La scena raffigura la Pnice. - In fondo tre case, una d'Euripide, una di Lamaco, una di Diceopoli.
(Esce di casa, portando un bastone e una grossa bisaccia:
guarda da tutte le parti, e, veduta la Pnice vuota, sospira
tristemente, e siede su una panca: si volge al pubblico)
Quante trafitte a questo cuore! Gioie
n'ebbi poche, assai poche, due o tre;
ma dispiaceri... Sì, conta le arene!
Vediamo un po': le gioie quali furono?
Lo so, mi rise l'anima, pei cinque
talenti ch'ebbe a vomitar Cleone.
Che gusto matto fu! Ne vado pazzo
pei Cavalieri: fu degna dell'Ellade
quell'impresa! Ma una da tragedia,
dopo me ne toccò! Stavo aspettando
Eschilo a bocca aperta, e il banditore:
«Teognide, - gridò, - conduci il Coro!»
Pensa che strappo al cuore mio fu quello!
Un altro gusto fu quando Dessìteo
venne a cantare, dopo Mosco, un'aria
della Beozia. Ma poi mi sentii
squartar quest'anno, assassinare, quando
spuntò Cherìde ad intonare un canto
di Terpandro. Però, da che fo bagni,
mai la lisciva m'arse tanto gli occhi,
come adesso mi scotta che la Pnice
è vuota ancora, mentre l'assemblea
si dovea riunir fino dall'alba!
Stanno a ciarlare in piazza, e vanno in su
e in giù per evitar la corda rossa.
E neppure i pritani son venuti!
Quando poi giungono in ritardo, s'urtano,
si contendon l'un l'altro i primi posti,
rovesciandosi in frotta. E mai si pensa
a l modo di far pace. Oh Atene, Atene! -
Io, poi, vengo ogni giorno all'assemblea
primo di tutti, e seggo. E, solo solo,
m'annoio, gemo, sbadiglio, mi stiro,
tiro peti, disegno sulla sabbia,
mi strappo i peli, computo, contemplo
i campi, co l desio la pace invoco,
impreco alla città, sospiro il mio
borgo, che mai non mi diceva: compera
carbone, compera olio e aceto; e tutto
mi produceva, e quel comprar non c'era
che il cuor mi fende. - Oggi, però, son qui
disposto a schiamazzare, ad interrompere,
a scagliar contumelie agli oratori,
se parlan d'altro che di pace. - Oh, vedi
che a mezzogiorno arrivano i pritani.
Che vi dicevo? Son le mie parole!
Incalzan tutti per i primi posti.
(Entrano i pritani, il banditore, gli arcieri e una folla di cittadini)
Avanti!
Venite avanti, entro il recinto sacro!
Ha parlato nessuno?
Chi domanda la parola?
(Salendo sulla tribuna)
Io!
Chi sei, tu?
Sono Anfìteo.
Non uomo?
No, immortal! Fu Anfìteo prole
di Trittòlemo e Dèmetra. Da lui
nacque Celèo. Celèo, condotta sposa
Fenarète, ava mia, n'ebbe Licìno.
Io da questo immortal nacqui: e i Celesti
stringer la tregua coi Laconi, solo
concedettero a me. Ma, cittadini,
con tutta l'immortalità, mi trovo
a non aver quattrini pel viaggio,
ché, me li negano i pritani...
(Accorrono gli arcieri ed allontanano Anfiteo)
(Invano reluttante)
Arcieri!
Trittolemo, Celèo, sopporterete...
Fate, o pritani, torto all'assemblea,
allontanando un uomo che bramava
fare la tregua e appendere gli scudi.
Siedi, e sta zitto!
Stare zitto? Mai,
se non pritanizzate sulla pace!
Gli ambasciatori del Re!
Che re? Li ho in uggia, io, gli ambasciatori,
ed i pavoni, e le fanfaronate.
Zitto!
(Si avanzano gli ambasciatori con un seguito di persone pomposamente vestite)
Guarda che lusso, per Ecbàtana!
Al Gran Re ci mandaste ambasciatori
con una paga di due dramme al giorno.
mentr'era arconte Eutìmene.
Ahimè, povere dramme!.5
E difatti, noi ci strapazzammo
per le pianure del Ca ìstro, errando,
dormendo entro le tende, e sovra i cocchi
mollemente sdraiati. Era un supplizio!
La pacchia era la mia, che me ne stavo
sugli spaldi, sdraiato in mezzo al fango.
Ci facevano, ovunque ci accogliessero,
bere per forza un vin pretto e soave
entro calici d'oro e di cristallo.
O di Crànao città, non senti come
si fan beffe di te gli ambasciatori!
(Seguitando)
Ché, in conto tengon d'uomini, quei barbari,
solo quelli che cioncano e diluviano!
E noi gli svergognati e i culaperti!
Dopo quattr'anni, giungemmo alla reggia;
ma era lungi, a fare una gran scarica,
con le sue schiere, il Re, sui monti d'oro;
e lì si scaricò per otto mesi.
E quando la finì, codesta scarica?
Al plenilunio?
E poi, tornato a casa,
Ci ospitò, ci offrì dei bovi interi
al forno.
E chi li ha visti mai, dei bovi
interi al forno? Senti che sbruffone!
Poi ci servì un uccello, che si chiama
scroccone, e grosso è quanto tre Cleònimi.
Lo scroccone eri tu, che ci rubavi
due dramme al giorno!
E poi siamo tornati,
recando insiem con noi Pseudartabàno,
l'Occhio del re.
Ti becchi un corvo i tuoi,
ambasciatore bello, e te li cavi!
L'Occhio del re!
(S'avanza l'ambasciatore: ha in mezzo alla fronte un occhio mostruoso)
Per Ercole! Davvero
mi sembri un bastimento! Che fai? Doppi
un promontorio, in cerca d'un rifugio?
Un sostegno da remo hai sotto l'occhio?.
Su via, Pseudartabàno, esponi quanto
t'ingiunse il Re di dire agli Ateniesi.
Iartàm exarxapìssona satrà.
Avete inteso?
Per Apollo! io no.
Dice che il Re vi manderà dell'oro!
(A Pseudartabano)
Via dillo, in modo più distinto, l'oro.
No, Ioni gonzi, non avere l'oro!
Poveri noi, come si spiega chiaro!
Che cosa dice?
Che? Che sono gonzi
gli Ioni, ad aspettare oro dai barbari!
Ma cosa! Parla di bigonci d'oro!
Ma che vai bigonciando, fanfarone
matricolato! Va' via, che lo interrogo
da solo. - E tu rispondi a chiare note,
se non vuoi fare un bagno nella porpora!
Il Gran Re, ce lo manderà, quest'oro?
(Pseudartabano fa cenno di no)
Dunque l'ambasceria ci piglia in giro?
(Pseudartabano fa cenno di sì)
Ma gestiscono, questi, come noi!
E non c'è verso, son proprio di qui!
Di questi eunuchi, uno lo conosco:
è Clìstene, il figliuolo di Sibirzio.
(Si volge a lui)
Tu che al culo focoso il pelo radi,
tanta barba, o scimmiotto, al mento avendo,
camuffato da eunuco, ti presenti? -
E quest'altro chi è? Che sia Stratone?
Ch,tati e siedi! -
Invita l'assemblea l'Occhio del re
al Pritanèo.
Non son cose da forca?
E allora io, che resto a cincischiare?
Per certa gente, l'uscio è sempre aperto!
Ma voglio proprio compiere un'impresa
ardita e grande. - Dov'è andato Anfìteo?
(Accorre)
Eccomi!
Piglia sù queste otto dramme,
e coi Laconi fa' tregua, per me
solo, e i bimbi e la sposa. - E voi, mandate
ambasciatori e fate i rimbambiti!
(Anfiteo va via di corsa)
S'avanzi Tèoro, ambasciatore presso
Sitalce.
Eccomi.
Un altro fanfarone!
Non avremmo indugiato in Tracia molto...
No, se, perdio, non c'era da buscare!
(Seguitando)
Se non avesse il ciel tutta di neve
ricoperta la Tracia, e strette il gelo
le correnti dei fiumi.
E ciò fu al tempo
che le tragedie dava qui Teògnide.
Durante questo tempo, io trincai presso
Sitalce. E veramente, egli mostrossi
filateniese prodigiosamente,
e invaghito così di noi, che scrivere
solea sui muri: Ateniesi belli! -
Abbiamo data la cittadinanza
ateniese al figlio, che va pazzo
per i pasticci apaturiesi. Ed egli
scongiurava suo padre che corresse
a sostener la nuova patria. E il padre
libò, giurando che sarebbe accorso
in vostro aiuto, con un tale esercito,
che quei d'Atene avrebbero sclamato:
«Guarda che invasione di locuste!»
Vo' crepare, se credo una parola
di quel che dici, meno le locuste!
Ed or vi manda la più bellicosa
razza di Tracia.
Ora ci vedo chiaro!
Avanti i Traci qui con Tèoro giunti!
(S'avanzano una quantità di straccioni
camuffati alla peggio da soldati traci,
e in evidente stato di concupiscenza erotica)
E che malanno è questo mai?
L'esercito degli Odomanti.
Che Odomanti! Oh dimmi,
che affare è questo? Chi glie l'ha sbucciato
il pinco, agli Odomanti?
Se gli date
la paga di due dramme, vi saccheggiano
da cima a fondo la Beozia!
Due dramme di paga, a questi sprepuziati?
(Tragicamente)
Ben piangerà dei marinari il popolo
salvator della patria!
(Cerca a un tratto vicino a se)
Ahimè! Son fritto!
M'han gli Odomanti saccheggiato l'aglio!
(Facendosi addosso a loro)
Lo lasciate quell'aglio?
Ah, disgraziato!
Attacchi gente che mangiato ha l'aglio?
Soffrirete, o pritani, ch'io patisca
un tal sopruso, e da persone barbare? -
Ma io m'oppongo che s'abbia a discutere
del soldo ai Traci. Il ciel manda un avviso:
una stilla di pioggia m'ha colpito.
Vadano i Traci, e posdomani tornino,
poiché, i pritani sciolgon l'assemblea.
(Dalla pàrodos di destra l'assemblea si vuota)
Che bella torta mi si son beccata!
Ma ecco Anfìteo, che torna da Sparta!
(Dalla sinistra giunge Anfìteo, correndo affannato)
Ben arrivato, Anfìteo!
Sinché,
non mi trovo al sicuro, non lo dire!
Devo fuggir, fuggire gli Acarnesi!
Che t'è successo?
Io m'affrettavo qui
con la tregua per te. Ma la fiutarono
certi vecchi Acarnesi, vecchi solidi,
duri, cocciuti, eroi di Maratona,
tutti d'un pezzo, e subito: «Ah, canaglia,
le vigne nostre son tagliate, e tu
porti la tregua!» - E metton mano ai sassi.
Io scappo; e loro, urlando, alle calcagna!
Lasciali pure urlar! La tregua, l'hai?
(Presenta tre ampolline)
Lo credo io! Tre assaggi. Questa qui
è di cinqu'anni. Accostaci le labbra.
(Fiuta e fa una smorfia di disgusto)
Puah!
Che cosa c'è?
Mi garba poco!
Manda odore di pece e d'arsenale.
Allora, assaggia questa di dieci anni.
(Come prima)
Acutissimo afrore d'ambasciate
ha questa pure, e d'alleanze infrante.
Ma di trent'anni è questa qui, per terra
e mare.
(Fiuta e si delizia)
Questa sì, corpo di Bacco,
manda olezzo di nettare e d'ambrosia,
né, ti dice: procùrati provviste
per tre giorni, ma in sommo ha della bocca
un: va' dove ti pare! Io questa accetto,
e libo, e tutta me la voglio bere;
e fo tanti saluti agli Acarnesi.
A guerre e brighe posto fine, vado
a celebrare i Baccanali agresti.
(Entra in casa)
Ed io bado a fuggir dagli Acarnesi!
(Via, a tutte gambe, dalla pàrodos di destra)
(I coreuti entrano tumultuosamente,
impugnando pietre e cercando per ogni dove)
Per di qui, tutti, alla caccia: si dimandi qualche indizio
di quell'uomo a quanti passano; ché, faremo un buon uffizio
alla patria, catturando quel briccone.
(Agli spettatori)
Un con la tregua,
spettatori, l'ha veduto niun di voi, che strada segua?
(Si aggruppa intorno al corifeo, danza e canta)
Fuggì, sparì! Troppi anni mi gravano le spalle!
Ah no!, da giovin, quando ben sapea, con le balle
di carbone sul dorso - seguir Faillo al corso,
non mi saria sfuggito, l'uom con la tregua, n,
trovato avria sì facile scampo nell'agil pié.
(Simulano di nuovo un'affannosa ricerca)
Ora invece che ho la ruggine negli stinchi, e del vegliardo
Lacratìde, mio compagno, il ginocchio è reso tardo,
or s'invola. Ma inseguiamolo: mai sarà che di beffarne
diasi vanto: di beffare, benché, vecchi, quei d'Acarne,
(Riaggruppandosi intorno al corifeo)
Chi a patti col nemico venne, Zeus padre e Dei,
contro cui truce addoppio guerra, pe' campi miei.
Ma come intorno a remo - fune, ci avvinghieremo
addosso a lui, serrati, tormentosi, molesti,
sicché, le care vigne mai più non ci calpesti.
Ma cercarlo ci conviene - dalla parte di Pallene,
e inseguirlo in ogni strada - finché in mano egli ci cada,
ché giammai di farne strazio - con le pietre sarò sazio.
(Di dentro)
Silenzio, silenzio!
Zitti, zitti! Avete udito, miei compagni, quell'invito?
L'uom che noi cerchiamo è questo: - si ritragga ognun qui presto,
in disparte: egli vuol fare - sacrifizio, a quanto pare.
(Si ritirano nella pàrodos destra)
(Dalla casa di Diceopoli esce una processione fallica. Precede la figliuola di Diceopoli, in funzione di canefora, con sul capo la cesta contenente gli arredi sacri. Segue il servo Rosso col fallo. Diceopoli chiude il corteggio, e sua moglie guarda dalla terrazza)
Silenzio, silenzio!
Si faccia un poco innanzi la canefora,
e Rosso tenga ben diritto il fallo.
Posa la cesta, o figlia. E mano all'opera!
O mamma, dammi il mestolo, ché voglio
versare del purè su la stiacciata.
Sta bene! - E tu concedi, o re Diòniso,
che a te questo corteo guidando in giubilo,
e sacrifizi offrendo coi domestici,
i Baccanali campagnuoli io celebri
felicemente, e addio dica agli eserciti:
e il patto di trent'anni abbia buon esito!
(Alla figlia)
Bella figliuola, porta con bel garbo
la cesta, e fa' la grinta di chi biascica
l'erba cunella. Oh fortunato l'uomo
che ti si piglierà, che avrà da te
donnole, brave non meno di te
a trar corregge, quando spunta l'alba!
Su, fatti avanti, e bada che nessuno
t'abbia a involare, fra la calca, l'oro.
Rosso, voialtri, dietro alla canefora
tenete ritto il fallo; ed io, seguendovi,
canterò l'inno fallico. Dai tegoli
tu, moglie, fa' da spettatrice! - Avanti!
(Canta)
Fallo, di Bacco amico, di notturni trastulli
compagno e d'orge, vago di spose e di fanciulli,
dopo sei anni, oh giubilo!, t'ho alfin nelle mie terre,
sto in pace, e mando al diavolo Lamachi, affari e guerre.
Fallo, Fallo, quant'è meglio ristoro
trovare una vezzosa boscaiòla,
serva di Strimodoro,
che in una balza aride legna invola,
prenderla a mezzo il seno, sul terreno
gittarla, e far con lei giocondo ballo!
O Fallo, Fallo,
bevi con noi, ché del notturno vino
ebbro ancor, sul mattino
di pace gusterai colmo un catino,
e penderà lo scudo sul camino.
(Uscendo dai nascondigli)
Proprio lui, proprio lui, guarda!
Scaglia, scaglia, scaglia, scaglia!
Lapidiam quella canaglia!
Che si tarda, che si tarda?
(Cominciano a scagliar sassi)
Che affare è, questo? Per Ercole, romperete la pignatta!
No, no, d'ammazzare coi sassi - te proprio, birbone, si tratta!
(Investono Diceopoli, e con una danza avvolgente lo spingono verso sinistra)
O saggissimi Acarnesi, qual n'è dunque la cagione?
E ardisci dimandarmelo? Sei sfrontato e briccone
Traditor della patria! Poi che deposte l'armi
hai, tu sol fra noi tutti, in volto osi guardarmi?
A che patto le deposi, non sapete: date ascolto...
Darti ascolto? Sei morto! Tra i sassi andrai sepolto!
No, non pria d'avermi udito: calma, calma, o bravi amici!
Calma? Non voglio averne, non vo' udir quel che dici!
Più di Cleon, che in suole ridurre pei calzari
dei Cavalieri io voglio, d'odio degno m'appari!
(Diceopoli è incalzato sino al muro della sua casa: cessano i canti e le danze)
Con le ciarle vuoi confondermi? Non sperar che ti dia retta.
T'accordasti coi Laconi, ne vo' trarre aspra vendetta.
I Laconi, o dolci amici, via, lasciateli da parte,
e sentite la mia tregua, se la seppi far con arte.
Ma che arte, quando a patti sei venuto con le genti
che non sanno rispettare fede, altar, né giuramenti!
Coi Laconi ce l'abbiamo troppo! Ed essi, lo so bene,
non han poi tutta la colpa, se noi siamo in tante pene!
Non l'han tutta, o malfattore? Queste cose spiattellarmi
chiare e tonde ardisci in faccia? Come vuoi ch'io ti risparmi?
Non l'han tutta, non l'han tutta! Se vi parlo, vi dimostro
ch'essi pure hanno patito, che in gran parte il torto è nostro!
Detto orribile, e che il cuore mi sconvolge! Temerario
sarai sì che la difesa prenderai dell'avversario?
E col capo sopra il ceppo vo' parlare, se per caso
non dicessi il giusto, e il popolo non restasse persuaso.
Dite un po', compaesani? Che s'aspetta a dargli addosso
con le pietre, sì che s'abbia da trovare un manto rosso?
(Cominciano a tirare)
Qual vi fe' negro tizzone ribollir, d'Acarne prole?
Non volete, non volete proprio udir le mie parole?
Proprio no, non le udiremo!
Patirò fato sì duro?
Crepi qui, se mai t'ascolto!
Acarnesi, vi scongiuro!
Tu sei morto!
Dunque i denti converrà che anch'io vi mostri!
A mia volta i più diletti porrò a morte amici vostri.
Degli ostaggi ho in mio potere: or li prendo, ora li scanno.
(Entra di furia in casa)
Dite un po', quale minaccia si nasconde a nostro danno,
o Acarnesi, nei suoi detti? Forse alcun dei nostri figli
tien prigione in casa? O donde tanto ardire avvien ch'ei pigli?
(Torna con una cesta di carbone, la solleva, e fa atto di trafiggerla)
O tirate, se vi piace! Ma costei qui pongo a morte!
Dei carboni vedrò presto quanto a cuor vi stia la sorte.
Me infelice! Sono preso! Paesana è quella cesta!
Ah, ma tanto non ardisci... No, t'arresta, no, t'arresta...
(A gran passi raggiunge Diceopoli)
É spacciata! strilla pure: al tuo dir chiusi ho gli orecchi.
La mia prediletta compagna tu dunque a svenar t'apparecchi?
E quand'io parlavo, ascolto mi davate, poco fa?
Ma di' or quel che brami! Spiega pur come va
che tanto prediligi gli Spartani; e non sia
che in abbandono io lasci la cestellina mia.
Ogni ciottolo, per prima cosa, a terra adesso vada.
Ecco qui, sono a terra: rinfodera la spada.
Ma badiamo che qualcuno nel mantel non ve ne resti!
Sono a terra! V'e' come lo scuoto! Coi pretesti
tu non venirmi innanzi. Metti via quell'acciaro!
E scuotere e rivolgersi vanno così del paro.
(Scuotendo con mosse ritmiche le vesti, i coreuti vanno
ad aggrupparsi in bell'ordine intorno all'altare di Diòniso)
(Rivolto ai carbonai, con accento patetico e tragico)
Stavate per levare alti lamenti!
Anche un istante, e del Parnète spento
era il carbone, e ciò per le stranezze
dei borghigiani suoi. - Per lo spavento,
con un fittume d'atra polve, a guisa
di seppia, il cesto m'imbrattò. Che guaio,
che sappiano costor tanto d'agresto
da scagliar sassi e sbraitare, senza
stare a sentir ragioni, né discutere,
mentr'io vo' dire, col capo sul ceppo,
quanto ho da dire in pro' dei Lacedemoni!
E pure, a cuor mi sta la vita mia!
Ché dunque il ceppo sopra la soglia non esponi,
e queste gran ragioni
che tu hai, non ci dici, sciagurato? Ché io
di conoscere quanto mulini ho gran desio.
Via, come tu patto facevi, tendi
sul ceppo il collo, e a favellare imprendi.
(Con tono oratorio)
Ecco, vedete, il ceppo è questo, e questo
qui, l'uom che parlerà... piccino tanto.
(Mostra il mignolo)
Io lo scudo non vo' d'alcuna ambage:
difendo Sparta, e vi dirò perché.
Certo assai temo, conoscendo l'indole
dei bifolchi, che gongolan, se laudi
a loro e alla città loro, a proposito
o a sproposito mesca un qualche bindolo,
e non s'accorgon d'esser messi in trappola.
E dei vecchioni non m'è ignoto l'animo,
come non vedon più in là del mordere
col voto. E so quel ch'io con la commedia
l'anno scorso patìi: ché innanzi ai giudici
mi trascinò Cleone, con calunnie
e con menzogne, e m'inondò con l'impeto
d'un Ciclobòro; ond'io fra i gorghi sudici
quasi perìi. - Ma camuffar lasciatemi,
prima ch'io parli, come uom pitocchissimo.
A che mai tali indugi, tai raggiri, tai mene?
Prendere ti conviene
da Gerònimo l'ispidopelososcurofolto
casco d'Averno, e cingerne, per isfuggirmi, il volto,
e di Sisifo aver l'accorgirnento:
ché non patisce ambagi un tal cimento.
(Si avvicina alla casa d'Euripide)
Ecco dunque il momento ch'ò da fare
animo risoluto, e andar da Euripide.
(Picchia all'uscio)
Ehi di casa!
Chi è?
É dentro Euripide?
C'è, e non c'è, se tu ben mi comprendi!
Come c'è, se non c'è?
La vuoi più chiara,
vecchio mio? La sua mente, che sta fuori,
a cercar versettini, non c'è: lui
c'è, sta per aria, e scrive una tragedia.
O te beato, Euripide! Risponde
come un'arca di scienza, il servo tuo!
- Chiamamelo.
Impossibile.
Su via!...
(Il servo si ritira)
Tanto non me ne vado! Busso io!
(Picchia e chiama)
Euripide, Euripiduccio!
(Solenne)
Apri, se ad altri apristi mai: t'appella
Diceopòl di Roccazoppa: io!
(Dal di dentro)
Non ho tempo da perdere.
Fatti portare in macchina.
Impossibile!
Su via!
Mi fo portare; non ho tempo
di venir giù.
(S'apre la porta, e ne esce l'encìclema, dove, in cima a un catafalco, si vede Euripide, vestito da pezzente, e circondato da mucchi di cenci, simboleggianti varie sue tragedie)
(Con sconcio urlo)
Euripide!
Che strilli?
Puoi comporre giù in terra, e stai per aria?
Sicuro, che li fai zoppi! E perch,
cenci tragici indossi, lagrimosa
veste? Sicuro, che li fai pitocchi!
Ma ti prego in ginocchio, dammi, Euripide,
un qualche cencio di quel vecchio dramma...
Fare debbo ai corèuti un gran discorso;
e se non parlo come va, m'accoppano..15
(Accennando un mucchio di stracci)
Che cenci? Quelli forse onde quest'Éneo,
vecchio infelice, su le scene apparve?
Non d'Éneo, no, ma d'uno più infelice.
Quei de l'orbo Fenice?
No, Fenice,
ma uno di Fenice più infelice!
Quali quest'uom cenci di pepli brama?
Quei del pitocco Filottète, dici?
No, ma d'uno più assai, più assai pitocco.
Vorresti allora i sordidi indumenti
che avea Bellerofonte... questo zoppo?
(Accenna ad un altro mucchio di cenci)
Era zoppo anche quello, petulante,
sommo nel cicalar, pronto di lingua,
ma non era Bellerofonte.
Ho inteso Tèlefo misio.
Sì, Tèlefo: dammi,
dammi, ti prego, di costui le fasce.
Ragazzo, dàgli i brandelli di Tèlefo:
devono star su i cenci di Tieste,
framezzo a quelli d'Ino.
(A Diceopoli)
Eccoli, prendi.
(Guardando i cenci e incominciando a indossarli)
Giove, che tutto osservi, ed al cui sguardo
tutto traspare, fa' ch'io mi camuffi
da disgraziato più che sia possibile! -
Euripide, giacché m'hai cominciato
a favorire, dammi il complemento
di questi cenci, il berrettino misio:
poiché oggi sembrar devo un pitocco,
esser quello che sono, e non parere.
Gli spettatori hanno a saper chi sono,
e i corèti star come citrulli,
a farsi infinocchiar dalle mie chiacchiere.
Te lo vo' dar; ché vai con mente acuta
sottili cose macchinando.
Bene
a te ne venga, e quel ch'io dico a Telefo. -
Bene! Come son già pieno di chiacchiera! -
Ma m'occorre il bastone da pitocco!
Prendilo, e lascia la marmorea soglia.
Non vedi, anima mia, come mi scacciano,
mentre di molta roba ho ancor bisogno?
Or sì, divieni tutta appiccicume,
pittimando e insistendo! - Me lo dài,
Euripide, un cestello bruciacchiato
dal lume?
E quale, o tapinel, ti preme
necessità di tai conserti giunchi?
Niuna necessità, ma li desidero!
Sappi che attendi, e la magione lascia.
Ahimè!
Te, come già tua madre, il Nume esalti!
Lungi da me!
No, no, dammi una cosa
sola: un vasetto un po' sbreccato.
Prendilo
e va' in malora! Non t'accorgi dunque
che noia arrechi alla magione?
E quanto
secchi la gente tu, non te n'accorgi? -
Quest'altro solo, Euripide dolcissimo:
un pentolin tappato con la spugna.
La tragedia costui tutta mi fura! -
To' il pentolino, via, vattene.
Vommene. -
Ma che farò? Bisogno ho d'una cosa,
e, se non me la dà, son bell'e fritto!
- Porgimi ascolto, Euripide dolcissimo:
se mi dài questa, vado, e non ci torno.
Mettimi nel cestello un poco d'erba
ammoscita!
Tu tiri a rovinarmi!
Eccola. Addio, tragedie!
Adesso basta,
adesso vado. - Ahi, tedio arreco, il veggio!
Ma non sapea che ai regi in odio io fossi!
Pover'a me, che rovinato io sono!
Ho scordata la cosa che per me
è tutto! - Mio dolcissimo e carissimo
Euripiduccio, che mi pigli un male
se ti seccherò più, dopo quest'altra
cosa sola, quest'altra sola sola!
Prestami un po' dei cavoli di mamma!
Costui ne ingiuriò: serra le imposte!
(L'encìclema è rotolato di nuovo dentro)
(Monologa tragicamente)
Ire, alma mia, dobbiamo orbi di cavoli!
Tu dunque ignori a quale agon t'accingi,
favellando in favor dei Lacedèmoni?
Su! Di qui devi prendere lo slancio!
Tu stai? Non sei rimpinzata d'Euripide?
Brava! - Su', vanne, o paziente cuore,
offri la testa, e quel che senti esponi.
Va', muovi, ardisci. Cuore mio, sei bravo!
(Dalla casa di Euripide, Diceopoli torna di nuovo
sul davanti della scena verso il coro)
Che farai? Che dirai? Sappi che molto
sfrontato è l'uomo, ed ha di bronzo il volto,
che, avendo offerta alla città la testa,
contro tutti a parlar, solo, s'appresta. -
Ma l'amico non trema. Or, se così
hai tu stesso voluto, animo, di'!
(Con piglio oratorio)
Non mi vogliate male, o spettatori,
se io, pitocco, a favellar mi appresto
degl'interessi pubblici in Atene,
e recitando una commedia. Il giusto
può dirlo pure una commedia: ed io
cose dirò gravi, ma giuste. Adesso
non mi calunnierà Cleon, ch'io sparli
della città dinanzi ai forestieri.
Siamo in famiglia, è l'agone lenèo,
non ci son forestier, né alleati,
niuno è venuto a portare tributi:
siamo noi, tutto fiore di farina;
che i meteci, già, son come la pula.
Odio assai gli Spartani; e così abbatta
Poseidone, il Dio che sede ha in Tènaro,
tutte le case lor con una scossa:
ché recise anche a me furon le viti.
Ma quali accuse, giacché voi presenti
mi siete amici, noi moviamo a Sparta?
Certi dei nostri - la città non dico,
badate bene, la città non dico -
ma dei poco di buono, della gente
da conio, senza onor, tristi, bollati,
andavano a spiar sotto i mantelli
dei Megaresi; e appena ci vedevano
un porcello, un cocomero, un leprotto,
un capo d'aglio, un pizzico di sale,
tutto era di Megara, e si vendeva
su due piedi. Ma queste erano inezie
paesane. Dei giovani briachi,
dopo il còttabo, andarono a Megara
a rapir Camusìna, la bagascia.
Inaspriti per l'ira, i Megaresi
rapirono a lor volta due baldracche
d'Aspasia. Onde la guerra fra gli Ellèni
principio ebbe da qui: da tre sgualdrine.
Nell'ira balenò Pericle olimpio,
tuonò, sconvolse tutta quanta l'Ellade,
ed emanò decreti-canzonette,
«che né in paese sopportar si deve
«né in piazza il Megarese, né per mare
«né per terra». - Ma quando, a poco a poco,
patirono la fame, i Megaresi
si rivolsero a Sparta, onde il decreto -
quello delle bagasce - avesse revoca.
Noi rifiutammo, sordi alle preghiere;
e il fragor degli scudi si levò.
Uno può dir: Non si doveva! - Ebbene,
che si doveva? - Se pirateggiando
uno Spartano avesse a quei di Sèrifo
rubato un cuccio, chi di voi sarebbe
rimasto in casa? Eh via, ci corre! Sùbito,
trecento navi trascinate avreste
in mare, e la città sarebbe stata
piena di rumorìo d'armi, di strilli,
di trierarchi, di paghe saldate,
di Palladi indorati, di frastuono
nei portici, di sacchi di frumento
distribuito, di corregge, d'agli,
di compratori d'otri, di cipolle
nelle reti, d'ulive, di corone,
d'acciughe, flautiste ed occhi pesti.
E poi, nel porto, apparecchiar di remi,
picchiar di chiodi, trapanìo di buchi,
comandi a suon di flauto, e strida e zufoli! -
Ciò fatto avreste, il so. NÉ lo doveva
Telefo anch'egli fare? Ah, siete folli!
Sì, matricolatissimo birbante?
Tu, vil pitocco, ce ne dici tante,
e insulti poi, se uno è sicofante?
Quanto, pel Dio del mar, disse, da cima
a fondo è giusto, e in nulla c'ingannò!
S'aveva a dir per questo? Ma fa' stima
che l'ardir tuo non ti farà buon pro'.
(Si precipitano su Diceopoli)
(Opponendosi)
Ehi, dove corri? Vuoi fermarti? Prima
che lo picchi, con te m'azzufferò.
(Gridando)
O Lamaco, sguardo di folgore,
tu amico, tu d'una tribù,
accorri, scuotendo la Gòrgone
dell'elmo, soccorrimi tu!
Accorra, se v'è condottiere,
soldato od escubia, a soccorrermi!
Ma presto! ch'io son per cadere!
(Entra precipitosamente Lamaco: è carico d'armi, imbraccia uno scudo su cui è rappresentata una spaventosa testa di Medusa, e ha sul capo un elmo terribilmente impennacchiato)
(Con voce e piglio da spaccamonti)
Donde mi giunse un bellicoso grido?
Dove accorrer bisogna, e far tumulto?
Chi dal fodero suo destò la Gòrgone?
Lamaco eroe, che ciuffi e che pennacchi!
Oh Lamaco, quest'uom non dice corna
di tutta la città nostra, da un pezzo?
Un pitocco tuo pari ardisce tanto?
Lamaco eroe, perdona se un pitocco
ardì parlare, e troppo usò la lingua.
Che hai detto contro noi? Di'!
Non lo so
più! L'armi tue mi danno il capogiro!
Levami un po', ti prego, quel babàu!
(Togliendosi l'elmo)
Ecco fatto.
Ora ponilo supino.
Ecco.
Ora dammi la penna dell'elmo.
Ecco la penna.
E reggimi un po' il capo,
ché vomiti: i pennacchi mi fan recere.
(Si stuzzica la gola con la penna)
Birbo, che fai? Per recere, ti stuzzichi
con la piuma?
É una piuma? Di che uccello,
me lo sai dire? Di spacconio, forse?
(Feroce)
Povera la tua pelle!
Fermo, Lamaco!
Qui la forza non val. Se mano hai salda,
perché non me lo meni? Armato sei!
Così, pitocco, al general favelli?
Chi? io pitocco?
E no, chi sei?
Chi? Un bravo
cittadin, che non dà caccia alle cariche.
E io, da che c'è guerra, ho preso l'armi,
e tu, da che c'è guerra, hai preso il soldo!
Ma se m'han dato il voto!
Tre cuccù!
Io l'ho fatta la tregua, stomacato
di vedere i canuti tra le file,
e i giovinotti, al par di te sbuccioni,
parte in Tracia buscar tre dramme al giorno,
i Tisamensoffioni, i Birbippàrchidi,
altri presso Beltempo, altri in Culonia,
e i Geretodiosbruffi, i Diospacconi,
e questi in Camarilla, e quelli in Gela
e in Catagela.
Oh se m'han dato il voto!
E come va, che di riffe o di raffe,
voi tirate la paga sempre, e mai
nessuno di costoro?
(Accenna ai coreuti, poi si rivolge specialmente ad uno)
Oh di', Bracino
tu che le chiome hai bianche, in ambasciata
ci sei mai stato? - Nega. - Eppure è saggio,
lavoratore! - E Leccio? E Carbonello?
E Buonaspalla? - Ha visto alcun di voi
Ecbàtana, i Caoni? Tutti negano!
Lamaco ed il figliuolo di Cesira
li han visti, a cui, per le collette e i debiti,
gli amici, come chi verso il tramonto
gitta l'acqua, dicevano: Alla larga!
Si può ciò tollerare, o democratici?
No, se la paga non tirasse Lamaco!
Eternamente coi Peloponn,si
io combattere voglio in ogni sito,
per terra e mare li voglio disfatti.
Io Beoti e Spartani e Megaresi
nel mio mercato a esporre merci invito,
a comperare; e Lamaco si gratti.
(Entra in casa)
Quest'uomo trionfa: disposti alla tregua son tutti: le vesti
or noi deponendo, facciamoci innanzi per dir gli anapesti.
Da che direttore di comici cori fu il nostro maestro,
non mai lo sentiste vantarsi in teatro com'egli sia destro.
Ma poi che i nemici, fra il popolo precipitoso d'Atene,
lo accusano ch'egli trascini la vostra città su le scene,
convien che al mutevole popolo ei faccia le proprie difese.
Gli avete, il poeta ci dice, degli obblighi molti. Ei v'apprese
a non farvi troppo gabbar dalle chiacchiere degli stranieri,
per lui foste meno sensibili al lustro, per lui men leggeri.
Soleano i legati già voi «redimiti» chiamar «di viole»,
e intanto l'inganno tramavano. Udendo codeste parole,
per quelle corone, sul sommo ciascuno sedea delle natiche.
E tanto chi «lucida» Atene chiamasse v'aveva gabbati, che
con quell'affibbiarvi una lode che onore farebbe ad alici,
aveva ciò ch'egli volesse. Codesti fur suoi benefìci.
E poi con che razza di democrazia venisse tenuto
il popolo nelle città v'ha provato. Recando il tributo,
verran' gli alleati bra mosi or di scorgere l'ottimo vate
che a quelli d'Atene gran verità, senza temere, ha cantate.
Per questo ardimento, volò la sua fama già tanto lontana,
che sino il Gran Re, trattenendosi con l'ambasciata spartana,
da prima richiese del mar chi ne l'Ellade avesse l'impero,
e poscia del nostro poeta, su chi si scagliasse più fiero.
Chè, molto migliori sarebbero, ei disse, quegli uomini, e molto
più saldi alla pugna, che a un tal consigliere porgessero ascolto.
Perciò gli Spartani propongon la pace, vi chiedono Egina!
Non è che gl'importi dell'isola! Vogliono fare rapina
d'un tanto poeta! Ma non ve lo fate scappar! Ché il buon dritto
porrà su le scene, ché, assai buone cose per vostro profitto
dicendo, vuol farvi felici: non mica con l'adulazione,
e le marachelle, promettendo lucri, facendo il briccone,
e dandovi incenso; ma sempre insegnando le cose più buone.
Stretta
Ed or Cleone tutte le sue mene,
tutti gl'inganni suoi provi su me;
ché la Giustizia alleata ed il Bene
al fianco mio combatteranno; n,
avrò in Atene, come lui, lo smacco
di passar da cinedo e da vigliacco.
Musa veemente d'Acarne - che spiri dei fiammei baleni
la furia, qui vieni.
Qual dai carboni di leccio - sprizzar la scintilla si mira,
se il mantice sopra vi spira,
mentre uno i pesciolini belli e fritti dentro il vaso
immerge, dove un altro salsa intride di Taso,
impetuoso un carme - così, così fiero e selvaggio
intona fra noi del villaggio.
Ci lagnam coi cittadini, noi canuti, d'anni gravi;
perch,, immemori, noialtri che pugnammo su le navi,
non nutrite a spese pubbliche! Siam dai torti invece oppressi,
e, cadenti come siamo, ci lasciate nei processi
trascinar, dove ci beffano degl'imberbi mozzorecchi.
Noi non siam più nulla, siamo rimbambiti, arnesi vecchi,
altro nume tutelare non abbiam che la stampella.
Ci avanziam; ma la vecchiaia ci fa groppo alla favella;
né vediamo, eccetto l'ombra, nulla mai della giustizia.
Ma l'attacco presto e lesto, con raggiri a gran dovizia,
dà il ragazzo, che assistenti nella causa non vuole,
e c'inganna e sottopone dei tranelli di parole,
ed il povero Titone martirizza, scuote e sbrana.
Ei, multato, biascicando per vecchiaia, s'allontana,
e così parla agli amici, mentre lagrima e singulta:
Quel che in serbo ho per la bara, l'ho a sborsare per la multa!
Dunque, giustizia vi sembra - che sia nei processi perduto
un uomo canuto,
che di guerresche penose - fatiche fu oppresso, che molto
sudore deterse dal volto,
che batteasi a Maratona per la patria? - In quella pugna
sul nemico fuggiasco bene stringemmo l'ugna!
Ma or su noi la stringon, ci acciuffano i nostri nemici
ribaldi. Tu, Marsia, che dici?
Dunque un uom come Tucidide curvo e annoso, è mai giustizia
che soccomba misurandosi col «Deserto della Scizia»,
con Cefisodèmo, questo cianciator rabula? - Quanto
non soffersi, come amaro non mi corse al ciglio il pianto,
nel veder tale un vegliardo bistrattato da uno Scita!
Ah, quand'egli era Tucidide, no, per Dèmetra, patita
ei neppur la stessa Acaia non avria sì di leggieri!
Ma di colpo al suol dieci Évatli messi avrebbe; degli arcieri
ne volea con uno strillo sbigottir tremila; e tutta
la progenie d'uno Scita sì briccone avria distrutta!
Ma giacché non permettete che un canuto dorma in pace,
fate almeno che spartite sian le cause; e un loquace
bagascion, figlio di Clinia, nell'accusa si presenti
contro i giovani, ed un vecchio, contro i vecchi, senza denti.
Sì, convien che d'ora innanzi questa regola si serbi:
stiano vecchi contro vecchi, stiano imberbi contro imberbi.
(Brandisce delle fruste, e traccia segni sul terreno)
Ecco i confini del mercato mio.
Qui c'è commercio libero per tutti
i Megaresi ed i Peloponnesi
ed i Beoti, a patto che a me vendano,
ed a Lamaco no. Dispongo questi
tre scudisci di Lepra, eletti a sorte,
a guardia del mercato. E qui non c'entri
ombra di sicofante o soffionita
d'alcun genere. E adesso vado a prendere
il pilastro coi patti della tregua,
e lo colloco in piazza, bene in vista!
(Entra un Megarese e si tira dietro due bimbette)
Finalmente te veco! É chisto, o è n'ato
'o mercato d'Atene? Io te saluto,
mercato, accussì caro a tutte nuie!
Io te jevo truvanno. E mme pareva
'e j' truvanno mammema carnale!
(Alle figliuole)
Povere ffiglie! Patre scunzulato
cchiù de vuie! Si truvate na pagnotta,
datele ncuollo. E mo, sentite buono:
vuie che vulite fa'? Dicite. É meglio
ca ve venno? Dicite: o ve vulite
muri' 'e famme?
Vennitece, vennitece!
Embe'... Ve venno. É fatto. Ma int' 'a casa
chi s' 'e mmette ddoie guaie comm'a vuiate?
Comm' aggia fa'?... Sapite mo che faccio?
Mo faccio nfenta ca so' nu purcaro
e vuie ddoie purcelluzze. Va, trasìte
dint'a sta pelle 'e puorco, e, si quaccuno
s'accosta, vuie strellate comme fanno
e' purcielle lattante. Si ve porto
a casa n'ata vota, io ve ce porto
a muri' 'e famme certamente. Jammo:
trasìte int'a stu sacco e accuminciate
a strella' comm' 'e puorce apparicchiate
p' 'o sagrifizio. Io mo chiammo a Diceopole...
Addo' sta? Diceopole! Diceopole!
T' 'e buo' accatta' ddoie belle purcelluzze?
Guarda, c'è un Megarese!
So' benuto pe traffeca'.
Come ve la passate?
Nun c'è male. Diceò: vicino 'o ffuoco.
Accusì simmo abituate.
Bello
stare, perdio, se non ci manca il flauto!
E in Megara, oltre a ciò, che altro fate?
Ch'avimmo fa'? Quann'io me so' partuto,
e' funziunarie jeveno truvanno
comme avevano fa' pe ce fa' 'a festa!
E così finirete di penare!
Già, dice buono.
E che si fa in Megara,
oltre a codesto? A quanto va il frumento?
'O stimammo tant'oro quanto pesa!
Porti del sale?
E addo' 'o pigliammo? 'O sale
'o tenite addo' vuie.
Dell'aglio?
Ch'aglio?
E addo' nne truove cchiù? Quanno passate
pe dint' 'e terre noste, aglio, salute!
Dunque, che porti?
Sti ddoie purcelluzze
p' 'o sagrifizio.
Benone! Vediamole.
So' belle overo, sa: cacciale fora:
comme so' grasse e mo rbede!
(Ne tira fuori dal sacco una)
Che affare è questo?
Na purcella: nun 'o bbide?
Che dici? Di che terra?
É de Megara!
Pecch,? Nun è purcella?
Non mi pare!
Diceo', tu che dice? Nun 'o bbide
ch'è na purcella? 'O buo' nega'? Che dice?
Ca nun è na purcella! Scummettimmo
nu poco 'e sale. Io dico ca è purcella,
comm'io songo io... No?...
Ma di provenienza umana!
Robba mia, certo, se sa!
E buo' senti' strella'?
Ma sì, perdio!
(Piano alle figlie)
Jammo, strellate, piccerè; strellate!
Si no, ve porto a casa n'ata vota!
Coì, coì!
É purcelluzza?
Pare!
Crescendo poi, diverrà scrofa!
Eccomme!
N'ate cinche anne, e, doppo, è tutt' 'a mamma.
Ma non si può sacrificare, questa!
E pecché nun se po' sagrifica'?
Se non ha coda!
E chella è piccerella!
Po', quanno cresce, sa che bella coda!
Tu crisciatella, e quanno è fatta grossa
tanno me daie na voce...
É tutta uguale a quell'altra!
E se sape! 'O stesso patre
e a stessa mamma l'hanno fatte. Siente:
falla fa' grossa e setuluta, e doppo
vide si nun è degna d'Afrodite.
Ma scrofe, ad Afrodite, non s'immolano!
Nun s'accideno scrofe p'Afrodite?
E, si è leceto, a chi? Carne 'e purcella
nfelata a 'o spito, è buccone riale!
E mangeranno poi, senza la mamma?
Sicuro! Senza 'a mamma e senza 'o patre
Che gustano di più?
Tutto. Addimanna tu.
Scrofa, scrofa, di'.
Coì, coì!
Vuoi dei ceci?
Coì, coì, coì
Fichi secchi, ne vuoi?
Coì, coì!
(All'altra)
E tu? Ne mangi tu?
Coì, coì!
Eh, vi mettono in voce, i fichi secchi!
(Verso l'interno)
Portate un po' di fichi alle scrofette.
Li mangeranno? - Cappio, come rodono,
Ercole venerando! E di che terra
sono queste scrofette? di Papponia? -
Non li han mica mangiati tutti, i fichi!
(Con gesto sconcio)
Per me m'aggio pigliato sulo chisto!
Educate, perdio, queste bestiuole!
Quanto ne vuoi, delle scrofette? Andiamo!
Pe chesta ccà na bona nzerta d'aglie.
E pe chest'ata na mesura 'e sale.
Affare fatto. Aspetta qui.
(Entra in casa)
Ccà stongo!
(Si volge al cielo, comicamente supplice)
Ah, si putesse, cu l'aiuto tuo,
Ermète mbrugliunciello, liberarme
'e muglierema pure, e pure 'e mamma!
(Entra un sicofante)
Galantuomo, chi sei?
So' nu purcaro megarese.
Denunzio, come merce
di contrabbando, le tue scrofe, e te!
Mmalora! Accuminciammo n'ata vota!
É na disgrazzia eterna!
In tua malora
tu megareggerai! Lo lasci il sacco?
Diceopole, aiuto! Diceopole!
Curre ccà, ccurre!
(Accorrendo)
Che c'è? Ti denunziano?
Li mettete alla porta, eh, guardiani,
i sicofanti?
(Al sicofante)
Ehi, coso, che ti piglia?
Cosa vieni a soffiare, senza mantice?
E vuoi che non denunzi il contrabbando?
(Brandendo una frusta)
Per pigliar busse, se non sfratti, e sùbito!
(Il sicofante si dà alla fuga)
Overo, Atene, ca te compatisco!
Megarese, coraggio, eccoti per le
scrofette il prezzo convenuto, l'aglio
e il sale; e stammi bene.
A 'o paese nuosto, nun s'usa.
Sul mio capo torni
l'augurio inopportuno.
Purcelluzze,
stateve bbone. Senza patre site
ccà, mo remmase. Si ve danno 'o sale,
salatevella bbona bbona a' pizza!
(Via)
Che uomo avventurato! Ma vedi un po' che bazz
gli frutta il suo trovato! Potrà, seduto in piazza,
goderne il frutto; e Ctesia
e quanti altri verranno
sicofanti, svignarsela
dovran col loro danno,
(Seguitando, senza interruzione)
né alcun farà la me rce rincarire, né il sozzo
Prèpide avrai vicino; ma, senza dar di cozzo
tra la folla a Cleònimo,
con gli abiti puliti
andar potrai; né Iperbolo
t'impinzerà di liti,
(Seguitando, senza interruzione)
né incontrandoti quivi, s'accompagnerà teco
Cratino, che la barba si rade al pascipeco,
quel ribaldaccio Artèmone,
vate da colascione,
a cui le ascelle putono,
che figlio è d'un caprone,
(Seguitando, senza interruzione)
né a burlarti Pausone, né a te verrà d'intorno
Lisistrato, che campa dei Colargesi a scorno,
tinto dai mali in porpora,
cui del freddo le offese
e della fame, premono
trenta e più giorni al mese.
(Entra un Beota accompagnato da un servo: portano una soma di salvastrella e molti uccelletti. Li seguono alcuni goffi suonatori di flauto)
Uah! Puvureglie a mmi! So' tutte sfrante!
Pusa la pimpinella, Ismè, fa' piane!
(Ai suonatori)
E vvu che mo' ven,te tutti a jècco
fine da Tèbba, cu ssi ciufulitti,
jete a zuffla' lu cule alle cicale!
Finitela, all'inferno! - Vi levate,
vespe, dall'uscio mio? Di dove mai
sono venuti alla mia porta, questi
calabroni, discepoli di Chèride?
(Li fa scappare con la frusta)
Che puzz'èsse bennitto, furastie'!
Fine da Tèbba, cu sti zuffle arrète
m'hanno fatte casca', jècco pe tterra,
tutti li fiuri de la pimpinella.
Mbe' de sta robba me', cu vvu' cumpra'?
Ecco, vide, so' rigli e passaregli.
Buon dì, sgranapagnotte Boiotuccio!
Che porti?
Tutta quanta robba bona
de la Biozzia nostra: pimpinella,
rìcano, trezze, papere, stuppini,
curnacchie, futtivente, trottaregli...
Trascini uccelli come il vento, pare!
Po' tengo lèbbri, volbe, paparèlle,
spinose, tròcchie, lontre, dunnulicchie,
fajine, tasci, i anguille de Cupaide.
(Declama ispirato)
Tu che il boccon più ghiotto adduci agli uomini,
se anguille hai teco, fa' ch'io le saluti!
(Cercando nel sacco delle anguille)
Mbe', jesci afora tu chi ssi' la capa
de ste cinquanta figlie de Cupàide;
fa' nu salute a quistu furastiere.
(Impugnando l'anguilla, con enfasi tragica)
O carissima, tu, tu da gran tempo
desiata, giungesti, o ai cori comici
grata e diletta a Mòrico! - Qui, famuli,
il braciere e il mantice adducetemi. -
Vedete, o amici, questo fior d'anguilla
che, desiata, vien dopo sei anni!
Salutatela, o figli! Io della brace
per cuocerla vi do.
(A un servo)
Portala dentro. -
Da te neppur la morte, se di bietole
ti vegga cinta, fia che mi sepàri!
Quante me da' pe quessa?
Nulla: questa
me la dài per gabella di mercato;
ma di' se vendi qualcos'altro.
I' venno tutte cose!
A che prezzo? O preferisci
delle derrate in cambio?
Scìne, robba
che sta pe Atene, i no pella Biozzia.
Acciughe del Falero, allora, o cocci.
Acciuche u còcce? Ne vulisci allòco!
Robba che llà 'n se trova, i a vvu s e spreca!
Ho il genere per te. Porta, imballato
a mo' di vaso, un sicofante.
Scìne?
Sa' cu affare sarria quiste, pe Ddie,
talicquale a ppurta' na scimmia 'nfame.
Giusto, vedi, Nicarco s'avvicina
per far la spia.
Chi? Quillu pizzangrille?
Già; ma tutto veleno!
(Entra il sicofante)
Di chi è quella merce?
É la me', corpe de Ddie!
E vvie' j,cco da Tèbba!
É contrabbando, e lo denuncio.
Ma cu tt'ha pigliate,
che vvu' cummatte cu li passaregli?
E te per giunta!
E i' cu t'agge fatte?
Tel dirò, per riguardo agli uditori:
da terra ostil tu gli stoppini apporti.
Uno stoppino, arrivi a denunziare?
Uno stoppino basta ad incendiare
il cantiere!
Il cantiere uno stoppino?
Lo credo!
E come?
Accesolo, l'amico
lo potrebbe adattare in cima a un fusto
di canna, e poi, per mezzo d'un doccione,
soffiarlo su 'l cantiere, un dì di grande
Bora; e le navi, appena preso fuoco,
farebbero un falò.
Fior di canaglia,
farebbero un falò per una canna
e uno stoppino?
(Lo acciuffa)
(Rivolgendosi agli spettatori)
Siate testimoni...
(Ai servi)
Tappategli la bocca! - Dammi corda,
ché lo voglio legare come un coccio,
perché strada facendo non si rompa.
(Aiutato dai servi, incomincia a legare Nicarco, che oppone vivissima resistenza)
Lega, caro, a dovere
codesta mercanzia,
ché il forestiere
non la spezzi per via!
Certo, che manda un fioco
suon, come se incrinato
si fosse al fuoco,
e uggioso a ogni Beato.
E a che l'userà mai?
A tutto! Mesci-guai
sarà, lume da spia,
macina-cause, tazza
dove ogni razza
d'affari intrisa sia.
E chi mai persuaso
speri tu far che appresso
si tiri un vaso
che manda suon s ì fesso?
(Al Beota)
Amico, è molto duro;
né andrà in pezzi, se tu
lo appicchi al muro
con la testa all'ingiù.
Legata è questa peste.
I' po' lu spacce preste.
Spaccial dove ti piace,
ottimo forestiero,
quel paltoniero,
ché di tutto è capace.
Ce n'è voluto, a legar questo canchero!
Prendilo sù, portalo via, Beota!
(Al servo)
Mìttete sotte, Ismè, 'ncucca la schina!
E bada di portarlo con riguardo!
Non porterai nulla di buono: pure,
se buscherai, portando questo carico,
dovrai la tua ventura ai sicofanti.
(Il Beota se ne va. Si presenta sulla scena un servo di Lamaco)
Diceopoli!
Eh! Perché mi chiami?
Perch,? Lamaco vuol che pei Boccali
una dramma di tordi tu gli ceda
e tre dramme d'anguille di Copàide.
E chi è questo Lamaco anguillofilo?
Marte secondo, il tremendo, colui
che brandisce la Gorgone, e tre crolla
cimieri ombre -versanti.
Perdio, manco
se mi cede lo scudo! E se li crolli
sopra la salamoia, i suoi cimieri!
E se fa chiasso, poi, chiamo i guardiani.
(Il servo parte)
E con questo fardello a casa io vòmmene,
sulle penne dei meroli e dei tordi.
(Entra in casa carico d'uccelletti)
Oh vedi, vedi, Atene, quale finezza d'uom, che sapientone!
Quante mai grasce, per la tregua ch'ei strinse, ora si gode, buone
queste a mangiare calde calde, quelle a serbar ne la magione!
Sì, la fonte a lui spontanea d'ogni bene si disserra!
Mai sarà che in casa accogliere possa il Nume io de la guerra,
n,, ch'ei l'inno, stando a tavola presso a me, dica d'Armodio:
che per essere un uom dedito al bicchiere, io troppo l'odio.
Improvviso su noialtri che s'avea le grasce a macca,
piomba, e tutto manda all'aria, spezza, atterra e brighe attacca.
Ed a nulla m'è giovato che gli usai buone maniere:
«Vuoi sedere? Bevi un gocciolo! Siamo amici, to' un bicchiere!»
Niente! A fuoco tanto peggio mise i pali delle viti,
ed a forza i pingui grappoli dalle vigne ci ha rapiti.
(Un servo appare all'uscio della casa di Diceopoli, e getta
sulla soglia le penne degli uccelletti che si stanno preparando)
Grandi pensieri ei nutre, e pe 'l banchetto suo molto presume!
Segni del suo benessere, su la soglia gittò codeste piume.
Pace, che delle amabili Grazie e di Citerea segui il costume,
oh chi mai se l'aspettava così bello, il tuo visino?
Deh, se mai stringer volesse te con me qualche Amorino,
come quei che son dipinti, che di fiori hanno corone!
Non dovessi mica credere! Non son poi così vecchione!
Senti, veh, se mai ti piglio, che tre cose io ti vo' fare.
Lungo lungo di vitigni pianterò prima un filare;
poi di fico, accanto ad esso, vo' inserire un ramoscello;
e, per terzo, il vecchio un tralcio serba poi di moscadello.
Tanti ulivi vo' che girino pe 'l podere attorno attorno,
che tu ed io ci s'unga d'olio d'ogni mese al primo giorno.
(Dà fiato allegramente alla tromba)
Udite, o genti! Della tromba al suono
tracannate, com'usa nel paese,
i boccali; e chi primo arriva al fondo,
l'otre... di Ctesifonte in premio s'abbia.
(Durante il bando, Diceopoli esce con vari servi,
che portano attrezzi di cucina, selvaggina e altre cibarie)
O fanciulletti, o donne, avete udito?
Che fate? Non badate al banditore?
(Ai servi)
Sù, voi, lessate, arrostite, voltate,
sfilate il lepre, intrecciate corone.
(A un servo)
Dammi gli spiedi, tu, ché infilo i tordi.
T'invidio la pensata,
caro, ma più la tavola
che veggo apparecchiata.
O allor quando i tordi che ròsolano
vedrete fra poco?
Sì, questo tuo dir mi capacita!
(A un servo)
Attizza quel fuoco!
Ve', come ogni apparecchio
con grazia gastronomica
sa far, da cuoco vecchio!
(Entra un bifolco vestito di bianco)
Povero me!
Chi è costui? Per Ercole!
Un uomo oppresso dal malanno.
Tientelo!
Caro, caro, poiché la tregua l'hai
tu solo, dammi un po' di pace, sia
pure cinque anni!
E che t'avvenne?
Sono rovinato:
perduta ho la mia coppia di bovi.
E come?
Me l'han presa quelli
di Beozia, da File.
Oh sciagurato!
E per codesto, ti sei messo in lutto?
Lo credo! In grazia loro io me ne stavo
in un ventre di vacca!
E cosa vuoi?
Perdei, piangendo i bovi, ambe le luci;
ma, se t'importa del compaesano
Sb ilucia, le pupille ungimi tosto
di pace.
Eh, pover'uomo, non fo mica
il cerretano!
Ti scongiuro, via,
fa' ch'io ritrovi i buoi!
Non è possibile!
Fiotta un po' coi discepoli di Pìttalo.
Una stilla di pace almeno versami
dentro quest'ampollina!
Ma neppure un goccino così.
Vatti a far friggere!
Poveri bovi miei! poveri campi!
(Via)
Gli è parsa un gran boccone,
la tregua, né partecipi
vuol farne altre persone.
(A un servo)
La seppia arrostisci; sui ciccioli
il miele distilla.
Ma sentilo, come dà ordini!
Al fuoco l'anguilla!
Fra gli ordini ed i fumi
ghiotti, me coi fa melici
vicini tu consumi!
(Si avanzano un paraninfo ed una pronuba)
(Ai servi)
Rosolato a puntino, quell'arrosto!
Diceopoli!
(Seccato)
Eh! Chi c'è, chi c'è?
Uno sposo ti manda questa carne
dal banchetto di nozze.
Bel pensiero, chiunque sia!
E in cambio della carne,
vuole che tu gli mesca un misurino
di pace in questo vaso, ond'ei non parta
per il campo, ma resti con la sposa.
Porta via, porta via codesta carne,
tientela pure: mescere, non mesco
per mille dramme. - Ma chi è quest'altra?
La pronuba, che dir deve a te solo
due parole, da parte della sposa.
Che vuoi? Sentiamo.
(Ascolta a parte)
Oh, santi Numi, è buffa!
La sposina ha bisogno dell'aiuto
mio, per serbar l'uccello dello sposo!
(A un servo)
Dammi la tregua! A lei sola vo' mescerne:
è donna, e non ha colpa della guerra.
Poni qui sotto, l'ampollina, svelta!
Lo sai come s'adopra? Di' a la sposa
che quando c'è la chiamata, con questo
unga di notte a suo marito il bischero.
(Ai servi)
Riporta via la tregua. Dammi il m,stolo,
che attinga e mesca il vino pei Boccali.
S'avanza un tal, che, quasi annunciar debba
avvenimenti grandi, il ciglio aggrotta.
(Giunge correndo un araldo)
Oh stenti! Oh pugne! Oh Lamachi!
(Lamaco esce di casa)
Chi strepita
d'intorno alla magion di bronzo lucida?
Han comandato i generali ch'oggi
i tuoi ciuffi e le schiere in fretta prenda,
e a guardar te ne stia, sotto la neve,
i confini. Perché c'è chi gli ha detto
che nel dì delle Pentole e i Boccali
li varcheranno ladri di Beozia.
Oh generali molti e poco accorti!
Ahimè! Partire senza far le feste!
Oh spedizion bellico-lamaica!
Ah! Tu mi beffi già!
(Gli presenta una locusta arrostita, con le quattro ali aperte)
Vuoi misurarti
con questo Gerione a quattro penne?
Ahimè!
Quale recommi il banditore annunzio!
(Arriva correndo un altro araldo)
Ahi! Che m'annunzierà costui che corre?
Diceopoli!
Che c'è?
Presto, presto,
prendi cesta e boccale, e vieni a pranzo,
ché il prete di Diòniso t'invita.
Su! Per tua colpa gli altri il collo allungano!
Il rimanente è tutto preparato,
letti, cuscini, tavole, tappeti,
corone, mirra, dolci, cortigiane
pan buffetti, focacce, pan di sèsamo,
pasta frolla, stiacciate, danzatrici
belle, il meglio boccone del banchetto.
Ma vedi di sbrigarti!
Oh me tapino!
Lo credo io! Se pigli per insegna
la Gorgone!
(Al servo)
Tu chiudi, e appresta il pranzo.
(Lamaco e Diceopoli si collocano alle due estremità della scena)
Ragazzo, porta qui di fuori il sacco!
Ragazzo, porta qui di fuori il cesto!
Ragazzo, porta sal, timo e cipolle!
Ragazzo, il pesce: ho in uggia le cipolle!
Portami un po' di salamoia rancida!
Portami un po' di lardo per l'arrosto!
Portami qui le due piume dell'elmo!
Portami qui dei tordi e dei palombi!
Bella è la piuma dello struzzo, e candida!
Bella è la carne del palombo, e rosea!
(A Diceopoli)
Smetti, gaglioffo, di beffarmi l'armi!
Smetti, gaglioffo, di sbirciarmi i tordi!
Porta il cimiero dalla trina penna!
Porta il catìn dalla leprina carne!
Ve'! Le tàrmole fer dei ciuffi pasto!
Frattaglie vo' mangiar per antipasto.
(Furibondo)
La vuoi finire o no, di farmi l'eco?
(Calmo)
Ma che vuoi? Se ragiono col mio servo!
(Al servo)
Vuoi scommettere e fare arbitro Lamaco,
se valgon meglio le locuste o i tordi?
Così m'insulti?.36
Sta per le locuste.
Ragazzo, spicca la mia picca e recamela!
Ragazzo, spicca la salsiccia e recamela!
Sfiliamo ora la picca dal suo fodero!
Ragazzo, tieni qui!
(Tirano, con grande sforzo, uno da una parte, uno dall'altra)
Tien qui, ragazzo!
(Estraggono con simulato sforzo un pezzo di carne da uno schidione)
Porta, per tener su lo scudo, il trespolo!
DICEOPOLI
Porta il biscotto, a tener su lo stomaco!
Qua la rotella dal gorgonio dorso!
DICEOPOLI
Qua la focaccia dal cacionio dorso!
É ridicolo o no, questo buffone?
DICEOPOLI
É appetitosa o no, questa focaccia?
(Porgendo lo scudo al servo)
Versa l'olio, ragazzo!
(Guarda nel piatto dello scudo unto)
Nella spera
veggo di codardia tacciato un vecchio.
Tu versa il miele!
(Guarda la focaccia lucida di miele)
Qui si vede un vecchio
che manda il fanfaron Lamaco al diavolo.
A me qui reca la corazza bellica!
La corazza anche a me: quella boccalica!
Con questa piomberò sopra i nemici!
Per questa cascherò sotto la tavola!
Ragazzo, lega i bagagli alla picca!
Ragazzo, metti nella cesta il pranzo!
Io prendo e porto da me stesso il sacco.
Io m'infilo il mantello e vado a pranzo.
Prendi lo scudo, adesso, ed incammìnati!
(S'avviano)
Nevica. - Brrr! É aria di tempesta!
Tu prendi il pranzo! É aria di bagordi!
Al campo andate con alma lieta.
Quant'è diversa la vostra mèta!
Quegli, d'un serto cinto, cioncare;
tu far, tra il gelo, la sentinella;
lui dormicchiare
accanto ad una vaga donzella
che gli avrà cura di quell'affare.
(Durante questo canto del coro i personaggi escono dalla scena)
Antimaco, lo spruzzarugiada - la vo' dire chiara e tonda,
lo scrittor di canzoni canzonabile, tu, Giove, sprofonda!
Poiché, sendo corego nelle Lenèe, mi rimandava a ventre
ahimè!, vuoto. - D'un tòtano vo' che desio lo punga,
e quello, sfrigolando vicino al sale, giunga
sopra la mensa; e mentre
stenda la mano a prenderlo,
una cagna gli dia - di morso e scappi via.
Antistrofe
Ecco il primo malanno; e quest'altro gli càpiti di peggio.
Qualche notte, tornando con un febbrone a casa dal maneggio,
un qualche Oreste, invaso dalle furie del vin, gli pesti il grugno.
Ed ei, volendo un ciòttolo raccattar, gli riesca
di mettere la mano sopra una merda fresca;
e quella roba in pugno
tenendo, si precipiti;
ma sbagli il malandrino - e colpisca... Cratino.
(Arriva correndo un Araldo)
O servi della magion di Lamaco,
l'acqua, scaldate l'acqua nella pentola,
e la tela e il cerotto e la filaccia
preparate, e una fascia pe 'l malleolo.
Su aguzzo palo, d'una fossa al valico,
ei s'è ferito; uscito ègli il mallèolo
fuori di posto, e s'è spezzato il cerebro
precipitando sur un sasso. - Orribile
levò la piuma fanfaronia un cantico,
su le pietre piombando: «O del Sol fulgido,
occhio, veggendo te per l'ultimissima
volta, la luce m'abbandona, ed io non son
più io!» - Detto così, ratto precipita
nell'acquedotto, e sorge, e quei che fuggono
incalza, e i ladron preme con la cuspide.
Ma egli stesso è qui: l'uscio dischiudasi.
(Arriva Lamaco, ferito, sorretto dai compagni)
Ahimè, ahimè!
Duro, atroce martòro!
Da un'inimica cuspide,
ahimè!, trafitto io moro..38
E più duol mi saria
se così mi vedesse Diceopoli
e sghignazzasse alla sciagura mia.
(Entra ubbriaco, barcollante, puntellandosi su due giovani cortigiane)
Evviva, evviva!
Ma che poppine sode! Son cotogne!
Adagio, adagio, aprite quei labbruzzi,
porgetemi le lingue, o tesoretti,
ché per primo al boccale ho visto il fondo!
Oh, dei malanni miei sorte funesta!
Ahi, ahi, tormento delle mie ferite!
Ah! Ah! Buon giorno, o cavaliere Lamaco!
Me sciagurato!
(A una delle cortigiane)
Perché mi baci?
Me disgraziato!
(All'altra cortigiana)
Perché mi mordi?
Oh zuffa il cui ricordo anche mi scotta!
Chi paga scotto, il giorno del Boccali?
Oh Peana, Peana!
Ma non è mica il giorno di Peana!
Tenete, amici, il piede mio, tenetelo!
Deh!, spasimi inumani!
Tenete a mezzo il pinco mio, tenetelo,
amiche, a quattro mani!
Da un macigno colpito, ho la vertigine,
l'aer mi si fa cieco.
Io voglio andare a letto, ho la tentigine,
e ritto il pascipeco.
Alla scuola di Pìttalo, con medica
mano me trasportate!
Portatemi dai giudici! Ove diamine
è il re? L'otre a me date!
Una cuspide atroce l'ossa forate m'ha.
(Mostrando l'otre)
Vedete? Vuoto! Viva, viva, tralleralà!
Tralleralà, sì, vecchio, se questo è tuo diletto.
E vuotata ho d'un sorso la coppa di vin pretto.
Evviva, o valoroso! Prenditi l'otre e va!
Seguite, voi, cantando: viva, tralleralà!
Ti seguiremo, tralleralà,
tutti noi,
l'otre cantando e te, se così vuoi!
(Diceopoli esce, seguito da tutto il popolo.
Anche i coreuti, danzando, abbandonano l'orchestra)