abbiano costituito un gruppo ab origine, ma siano state fatte gruppo dal proprietario della villa in virtù del loro essere peplophóroi, ovvero portatrici di peplo.

Il discorso sui “Tirannicidi” è più lungo e complesso.
Le due statue (inv.6009 e inv.6010) furono identificate come “Tirannicidi” nel 1859 da Karl Friederichs, lo studioso tedesco che quattro anni dopo riterrà di aver riconosciuto il tipo del Doriforo di Policleto nella copia napoletana del MANN. Anche nel caso dei Tirannicidi Friederichs non vide mai di persona le statue, ma le studiò sulla base di alcuni disegni che gli erano pervenuti a Berlino. Inoltre, Friederichs non si sbilanciò mai nella attribuzione dei tipi al gruppo di Anténor o a quello di Krítios e Nesiótes. Sappiamo, infatti, dalle fonti, che dopo la cacciata dei Pisistratidi da Atene nel 510 a.C., lo scultore Anténor, legato al génos degli Alcmeonidi (acerrimi nemici di Pisistrato e i suoi figli), fu incaricato di eseguire un gruppo statuario raffigurante i due aristocratici ateniesi, Aristogitone e Armodio, che quattro anni prima, durante la processione panatenaica, avevano assassinato Ipparco, figlio minore di Pisistrato. L’assassinio, a sfondo sentimentale, fu trasfigurato nell’immaginario collettivo della pólis democratica in assassinio politico: Aristogitone e Armodio divennero gli eroi uccisori del tiranno.
Il gruppo di Anténor, in bronzo, secondo Valerio Massimo e Arriano, fu collocato nell’agorá, dove rimase fino al 480 a.C. quando fu trafugato da Serse.
Sappiamo che nel 477 a.C. furono incaricati dalla pólis due tra i maggiori artisti dell’epoca, Krítios e Nesiótes, di eseguire un nuovo gruppo statuario, certamente bronzeo, in sostituzione di quello trafugato dai Persiani.
Le fonti ci dicono, poi, che Alessandro il Grande (o uno degli Epigoni) restituì agli Ateniesi il gruppo di Anténor, e che questo fu ricollocato nell’agorá, coesistendo, pertanto, col gruppo di Krítios e Nesiótes. Va tenuto presente che Aristogitone, l’erastés (amante), è descritto da Tucidide come un uomo di mezza età (quindi sicuramente più che trentenne), mentre Armodio, l’erómenos (amato), era nel fiore della giovinezza (un adolescente, quindi).
Osservando le due statue del MANN, indipendentemente dalle numerosissime integrazioni moderne, notiamo che esse presentano il corpo di due coetanei, due ventenni, e non di due personaggi con circa vent’anni di differenza l’uno dall’altro (sia pure nella idealizzazione dei corpi, una certa differenza di età avrebbe dovuto essere espressa). La testa del cosiddetto “Armodio”, certamente pertinente al corpo, presenta una capigliatura a “chioccioline” di stile ancora tardo arcaico (forse un riferimento al più antico gruppo di Anténor?), contrastante col corpo stilisticamente severo, ma che trova riscontro nella resa dei peli pubici, anch’essi a chioccioline. Lo stesso non accade per il cosiddetto “Aristogitone”, che presenta il calco in gesso di una testa rinvenuta a Roma, alle pendici del Campidoglio, da Walther Amelung messa in relazione con un torso, attualmente esposto alla Centrale Montemartini di Roma, molto simile a quello dell’Aristogitone di Napoli.
La testa, di tipo ermaico, caratterizzata da lunga e folta barba, è nettamente sproporzionata rispetto al corpo, risultando eccessivamente piccola ed allungata. Sia i capelli che la barba sono fortemente incisi in lunghe ciocche del tutto contrastanti con le chioccioline dei peli pubici. Tale tipo di testa si rivela, alla luce di tali osservazioni, assolutamente non pertinente al corpo.
Altro problema è costituito dalla difficoltà di riconoscere i due tirannicidi in assenza del tiranno. Siamo sicuri che il gruppo originario prevedesse soltanto due personaggi? Inoltre, la disposizione attuale delle due figure affiancate o con i plinti lievemente posti a cuneo, è inconcepibile per lo spettatore. Non esiste, infatti, un punto di osservazione accettabile, dal momento che le figure, viste di prospetto, sembrano avanzare nel vuoto in due direzioni opposte, guardando l’uno leggermente a destra, l’altro leggermente a sinistra; viste lateralmente vengono a coprirsi vicendevolmente con clamide, braccia e spade; viste di spalle hanno ancora meno senso, venendosi a trovare con le schiene ruotate di tre quarti in direzione opposta.
Il punto di osservazione ottimale sarebbe, invece, quello delle figure disposte affrontate. Esse apparirebbero, in tutta la loro potenza, con l’ampio petto rivolto allo spettatore; i loro sguardi convergerebbero al centro della perfetta parabola formata dal profilo dei loro corpi. Al centro di questa parabola si potrebbe immaginare la presenza di un altro personaggio o, più probabilmente, due.
Lo schema iconografico delle due statue del MANN identificate dal Friederichs come “Tirannicidi” è uno schema ricorrente almeno dalla metà del VI sec. a.C. e lo troviamo, sia su ceramiche figurate, sia su monumenti scultorei, nella rappresentazione di figure eroiche o divine in atto di combattere. Si pensi a Teseo che uccide il Minotauro, alla lotta per il tripode delfico tra Eracle e Apollo, alle varie amazzonomachie o centauromachie raffigurate su ceramiche o scolpite su monumenti templari: mi viene in mente il fregio dell’Hephaistéion sul Kolonós Agoráios di Atene, in cui Eracle e Teseo combattono contro i centauri nella stessa posa di Aristogitone e Armodio.

Giorgio Manusakis