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Testo

Cicerone - Della Divinazione

Libro Secondo

I

1 Mi sono chiesto e ho molto e lungamente riflettuto come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini, per non essere costretto in nessun caso a smettere di agire a vantaggio dello Stato. La soluzione migliore che mi venne in mente fu di render note ad essi le vie per raggiungere le più elevate attività dello spirito. Credo di aver già ottenuto questo scopo con molti miei libri. Nell'opera intitolata Ortensio ho esortato i lettori, quanto più ho potuto, allo studio della filosofia; nei quattro Libri Accademici ho mostrato quale sia, a mio parere, l'indirizzo filosofico meno arrogante e più coerente ed elegante.

2 E poiché la base della filosofia consiste nello stabilire qual è il sommo bene e il sommo male, ho chiarito a fondo questo argomento in un'opera composta di cinque libri, in modo da far comprendere che cosa ciascun filosofo sostenesse e che cosa gli obiettassero i suoi avversari. Nei libri delle Discussioni Tusculane, venuti sùbito dopo, altrettanti di numero, ho esposto ciò che soprattutto è necessario a raggiungere la felicità. Il primo di essi tratta del disprezzo della morte; il secondo del modo di sopportare il dolore fisico; il terzo del mitigare le afflizioni dello spirito; il quarto di tutte le altre perturbazioni dell'anima; il quinto affronta quell'argomento che più di tutti dà splendore alla filosofia, giacché dimostra che la virtù basta a se stessa per ottenere la felicità.

3 Esposti quegli argomenti, ho portato a termine i tre libri Sulla natura degli dèi, nei quali questo problema èdiscusso da ogni punto di vista. E perché l'esposizione fosse completa e del tutto esauriente, ho intrapreso a scrivere questi due libri Sulla divinazione. Se ad essi aggiungerò, come mi riprometto, un'opera Sul fato, tutto questo problema sarà stato trattato in modo da soddisfare anche i più esigenti. A questi libri, inoltre, vanno aggiunti i sei Sulla Repubblica, che scrissi quando reggevo il timone dello Stato: argomento fondamentale e appartenente anch'esso alla filosofia, già trattato amplissimamente da Platone, Aristotele, Teofrasto e da tutta la schiera dei Peripatetici. E che dire della Consolazione? Anche a me essa arreca qualche conforto; agli altri, del pari, credo che gioverà molto. Poco fa ho inserito il, libro Sulla vecchiezza, che ho dedicato al mio Attico; e siccome più che mai la filosofia rende l'uomo buono e forte, il mio Catone è da annoverare fra i libri filosofici.

4 E se Aristotele e con lui Teofrasto, eccellenti sia per acume d'ingegno sia per facondia, aggregarono alla filosofia anche i precetti dell'arte del dire, ne risulta che le mie opere retoriche devono appartenere anch'esse alla schiera dei miei libri filosofici: vi apparterranno, dunque, i tre libri Dell'oratore, per quarto il Bruto, per quinto l'Oratore.

II

A questo punto ero arrivato; al resto del lavoro mi accingevo, con animo alacre, col fermo proposito di non tralasciate alcun argomento filosofico la cui esposizione io non rendessi accessibile in lingua latina, a meno che qualche motivo più importante non si fosse frapposto. Quale servizio maggiore o migliore, in effetti, io potrei rendere alla mia patria, che istruire e formare la gioventù, specialmente in questi tempi di corruzione morale in cui è talmente sprofondata da rendere necessario lo sforzo di tutti per frenarla e ridarle il senso dei dovere?

5 Non m'illudo, beninteso, di poter raggiungere lo scopo, che non si può nemmeno pretendere, di indurre tutti i giovani a questi studi. Potessi indurvene anche pochi! La loro attività potrà pur sempre espandersi largamente entro lo Stato. Del resto, io mi considero remunerato della mia fatica anche da quelli che, già avanti negli anni, trovano conforto nei miei libri. Dal loro desiderio di leggere trae sempre maggior ardore, di giorno in giorno, il mio desiderio di scrivere; e ho saputo che essi sono più numerosi di quanto io pensassi. È anche una cosa magnifica, e un motivo di orgoglio per i romani, il non aver bisogno, per la filosofia, di opere scritte in greco;

6 e questo risultato lo raggiungerò certamente, se riuscirò a portare a termine il mio progetto. A dire il vero, l'impulso a dedicarmi alla divulgazione della filosofia mi venne da un doloroso evento della patria: nella guerra civile non potevo né difendere lo Stato secondo il mio solito, né stare senza far nulla; e nemmeno trovavo qualcosa di meglio da fare, che fosse degno di me. Mi perdoneranno, dunque, i miei concittadini, o meglio mi saranno grati, se io, nel tempo in cui lo Stato era in potere di uno solo, non mi sono tenuto nascosto né mi sono perduto d'animo né mi son lasciato abbattere, né mi sono comportato come se fossi preso da ira verso l'uomo o verso i tempi, né, d'altra parte, ho adulato o ammirato la sorte altrui, in modo da sembrare pentito della sfortuna che mi ero procurato. Proprio questo, infatti, avevo imparato da Platone e dalla filosofia: che vi sono dei mutamenti naturali delle istituzioni politiche, per cui esse sono dominate talvolta da un gruppo di oligarchi, talaltra dalla parte popolare, in certe circostanze da un solo uomo.

7 E poiché quest'ultimo caso era accaduto al nostro Stato, io, reso privo delle mansioni politiche di un tempo, ritornai a questi studi, sia per sollevare il più possibile l'animo dall'angoscia in cui mi trovavo, sia per rendermi utile ai miei concittadini in tutto ciò che potevo. Nei miei libri facevo le mie dichiarazioni di voto, pronunciavo i miei pubblici discorsi, consideravo la filosofia come un sostituto di quella che per me era stata l'amministrazione dello Stato. Ora, poiché si ricomincia a chiedere il mio parere su questioni politiche, è doveroso occuparsi di politica, anzi, ad essa bisogna rivolgere ogni pensiero ed ogni attività, riservando allo studio della filosofia solo il tempo che rimarrà libero dai compiti e dai doveri pubblici. Ma di questo parleremo più a lungo un'altra volta; ora ritorniamo alla discussione che avevamo intrapreso.

III

8 Dopo che mio fratello Quinto ebbe detto sulla divinazione ciò che ho riferito nel libro precedente, e ci parve di aver passeggiato abbastanza, ci mettemmo a sedere nella biblioteca che vi è nel Liceo. E io dissi: "Con impegno, Quinto, e da vero stoico hai difeso la dottrina degli stoici; e, con mio grandissimo piacere, ti sei servito di moltissimi esempi tratti da cose romane: esempi famosi e gloriosi. Io devo dunque rispondere alle cose che hai detto; ma in modo da non affermare nulla dogmaticamente, da porre sempre dei problemi, esponendo per lo più dei dubbi e diffidando di me stesso. Se, infatti, avessi da dire qualcosa di sicuro, anch'io, che nego l'esistenza della divinazione, mi comporterei come un indovino!

9 E in verità mi fa impressione ciò che soprattutto era solito domandare Carneade: a quali oggetti si riferisce la divinazione. A quelli che si percepiscono coi sensi? Ma questi noi li vediamo, li udiamo, li gustiamo, ne sentiamo l'odore, li tocchiamo. C'è dunque in questi oggetti qualcosa che riusciamo a intuire mediante la previsione o l'esaltazione della mente anziché con le sole nostre facoltà naturali? O forse codesto presunto indovino, se fosse cieco come fu Tiresia, potrebbe dire quali cose sono bianche, quali nere? O, se fosse sordo, saprebbe distinguere le varie voci o le tonalità del canto? Dunque la divinazione non è applicabile a nessuna di quelle cose che sono oggetto di sensazione. D'altra parte, non c'è bisogno della divinazione nemmeno in ciò che è còmpito dell'attività intellettuale e pratica. Al capezzale dei malati non siamo soliti chiamare profeti o indovini, ma medici. Né quelli che vogliono imparare a suonare la cetra o il flauto ne apprendono la tecnica degli arùspici, ma dai musicisti.

10 Lo stesso ragionamento vale per le lettere e per tutte le altre materie che sono oggetto d'insegnamento. Credi forse che quelli che hanno fama di essere indovini siano capaci di dire se il sole sia più grande della terra o tanto grande quanto lo vediamo, e se la luna risplenda di luce propria o riflessa dal sole? quale movimento abbiano il sole e la luna? quali le cinque stelle che chiamiamo erranti? Quegli stessi che son ritenuti indovini non presumono di saper dire queste cose, né di pronunciarsi sulla verità o falsità delle nozioni acquisite mediante figure geometriche: queste son cose di pertinenza dei matematici, non dei profeti.

IV

Quanto, poi, alle questioni filosofiche, ce n'è forse qualcuna a cui qualsiasi indovino sia solito dare una risposta, o per cui venga consultato allo scopo di sapere che cosa sia bene, che cosa male, che cosa indifferente? No, sono questioni proprie dei filosofi.

11 E ancora: c'è qualcuno che consulta un arùspice su un dovere da compiere, quanto al modo di comportarsi coi genitori, coi fratelli, con gli amici, di usare il proprio denaro, di gestire una carica pubblica, di esercitare una funzione di comando? Per tali problemi ci si rivolge ai saggi, non agl'indovini. E ancora: tra gli argomenti che sono trattati dai dialettici o dai filosofi della natura - se vi sia un mo ndo solo o più, quali siano i primi principii dell'universo dai quali ogni cosa deriva -, ce n'è qualcuno che possa essere risolto mediante la divinazione? No, la competenza in codeste cose spetta ai filosofi della natura. Come, poi, tu possa confutare il sofisma del "mentitore", che in greco chiamano pseudómenos, o come possa controbattere il sorìte (che, se fosse necessario, si potrebbe chiamare in latino "acervàle"; ma non ce n'è bisogno: come la parola stessa "filosofia" e molte altre tratte dal greco, così "sorìte" è un termine divenuto abbastanza usuale in latino), anche queste cose, dunque, te le insegneranno i dialettici, non gli indovini. E poi? Quando si discute sulla migliore, costituzione politica, su quali leggi e quali usanze siano utili o inutili, si faranno venire dall'Etruria gli arùspici, o la decisione spetterà a personaggi politici di alto grado e a uomini scelti, esperti di scienza dello Stato?

12 Ché se non esiste alcuna capacità divinatoria né riguardo alle cose sensibili, né a quelle di pertinenza delle varie tecniche, né a quelle che sono argomento di discussione filosofica, né a quelle che rientrano nell'ambito della politica, quale sia l'oggetto della divinazione non lo capisco proprio affatto. Una delle due: o la divinazione deve riguardare ogni cosa, o bisogna attribuirle un campo specifico di sua competenza. Ma né la divinazione riguarda ogni cosa (il ragionamento ce lo ha dimostrato), né si riesce a trovare un campo o un argomento di cui possiamo assegnarle la giurisdizione.

V

Sta attento, dunque, se per caso non esista divinazione alcuna. C'è un verso greco assai diffuso che, quanto al significato, dice così: "Chi prevederà bene, lo chiamerò il migliore indovino." Dunque un indovino sarà più bravo di un navigatore nelle previsioni del tempo, o diagnosticherà una malattia con più perspicacia di un medico, o deciderà in anticipo il modo di condurre una guerra meglio di un comandante?

13 Ma ho notato, Quinto, che tu accortamente separi la divinazione sia dalle previsioni che potrebbero dipendere dall'abilità e dall'intelligenza, sia da tutto ciò che si potrebbe percepire mediante la sensazione o qualche tecnica particolare, e la definisci così: la predizione e il presentimento di quelle cose che sono dovute al caso. Ma, innanzi tutto, torni a imbatterti nelle stesse difficoltà: ché la previsione del medico, del navigante, del comandante di eserciti riguarda appunto eventi casuali. Dunque un arùspice o un àugure o un vaticinante o uno che ha fatto un sogno saprà prevedere la guarigione d'un ammalato, o la salvezza di una nave dal naufragio, o di un esercito da un agguato, meglio di un medico, di un navigatore, di un comandante?

14 Eppure tu dicevi che non appartiene alle prerogative del divinatore nemmeno il prevedere, in base a certi indizi, l'imminenza dei venti o delle piogge (e a questo proposito hai recitato, mostrando buona memoria, alcuni brani dei miei Aratea), sebbene anche tali eventi siano casuali: si avverano, difatti, per lo più, non sempre. Qual è, dunque, o in che campo si esplica il presentimento degli eventi casuali, che tu chiami divinazione? Tutto ciò che si può prevedere con la pratica o col ragionamento o con l'esperienza o con l'ipotesi ritieni di doverlo attribuire non agli indovini, ma agli esperti. Non rimane, quindi, alla divinazione nient'altro che la profezia di quegli eventi fortuiti che non possono essere preveduti con alcuna pratica o con alcuna scienza. Per esempio, se qualcuno avesse detto con molti anni di anticipo che Marco Marcello, quegli che fu console per tre volte, sarebbe perito in un naufragio avrebbe senza dubbio compiuto un atto di divinazione: ché non lo avrebbe potuto sapere per mezzo di alcun'altra pratica o scienza. La divinazione è dunque il presentimento di eventi di questo genere, dipendenti solamente dalla sorte.

VI

15 Può dunque esservi una previsione di quegli eventi riguardo ai quali non c'è nessuna ragione per cui debbano accadere? Che altro è, in realtà, la sorte, la fortuna, il caso, l'accadimento, se non il capitare, l'accadere di qualcosa che avrebbe anche potuto capitare e accadere altrimenti? Ma in che modo, dunque, si può presentire e predire quel che avviene alla ventura, per cieco caso e per volubilità della sorte?

16 Il medico prevede l'aggravarsi di una malattia seguendo il filo di un ragionamento; e allo stesso modo il comandante prevede un agguato, il navigatore le tempeste; eppure anch'essi, non di rado, si sbagliano, pur non formandosi alcuna opinione senza una ragione ben precisa; così come il contadino, quando vede un olivo in fiore, ritiene che vedrà anche i frutti, non senza ragione; e tuttavia qualche volta si sbaglia. E se si sbagliano coloro che nulla dicono senza aver fatto qualche ipotesi e qualche ragionamento probabile, che cosa dobbiamo pensare delle profezie di quelli che predicono il futuro in base alle viscere, agli uccelli, ai prodigi, agli oracoli, ai sogni? Non voglio ancora dire quanto sia nullo il valore di questi segni: delle fenditure nel fegato delle vittime, del canto d'un corvo, del volo di un'aquila, del cader di una stella, delle grida degli invasati, delle sorti, dei sogni. Di tutte queste singole cose parlerò a suo tempo; ora discuto il problema in generale.

17 Come si può prevedere che avverrà qualcosa che non ha alcuna causa né alcun sintomo che denoti il motivo per cui avverrà? Le eclissi di sole e di luna vengono predette con anticipo di molti anni da coloro che con calcoli matematici prendono nota del moto degli astri: essi predicono ciò che la necessità delle leggi di natura attuerà. In base al movimento regolarissimo della luna, comprendono in quale momento essa, trovandosi in opposizione al sole, entri nell'ombra della terra, che è un cono di oscurità, sicché è inevitabile che essa scompaia alla nostra vista, e in quale altro momento la luna medesima, passando sotto il sole e frapponendosi tra esso e la terra, oscuri la luce del sole ai nostri occhi, e in quale costellazione ciascuno dei pianeti si troverà in ciascun tempo, e, in ciascun giorno, quale sarà il sorgere e il tramonto di una costellazione. Coloro che prevedono tutti questi fenomeni, tu sai quali ragionamenti compiano.

VII

18 Ma quelli che predicono a qualcuno che scoprirà un tesoro o che avrà un'eredità, quali indizi seguono? In quale legge di natura è insito che ciò avverrà? E se anche questi eventi e gli altri dello stesso genere sono soggetti a una necessità di natura, che cosa c'è, in fin dei conti, che si debba credere che avvenga per caso o per mero giuoco della sorte? Nulla è tanto contrario alla razionalità e alla regolarità quanto il caso, fino al punto che mi sembra che nemmeno la divinità abbia il privilegio di sapere che cosa accadrà per caso e fortuitamente. Se, infatti, la divinità lo sa, il fatto avverrà certamente; ma se avverrà certamente, il caso non esiste. Il caso, invece, esiste; non è dunque possibile alcuna previsione di eventi fortuiti.

19 Se poi neghi l'esistenza del caso, e dici che tutto ciò che avviene e che avverrà è fatalmente determinato ab aeterno, devi mutare la tua definizione della divinazione, che, a quanto dicevi, è il presentimento delle cose fortuite. Se nulla può avvenire, nulla capitare, nulla attuarsi tranne ciò che da tutta l'eternità è stato decretato che avverrà in un dato tempo, a che cosa si riduce il caso? E, tolto di mezzo il caso, quale spazio rimane alla divinazione, che, tu l'hai detto, è il presentimento delle cose fortuite? È vero che dicevi anche che tutte le cose che avvengono o avverranno sono predeterminate dal destino. Certo, la parola stessa "destino" è una parola da vecchierelle, piena di spirito superstizioso; tuttavia tra gli stoici si parla spesso di codesto destino. Di esso discuteremo un'altra volta; ora limitiamoci allo stretto necessario.

VIII

20 Se tutto avviene per decreto del fato, a che mi serve la divinazione? Ciò che l'indovino predice, avverrà senza dubbio; sicché non so nemmeno che valore abbia il fatto che un'aquila distolse il nostro amico Deiòtaro dal proseguite un viaggio; se non fosse tornato indietro, tu dici, avrebbe dovuto dormire in quella stanza che nella notte seguente crollò, ed egli sarebbe morto sotto le macerie. Ma se era destinato che ciò accadesse, non sarebbe sfuggito a quella sciagura; se non era destinato, non vi sarebbe incorso. Quale aiuto, dunque, dà la divinazione, quale avviso utile possono darmi le sorti, le viscere, qualsiasi presagio? Se era destinato che nella prima guerra punica le due flotte romane andassero perdute, l'una per un naufragio, l'altra affondata dai cartaginesi, anche se i polli avessero dato ai consoli Lucio Giunio e Publio Claudio l'auspicio più favorevole di tutti, le flotte sarebbero egualmente andate perdute. Se invece, qualora si fosse obbedito agli auspicii, le flotte non sarebbero andate perdute, non è a causa del fato che andarono perdute. Ma voi volete che tutto avvenga per decreto del fato; e allora la divinazione non vale nulla.

21 E se era destinato che nella seconda guerra punica l'esercito romano fosse distrutto presso il lago Trasimeno, si sarebbe forse potuto evitare ciò, qualora il console Flaminio avesse dato retta a quei segni e a quegli auspicii che gli vietavano di attaccar battaglia? Dunque o l'esercito andò distrutto non per decreto del fato (ché il fato non si può mutare), o, se ciò avvenne per fato (e voi dovete certamente sostenere questa tesi), anche se Flaminio avesse obbedito agli auspicii, la sciagura sarebbe egualmente accaduta. Dov'è, dunque, codesta divinazione degli stoici? Se tutto accade per decreto del fato, essa non può in nessun modo consigliarci di essere più prudenti: ché, in qualsiasi modo avremo agito, accadrà, ciò nonostante, quel che deve accadere. Se invece il corso degli eventi può essere deviato, il. fato si riduce a nulla; e allora si riduce a nulla anche la divinazione, poiché riguarda gli eventi futuri; ma nessun evento futuro accadrà con certezza, se con qualche espiazione si può fare in modo che non accada.

IX

22 D'altronde, io credo che la conoscenza del futuro non ci sia nemmeno utile. Che vita sarebbe stata quella di Priamo, se fin da giovane avesse saputo che cosa gli sarebbe toccato da vecchio? Lasciamo da parte le leggende, vediamo fatti più vicini a noi. Nella Consolazione ho raccolto i più gravi casi di morte dei personaggi più famosi della nostra patria. Ebbene, omettiamo i più antichi. Ma credi che a Marco Crasso sarebbe stato utile, quando era al colmo della ricchezza e della fortuna, sapere che, dopo aver assistito all'uccisione di suo figlio Publio e alla distruzione del suo esercito, avrebbe dovuto egli stesso morire, al di là dell'Eufrate, con ignominia e disonore? O ritieni che Gneo Pompeo si sarebbe allietato dei suoi tre consolati, dei tre trionfi, della gloria acquistatasi con le più grandi imprese, se avesse saputo che, abbandonato da tutti in terra egiziana, sarebbe stato trucidato dopo la disfatta del suo esercito, e che dopo la sua morte sarebbero accadute cose che non riesco a rammentare senza piangere?

23 E Cesare? Se mediante la divinazione avesse saputo che in quel senato che per la maggior parte aveva riempito di suoi fedeli da lui nominati, nella curia di Pompeo, proprio dinanzi alla statua di Pompeo, sotto gli occhi dei suoi centurioni, sarebbe stato trucidato da eminentissimi cittadini, alcuni dei quali egli stesso aveva colmato di onori d'ogni sorta, e sarebbe rimasto lì al suolo, senza che al suo corpo non si avvicinasse non solo nessuno dei suoi amici, ma nemmeno dei suoi schiavi, - con quale angoscia avrebbe trascorso tutta la vita? Dunque il non sapere i mali futuri è certamente più utile che il saperli.

24 Ché in nessun modo si può dire, e meno che mai lo possono gli stoici: "Pompeo non avrebbe preso le armi, Crasso non avrebbe attraversato l'Eufrate, Cesare non avrebbe scatenato la guerra civile." Ciò vorrebbe dire che le loro morti non erano fissate dal fato. Ma voi sostenete che tutto accade secondo il fato: a niente, dunque, sarebbe servita ad essi la divinazione, e per di più avrebbero perduto ogni gioia nella loro vita anteriore alle disgrazie; che cosa, infatti, avrebbe potuto essere motivo di letizia per essi, al pensiero di come sarebbero morti? Sicché, da qualunque parte si rivolgano gli stoici, è inevitabile che tutta la loro abilità giaccia sconfitta. Se ciò che avverrà potrà avvenire in modi diversi, al caso bisogna riconoscere la supremazia; ma ciò che è casuale non può esser saputo in anticipo. Se invece è già stabilito ciò che avverrà riguardo a ogni cosa in ogni tempo, che sorta d'aiuto possono darmi gli arùspici, <i quali>, dopo aver detto che mi incombono eventi funestissimi,

X

25 aggiungono, alla fine, che tutto potrà andar meglio se si compiranno riti di espiazione? Se nulla può accadere contro i decreti del fato, nulla può essere alleviato con cerimonie religiose. Lo ha inteso bene Omero, là dove ci mostra Giove che si lamenta di non poter strappare alla morte suo figlio Sarpedonte contro i decreti del fato. Uguale è il significato di quel verso greco che, quanto al significato, dice: "Ciò che è decretato dal destino è più forte di Giove, il dio sommo." Il destino in generale mi sembra che sia giustamente deriso anche da un verso di un'Atellana; ma in faccende così serie non è il caso di scherzare. Concludiamo dunque la nostra argomentazione: se nessuno degli eventi che accadono per caso può essere previsto, poiché non possono avvenire sicuramente, non esiste alcuna divinazione; se invece gli eventi si possono prevedere, perché sono certi e predestinati, ancora una volta non esiste alcuna divinazione: l'hai detto tu, che la divinazione riguarda gli eventi casuali.

26 Ma questa io la considero come la prima sortita del mio ragionamento, come quella delle truppe armate alla leggera; ora veniamo ai ferri corti e proviamo se ci riesce di attaccare alle ali la tua argomentazione.

XI

Dicevi che vi sono due tipi di divinazione, l'uno artificiale, l'altro naturale; che il tipo artificiale consiste in parte nell'interpretazione, in parte nell'osservazione assidua; che il tipo naturale è quello che l'anima afferra o riceve dal di fuori, dalla divinità, dalla quale tutte le nostre anime attingono, ricevono, libano una parte. I generi di divinazione artificiale li consideravi press'a poco questi: le predizioni degli scrutatori di viscere e di quelli che interpretano il futuro dai fulmini e dai prodigi, inoltre quelle degli àuguri e di chi spiega segni e òmina, e insomma collocavi a un dipresso in questa categoria tutte le profezie fatte mediante interpretazione

27 Il genere naturale, invece, opinavi che fosse prodotto e, per così dire, prorompesse o dall'esaltazione della mente o dall'anima svincolata dai sensi e dalle preoccupazioni durante il sonno. Hai poi fatto derivare la divinazione in generale da tre principii: dalla divinità, dal fato, dalla natura. Ma, non riuscendo a spiegare nulla di tutto ciò, ti sei difeso adducendo una mirabile quantità di esempi immaginarii. Quanto a questo modo di procedere, voglio anzitutto dirti che non ritengo degno di un filosofo avvalersi di testimonianze che possono essere o vere per puro caso, o false e inventate in mala fede. Con argomentazioni e con ragionamenti bisogna dimostrare per qual motivo ciascuna cosa è quello che è: non in base a meri eventi, e soprattutto a eventi ai quali mi è lecito non prestar fede.

XII

28 Incominciamo dall'aruspicìna, che io ritengo si debba osservare per il bene dello Stato e della religione professata da tutti - ma qui siamo soli, e possiamo ricercare la verità senza procurarci l'odio di alcuno, io specialmente che dubito riguardo alla maggior parte delle cose -. Esaminiamo, se sei d'accordo, innanzi tutto le viscere. È dunque possibile convincere qualcuno che quei presagi, che, dicono, sono indicati dalle viscere, siano stati appresi dagli arùspici con assidua osservazione? Quanto assidua è stata codesta osservazione? Per quanto tempo la si è potuta fare? O in che modo le singole osservazioni furono confrontate tra l'uno e l'altro arùspice, per stabilire quale parte delle viscere fosse nemica, quale "familiare", quale fenditura denotasse un pericolo, quale un beneficio? Forse gli arùspici etruschi, quelli di Elide, gli egizi, i cartaginesi confrontarono tra loro queste osservazioni? Ma una cosa simile, a parte il fatto che non è potuta accadere, non si può nemmeno immaginare. Vediamo, infatti, che gli uni interpretano gli indizi delle viscere in un modo, gli altri in un altro: non esiste una dottrina comune a tutti.

29 E certamente, se nelle viscere c'è qualche potere che sia in grado di rivelarci il futuro, questo potere dev'essere necessariamente collegato con la natura, o determinato in qualche modo dalla volontà degli dèi e da una forza divina . Ma con la natura, così immensa e splendida, che pervade tutto l'universo e ne regola tutti i movimenti, che cosa può avere in comune non dico il fiele di un pollo (eppure non manca chi dice che i fegati dei polli forniscono i presagi più ingegnosi!), - ma il fegato o il cuore o il polmone di un toro ben pasciuto che cos'ha di congiunto con la natura, sì da poter indicare il futuro?'

XIII

30 Democrito, tuttavia, molto spiritosamente vuol prenderci in giro, da filosofo della natura quale è; nulla di più arrogante di questa gente: "Nessuno bada a ciò che ha davanti ai piedi; scrutano le plaghe del cielo!" E intanto, anche Democrito ritiene che l'aspetto e il colore delle viscere ci indichino almeno la qualità di un pascolo e l'abbondanza o la scarsità di un raccolto; crede anche che le viscere denotino la salubrità dell'aria o il sopraggiungere di una pestilenza. Fortunato mortale, a cui, ne sono sicuro, non mancò mai la voglia di scherzare! È mai possibile che un tale uomo si sia divertito a spacciare sciocchezze così grosse, fino al punto da non vedere che quella asserzione sarebbe stata verosimile soltanto se le viscere di tutti gli animali avessero assunto contemporaneamente lo stesso aspetto e lo stesso colore? Ma se nello stesso momento il fegato di un animale è nitido e tondeggiante, quello di un altro è grinzoso e minuscolo, che cosa si può prevedere in base all'aspetto e al colore delle viscere?

31 O forse questo modo di divinazione è analogo a quello di Ferecide da te ricordato, il quale, avendo osservato un po' d'acqua attinta da un pozzo, disse che vi sarebbe stato un terremoto? È ancora troppo poco sfacciato, credo, il comportamento di quelli che, a terremoto già avvenuto, osano dire quale forza naturale lo abbia provocato; costoro prevedono addirittura un terremoto futuro, in base al colore di una sorgente d'acqua perenne? Molte cose di questo genere si insegnano nelle scuole, ma ti consiglierei di riflettere se sia il caso di credere a tutte.

32 Ma ammettiamo pure che quelle asserzioni di Democrito siano vere: quando mai noi investighiamo quelle cose mediante le viscere? o quando abbiamo sentito dire che un presagio di quel genere sia stato annunciato da un arùspice dopo aver osservato le viscere? Essi ammoniscono su pericoli derivanti dall'acqua o dal fuoco; predicono talvolta delle eredità, talaltra dei dissesti finanziari; esaminano le fenditure "familiari" e "vitali" delle viscere; osservano da ogni parte con la massima attenzione la "testa" del fegato; se, poi, notano che essa è mancante, ritengono che nulla possa accadere di più nefasto.

XIV

33 Tutte queste cose non hanno potuto essere osservate con costanza, come ho dimostrato sopra. Sono dunque ritrovati della tecnica, non dell'antichità, se pure esiste una tecnica riguardante cose sconosciute. Con la natura, poi, quale legame hanno? Anche ammettendo che la natura sia tutta unita da un comune consenso e formi un tutto continuo (so che questa concezione è gradita ai filosofi della natura, e specialmente a quelli che hanno sostenuto l'unità di tutto l'essere), che connessione può esserci tra il mondo e il ritrovamento di un tesoro? Se l'esame delle viscere mi fa sperare un aumento del mio patrimonio e ciò avviene per effetto della natura, in primo luogo quelle viscere sono connesse con tutto l'universo, in secondo luogo il mio guadagno è incluso nella natura. Questi filosofi della natura non si vergognano di dire cose simili? Anche se nella natura vi è una connessione di tutte le parti, cosa che io sono disposto a riconoscere (gli stoici, in effetti, hanno raccolto molti esempi a favore di questa tesi: dicono che i fegatini dei topolini aumentano di volume nell'inverno; che il puleggio arido fiorisce proprio nel giorno del solstizio d'inverno e che le vescichette si gonfiano e si rompono, e che i semi delle mele, racchiusi nell'interno dei frutti, si rivolgono verso direzioni opposte gli uni agli altri; che, inoltre, se si pizzicano alcune corde della cetra, altre risuonano anch'esse; che alle ostriche e a tutti i molluschi accade di ingrossarsi e di diminuire di volume contemporaneamente al crescere e al calare della luna; che si ritiene adatta per il taglio degli alberi la stagione invernale, nel periodo in cui la luna è calante, perché il loro legno è allora ben secco;

34 e che dire ancora degli stretti marini e delle maree, il cui flusso e riflusso è determinato dai moti della luna? Si possono citare innumerevoli esempi da cui risulta l'affinità naturale di cose distanti tra loro) - concediamo, dunque, tutto ciò, ché non ne risulta ostacolata la mia discussione; ma si può forse anche sostenere che, se una fenditura d'un certo tipo si nota in un fegato, ciò è presagio di un guadagno? In base a quale connessione naturale, a quale armonia e, per così dire, a quale consenso (che i greci chiamano sympátheia) vi può essere una relazione fra una fenditura d'un fegato e un mio guadagnuccio, fra un mio meschino lucro e il cielo, la terra, la natura tutta quanta?

XV

E, se vuoi, ammettiamo anche questo, sebbene la mia causa risulterà assai indebolita quando avrò concesso l'esistenza di una qualsiasi connessione della natura con le viscere degli animali.

35 Ma anche dopo averla ammessa, come mai, domando, càpita che un tale, volendo ottenere un auspicio favorevole, sacrifichi un animale adatto al suo scopo? Questa era la difficoltà che io credevo insuperabile. E invece, con quale allegra disinvoltura viene superata! Mi vergogno non per te (anzi ammiro la tua capacità di ricordare tutte queste dottrine), ma per Crisippo, Antìpatro, Posidonio, i quali dicono precisamente quel che hai detto tu: una forza cosciente e divina, diffusa per tutto l'universo, ci guida nella scelta della vittima! Ma ancor più bella è l'idea che tu hai esposto e che viene enunciata da quei filosofi: quando uno sta per eseguire il sacrificio, proprio allora avviene un mutamento delle viscere, di modo che qualche parte di esse scompare o si aggiunge: ché tutto obbedisce al volere degli dèi.

36 Queste, crédimi, son cose a cui non prestan fede più nemmeno le vecchierelle. Pensi davvero che il medesimo vitello, se lo sceglierà un tale, lo troverà privo della "testa" del fegato; se lo sceglierà un altro, lo troverà col fegato tutto intero? Questa scomparsa o questa aggiunta della testa del fegato può avvenire repentinamente, in modo che le viscere si prestino ad assecondare la buona sorte del sacrificatore? Non vi accorgete che nella scelta delle vittime entra in giuoco un fattore casuale, tanto più che i fatti stessi lo dimostrano? Difatti, quando si sono trovate delle viscere estremamente malauguranti, senza la testa del fegato (niente di più infausto, dicono), la vittima che viene sacrificata subito dopo presenta indizi ottimi. E allora, dove sono andati a finire i presagi minacciosi delle viscere precedenti? O come mai, all'improvviso, gli dèi si sono così interamente placati?

XVI

Ma tu dici che tra le viscere di un toro ben pasciuto, quando Cesare lo immolò, non si rinvenne il cuore; e siccome sarebbe stato impossibile che, prima del sacrificio, quell'animale fosse vissuto privo del cuore, bisogna, a tuo avviso, ritenere che il cuore scomparve nel momento stesso in cui il toro veniva sacrifìcato.

37 Come mai tu capisci una delle due cose, cioè che un bovino non avrebbe potuto vivere senza avere il cuore, ma non comprendi l'altra, che il cuore non avrebbe potuto tutt'a un tratto volar via non so dove? Io potrei o non sapere qual è la funzione vitale del cuore, o supporre che il cuore del bove, rimpiccolito da qualche malattia, fosse esile, minuscolo, flaccido, non più simile a un cuore normale; ma tu che motivi hai di credere che, se poco prima il cuore c'era nel corpo di un toro ben pasciuto, all'improvviso sia venuto meno, proprio mentre immolavano la bestia? Forse, avendo visto Cesare che, uscito di senno, aveva indossato una veste purpurea, il toro rimase anch'esso privo di cuore? Credi a me, voi abbandonate al nemico la capitale della filosofia, mentre perdete il tempo a difendere qualche piccolo fortilizio: ostinandovi a sostenere la verità dell'aruspicina, sovvertite tutta la fisiologia. Nel fegato c'è la "testa", tra le viscere c'è il cuore: ecco, scomparirà all'improvviso, appena avrai cosparso la vittima di farro e di vino; un dio lo sottrarrà, una forza misteriosa lo consumerà o lo divorerà. Non sarà dunque la natura quella che regolerà la morte e la nascita di tutti gli esseri, ma ci sarà qualcosa che o sorgerà dal nulla o cadrà improvvisamente nel nulla. Quale filosofo della natura ha mai detto questo? Lo dicono gli arùspici: a costoro, dunque, credi che si debba prestar fede più che ai filosofi della natura?

XVII

38 E ancora: quando si fa un sacrificio in onore di più dèi, come mai può accadere che per alcuni il sacrificio riesca propizio, per altri no? E cos'è questa volubilità degli dèi, tale da minacciarci con le viscere del primo sacrificio, da farci sperar bene con quelle del secondo? O c'è fra loro tanta discordia, spesso anche tra divinità imparentate, sì che le viscere delle bestie immolate ad Apollo risultano gradite, quelle a Diana sgradite? Che cosa può essere così evidente come il fatto che, essendo scelte a caso le vittime condotte al sacrifizio, le viscere saranno per ciascun sacrificante tali quale sarà la vittima che gli capiterà? "Ma," tu risponderai, "il fatto stesso che a ciascuno tocchi una determinata vittima ha in sé qualcosa di profetico, come, a proposito delle sorti, il fatto che a ciascuno ne càpiti una determinata." Delle sorti parleremo in seguito, anche se, in verità, tu non rafforzi la causa dei sacrifici con l'analogia delle sorti, ma svaluti le sorti paragonandole ai sacrifici.

39 O forse, se ho mandato a prendere all'Equimelio un agnello da immolare, mi vien portato proprio quell'agnello che ha le viscere adatte al mio proposito, e lo schiavo che ho mandato è attratto verso quell'agnello non dal caso, ma da una divinità che lo guida? Ché se tu mi dici che anche in questa circostanza il caso è una specie di sorte collegata con la volontà degli dèi, mi dispiace che i nostri stoici abbiano offerto agli epicurei una così ampia possibilità di prenderli in giro; sai certamente quanto gli epicurei deridano codeste teorie.

40 E certo essi possono farlo con più facilità degli altri: giacché Epicuro si è divertito a immaginare gli dèi trasparenti e attraversabili dai soffi d'aria e abitanti tra due mondi, come "tra i due boschi", per paura che uno dei mondi crolli loro addosso; e dice che hanno le stesse nostre membra, ma senza alcuna occasione di usarle. Egli perciò, togliendo di mezzo gli dèi con una sorta di raggiro, coerentemente non esita a toglier di mezzo anche la divinazione; ma se egli è d'accordo con se stesso, non lo sono altrettanto gli stoici. La divinità di Epicuro, non avendo niente da fare né per se stessa né per gli altri, non può concedere agli uomini la divinazione. La vostra divinità, invece, può non concederla, senza per questo rinunciare a governare il mondo e a prendersi cura degli uomini.

41 Perché, dunque, vi intricate in quei cavilli, che non sarete mai capaci di risolvere? Quando vogliono sbrigarsela più in fretta, gli stoici argomentano così: "se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi esistono; dunque esiste la divinazione". Senonché riesce molto più convincente il dire: "ma non esiste la divinazione; dunque non esistono gli dèi". Guarda con quale avventatezza si espongono al pericolo che, se la divinazione si riduce a nulla, si riducano a nulla anche gli dèi. Ché la divinazione si elimina con tutta facilità, mentre l'esistenza degli dèi dev'essere tenuta ferma.

XVIII

42 E quando si sia eliminata questa divinazione degli scrutatori di viscere, è eliminata tutta l'aruspicìna. Vengono poi i prodigi e i fulmini o i lampi. Quanto a questi si fa valere l'osservazione assidua, quanto ai prodigi si usa per lo più la previsione basata sul ragionamento. Che osservazioni, dunque, si sono fatte riguardo ai fulmini e ai lampi? Gli etruschi divisero il cielo in sedici parti. Fu cosa facile raddoppiare le quattro parti a cui noi ci atteniamo, poi eseguire un ulteriore raddoppiamento, in modo da poter dire, sulla base di questa ripartizione, da quale parte venisse il fulmine. Ma, in primo luogo, che cosa importa ciò? e in secondo luogo, che cosa significa? Non è evidente che in seguito alla meraviglia degli uomini primitivi, poiché temevano i tuoni e il precipitare dei fulmini, sorse in loro la credenza che ne fosse autore Giove, assoluto dominatore di tutto l'universo? Perciò nei nostri libri si trova scritto: "Quando Giove tuona e fulmina, è contrario alle leggi divine tenere i comizi."

43 Forse ciò fu stabilito nell'interesse dello Stato, poiché i nostri antenati vollero avere dei pretesti per non tenere i comizi. Quindi solo per i comizi il fulmine è un segno sfavorevole: per tutto il resto lo consideriamo un ottimo auspicio, se è caduto a sinistra. Ma degli auspicii parleremo in seguito; ora proseguiamo sui fulmini e sui lampi.

XIX

Che cosa, dunque, gli studiosi della natura hanno il dovere di astenersi soprattutto dal dire, se non questa, che fenomeni certi siano preannunciati da segni incerti? Non credo, infatti, che tu sia capace di credere che i Ciclopi foggiarono il fulmine per Giove nei recessi dell'Etna:

44 sarebbe davvero strano che Giove lo scagliasse tante volte, avendone a disposizione uno solo; né egli potrebbe, mediante i fulmini, ammonire gli uomini su ciò che devono fare o non fare. Gli stoici affermano che quelle esalazioni della terra che sono fredde, quando incominciano a fluire, costituiscono i venti; quando poi penetrano in una nube e incominciano a scindere e a squarciare le sue parti meno dense, e fanno ciò con particolare frequenza e violenza, allora ecco che sorgono i lampi e i tuoni; se, poi, un fuoco prodotto dal cozzo delle nubi si sprigiona, ecco il fulmine. Dunque da ciò che vediamo prodursi per forza di natura, senza alcuna regolarità, in nessun tempo determinato, ricaveremo un presagio di necessari avvenimenti futuri? Sta a vedere che, se Giove volesse dare simili preannunci, scaglierebbe inutilmente tanti fulmini!

45 Che cosa ottiene quando scaglia un fulmine in alto mare? O su monti altissimi, ciò che avviene molto spesso? O in sterminati deserti? O nelle terre abitate da quei popoli che non osservano nemmeno questi presagi?

XX

"Ma la testa di quella statua fu rinvenuta nel Tevere." Come se io negassi che codesti osservatori di fulmini abbiano una qualche perizia! È la divinazione che io nego. La ripartizione in zone del cielo, a cui ho accennato sopra, e l'esame di determinati fatti permettono di capire donde un fulmine sia provenuto, dove sia andato a finire; quale significato profetico abbia, però, nessuna dottrina sa spiegarcelo. Ma tu mi vuoi mettere alle strette coi miei versi: "Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio." Allora la statua di Natta, allora le immagini degli dèi e Romolo e Remo con la belva che li allattò precipitarono colpiti dall'impeto del fulmine, e riguardo a questi fatti furono pronunciati dagli arùspici responsi esattissimi.

46 Un fatto straordinario fu anche quello, che proprio quando avvenne la denuncia della congiura in senato, la statua di Giove fu collocata in Campidoglio, due anni dopo che era stata commissionata. "Tu dunque avrai il coraggio" così dicevi in polemica con me "di difendere codesta tua causa contro quello che hai fatto e che hai scritto?" Sei mio fratello; per questo ti devo rispettare. Ma in questo caso che cosa, insomma, ti ferisce? La realtà delle cose, che è quella che ho detto, o io, che voglio che la verità sia dimostrata? Io, a ogni modo, non dico niente contro di te: chiedo conto a te di tutta l'aruspicina. Ma tu ti sei rifugiato in un magnifico nascondiglio: siccome capivi che saresti stato incalzato da presso quando io ti avessi chiesto le cause di ciascun tipo di divinazione, hai detto e ridetto che, poiché vedevi i fatti, non ti curavi di indagare la causa e il procedimento razionale; che l'importante era l'accaduto, non il perché dell'accaduto; come se io ammettessi che queste cose accadono, o come se fosse degno d'un filosofo non ricercare la causa per cui ogni singolo fenomeno avviene!

47 E a questo proposito hai recitato dei passi dei miei Prognostici e hai menzionato certe specie di erbe, la scammonia e la radice dell'aristolochia, delle quali constatavi l'effetto e il potere medicinale, pur ignorandone la causa.

XXI

Ma la differenza è totale. Le cause dei pronostici le hanno indagate lo stoico Boeto, da te rammentato, e anche il nostro Posidonio; e anche se le cause di questi fatti non si fossero rintracciate, i fatti in quanto tali si sono potuti osservare e registrare. Ma gli episodi della statua di Natta o delle tavole delle Leggi colpite dal fulmine che cos'hanno che sia stato osservato più volte e da gran tempo? "I Pinarii Natta sono nobili: dalla nobiltà, dunque, veniva il pericolo." Davvero ingegnoso questo presagio escogitato da Giove! "Romolo ancora lattante fu colpito dal fulmine: questo è dunque un presagio del pericolo che correva quella città che da lui fu fondata." Con quanta abilità Giove ci avverte mediante simili indizi! "Ma la statua di Giove veniva collocata nello stesso tempo in cui veniva denunciata la congiura." E tu, s'intende, preferisci credere che ciò sia accaduto per volontà degli dèi anziché per caso; e l'appaltatore che aveva ricevuto da Cotta e da Torquato l'incarico di erigere quella colonna, non fu più lento del previsto per pigrizia o per mancanza di denaro, ma fu fatto indugiare dagli dèi immortali fino a quel preciso momento!

48 Non mi manca del tutto la speranza che cose di questo genere siano vere; ma non ne so nulla e voglio una dimostrazione da te. Siccome mi sembrava che per puro caso alcuni fatti fossero avvenuti così com'erano stati predetti dagl'indovini, tu hai parlato a lungo del caso, e hai detto, per esempio, che si può ottenere il "colpo di Venere" lanciando a caso quattro dadi, ma, su quattrocento lanci, non può capitare cento volte quel colpo. Innanzi tutto non saprei perché ciò sia impossibile, ma su questo non mi soffermo a discutere, poiché hai una collezione di esempi simili. Puoi citare i colori schizzati a caso, il grifo della scrofa, tante altre cose. Dici che Carneade ricorre anch'egli al caso quanto alla testa del piccolo Pan: come se ciò non sia potuto davvero accadere per caso, e sia necessario che in ogni blocco di marmo non siano ascose perfino teste degne di un Prassitele! Quelle sculture, difatti, si eseguono anch'esse per detrazione di pezzi di marmo, e nemmeno un Prassitele vi aggiunge alcunché; ma quando molto materiale è stato eliminato dallo scalpello e si è arrivati ai lineamenti di un volto, allora si può capire che quella statua, ormai perfettamente levigata, si trovava dentro il blocco.

49 Dunque qualcosa del genere può essere avvenuto anche spontaneamente nelle cave di pietra di Chio. Ma ammettiamo pure che questo sia un esempio inventato: non hai mai visto nubi che avevano assunto le forme di leoni o di Ippocentauri? Dunque può accadere ciò che poco fa negavi: che il caso imiti la realtà.

XXII

Ma poiché abbiamo discusso a sufficienza quanto alle viscere e ai lampi, per portare a termine la trattazione di tutta l'aruspicìna rimangono i prodigi. Hai rammentato il parto di una mula. È un fatto straordinario, perché non accade spesso; ma se non fosse potuto accadere, non sarebbe accaduto. E questo argomento valga contro tutti i prodigi: ciò che non sarebbe potuto accadere non è mai accaduto; se invece è potuto accadere, non c'è motivo di stupirsi. L'ignoranza delle cause produce meraviglia dinanzi a un fatto nuovo; se la medesima ignoranza riguarda fatti consueti, non ci meravigliamo. Colui che si meraviglia che una mula abbia partorito, ignora egualmente in che modo partorisca una cavalla e, in generale, quale processo naturale produca il parto di qualsiasi essere vivente. Ma siccome vede che questi fatti avvengono di frequente, non si meraviglia, pur non sapendone il perché; se invece avviene una cosa che egli non ha ancora visto, ritiene che sia un prodigio. Il prodigio si è dunque verificato quando la mula ha concepito, o quando ha partorito?

50 Il concepimento potrebb'essere contro natura, forse; ma il parto è pressoché necessario.

XXIII

Ma a che scopo dilungarci? Vediamo l'origine dell'aruspicìna; così giudicheremo nel modo più facile quale autorità essa abbia. Si dice che un contadino, mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su all'improvviso, un certo Tagete e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma il senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione il contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà. Allora Tagete parlò a lungo dinanzi alla folla degli ascoltatori, i quali stettero a sentire con attenzione tutte le sue parole e le misero poi per iscritto. L'intero suo discorso fu quello in cui era contenuta la scienza dell'aruspicìna; essa poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a quegli stessi principi. Ciò abbiamo appreso dagli etruschi stessi, quegli scritti essi conservano, quelli considerano come la fonte della loro dottrina.

51 C'è dunque bisogno di Carneade per confutare cose del genere? O c'è bisogno di Epicuro? Può esserci qualcuno tanto insensato da credere che un essere vivente, non saprei dire se dio o uomo, sia stato tratto di sotterra da un aratro? Se devo considerarlo un dio, perché, contro la natura degli dèi, si era nascosto sotterra, sì da veder la luce solo quando fu messo allo scoperto da un aratro? Non poteva, essendo un dio, esporre agli uomini la sua dottrina dall'alto? Se, d'altra parte, quel Tagete era un uomo, come poté vivere soffocato dalla terra? Da chi, inoltre, poté aver appreso egli stesso ciò che andava insegnando agli altri? Ma sono io più sciocco di quelli che credono a queste cose, io che perdo tanto tempo a discutere contro di loro!

XXIV

È molto spiritoso quel vecchio motto di Catone, il quale diceva di meravigliarsi che un arùspice non si mettesse a ridere quando vedeva un altro arùspice.

52 Quante delle cose predette da costoro si sono verificate? E se qualche evento si è verificato, quali prove si possono addurre contro l'eventualità che ciò sia accaduto per caso? Il re Prusia, quando Annibale, esule presso di lui, lo esortava a far guerra a oltranza, diceva di non volersi arrischiare, perché l'esame delle viscere lo dissuadeva. "Dici sul serio?" esclamò Annibale; "preferisci dar retta a un pezzetto di carne di vitella che a un vecchio condottiero?" E Cesare stesso, dissuaso dal sommo arùspice dall'imbarcarsi per l'Africa prima del solstizio d'inverno, non s'imbarcò egualmente? Se non l'avesse fatto, tutte le truppe dei suoi avversari avrebbero avuto il tempo di concentrarsi in un solo luogo. Devo mettermi a fare l'elenco (e potrei fare un elenco davvero interminabile) dei responsi degli aruspici che non hanno avuto alcun effetto o lo hanno avuto contrario alle previsioni?

53 In quest'ultima guerra civile, quante predizioni, per gli dèi immortali!, ci delusero! Quali responsi di arùspici ci furono trasmessi da Roma in Grecia! Quali cose furono predette a Pompeo! E in verità egli credeva moltissimo alle viscere e ai prodigi. Non ho voglia di rammentare queste cose, e non ce n'è bisogno, meno che mai a te, che eri presente; vedi bene, tuttavia, che quasi tutto è accaduto al contrario di quel che ci era stato predetto. Ma di ciò non parliamo più; ritorniamo ai prodigi.

XXV

54 Molti versi hai recitato, scritti da me, riguardanti l'anno del mio consolato; molte cose avvenute prima della guerra màrsica, riferite da Sisenna, hai rammentato; molte altre, narrate da Callistene, hai citato, che sarebbero accadute prima della sconfitta subìta dagli spartani a Leuttra. Di questi singoli fatti dirò qualcosa in seguito, entro i limiti che mi sembreranno opportuni; ma bisogna discutere anche la questione nel suo insieme. Che cos'è codesta indicazione e, direi, codesta minaccia di sventure, inviata dagli dèi? E che cosa vogliono gli dèi immortali, innanzi tutto col mandarci dei segni che non possiamo capire senza interpreti, in secondo luogo col predirci sventure che non possiamo evitare? Ma questo non lo fanno neppure gli uomini onesti, di preannunciare agli amici sciagure incombenti alle quali essi non possono sfuggire in alcun modo; per esempio i medici, pur rendendosene conto spesso, tuttavia non dicono mai agli ammalati che la loro malattia li condurrà certamente a morte: ché ogni predizione di un pericolo grave è da approvarsi soltanto quando alla predizione si aggiunge l'indicazione dei mezzi per poter guarire.

55 Che giovamento arrecarono i prodigi e i loro interpreti agli spartani in quei tempi remoti, ai nostri poco tempo addietro? Se dobbiamo ritenerli segnali divini, perché erano così oscuri? Se erano mandati dagli dèi perché comprendessimo che cosa sarebbe successo, bisognava che le predizioni fossero chiare; oppure, se gli dèi non volevano che noi sapessimo, non dovevano mandarci nessun segno, nemmeno occulto.

XXVI

E in effetti ogni interpretazione, sulla quale la divinazione si basa, spesso dalle diverse mentalità degli uomini è trascinata in direzioni diverse o addirittura opposte. Come nei processi una è l'interpretazione dell'accusatore, un'altra quella del difensore, e nondimeno entrambe sono plausibili, così in tutti gli argomenti che sembra si debbano investigare mediante interpretazioni congetturali si nota la possibilità di discorsi dal significato ambiguo. D'altra parte, di fronte a eventi prodotti talvolta dalla natura, talaltra dal caso (e spesso anche la somiglianza tra effetti della natura e del caso è fonte di errore), rivela una grande stoltezza chi li attribuisce all'azione degli dèi, senza ricercarne le cause.

56 Tu credi che a Lebadia gl'indovini della Beozia abbiano compreso, in base al canto dei galli, che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli son soliti tacere quando sono vinti, cantare quando sono vincitori. Dunque a una città di quella fatta Giove avrebbe dato il segnale della vittoria servendosi di miserabili galline? O forse quegli uccelli non sogliono cantare se non in caso di vittoria? "Ma in quel caso cantavano, eppure non avevano ancora vinto: in questo," tu dirai, "consiste il prodigio." Gran prodigio davvero, come se avessero cantato non i galli, ma i pesci! E qual tempo c'è in cui i galli non cantino, sia di notte sia di giorno? Se, quando sono vincitori, si sentono spinti a cantare per una sorta di gioiosa eccitazione, avrebbe potuto accadere lo stesso anche per un altro motivo di allegrezza, che li incitasse al canto.

57 Democrito spiega con parole molto appropriate la ragione per cui i galli cantano prima dello spuntare dell'alba: una volta che il cibo sia stato smaltito dallo stomaco e distribuito per tutto il corpo e assimilato, essi cantano dopo aver raggiunto un riposo ristoratore. Nel silenzio della notte, come dice Ennio, "cantano di gioia con le rosse gole e starnazzano battendo le ali". Poiché, dunque, questa specie di animali è tanto canora per istinto, come è venuto in mente a Callistene di dire che gli dèi hanno fatto cantare i galli come segno profetico, dal momento che la natura o il caso avrebbero potuto ottenere quello stesso effetto?

XXVII

58 Fu riferito al senato che era piovuto sangue, che anche le acque del fiume Atrato si erano tinte di sangue, che le statue degli dèi avevano sudato. Ritieni che Talete o Anassagora o qualsiasi altro filosofo della natura avrebbe prestato fede a simili notizie? Non c'è né sangue né sudore che non fuoriesca da un corpo vivente. Ma un mutamento di colore, provocato da qualche commistione con terra, può render l'acqua estremamente simile a sangue; e l'umidità proveniente dall'esterno, come vediamo sugli intonachi dei muri quando soffia lo scirocco, può rassomigliare al sudore. Questi fatti, del resto, appaiono più numerosi e più gravi in tempo di guerra, quando c'è uno stato di paura; in tempo di pace non ci si bada altrettanto. Si aggiunga anche un'altra cosa: in momenti di terrore e di pericolo non solo ci si crede con più facilità, ma si inventano più impunemente.

59 Ma noi siamo così leggeri e sconsiderati che, se i topi han rosicchiato qualcosa (e questo è l'unico lavoro al quale si dedicano!), lo consideriamo un prodigio. Prima della guerra màrsica, siccome i topi, come hai rammentato, avevano rosicchiato degli scudi a Lanuvio, gli arùspici dissero che questo era un prodigio dei più terribili: come se ci fosse qualche differenza a seconda che i topi, i quali giorno e notte rodono qualcosa, avessero rosicchiato degli scudi o degli stacci! Se ci mettiamo per questa strada, dovrei disperare delle sorti dello Stato per il fatto che, poco tempo fa, i topi hanno rosicchiato in casa mia la Repubblica di Platone, oppure, se mi avessero rosicchiato il libro di Epicuro Sul piacere, avrei dovuto prevedere che al mercato i prezzi sarebbero rincarati.

XXVIII

60 O ci spaventeremo se talvolta ci dicono che qualche creatura mostruosa è nata da un animale o da un essere umano? Di tutti questi fenomeni (non voglio dilungarmi troppo) una sola è la spiegazione. Tutto ciò che nasce, di qualunque genere sia, ha necessariamente origine dalla natura, di modo che, anche se risulta inconsueto, non può tuttavia essere sorto al di fuori della natura. Ricercane dunque la causa, se ci riuscirai, in qualcosa di insolito e di strano; se non ne troverai alcuna, tieni per fermo in ogni caso che nulla può avvenire senza causa, e scaccia via dal tuo animo, senza ricorrere al soprannaturale, quel terrore che ti avrà arrecato la stranezza del fatto. Così né i boati sotterranei né il fendersi della volta celeste né la pioggia di pietre o di sangue né una stella cadente né l'apparire di fiamme nel cielo ti spaventeranno.

61 Se io chiedessi a Crisippo le cause di tutti questi fenomeni, anche lui, quel famoso sostenitore della divinazione, non direbbe mai che sono avvenuti a caso, e di tutti indicherebbe una causa naturale. Nulla, infatti, può avvenire senza causa; né avviene cosa alcuna che non possa avvenire; né, se è avvenuto ciò che poteva avvenire, si può considerarlo un prodigio; dunque non esistono prodigi. Ché se si deve considerare come un prodigio ciò che avviene di rado, un uomo saggio è un prodigio: credo, in effetti, che una mula abbia partorito più spesso di quanto sia esistito un uomo saggio. Si compie, dunque, questa argomentazione: né ciò che non può essere esistito è giammai esistito, né ciò che può essere esistito è un prodigio: pertanto, non esiste alcun prodigio.

62 Una risposta di questo genere si dice che la desse, con molta arguzia, un interprete di prodigi a un tale che gli aveva riferito, come se si trattasse di un prodigio, che in casa sua un serpente si era avvolto intorno alla sbarra di chiusura d'una porta: "Sarebbe stato un prodigio se la sbarra si fosse attorcigliata intorno al serpente!" Con questa risposta fece intendere chiaramente che nulla, che possa accadere, dev'essere considerato un prodigio.

XXIX

Gaio Gracco scrisse a Marco Pomponio che suo padre aveva chiamato gli arùspici perché in casa sua erano stati presi due serpenti. Come mai tanto trambusto per dei serpenti e non per delle lucertole, per dei topi? Perché questi sono animali che càpita di vedere tutti i giorni, i serpenti no. Come se, dal momento che un evento può accadere, abbia importanza il considerare quanto spesso accada! Ma io non capisco una cosa: se il lasciare andar via il serpente femmina era causa di morte per Tiberio Gracco padre, il lasciare andar via il maschio era invece letale per Cornelia, perché egli lasciò andar via uno dei due serpenti? Per quel che scrive Gaio Gracco, gli arùspici non dissero affatto che cosa sarebbe avvenuto se nessuno dei due animali fosse stato lasciato andare. "Ma" tu dirai, "sta di fatto che sùbito dopo avvenne la morte del vecchio Gracco." Morì, credo, a causa di qualche malattia particolarmente grave, non per aver lasciato andar via un serpente; poiché gli arùspici non sono sfortunati fino al punto che non possa accadere nemmeno una volta per caso ciò che essi hanno predetto.

XXX

63 Di quest'altra cosa, sì, mi meraviglierei, se ci credessi, cioè del fatto che, come hai ricordato, Calcante, secondo Omero, predisse il numero degli anni della guerra di Troia in base al numero dei passeri. Su quella sua profezia così parla Agamennone in Omero (te ne do la traduzione che ho fatto in un momento di riposo): "Non cedete, o guerrieri, e sopportate con coraggio i duri travagli, in modo che possiamo sapere se le profezie del nostro indovino Calcante abbiano una fonte d'ispirazione veridica o siano invece vane. Ché tutti quelli che non hanno abbandonato la luce per un funesto destino serbano bene nella memoria quel portento. Appena Aulide si era ricoperta di navi argoliche, che recavano rovina e sterminio a Priamo e a Troia, noi, mentre vicino a gelide acque ci propiziavamo la volontà degli dèi col sacrificio di tori dalle corna dorate sulle are fumanti, al riparo di un platano ombroso, donde sgorgava una sorgente d'acqua, vedemmo un drago dall'aspetto feroce e dalle spire gigantesche, come se per volere di Giove uscisse da sotto l'ara. Esso ghermì degli uccellini nascosti da fitte foglie, su un ramo del platano; mentre ne divorava otto, il nono - la madre degli altri - volava lì sopra con tremule strida; e anche a lei la belva dilaniò le viscere con un orrendo morso.

64 Quando poi ebbe ucciso gli uccellini così teneri e la loro madre, lo stesso padre Saturnio che lo aveva fatto uscire alla luce, lo nascose alla nostra vista e lo irrigidì ricoprendolo di una dura scorza di pietra della stessa sua forma. Noi, paralizzati dal terrore, avevamo visto l'immane mostro aggirarsi frammezzo alle are degli dèi. Allora Calcante disse con voce fiduciosa: 'Come mai, o achivi, siete rimasti d'un tratto intorpiditi dal terrore? Il creatore stesso degli dèi ci ha mandato questo prodigio, lento ad avverarsi e di esito tardivo fin troppo, ma segno di fama e di gloria perenne. Giacché, per quanti uccelli voi avete visti uccisi dall'orribile dente, per altrettanti anni di guerra noi soffriremo sotto le mura di Troia; nel decimo anno essa cadrà e pagando il fio sazierà gli achivi'. Queste cose disse Calcante; vedete che ormai sono prossime a compiersi." 65 Ma che sorta di augurio è questo, che dal numero dei passeri deduce per l'appunto il numero degli anni piuttosto che quello dei mesi o dei giorni? E perché basa la sua profezia sui passerotti, che non costituivano nulla di prodigioso, mentre non fa parola del drago, il quale, cosa che non poté accadere, divenne, a quanto si legge, di pietra? E infine, che analogia c'è tra un passero e un susseguirsi di anni? Giacché, quanto a quel serpente che apparve a Silla mentre compiva un sacrificio, mi ricordo di tutt'e due le cose: l'una, che Silla, in procinto di iniziare la spedizione militare, fece un sacrificio, e un serpente sbucò da sotto l'altare; l'altra, che in quello stesso giorno fu riportata una brillante vittoria, per l'accortezza non dell'arùspice, ma del comandante.

XXXI

66 Questi tipi di prodigi non hanno niente di strano. Una volta accaduti gli eventi, vengono utilizzati come profezia mediante qualche interpretazione, sicché quei chicchi di grano ammucchiati in bocca a Mida, o le api che, come hai detto, si posarono sulle labbra di Platone bambino, non sono prodigi, ma piuttosto oggetto di previsione felicemente riuscita. Del resto, fatti simili possono essere di per sé falsi, oppure le predizioni che se ne trassero possono essersi verificate per caso. Anche quanto a Roscio può essere falso che sia stato avvolto nelle spire di un serpente, ma che nella sua culla vi fosse un serpente non è tanto strano, specialmente nel Solonio, dove i serpenti sogliono radunarsi presso il focolare, come noi al mercato. Quanto, poi, al responso degli arùspici - che non vi sarebbe stato nessuno più famoso, nessuno più insigne di lui - mi meraviglio che gli dèi immortali abbiano predetto la gloria a un futuro attore, non l'abbiano minimamente predetta a Scipione l'Africano.

67 Hai anche enumerato i prodigi riguardanti Flaminio. Che egli e il suo cavallo siano caduti tutt'a un tratto, non è davvero un gran miracolo. Quanto al fatto che l'insegna del primo manipolo di astati non poté essere divelta da terra, può darsi che il portatore dell'insegna desse prova di una certa timidezza nel divellerla, mentre l'aveva infissa di buona lena! Quanto al cavallo di Dionisio, c'era tanto da meravigliarsi per il fatto che emerse dal fiume e che delle api si posarono sulla sua criniera? Ma siccome poco dopo divenne re, ciò che era accaduto per caso assunse il valore d'un prodigio. "Ma," dirai ancora, "agli spartani accadde che le armi appese nel tempio di Ercole risonassero e che a Tebe le porte del tempio di questo stesso dio, che eran chiuse, si spalancassero all'improvviso e gli scudi, che erano infissi tanto in alto nelle pareti, venissero trovati a terra." Siccome nulla di tutto ciò poté avvenire senza qualche scossa, che ragione c'è di dire che quegli eventi accaddero per volere della divinità anziché per caso?

XXXII

68 "Ma a Delfi, sulla testa della statua di Lisandro, comparve una corona di erbe selvatiche, e, per di più, improvvisamente." Davvero? Pensi che una corona d'erba possa essere sorta prima che ne sia stato concepito il seme? Del resto, io credo che dell'erba selvatica non sia stata seminata da uomini, ma ammucchiata da uccelli; d'altronde, tutto ciò che si trova su una testa può apparire simile a una corona. Quanto poi al fatto che le stelle d'oro, insegne di Càstore e Pollùce, poste a Delfi, caddero e non si trovarono più in nessun luogo, come hai rammentato, questa mi pare un'impresa di ladri piuttosto che di dèi. Che, poi, la dispettosità di una scimmia di Dodona sia stata tramandata dagli storici greci, è cosa che non finisce di stupirmi.

69 Che c'è di strano in questo, che quella bruttissima bestia abbia rovesciato l'urna e sparpagliato qua e là le sorti? E gli storici dicono che agli spartani non accadde alcun prodigio più malaugurante di questo! Quanto a quelle predizioni fatte ai veienti, che, se il lago Albano fosse traboccato e si fosse riversato in mare, Roma sarebbe andata incontro alla rovina; se invece l'acqua fosse stata trattenuta, la rovina sarebbe toccata a Veio, «io credo che» l'acqua del lago Albano fu incanalata per irrigare la campagna attorno a Roma, non per salvare la roccaforte e la città. "Ma poco dopo fu udita una voce che ammoniva i romani di provvedere perché Roma non fosse presa dai Galli; perciò fu consacrata nella Via Nuova un'ara in onore di Aio Loquente. Ma che dire del fatto che Aio Loquente, finché nessuno lo conosceva, parlava e discorreva e in seguito a ciò ebbe questo nome; quando però ottenne la sua ara e il suo nome, ammutolì? La stessa cosa si può dire della dea Moneta; dalla quale, eccettuata l'esortazione a sacrificare una scrofa gravida, quale ammonimento abbiamo mai ricevuto?

XXXIII

70 Dei prodigi ho parlato anche troppo; rimangono gli auspicii e le sorti: intendo le sorti che vengono estratte a caso, non quelle che vengono largite durante un vaticinio, le quali più appropriatamente si chiamano responsi di oracoli; di questi parleremo quando saremo arrivati alla divinazione naturale. Rimane da dire qualcosa anche sui Caldei; ma innanzi tutto prendiamo in esame gli auspicii. "È un compito imbarazzante, per un àugure, polemizzare su questo argomento!" Per un àugure marso forse sì, ma per un romano è facilissimo. Noi non siamo di quegli àuguri che predicono il futuro in base all'osservazione degli uccelli e degli altri indizi. E tuttavia credo che Romolo, il quale fondò la città prendendo gli auspicii, abbia creduto che esistesse una scienza augurale capace di prevedere il futuro (su molte cose gli antichi erravano): una scienza che, come vediamo, ha subito ormai dei mutamenti o, per l'uso stesso che se ne è fatto, o per nuove dottrine, o per il lungo tempo trascorso; si conservano però - per non urtare le credenze popolari e per il grande vantaggio che ne deriva allo Stato - le pratiche, l'osservanza dei riti, le regole, il diritto augurale e l'autorità del collegio.

71 Né io nego che siano stati meritevoli di ogni più grave pena i consoli Publio Claudio e Lucio Giunio, i quali presero il mare contro gli auspicii: era doveroso obbedire alle prescrizioni religiose e non si doveva contravvenire alle usanze patrie in modo così arrogante. Giustamente, dunque, l'uno fu condannato per giudizio del popolo, l'altro si dette egli stesso la morte. "Flaminio", tu ancora ricordi, "non obbedì agli auspicii, e perciò morì, lui e il suo esercito." Ma l'anno dopo Paolo obbedì: e forse per questo scampò alla morte con tutto l'esercito nella battaglia di Canne? E invero, anche se gli auspicii valessero (e invece non valgono affatto), certamente quelli ai quali ricorriamo noi, siano il "tripudio" o i segni provenienti dal cielo, sono simulacri di auspicii, auspicii no di certo.

XXXIV

"Quinto Fabio, voglio che tu mi assista nell'auspicio." Quello ris ponde: "Ho udito." Al tempo dei nostri antenati, per questa funzione ci si valeva d'un esperto; oggi si prende uno qualsiasi. L'esperto dev'essere uno che sappia che cos'è il "silenzio"; chiamiamo "silenzio", nel cerimoniale degli auspicii, la situazione in cui niente turba la cerimonia.

72 Rendersi conto di ciò è còmpito del perfetto àugure; ma quello a cui viene affidata al giorno d'oggi questa mansione, quando il magistrato che prende gli auspicii ordina: "Dimmi quando ti sembrerà che vi sia il 'silenzio'", non perde tempo né a guardare in alto né attorno; risponde sùbito che gli sembra che il "silenzio" ci sia. Allora l'altro: "Di' quando gli uccelli mangeranno". "Stanno mangiando." Ma quali uccelli? E dove? Ha portato, dicono, i polli rinchiusi in una gabbia colui che, per questo suo ufficio, viene chiamato pullario. Questi, dunque, sono gli uccelli messaggeri di Giove! Se essi mangino o no, che valore ha? Ciò non ha alcun rapporto con gli auspicii. Ma siccome, quando mangiano, è inevitabile che qualche pezzetto di cibo caschi loro fuori dalla bocca e percuota la terra (ciò fu detto dapprima "terripavio", poi "terripudio"; ora è chiamato "tripudio"), - quando dunque un pezzo di farina impastata cade dalla bocca del pollo, ecco che a colui che prende gli auspicii viene annunziato il "tripudio solìstimo".

XXXV

73 Può dunque aver qualcosa di divinatorio questo auspicio, così coatto e tratto a forza? Che i più antichi àuguri non siano ricorsi a esso, lo dimostra il fatto che conserviamo tuttora un vecchio decreto del nostro collegio, secondo il quale da ogni uccello si può ottenere il "tripudio". Allora, sì, sarebbe un vero auspicio, a condizione che l'uccello fosse libero di mostrarsi; allora quell'uccello potrebbe sembrare un interprete e ministro di Giove; ora invece, chiuso in gabbia e stremato dalla fame, se si butta a divorare un pastone di farina, e se un pezzetto di cibo gli cade di bocca, credi che questo sia un auspicio o che in questo modo Romolo fosse solito trarre gli auspicii?

74 Non credi, inoltre, che coloro che un tempo prendevano gli auspicii compissero da sé l'osservazione di ciò che veniva dal cielo? Ora la fanno fare al pullario: quegli riferisce che è caduto un fulmine proveniente da sinistra, che consideriamo come il migliore auspicio, tranne per i comizi; questa eccezione fu stabilita per motivi politici, perché i più potenti nello Stato fossero gli interpreti dei comizi nei processi popolari o nell'approvazione delle leggi o nell'elezione dei magistrati. "Ma," tu obietterai, "in séguito a una lettera inviata da Tiberio Gracco i consoli Scipione e Figulo dovettero rinunciare alla carica, perché gli àuguri avevano sentenziato che erano stati eletti con una procedura irregolare." Ma chi nega l'esistenza di una dottrina degli àuguri? È la divinazione che io nego "Ma gli arùspici sono indovini; quando Tiberio Gracco, a causa della morte improvvisa di colui che era stramazzato al suolo mentre raccoglieva i voti della centuria che votava per prima, li convocò in senato, essi dissero che il 'rogatore' non si era uniformato alle regole."

75 Innanzi tutto rifletti se non si siano voluti riferire a colui che era stato il "rogatore" della prima centuria; quello, difatti, era morto, e che ciò costituisse un'irregolarità potevano dirlo senza avere doti divinatorie, per semplice interpretazione delle regole. In secondo luogo, forse dissero così per caso, e il caso non si può mai escludere in fatti di questo genere. E in effetti, che cosa potevano sapere degli arùspici etruschi quanto al modo giusto di erigere la tenda o alle leggi sull'attraversamento del pomerio? In verità, io mi trovo d'accordo con Gaio Marcello piuttosto che con Appio Claudio - entrambi furono miei colleghi come àuguri - e ritengo che il diritto augurale, sebbene all'inizio sia stato costituito in base alla credenza nella divinazione, sia stato poi conservato e rispettato per utilità politica.

XXXVI

76 Ma, su ciò, più a lungo altrove: ora basta. Esaminiamo piuttosto gli augurii stranieri, che non appartengono tanto alla divinazione artificiale, quanto alla superstizione. Gli stranieri, per lo più, badano a tutti gli uccelli, noi a pochissimi. Alcuni augurii sono considerati favorevoli da loro, altri dai nostri. Deiòtaro era solito chiedermi notizie sulla nostra dottrina augurale, io sulla loro. Per gli dèi immortali, quante differenze!, fino al punto che alcuni precetti erano addirittura opposti. Ed egli ricorreva agli auspicii sempre: noi, tranne nel periodo in cui abbiamo il diritto di trarre gli auspicii, ricevuto dal popolo, in qual misura vi ricorriamo? I nostri antenati stabilirono che non si procedesse ad alcuna azione di guerra senza aver prima tratto gli auspicii; ma da quanti anni ormai vengono condotte guerre da proconsoli e propretori, che non hanno diritto agli auspicii?

77 Perciò, né prendono gli auspicii prima di attraversare corsi d'acqua, né ricorrono al "tripudio". Dov'è andata a finire, dunque, la divinazione tratta dagli uccelli? Dal momento che le guerre sono condotte da chi non ha alcun diritto agli auspicii, sembra che tale divinazione sia stata mantenuta in vigore da chi si occupa del governo civile, soppressa nelle azioni militari. Ché quanto all'auspicio tratto dalle punte delle lance, che è esclusivamente di carattere militare, già Marco Marcello, quello che fu console cinque volte, lo trascurò del tutto: eppure fu ottimo comandante, ottimo àugure. E invero egli diceva che se talvolta voleva portare a compimento una spedizione militare, era solito viaggiare in una lettiga coperta, per non essere impedito dagli auspicii. A questo comportamento somiglia ciò che noi àuguri raccomandiamo, di far togliere dal giogo i giumenti, perché non càpiti un "auspicio aggiogato".

78 Che cos'altro è, questo non voler essere avvertiti da Giove, se non fare in modo che un auspicio non possa avvenire o, qualora avvenga, non sia veduto?

XXXVII

Quell'altra cosa, poi, è estremamente ridicola: che, secondo te, Deiòtaro non si è pentito di aver dato retta agli auspicii che ricevette al momento di partire per il campo di Pompeo, poiché, tenendo fede alla lealtà e all'amicizia col popolo romano, compì il suo dovere, e considerò più importante l'onore e la gloria che il mantenimento del suo regno e dei suoi possessi. Questo io lo credo senz'altro, ma non ha niente a che vedere con gli auspicii: non fu certo una cornacchia che col suo gracchiare poté insegnargli che faceva bene a battersi per la libertà del popolo romano: era lui che ne era convinto, come dimostrò coi fatti.

79 Gli uccelli predicono eventi sfavorevoli o favorevoli; Deiòtaro, io vedo che ricorse agli auspicii della virtù, la quale vieta di badare alla fortuna, quando si deve tener fede alla parola data. Ché se gli uccelli gli predis sero eventi favorevoli, lo ingannarono senza dubbio. Fu sconfitto in battaglia e costretto alla fuga al pari di Pompeo: tempi terribili! Si separò da lui: evento luttuoso! Accolse Cesare nello stesso tempo come nemico e come ospite: quale situazione più umiliante di questa? Cesare, dopo avergli strappato la tetrarchia dei Trocmi per darla a non so quale suo servitorello di Pergamo, dopo avergli tolto l'Armenia datagli dal senato, dopo essere stato da lui accolto con ospitalità suntuosissima, lasciò ridotto in miseria e l'ospite e il re. Ma sto divagando un po' troppo: ritornerò al mio argomento. Se badiamo agli eventi, che si cerca di prevedere in base al volo degli uccelli, gli eventi non furono in alcun modo favorevoli a Deiòtaro; se invece badiamo al compimento del dovere, esso fu suggerito a quel re dalla sua virtù, non dagli auspicii.

XXXVIII

80 Lascia da parte, dunque, il lituo di Romolo, che, a quanto dici, non bruciò nemmeno in quel grandissimo incendio; non tener conto della cote di Atto Navio. Nella filosofia non dev'esserci spazio per storielle inventate. Un'altra cosa, piuttosto, sarebbe stata compito di un vero filosofo: innanzi tutto indagare la natura di tutta la teoria augurale, poi rintracciarne l'origine, infine vedere se abbia una coerenza interna. Qual è, dunque, la legge di natura che fa volare gli uccelli da ogni parte, di qua e di là, allo scopo di dare dei segni e di vietare talvolta di far qualcosa, di comandarlo talaltra, o col canto o col volo? E perché ad alcuni uccelli è stato dato il potere di fornire un auspicio valido dalla parte sinistra, ad altri da destra? E come, quando, da chi diremo che siano state scoperte queste cose? Gli Etruschi, almeno, considerano come fondatore della loro dottrina quel bimbetto spuntato su dal solco durante un'aratura; noi a chi ci appelleremo? Ad Atto Navio? Ma furono più antichi di vari anni Romolo e Remo, ambedue àuguri, come ci è tramandato. Oppure diremo che queste dottrine sono state scoperte dai pisidii o dai cilici o dai frigi? Ammetteremo dunque che genti prive di civiltà umana siano state autrici di una scienza divina?

XXXIX

81 "Ma tutti i re, i popoli, le genti ricorrono agli auspicii. Come se ci fosse qualcosa di tanto diffuso quanto il non capir nulla, o come se anche tu, nel giudicare su qualche problema, ti attenessi all'opinione della moltitudine! Quanti sono quelli che negano che il piacere sia un bene? secondo i più, è addirittura il sommo bene. Dunque il loro gran numero induce gli stoici ad abbandonare la loro dottrina? O, d'altra parte, la moltitudine segue per lo più, nel modo di comportarsi, l'autorità degli stoici? Qual meraviglia, dunque, se a proposito degli auspicii e di ogni genere di divinazione le menti deboli accolgono tutte queste credenze superstiziose e non sono capaci di scorgere la verità?

82 Quale coerenza, poi, basata su accordo e comunanza di idee, c'è fra gli àuguri? Uniformandosi all'usanza della nostra pratica augurale, Ennio disse: "Allora tuonò da sinistra nel cielo perfettamente sereno." Ma l'Aiace omerico, lamentandosi con Achille della combattività dei troiani, si esprime press'a poco così: "Ad essi Giove diede presagi favorevoli con lampi inviati da destra." Dunque, a noi i segni da sinistra sembrano più propizi, ai greci e ai barbari quelli da destra. Beninteso, non ignoro che i presagi favorevoli li chiamiamo talvolta "sinistri", anche se vengono da destra; ma certamente i nostri chiamarono sinistro l'auspicio e gli stranieri lo chiamarono destro, perché nella maggior parte dei casi esso sembrava loro migliore. Che grave discordanza!

83 E che dire del fatto che dànno valore a uccelli diversi, a segni diversi, seguono metodi d'osservazione diversi, pronunciano responsi diversi? Non bisognerà ammettere che una parte di queste divergenze derivi da errori, un'altra da superstizione, molte da volontà d'imbrogliare?

XL

E a queste superstizioni non hai esitato ad aggiungere anche i presagi tratti da certe frasi pronunciate senza intenzione: Emilia disse a Paolo che Persa era morto, e il padre intese la frase come un presagio; Cecilia disse alla figlia di sua sorella che le cedeva il proprio posto. E poi quelle altre frasi: "Fate silenzio" e "la centuria prerogativa, presagio dei comizi". Questa è proprio un voler essere eloquente e facondo contro se stesso. Se ti metti a fare attenzione a codeste cose, quando potrai aver l'animo tranquillo e sgombro da ansietà, in modo da avere come guida nell'agire non la superstizione, ma la ragione? Ma davvero, se un tale dirà qualcosa appartenente ai suoi affari e a un suo discorso, e una sua parola si potrà adattare per caso a quel che farai o penserai tu, questa coincidenza ti spaventerà o ti incoraggerà?

84 Quando Marco Crasso faceva imbarcare il proprio esercito a Brindisi, un tale che, nel porto, vendeva fichi secchi di Caria provenienti da Cauno, andava gridando: "Cauneas!" Diciamo pure, se ti fa piacere, che quel tale ammoniva Crasso di guardarsi dal partire, e che Crasso non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio involontario. Ma se accettiamo idee di questo genere, dovremo stare attenti a tutte le volte che inciampiamo, che ci si rompe la stringa d'una scarpa, che starnutiamo.

XLI

85 Rimangono ancora le sorti e i Caldei, per passare poi ai profeti invasati e ai sogni. Credi dunque che ci si debba soffermare sulle sorti? Che cos'è una sorte? È press'a poco lo stesso che giocare alla morra, ai dadi, alle "tessere": cose nelle quali vale l'azzardo e il caso, non il ragionamento o la riflessione. Tutta questa faccenda è un'invenzione ingannatrice, allo scopo di far quattrini o di fomentare la superstizione o di trarre in errore la gente. E, come abbiamo fatto a proposito dell'aruspicina, vediamo un po' la tradizione sull'origine delle sorti più famose. Gli annali di Preneste raccontano che Numerio Suffustio, uomo onesto e bennato, ricevé in frequenti sogni, all'ultimo anche minacciosi, l'ordine di spaccare una roccia in una determinata località. Atterrito da queste visioni, nonostante che i suoi concittadini lo deridessero, si accinse a fare quel lavoro. Dalla roccia infranta caddero giù delle sorti incise in legno di quercia, con segni di scrittura antica. Quel luogo è oggi circondato da un recinto, in segno di venerazione, presso il tempio di Giove bambino, il quale, effigiato ancora lattante, seduto insieme con Giunone in grembo alla dea Fortuna mentre ne ricerca la mammella, è adorato con grande devozione dalle madri.

86 E dicono che in quel medesimo tempo, là dove ora si trova il tempio della Fortuna, fluì miele da un olivo, e gli arùspici dissero che quelle sorti avrebbero goduto grande fama, e per loro ordine col legno di quell'olivo fu fabbricata un'urna, e lì furono riposte le sorti, le quali oggidì vengono estratte, si dice, per ispirazione della dea Fortuna. Che cosa di sicuro può esserci dunque in queste sorti, che per ispirazione della Fortuna, per mano di un bambino vengono mescolate e tratte su? E in che modo codeste sorti furono poste entro quella rupe? Chi tagliò, chi squadrò quel legno di quercia, chi vi incise quelle scritture? "Non c'è nulla," rispondono, "che la divinità non possa fare." Magari la divinità avesse elargito la saggezza agli stoici, per evitare che prestassero fede a tutto con superstiziosa ansia e infelicità! Ma ormai l'opinione pubblica non dà più credito a questo genere di divinazione: la bellezza e l'antichità del tempio mantiene ancora in vita la fama delle sorti prenestine, e soltanto tra il popolino.

87 Quale magistrato, oggi, o quale uomo di un certo prestigio ricorre a quelle sorti? In tutti gli altri luoghi, poi, l'interesse per le sorti si è raffreddato completamente. Ciò appare dal detto di Carneade, riferito da Clitomaco, che non aveva visto in nessun luogo una Fortuna più fortunata di quella di Preneste. Lasciamo perdere, dunque, questa forma di divinazione,

XLII

veniamo alle mostruose immaginazioni dei Caldei. Eudosso, seguace di Platone, superiore a tutti nell'astronomia per concorde giudizio dei più dotti, ritiene, e lo ha scritto, che non bisogna minimamente credere ai Caldei quanto alla predizione e alla determinazione della vita di ciascuno in base ai segni del giorno della nascita.

88 Anche Panezio, l'unico degli stoici che negò fede alle predizioni astrologiche, ricorda Anchialo e Cassandro, i maggiori astronomi suoi contemporanei, i quali, mentre eccellevano in tutte le altre branche dell'astronomia, non vollero servirsi di questo genere di predizioni. Scilace di Alicarnasso, amico intimo di Panezio, astronomo eccellente e capo eminente della sua città, ripudiò tutto questo genere caldàico di predizione.

89 Ma lasciamo da parte gli autori e ricorriamo al ragionamento. Codesti difensori delle "predizioni natalizie" dei Caldei argomentano così: è insita, dicono, nel cerchio delle costellazioni che in greco si chiama "zodiaco", una forza di tal natura, che ciascuna parte di quel cerchio influenza e trasforma il cielo in un modo diverso, a seconda delle diverse stelle che si trovano in quelle parti e nelle parti finitime in un dato tempo; e quella forza viene variamente modificata da quelle stelle che son chiamate erranti; e quando le costellazioni sono venute in quella parte dello zodiaco coincidente con la nascita di colui che viene alla luce, oppure in una che abbia qualche contiguità o affinità con quella, le figure che allora si formano sono chiamate dagli astrologi triangoli e quadrati. Inoltre, poiché nel corso di un anno e delle varie stagioni avvengono così notevoli rivolgimenti e mu tamenti del cielo per l'avvicinarsi e l'allontanarsi delle stelle, e poiché questi fenomeni che vediamo sono causati dall'influsso del sole, gli astrologi ritengono non solo verosimile, ma vero, che, a seconda della composizione dell'aria, i bambini che nascono siano animati e conformati in un certo modo, e che da essa risultino plasmati i caratteri, le qualità morali, l'anima, il corpo, lo svolgersi della vita, i casi e gli eventi di ciascuno.

XLIII

90 Oh delirio incredibile! (ché non ogni errore può esser chiamato semplicemente "stoltezza"). E ad essi anche Diogene stoico concede qualcosa, cioè che sappiano predire soltanto quale carattere avrà ciascun singolo nato e a quale attività sarà particolarmente idoneo; nega, invece, che si possa in alcun modo sapere tutto il resto che essi pretendono di determinare: difatti, egli dice, i gemelli hanno costituzione fisica eguale, ma vita e sorte quasi sempre differenti. Procle ed Euristene, entrambi re di Sparta, furono fratelli gemelli; ma non vis sero lo stesso numero di anni (Procle morì un anno prima di suo fratello) e Procle fu molto superiore al fratello per la gloria delle imprese compiute.

91 Ma io sostengo che è impossibile sapere anche quelle cose che l'ottimo Diogene concede ai Caldei per una specie di accordo sottobanco. Se la luna, come essi stessi dicono, regola le nascite dei bambini, e i Caldei osservano e prendono nota di quelle costellazioni che influiscono sulle nascite e che appaiono in congiunzione con la luna, allora essi giudicano con l'ingannevolissima sensazione della vista ciò che avrebbero dovuto vedere col ragionamento e con l'intelletto. I calcoli degli astronomi, che costoro avrebbero dovuto conoscere, mostrano quanto sia bassa l'orbita della luna, tanto da sfiorare quasi quella della terra, quanto la luna sia lontana da Mercurio, che è la stella più vicina, e molto più lontana da Venere, e ancora un grande intervallo la separi dal sole, dalla cui luce si ritiene che sia illuminata; gli altri tre intervalli, poi, sono infiniti ed immensi: dal sole a Marte, da Marte a Giove, da Giove a Saturno; e di qui alla volta celeste, che è il limite estremo e ultimo dell'universo.

92 Quale influsso, dunque, vi può essere da una distanza pressoché infinita fino alla luna, o, piuttosto, alla terra?

XLIV

E ancora: quando dicono - e devono dirlo per forza - che tutte le nascite di tutti coloro che son generati in ogni parte della terra abitata sono identiche, e che necessariamente accadranno le stesse cose a tutti quelli che siano nati sotto la stessa posizione del cielo e degli astri, non rivelano, codesti interpreti del cielo, di non conoscerne neanche la struttura? Poiché quelle circonferenze che dividono, per così dire, il cielo a metà e limitano la nostra visuale (i greci le chiamano horízontes, noi possiamo con tutta esattezza chiamarle "limitanti") hanno la massima varietà e sono diverse da un luogo all'altro, ne consegue che la nascita e il tramonto delle costellazioni non può avvenire dappertutto nello stesso tempo.

93 E se per il loro influsso il cielo assume ora una, ora un'altra composizione, come possono quelli che nascono ricevere una medesima impronta, dal momento che tanto grande è la dissimiglianza del cielo? In questa parte del mondo che noi abitiamo la Canicola sorge dopo il solstizio d'estate, anzi parecchi giorni dopo; ma nel paese dei trogloditi, a quanto si legge, sorge prima del solstizio; cosicché, se anche ammettiamo che l'influsso del cielo si esplichi in qualche modo su coloro che nascono in terra, gli astrologi dovrebbero pur riconoscere che coloro che nascono contemporaneamente possono avere caratteri diversi per la dissimiglianza del cielo. Ma non hanno alcuna voglia di riconoscerlo: pretendono che tutti i nati nel medesimo tempo, qualunque sia il luogo della loro nascita, siano votati alla stessa -sorte.

XLV

94 Ma che follìa è questa, di credere che, mentre si prendono in considerazione i più grandi movimenti e mutamenti del cielo, non importino nulla le differenze tra i venti, le piogge, i climi di ciascun luogo? Perfino in località vicine tra loro tante sono le disparità tra questi fenomeni, che spesso le condizioni meteorologiche a Tuscolo sono diverse da quelle di Roma. I naviganti se ne accorgono più che mai quando, nel doppiare un promontorio, avvertono spesso un grandissimo cambiamento del vento. Perciò, se il clima è così variabile, ora sereno, ora perturbato, si può considerare sano di mente chi non dice che ciò influisca sulle nascite dei bambini (e in verità non vi influisce), ma sostiene poi che eserciti un influsso sulle nascite stesse quel non so che di evanescente, che non può in alcun modo essere oggetto di sensazione, a mala pena anche di attività pensante, cioè la composizione del cielo prodotta dalla luna e dagli altri astri? E il non capire che, ragionando così, si riduce a nulla l'influsso dei semi generativi, che ha un'importanza decisiva nel concepimento e nella procreazione, è forse un errore di poco conto? Chi, infatti, non vede che i figli ritraggono dai genitori la complessione fisica, il carattere, tanti modi di atteggiarsi da fermi e di muoversi? Ciò non accadrebbe se queste caratteristiche non provenissero dall'influsso e dall'efficacia dei generanti, ma dal potere della luna e dalla composizione del cielo.

95 E il fatto che i nati nell'identico istante hanno caratteri e vicende della vita dissimili, è forse una prova di poco conto a favore della tesi che il tempo della nascita non c'entra nulla con lo svolgimento successivo della vita? A meno che, forse, riteniamo che nessuno sia stato concepito e sia nato nello stesso momento di Scipione l'Africano. C'è stato, in effetti, qualcuno da mettergli a confronto?

XLVI

96 Può esser messo in dubbio, poi, che molti, nati con qualche parte del corpo deforme e anormale, siano stati guariti e riportati alla normalità dalla Natura, che ha corretto se stessa, o dalla chirurgia e dalla medicina? Per esempio, ad alcuni, che avevano la lingua attaccata al palato così da non poter parlare, quell'organo è stato reso libero con un taglio di bisturi. Molti altri eliminarono un difetto di natura mediante la continua applicazione e l'esercizio, come Demetrio Falereo riferisce quanto a Demostene, il quale, non essendo in grado di pronunciare la lettera erre, col continuo esercizio riuscì a pronunciarla perfettamente. Se quei difetti fossero stati prodotti e trasmessi da un influsso astrale, niente li avrebbe potuti correggere. E la differenza dei luoghi non produce differenti tipi umani? Di tali differenze è facile dare esempi, mostrare quanto son diversi nel corpo e nel carattere gli indiani e i persiani, gli etìopi e i siri, a tal punto che le varietà e le dissimiglianze sono addirittura incredibili.

97 Da ciò si comprende che, riguardo alle nascite, le diverse località della terra valgono più dei contatti della luna. E quanto a ciò che si dice, che i babilonesi continuarono a osservare e a sperimentare tutti i bambini che via via nascevano per la durata di 470.000 anni, è una menzogna: se lo avessero fatto davvero per tanto tempo, non avrebbero smesso. Non abbiamo, d'altronde, alcun testimone autorevole che ci assicuri che ciò venga fatto o sappia che sia stato fatto in passato.

XLVII

Come vedi, non riferisco le argomentazioni di Carneade, ma quelle di Panezio, il più eminente degli stoici. Io, poi, domando anche se tutti quelli che caddero nella battaglia di Canne erano nati sotto la stessa costellazione: poiché certo ebbero tutti una morte uguale. E quelli che hanno in dote un ingegno e una virtù eccezionali, nascono anche loro sotto la stessa costellazione? Quale istante c'è, in cui non nascono innumerevoli bambini? Eppure nessuno di loro è stato all'altezza di Omero.

98 E se ha importanza sapere sotto quale composizione del cielo e congiunzione delle stelle ciascun essere vivente nasca, bisogna che ciò valga non solo a proposito degli uomini, ma anche delle bestie. Si potrebbe dire una cosa più assurda di questa? Lucio Taruzio di Fermo, mio intimo amico, perfetto conoscitore della dottrina caldèa, faceva risalire anche il giorno natalizio della nostra città a quelle feste di Pale, in concomitanza delle quali si dice che essa fu fondata da Romolo, e diceva che Roma era nata mentre la luna si trovava nella costellazione della Libra, e non esitava a cantarne i destini.

99 Oh straordinaria potenza dell'errore! Anche il giorno natalizio d'una città dipendeva dall'influsso delle stelle e della luna? Ammetti pure che, riguardo a un bambino, abbia qualche importanza lo stato del cielo nel quale egli abbia tratto il primo respiro; ma la stessa cosa avrebbe potuto valere anche per i mattoni o per le pietre con cui Roma fu costruita? Ma a che scopo dilungarsi? Ogni giorno simili profezie risultano smentite. Quante cose mi ricordo che furono predette dai caldei a Pompeo, quante a Crasso, quante a Cesare stesso, poc'anzi ucciso! Nessuno di loro sarebbe morto se non da vecchio, se non nel suo letto, se non nel pieno splendore della sua gloria. Cosicché mi sembra estremamente strano che vi sia qualcuno che ancora creda a costoro, le cui predizioni egli stesso, ogni giorno, vede che sono confutate dalla realtà e dagli avvenimenti.

XLVIII

100 Rimangono due forme di divinazione, che, a quanto si dice, ci provengono dalla natura, non dall'arte: i vaticinii e i sogni. Discutiamone," dissi, "Quinto, se ti piace." Rispose Quinto: "Certo che mi piace. In effetti io mi sento del tutto d'accordo con quel che hai sostenuto finora e, per esser sincero, quantunque le tue parole abbiano rafforzato la mia opinione, tuttavia anche prima, dentro di me, consideravo troppo superstiziosa la dottrina stoica sulla divinazione. Mi seduceva di più quest'altra teoria, quella dei peripatetici: del vecchio Dicearco e di Cratippo che attualmente è nel pieno fiore della sua fama. Essi ritengono che vi sia nelle menti degli uomini una sorta di oracolo che faccia presentire il futuro, quando l'anima o è esaltata da una divina follìa o, rilassatasi nel sonno, può muoversi liberamente e senza vincoli corporei. Sarei davvero desideroso di sentire che cosa pensi di queste forme di divinazione e con quali argomenti le confuti."

XLIX

101 Quando egli ebbe detto ciò, io a mia volta, quasi rifacendomi di nuovo dall'inizio, così presi a dire: "Non ignoro, Quinto, che tu hai sempre pensato così: sei stato dubbioso sulle altre forme di divinazione, hai ritenuto vere soltanto queste due, dell'esaltazione profetica e del sogno, che sembrano derivate dalla mente libera dal gravame del corpo. Dirò, dunque, il mio parere anche su questi due generi di divinazione; ma prima cercherò di esaminare il valore dell'argomentazione logica degli stoici e del nostro Cratippo. Hai detto che Crisippo, Diogene stoico e Antipatro argomentano così: "Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà preavvertire gli uomini delle cose che avverranno, o nemmeno gli dèi stessi sono in grado di farle sapere.

102 Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benèfici e amici del genere umano), né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto, né si può ammettere che non ci giovi sapere il futuro (ché, se lo sapremo, saremo più prudenti), né essi ritengono che ciò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più glorioso che fare il bene), né possono essere incapaci di prevedere il futuro. Dunque, dovremmo concludere, non esistono gli dèi e non ci predìcono il futuro. Ma gli dèi esistono; dunque predìcono. E se dànno indizi del futuro, non è ammissibile che ci precludano ogni mezzo di interpretare tali indizi (ché darebbero gli indizi senza alcun frutto), né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non vi sia la divinazione. Dunque c'è la divinazione."

103 Oh, uomini acuti! Come credono che in poche parole l'affare sia bell'e sbrigato! Per giungere alla loro conclusione, dànno per accettate delle premesse nessuna delle quali vien data loro per buona. Si deve approvare la conclusione di un ragionamento solo se il problema controverso viene risolto partendo da premesse sicure.

L

Guarda un po' come Epicuro, che gli stoici sogliono considerare sciocco e rozzo, ha dimostrato che quello che nella natura chiamiamo "il tutto" è infinito. "Ciò che è finito" egli dice "ha un'estremità." Chi non è disposto ad ammettere questo? "Ciò che ha un'estremità si può vedere da un punto che si trovi al di fuori." Anche questo bisogna ammetterlo. "Ma ciò che è il tutto non può essere veduto da un punto che si trovi al di fuori del tutto." Nemmeno questo si può negare. "Non avendo, dunque, alcuna estremità, è necessariamente infinito."

104 Vedi come, prendendo le mosse da premesse che tutti ammettono, giunge a dimostrare una cosa di cui si dubitava? Non così procedete voi dialettici; e non solo non partite, per svolgere le vostre argomentazioni, da premesse che tutti concedono, ma presupponete cose che, anche se vi venissero concesse, egualmente non vi farebbero raggiungere la conclusione da voi voluta. Incominciate, difatti, con questo presupposto: "Se gli dèi esistono, sono benèfici verso gli uomini." Chi ve lo darà per sicuro? Forse Epicuro, il quale nega che gli dèi abbiano alcuna preoccupazione sia per gli altri, sia per se stessi? Oppure il nostro Ennio, il quale fa dire a un suo personaggio, mentre la folla degli spettatori dimostra il proprio assenso con grandi applausi: "Io ho sempre detto e sempre dirò che esiste la stirpe degli dèi celesti, ma credo che essi non si curino di quel che fa il genere umano." E aggiunge sùbito il motivo di questa sua opinione; ma non è necessario che io reciti il seguito; basta solamente che si capisca che costoro presuppongono come certo ciò che è dubbio e controverso.

LI

105 Segue quest'altro assunto: che gli dèi non ignorano niente, perché tutto è stato stabilito da loro. Ma su questo punto quanta polemica c'è da parte di uomini dottissimi, i quali non ammettono che questa realtà sia stata stabilita dagli dèi!

106 "Ma è nel nostro interesse sapere il futuro." C'è un'ampia opera di Dicearco che sostiene che è meglio ignorare il futuro che saperlo. Ancora, gli stoici negano che sia alieno dalla maestà degli dèi.... certo, andare a spiare dentro le casupole di tutti noi mortali, per giudicare che cosa sia utile a ciascuno! "Né possono essere incapaci di prevedere il futuro." E invece ciò è contestato da quei pensatori che ritengono che il futuro non sia predeterminato con certezza. Vedi, dunque, che i punti dubbi sono dati per certi e per ammessi da tutti? Poi rovesciano l'argomentazione e ragionano così: "Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono né indicano il futuro": credono che non sia ammissibile altra possibilità. Poi soggiungono: "Ma gli dèi esistono"; e anche questo non è ammesso da tutti. "Dunque predìcono"; nemmeno questa è una conseguenza necessaria: potrebbero non darci alcuna predizione e tuttavia esistere. Aggiungono anche che, se inviano segni premonitori, non è possibile che non ci forniscano qualche mezzo per interpretarli. Ma invece anche questo è possibile, che conoscano questi mezzi, ma non li forniscano agli uomini; perché, in effetti, li avrebbero dati agli etruschi più che ai romani? "Né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non esista la divinazione." Ammetti pure che gli dèi ce li forniscano, il che è già assurdo: a che serve, se noi non possiamo comprenderli? Ed ecco il finale: "Dunque la divinazione esiste." Sia pure il finale, ma non è il raggiungimento della dimostrazione: ché da false premesse, come abbiamo appreso proprio da loro, non si può giungere alla verità. Tutta l'argomentazione, dunque, giace a terra.

LII

107 Veniamo ora al nostro amico e ottimo uomo, Cratippo. Dice: "Se senza occhi non può svolgersi la funzione e il còmpito degli occhi, e tuttavia può accadere talvolta che gli occhi non adempiano bene al loro còmpito, chi anche una volta sola ha usato gli occhi in modo da scorgere le cose come sono in realtà, possiede il senso della vista capace di percepire la realtà. Allo stesso modo, dunque, se, non esistendo la divinazione, non può svolgersi la funzione e il còmpito della divinazione stessa, e tuttavia può accadere talvolta che qualcuno, pur dotato di capacità divinatorie, erri e non veda la realtà, è sufficiente a dimostrare l'esistenza della divinazione che anche una volta sola un fatto sia stato divinato in mo do tale da non sembrare che ciò possa in alcun modo attribuirsi al caso. Ma ci sono esempi innumerevoli di questo genere: bisogna dunque ammettere che la divinazione esiste." Arguto e conciso! Ma dopo che per due volte ha enunciato un presupposto arbitrario, per quanto possa aver trovato in noi degli amici disposti a concedergli molto, non è tuttavia assolutamente possibile concedergli ciò che vuole "aggiungere" nella sua argomentazione.

108 Egli dice, dunque: "Se qualche volta gli occhi vedono male, tuttavia, siccome qualche volta hanno visto bene, sono forniti della capacità di vedere; del pari, se uno ha detto anche una volta sola qualcosa di giusto nel divinare, sebbene altre volte si sbagli, dev'essere ritenuto dotato della capacità di divinare."

LIII

Guarda un po', ti prego, caro Cratippo, quale somiglianza ci sia tra queste due argomentazioni; poiché io non riesco a vederla. Gli occhi, quando vedono giusto, si servono di una sensazione dataci dalla natura; le anime, se qualche volta o nell'esaltazione o nel sogno han visto cose che poi si avverano, hanno avuto dalla loro la fortuna e il caso; a meno che tu non creda che quelli che considerano i sogni nient'altro che sogni, ti concederanno che, se talvolta un sogno si avvera, ciò non sia accaduto fortuitamente. Ma concediamoti pure quei due presupposti (che i dialettici chiamano "lemmi" con parola greca, ma io preferisco parlar latino); in ogni caso l'"aggiunta" (che quelli chiamano próslepsis) non ti sarà concessa.

109 L'aggiunta di Cratippo è questa: "Vi sono innumerevoli presentimenti non casuali". Io, invece, dico che non ce n'è nemmeno uno: vedi quanto è grande il dissenso; e, una volta che quell'aggiunta non viene concessa, nessuna conclusione si può raggiungere. Ma, secondo lui, sono io uno sfrontato, nel non voler ammettere quell'aggiunta, mentre è tanto evidente. Che cosa è evidente? "Che molte predizioni risultano vere," risponde. E che dire allora del fatto che molte di più risultano false? Proprio questa incostanza di risultati, che è caratteristica del caso, non dovrà dimostrarci che dal caso, noti da una legge di natura, essi dipendono? Inoltre, se codesta tua argomentazione è vera, caro Cratippo (dal momento che è con te che sto attualmente discutendo), non ti accorgi che di essa possono servirsi egualmente gli arùspici, gli interpreti dei fulmini e dei prodìgi, gli àuguri, gli estrattori di sorti, i caldei? Di tutte queste forme di divinazione non ce n'è nemmeno una in base a cui, una volta su tante, l'evento non sia stato conforme alla predizione. Dunque o anche queste forme di divinazione, che tu giustissimamente ripudii, sono valide, o, se non lo sono, non capisco perché lo siano quelle due sole che tu ammetti. Grazie allo stesso ragionamento con cui tu dài il benestare a quelle, possono avere il diritto di esistere anche quelle che neghi.

LIV

110 Quale autorità, d'altronde, può avere codesto stato di folle eccitazione che chiamate divino, in virtù del quale ciò che il savio non vede, lo vedrebbe il pazzo, e colui che ha perduto le facoltà sensoriali umane avrebbe acquisito quelle divine? Noi crediamo ai carmi della Sibilla, che essa, si dice, pronunciò in stato di esaltazione. Si credeva poco tempo fa, per una dicerìa infondata diffusasi tra la gente, che un interprete di tali carmi si apprestasse a dire in senato che colui che di fatto era già nostro re avrebbe dovuto anche ricevere il titolo regale, se volevamo esser salvi. Se questo è scritto nei libri sibillini, a quale uomo e a quale tempo si riferisce? Colui che aveva scritto quei versi aveva agito furbescamente: omettendo ogni precisazione di persona e di tempo, aveva fatto in modo che, qualunque cosa accadesse, sembrasse l'avveramento di una profezia.

111 Aveva aggiunto anche l'oscurità dell'espressione, perché gli stessi versi potessero adattarsi ora ad una cosa, ora a un'altra in diverse circostanze. Che quel carme, poi, non sia il parto di uno spirito invasato, lo rivela sia la fattura dei versi stessi (che sono un prodotto di arte raffinata e accurata, non di eccitazione e di impeto), sia quel tipo di composizione che si suol chiamare "acrostico", nella quale, leggendo di séguito le prime lettere di ciascun verso, si mette insieme un'espressione di senso compiuto, come in alcune poesie di Ennio: "QUINTO ENNIO FECE". Un simile artifizio è certamente caratteristico di una mente attenta, non furente!

112 E nei libri sibillini, l'intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di séguito le prime lettere di quella frase. Questo è il modo di procedere di uno scrittore, non di un invasato; di uno che lavora con minuta accuratezza, non di un folle. Perciò teniamo ben appartata e segregata la Sibilla, in modo che, come ci è stato tramandato dai nostri antenati, senza un ordine esplicito del senato non vengano nemmeno letti i suoi libri, e servano a far abbandonare i timori superstiziosi anziché a farli sorgere. Coi sacerdoti addetti all'interpretazione di quei carmi facciamo un patto: che da quei libri tirino fuori qualsiasi cosa tranne un re, poiché d'ora in poi né gli dèi né gli uomini permetteranno che un re vi sia a Roma.

LV

"Ma" obietterai, "molti hanno spesso vaticinato il vero, come Cassandra: 'E già nel vasto mare...', e poco dopo: 'Ahimè, guardate!'"

113 Mi costringi dunque anche a credere alle invenzioni delle tragedie? Esse arrecheranno diletto artistico quanto vorrai, si faranno ammirare per le parole, per le frasi, per i ritmi, per la musica; ma nessuna autorità né credibilità dobbiamo attribuire a cose inventate. E allo stesso modo io sostengo che non si debba credere né a quel tale ignoto Publilio né ai vati Marcii né agli enigmi di Apollo: alcune di queste profezie sono chiaramente delle invenzioni, altre sono state proferite senza discernimento; nessuno, neanche di mediocre levatura, vi ha creduto, meno ancora le persone dotate d'ingegno.

114 "Ma come," dirai, "quel rematore della flotta di Coponio non predisse appunto ciò che poi avvenne?" Certo! Predisse appunto ciò che tutti, allora, temevano che accadesse. Sentivamo dire che in Tessaglia gli accampamenti dei due eserciti erano ormai l'uno di fronte all'altro; ritenevamo che l'esercito di Cesare avesse più sfrenato ardire, poiché aveva preso le armi contro la patria, e più forza per la lunga esperienza nel guerreggiare; l'esito della battaglia, nessuno di noi c'era che non lo temesse; ma, come si conveniva a persone dotate di fermezza d'animo, non davamo segni di timore. Quel greco invece, che c'è di strano se per un eccesso di paura, come tante volte accade, perse il controllo e il senno e uscì fuori di sé? In séguito a questa perturbazione d'animo, quelle cose che, finché era sano di mente, temeva, andava dicendo che sarebbero avvenute quand'ebbe perso la ragione. Ma, per tutti gli dèi e gli uomini, è più verosimile che la volontà degli dèi immortali sia stata prevista da un rematore impazzito o da qualcuno di noi che allora eravamo lì, da me, da Catone, da Varrone, da Coponio stesso?

LVI

115 Ma eccomi giunto a te, "O venerando Apollo, che occupi il vero ombelico del mondo, donde primamente uscì la profetica voce orrida, terribile." Dei tuoi oracoli Crisippo ha riempito un intero libro: alcuni falsi, a mio parere, altri avveratisi per caso, come spessissimo avviene in qualsiasi discorso, altri tortuosi e oscuri (cosicché l'interprete ha, a sua volta, bisogno di un interprete, e la sorte stessa va indagata ricorrendo alle sorti), altri ancora a doppio senso e bisognosi dell'indagine di un dialettico. Quando fu dato quel famoso responso al più ricco dei re d'Asia: "Creso attraversando l'Halys manderà in rovina una grande potenza" egli credette che avrebbe mandato in rovina la potenza dei nemici, mandò invece in rovina la propria:

116 si fosse verificata l'una o l'altra delle due possibilità, l'oracolo sarebbe egualmente apparso vero. Perché, d'altra parte, dovrei credere che Creso abbia mai ricevuto realmente questo responso? O perché dovrei considerare Erodoto più verace di Ennio? Erodoto non poté forse essere stato meno fantasioso a proposito di Creso di quanto lo fu Ennio a proposito di Pirro? Chi è disposto a credere che Pirro ricevé dall'oracolo di Apollo il responso: "Dico te, Eacide, poter vincere i romani"? Innanzi tutto, Apollo non parlò mai in latino; poi, di questo responso gli autori greci non sanno nulla; inoltre, al tempo di Pirro Apollo aveva già smesso di far versi; e infine, sebbene sia sempre stata, come Ennio dice, "Stolta la stirpe degli Eacidi - son potenti in guerra più che nella saggezza -", tuttavia Pirro avrebbe potuto capire che il doppio senso contenuto in quel verso, "te vincere i romani", non era per nulla più favorevole a lui che ai romani. Ché quel doppio senso che ingannò Creso avrebbe potuto ingannare anche un Crisippo, ma questo, relativo a Pirro, non avrebbe ingannato neanche Epicuro.

LVII

117 Ma, e questa è la cosa principale, come mai a Delfi non vengono più pronunciati oracoli di questo genere, e non solo ai nostri tempi, ma già da molto, di modo che niente può essere ormai oggetto di maggior disprezzo? Quando vengono messi alle strette su questo punto, rispondono che per l'antichità è svanita la forza di quel luogo, la quale produceva quelle esalazioni che esaltavano l'anima della Pizia e le facevano proferire gli oracoli. Diresti che costoro parlino del vino o della salamoia, che perdono sapore col tempo. Si tratta della. forza sprigionantesi da un luogo, e di una forza non meramente naturale, ma addirittura divina; come mai, dunque, essa è potuta svanire? "Per il lungo tempo trascorso," tu dirai. Ma quale durata di tempo può essere in grado di esaurire una forza divina? E, d'altra parte, che cosa può esserci di tanto divino quanto un afflato prorompente dalla terra, capace di eccitare la mente umana in modo da renderla presàga del futuro, in modo che la mente non solo lo veda con grande anticipo, ma anche lo reciti in versi ben ritmati? E quando codesta forza è svanita? Forse quando gli uomini incominciarono a essere meno crèduli?

118 Demostene, che visse circa trecento anni fa, già allora diceva che la Pizia "filippeggiava", cioè, per così dire, prendeva le parti di Filippo. Questa frase mirava a far intendere che la Pizia era stata corrotta da Filippo. È dunque lecito credere che anche in altri responsi dell'oracolo di Delfi vi sia stato qualcosa di non veritiero. Ma, non so come, sembra che questi filosofi superstiziosi e, starei per dire, fanatici vogliano a tutti i costi far la figura degli sciocchi. Vi ostinate a sostenere che è svanita ed estinta una forza che, se mai vi fosse stata, sarebbe senza dubbio eterna, piuttosto che rinunciare a credere cose incredibili.

LVIII

119 Un errore analogo si commette a proposito dei sogni. Da quanto lontano prendono le mosse nel difenderli! Sostengono che le nostre anime siano divine, e derivino dal di fuori di noi, e che il mondo sia pieno di una moltitudine di anime "consenzienti": quindi, in virtù della natura divina dell'anima in quanto tale e della sua connessione con le anime che riempiono l'universo, sarebbe possibile vedere il futuro. Zenone ritiene che l'anima si contragga e, in certo senso, scivoli giù e giaccia, e che appunto in ciò consista il sonno. Già Pitagora e Platone, autori di sommo valore, consigliano di andare a dormire predisposti da un regime di vita e da un'alimentazione appropriata, allo scopo di vedere in sogno cose più rispondenti al vero; i pitagorici prescrivono di astenersi assolutamente dal mangiar fave, come se quel cibo gonfiasse l'anima, non il ventre. Ma, non so come, non si può immaginare nulla di tanto assurdo che non sia sostenuto da qualche filosofo.

120 Riteniamo dunque che le anime dei dormienti si muovano da sé mentre sognano, oppure che, come sostiene Democrito, siano colpite da visioni esterne ed estranee? Sia vera questa opinione o quell'altra, rimane il fatto che moltissime cose false possono apparir vere a chi sogna. Anche ai naviganti sembra che si muovano cose che stanno ferme; e, per una sensazione degli occhi deviati, l'unica luce di una lucerna può apparire doppia. E che dire dei pazzi, o degli ubriachi? Quante visioni fallaci essi hanno! Ma se non si deve credere a visioni di questo genere, non capisco perché si debba credere ai sogni. Giacché, se volessimo, potremmo sostenere a proposito di questi errori visivi le stesse cose che si sostengono a proposito dei sogni, e, di conseguenza, potremmo dire che le cose ferme, qualora sembrino in movimento, siano il segno premonitore di un terremoto o di una qualche sconfitta improvvisa, e che il veder doppia la fiamma di una lucerna sia presagio di discordie civili e di sedizioni.

LIX

121 E ancora, dalle visioni dei pazzi o degli ubriachi si potrebbero, con l'arte congetturale, dedurre innumerevoli cose che dovrebbero accadere in futuro. Chi, in effetti, tirando l'arco per una giornata intera, non finirà col far centro una buona volta? Noi sogniamo per notti intere, e non c'è quasi nessuna notte nella quale non dormiamo; e ci meravigliamo che una volta o l'altra ciò che abbiamo sognato si avveri? Che c'è di tanto incerto quanto un colpo di dadi? Eppure non c'è nessuno che, lanciandoli più volte, ottenga una volta il "colpo di Venere", talora anche due, anche tre volte. Diremo allora, come gli sciocchi, che ciò avviene per un intervento di Venere, non per caso? E se nelle altre ore del giorno non bisogna credere alle visioni false, non vedo quale condizione privilegiata abbia il sonno, tale che in esso le cose valgano per vere.

122 E se la natura avesse predisposto le cose in modo che i dormienti dovessero fare ciò che sognano, bisognerebbe legare tutti quelli che vanno a dormire: ché durante il sogno si abbandonerebbero ad atti più inconsulti di quelli di qualsiasi pazzo. Se, d'altra parte, non dobbiamo prestar fede alle visioni dei pazzi perché sono false, non capisco perché si creda alle visioni di quelli che sognano, le quali sono molto più confuse; forse perché i pazzi non narrano le loro visioni all'interprete, mentre le narrano quelli che han fatto un sogno? Domando anche: se io voglio scrivere o leggere qualcosa, o cantare o sonare la cetra, o risolvere un problema di geometria, di fisica, di dialettica, dovrò aspettare l'ispirazione dàtami da un sogno, o sarà meglio che usi le mie cognizioni, senza le quali non si può fare né portare a soluzione nessuna di quelle attività? E ancora: nemmeno se volessi navigare, reggerei il timone basandomi su precetti ricevuti in sogno; ché ne pagherei sùbito un duro prezzo!

123 Come, dunque, è plausibile che gli ammalati chiedano la cura all'interprete di sogni anziché al medico? Forse Esculapio, forse Serapide ci può prescrivere durante il sonno la cura per recuperare la salute, e invece Nettuno non può dare egli stesso i precetti ai naviganti? E se Minerva prescriverà la medicina senza bisogno del medico, le Muse non daranno in sogno la capacità di scrivere, di leggere, di esercitare tutte le altre arti? Ma se ci venisse concessa in questo modo la facoltà di curarci la salute, ci verrebbero concesse anche le altre doti a cui ho accennato; e siccome quelle non ci sono concesse, non ci è concessa l'arte medica; esclusa la quale, risulta confutata ogni autorità dei sogni.

LX

124 Ma ammettiamo che anche queste siano osservazioni superficiali; scaviamo ora più a fondo. O un potere divino che si prende cura di noi ci dà direttamente i precetti per mezzo dei sogni, o gli interpreti, basandosi su una coerenza e concordanza della natura, che chiamano sympátheia, comprendono che cosa, nei sogni, corrisponda a un determinato evento e quale ulteriore risultato consegua da ciascun evento; o nessuna di queste due cose è vera, e tutto si fonda su un'osservazione lunga e costante di ciò che suole avvenire come conseguenza di una visione avvenuta durante il sonno. In primo luogo, dunque, bisogna comprendere che non esiste alcuna forza divina produttrice dei sogni. E questo, in effetti, è evidente: che nessuna visione apparsa nel sonno proviene dalla volontà degli dèi. Per il nostro bene, infatti, gli dèi farebbero sì che noi potessimo prevedere il futuro.

125 Ma quanti sono quelli che davvero obbediscono ai sogni, li comprendono, li ricordano? Quanto più numerosi, invece, quelli che li disprezzano e li considerano una superstizione degna di un animo debole, da vecchierelle? Quale motivo c'è, dunque, per cui la divinità, premurosa verso tutti costoro, li avverta mediante sogni, mentre essi non ritengono quei sogni meritevoli non dico di attenzione, ma nemmeno di ricordo? Ché da un lato la divinità non può ignorare come la pensa ciascuno di noi, dall'altro non è degno della divinità fare qualcosa inutilmente e senza motivo; perfino gli uomini che agissero così si mostrerebbero poco seri! Perciò, se la maggior parte dei sogni sono ignorati o trascurati, una delle due: o la divinità non sa che le cose stanno così, o ricorre senza frutto agli avvertimenti dei sogni; ma né l'una né l'altra cosa si addice alla divinità; bisogna quindi riconoscere che la divinità non ci dà alcun segno premonitore mediante i sogni.

LXI

126 Un'altra cosa vorrei sapere: se la divinità ci manda queste visioni per il nostro bene, perché non ce le manda mentre siamo svegli, non mentre dormiamo. O che un impulso esterno ed estraneo ecciti le anime dei dormienti, o che le anime si eccitino da sé, o che vi sia qualunque altra causa che ci dia l'impressione di vedere, udire, fare qualcosa durante il sonno, la medesima causa poteva valere riguardo a noi durante la veglia; e se gli dèi facessero ciò per il. nostro bene mentre dormiamo, farebbero altrettanto mentre siamo svegli, tanto più in quanto Crisippo, polemizzando contro gli accademici, dice che sono molto più chiare e sicure le cose da noi viste in stato di veglia che quelle che ci appaiono in sogno. Sarebbe stato quindi più degno della bontà divina - se davvero gli dèi intendessero con questo mezzo curarsi di noi - inviare visioni più chiare a chi è sveglio, non più oscure a chi dorme. Ma siccome ciò non accade, i sogni non sono da considerare di origine divina.

127 E insomma, che bisogno ci sarebbe di tortuosità e di raggiri, tali da costringerci a ricorrere agli interpreti dei sogni? La divinità, se voleva davvero giovarci, non poteva dirci senza intermediari "Fa' questo, non fare quest'altro", e apparirci mentre eravamo svegli, non mentre dormivamo?

LXII

Del resto, chi oserebbe dire che tutti i sogni sono veri? "Alcuni sogni sono veri," dice Ennio, "ma tutti veri non è necessario che siano." Ma che distinzione è mai questa? Quali sogni dovremo annoverare fra i veri, quali fra i falsi? E se i veri sono inviati dalla divinità, i falsi donde nascono? Se anch'essi sono divini, che cosa c'è di più incoerente della divinità? E che cosa di più sciocco che turbare le menti dei mortali con visioni false e menzognere? Se poi le visioni vere sono divine, le false e inconsistenti umane, che cos'è codesta arbitraria facoltà di attribuzione, tale che un sogno sarebbe prodotto dalla divinità, un altro dalla natura, e non piuttosto o tutti dalla divinità (ma voi dite di no), o tutti dalla natura? Dal momento che negate la prima alternativa, è necessario ammettere la seconda.

128 Chiamo natura quella condizione per cui l'anima, non mai ferma, non può essere esente da agitazione e da moto. Quando, per la stanchezza del corpo, l'anima non può fare uso né delle membra né dei sensi, incorre in visioni varie e confuse, derivanti, come dice Aristotele, dalla persistenza delle tracce di ciò che ha fatto o ha pensato durante la veglia. Dal mescolarsi incoerente di questi ricordi sorgono talvolta stranissime immagini di sogni; se alcuni di questi sogni sono falsi, altri veri, sarei davvero curioso di sapere con quale criterio si possano discernere gli uni dagli altri. Se un tale criterio non c'è, a che pro andiamo a consultare quegli interpreti? Se invece ce n'è uno, bramerei di sapere qual è; ma rimarranno in imbarazzo.

LXIII

129 È venuto ormai il momento di discutere quale di queste alternative sia più probabile: che gli dèi immortali, superiori a qualsiasi altro essere, scorrazzino e vadano a visitare non solo i letti ma anche i miseri giacigli di tutti i mortali, dovunque essi si trovino, e, ogni qual volta vedono uno che russa, gli ispirino delle visioni confuse e oscure, che quel tale, svegliatosi in preda al terrore, la mattina dopo riferisca all'interprete, oppure che per un fenomeno naturale l'anima, continuamente mossa, abbia l'impressione di vedere mentre dorme ciò che ha visto da sveglia. Che cosa si addice di più alla filosofia, interpretare questi fatti ricorrendo alla superstizione delle fattucchiere o alla spiegazione secondo la natura? Sicché, se pur potesse esistere una verace interpretazione dei sogni, costoro, che la professano, non sarebbero capaci di compierla: sono infatti gente del tutto priva di serietà e ignorantissima. I tuoi stoici, d'altra parte, dicono che nessuno, tranne il sapiente, può essere indovino.

130 Crisippo definisce la divinazione con queste parole: "Una facoltà di conoscere, ravvisare e spiegare i segni che vengono mostrati dagli dèi agli uomini"; e aggiunge che il còmpito della divinazione è di sapere in precedenza quali predisposizioni abbiano gli dèi verso gli uomini, di che cosa li avvisino con quei segni, in che modo si possa ovviare ai cattivi presagi ed espiarli. Ancora Crisippo definisce così l'interpretazione dei sogni: una capacità di scorgere e di spiegare che cosa gli dèi intendono presagire agli uomini nei sogni. E che, dunque? Per raggiungere un simile scopo basta un'intelligenza mediocre o ci vuole un ingegno eccezionale e un sapere perfetto? Ma un interprete fornito di tali doti non l'ho conosciuto mai.

LXIV

131 Attento, dunque: anche se un giorno ti avrò concesso che la divinazione esiste - ma non lo farò mai -, rischieremo di non trovare nessun vero indovino. Di che sorta è, poi, codesta provvidenza degli dèi, dal momento che nei sogni non ci indicano né cose che siamo capaci di comprendere da noi, né cose per le quali possiamo ricorrere a un interprete degno di fede? Se gli dèi ci mettono innanzi dei segni dei quali non abbiamo né conoscenza né qualcuno che ce li spieghi, si comportano come cartaginesi o spagnoli i quali venissero a parlare nel nostro senato senza interprete.

132 E insomma, a che servono le oscurità e gli enigmi dei sogni? Gli dèì avrebbero dovuto volere che noi comprendessimo ciò di cui ci preavvisavano per il nostro bene. "Ma," tu dirai, "forse nessun poeta, nessun filosofo della Natura è oscuro?"

133 Certo, quel famoso Euforione è oscuro anche troppo; ma non lo è Omero: quale dei due è miglior poeta? È estremamente oscuro Eraclìto, non lo è per nulla Democrito: si può fare tra loro un paragone? Per il mio bene mi dai un avvertimento che io non sono in grado di capire: con che frutto, dunque, mi avverti? Sarebbe come se un medico prescrivesse a un malato di prender come cibo "la nata dalla terra, strisciante sull'erba, portatrice della propria casa, priva di sangue" invece di dire, come diciamo tutti, "lumaca". E dopo che l'Anfione della tragedia di Pacuvio ha detto in modo assai oscuro: "Una bestia quadrupede, dal cammino lento, selvatica, bassa di statura, ruvida, dalla testa corta, dal collo simile a quello d'un serpente, dall'aspetto truce, privata delle viscere, inanimata eppure capace di emettere un suono come un essere animato," gli attici replicano: "Non comprendiamo, se non lo dici apertamente." E quegli, allora, con una sola parola: "una tartaruga." Non avresti dunque potuto, o citaredo, dire ciò fin dal principio?

LXV

134 Un tale riferisce all'interprete di aver sognato che un uovo era appeso a una fascia del suo letto (il sogno è narrato da Crisippo nel suo libro). L'interprete risponde che sotto il letto è seppellito un tesoro. Quello scava, trova una. certa quantità d'oro, circondata d'argento. Manda come compenso all'interprete un pochino di argento, non più di quanto gli sembrava bastante. Allora l'interprete: "E del tuorlo dell'uovo non mi dài niente?"; poiché riteneva che questa parte dell'uovo designasse l'oro, il resto l'argento. Nessun altro, dunque, sognò mai un uovo? Perché, allora, soltanto questo tale trovò un tesoro? Quanti poveri, meritevoli d'un aiuto degli dèi, non sono indotti da alcun sogno a trovare un tesoro! E per qual motivo quel tale fu messo sull'avviso da un sogno così difficile, in modo che dall'immagine dell'uovo sorgesse per analogia l'idea del tesoro, e non gli si consigliò apertamente di cercare un tesoro, come apertamente Simonide fu ammonito a non imbarcarsi?

135 I sogni oscuri, dunque, non si addicono affatto alla maestà degli dèi.

LXVI

Eccoci ai sogni chiari e palesi, come quello riguardante l'amico ucciso dall'oste a Megara, come quello toccato a Simonide, il quale fu sconsigliato di imbarcarsi da quel tale che egli aveva seppellito, come anche quello concernente Alessandro, che mi meraviglio tu abbia omesso. Un suo amico intimo, Tolomeo, era stato colpito in battaglia da una freccia avvelenata e a causa di quella ferita, con sommo dolore di Alessandro, stava morendo. Mentre gli sedeva accanto, a un certo momento Alessandro fu vinto dal sopore. Allora, si narra, gli apparve in sogno quel serpente che sua madre Olimpiade teneva con sé: esso recava in bocca una piccola radice, e nello stesso tempo disse ad Alessandro in quale luogo nasceva (era non molto distante da dove si trovavano allora); tale era il potere di quella radice, da guarire facilmente Tolomeo. Alessandro, svegliatosi, narrò agli amici il sogno; furono mandati in giro degli uomini a cercare la radice; fu trovata, e si dice che da essa furono guariti sia Tolomeo, sia molti soldati che erano stati feriti da frecce intinte in quel medesimo veleno.

136 Tu hai menzionato anche molti altri sogni tratti da narrazioni storiche: della madre di Falaride, di Ciro il vecchio, della madre di Dionisio, del cartaginese Amilcare, di Annibale, di Publio Decio; notissimo è inoltre quel sogno riguardante il prèsule, e così pure quello di Gaio Gracco e l'altro, recente, di Cecilia figlia di Metello Balearico. Ma questi sogni sono estranei a noi e perciò ci rimangono ignoti; alcuni forse sono anche inventati: chi ne è il garante? Quanto ai nostri sogni, che cosa possiamo dire? Tu puoi menzionare quello riguardante me e il mio cavallo che vedesti riemergere e venire a riva, io quello di Mario, che, coi fasci ornati d'alloro, ordinava che io fossi condotto nel tempio da lui edificato.

LXVII

Di tutti i sogni, caro Quinto, una sola è la causa; e noi, per gli dèi immortali, stiamo attenti a non oscurarla con la nostra superstizione e con le nostre idee distorte.

137 Quale Mario tu pensi che io abbia visto in sogno? Una sua sembianza, credo, una sua immagine, come ritiene Democrito. Donde sarebbe provenuta codesta immagine? Democrito sostiene che dai corpi solidi e da oggetti ben delimitati si emanano le immagini; a che cosa si era, dunque, ridotto ormai il corpo di Mario? "L'immagine," replicherà un democriteo, "provenne da quello che era stato il corpo di Mario." Era dunque codesta l'immagine di Mario che mi si fece incontro nella pianura di Atina? "Tutto lo spazio è pieno d'immagini: nessuna percezione è concepibile senza che qualche immagine colpisca la nostra vista."

138 Ma, dunque, codeste immagini sono talmente obbedienti ai nostri ordini da accorrere appena noi lo vogliamo? Anche le immagini di quelle cose che non esistono? Ma quale figura c'è, tanto giammai veduta, tanto inesistente, che l'anima non possa costruirsi con la fantasia, di modo che noi possiamo rappresentarci dentro di noi cose che non abbiamo mai visto, città collocate in una data posizione, sembianze di uomini?

139 Quando, dunque, penso alle mura di Babilonia o al volto di Omero, è forse una loro immagine che viene a colpirmi? In tal caso, tutto ciò che vogliamo può esserci noto, poiché non c'è niente a cui non possiamo pensare; nessuna immagine, dunque, s'insinua dal di fuori nelle anime dei dormienti, né, in generale, si distacca dai corpi solidi; e io non ho avuto notizia di alcuno che con maggiore autorità dicesse cose senza senso. Alle anime appartiene il potere e la caratteristica di essere sempre attive e vigilanti, non per un impulso esterno, ma per il proprio movimento straordinariamente veloce. Quando le anime hanno al loro servizio le membra, il corpo, i sensi, vedono, pensano, percepiscono tutto con più nitidezza. Quando questi ausilii vengono meno e l'anima rimane sola per il sopore del corpo, rimane da sola in stato di attività. Perciò in essa si presentano visioni e azioni, e all'anima sembra di ascoltare molte cose, di dirne molte.

140 Queste numerose impressioni, confuse e modificate in ogni maniera, si agitano nell'anima indebolita e abbandonata a se stessa; e quelli che soprattutto si muovono e agiscono nelle anime sono i resti di ciò che abbiamo pensato o fatto quando eravamo svegli. Per esempio, in quell'epoca io pensavo molto a Mario, ricordando con quale grandezza d'animo, con quale fermezza aveva affrontato la sua grave sventura. Questa, credo, fu la ragione per cui io lo sognai.

LXVIII

In un periodo, poi, in cui tu pensavi a me con preoccupazione, ti apparii in un sogno, improvvisamente emerso da un fiume. Nell'anima tua come nella mia, dunque, c'erano tracce di pensieri che avevamo avuto da svegli. Ma nei nostri sogni si aggiunse qualcosa in più: nel mio sogno il tempio fatto edificare da Mario, nel tuo il fatto che il cavallo sul quale io viaggiavo, sommerso insieme a me, riemerse anch'esso all'improvviso.

141 O tu credi che ci sarebbe mai stata anche una sola vecchierella tanto svanita di mente da credere ai sogni, se non capitasse qualche volta che essi, per puro caso, corrispondessero alla realtà? Ad Alessandro sembrò che un serpente parlasse. La cosa può essere completamente falsa, può essere anche vera; ma, anche ammesso che sia vera, non è prodigiosa: Alessandro non sentì parlare il serpente, ma gli parve di sentirlo; e, perché il fatto sembri ancor più straordinario, parlò tenendo in bocca una radice; ma nulla è straordinario per chi sogna! Vorrei sapere, poi, perché ad Alessandro capitò un sogno così chiaro, così sicuro, ma egli stesso non ne ebbe mai in altre circostanze, e non ne ebbero molti di questa sorta le altre persone. A me, certo, tranne quel sogno di Mario, non ne sono capitati altri, che io ricordi. Invano, dunque, ho consumato tante notti, in una vita così lunga!

142 Adesso, per l'interruzione dell'attività forense, ho eliminato le veglie trascorse nel preparare i discorsi e mi sono concesso dei sonnellini pomeridiani, ai quali prima non ero abituato; e, pur dormendo tanto, non sono stato preavvisato da alcun sogno, nonostante tutto quel che è accaduto; quando vedo i magistrati nel foro o il senato nella Curia, allora sì, mi sembra di sognare come non mai.

LXIX

Inoltre (passiamo, secondo la nostra ripartizione, al secondo punto) che cos'è questa compattezza e concordia generale della natura, che, come ho detto, chiamano sympátheia, tale che un uovo debba essere il segno di un tesoro nascosto? I medici comprendono, in base a certi sintomi, l'approssimarsi e l'aggravarsi di una malattia; dicono anche che alcuni tipi di sogni possono fornire certe indicazioni sullo stato di salute, per esempio anche questa, se siamo ben pasciuti o denutriti. Ma un tesoro, un'eredità, un conseguimento d'una carica, una vittoria in battaglia, e molte altre cose di questo genere, da quale affinità naturale sono collegate ai sogni?

143 Si narra che un tale, mentre sognava di congiungersi sessualmente con una donna, emise dei calcoli dalla vescica. Qui vedo la sympátheia: in sogno gli apparve una visione tale che l'evento realmente accaduto fu prodotto da un impulso della natura, non da un'illusione erronea. Ma quale forza naturale fece apparire a Simonide quel sogno dal quale fu sconsigliato di imbarcarsi? O quale connessione con la natura può aver avuto il sogno che, a quanto si tramanda, fece Alcibiade? Egli, poco prima di morire, sognò di essere ravvolto nel mantello della sua amante. Quando il suo cadavere giacque buttato a terra con spregio, insepolto e abbandonato da tutti, l'amante lo ricoprì col suo mantello. Ciò dunque era stato determinato in precedenza e aveva cause naturali, oppure per un mero caso avvennero sia il sogno, sia l'evento?

LXX

144 Del resto, le previsioni degli interpreti non indicano anch'esse le varie sottigliezze di costoro anziché il potere e l'interconnessione della natura? Un corridore che si riprometteva di andare alle Olimpiadi sognò di esser trasportato da una quadriga. La mattina dopo, eccolo dall'interprete. "Vincerai," gli disse costui; "la velocità e l'impeto dei cavalli hanno questo significato." Poi si recò da Antifonte. "È destinato" gli rispose "che tu perda; non capisci che nel sogno quattro corridori ti precedevano?" Ecco un altro corridore (e di questi sogni e di altri della stessa specie è pieno il libro di Crisippo, pieno quello di Antipatro; ma ritorniamo al nostro corridore): riferì a un interprete che aveva sognato di essere trasformato in un'aquila. E quello: "Hai bell'e vinto; ché nessun uccello vola con più impeto di questo." Ma Antifonte: "Stupido! Non capisci che sei già sconfitto? Quest'uccello, l'aquila, poiché insegue e dà la caccia agli altri uccelli, vola sempre per ultima rispetto a loro."

145 Una matrona che desiderava aver figli, incerta se fosse o no incinta, sognò di aver la natura sigillata. Lo disse a un interprete. Quello rispose che, poiché era sigillata, non aveva potuto concepire. Ma un altro le disse che era incinta, perché non si usa sigillare alcun recipiente vuoto. Che razza d'arte è questa, dell'interprete che con le sue sottigliezze si fa beffe della gente? Gli esempi che ho citato, e gli innumerevoli altri che gli stoici hanno raccolto, dimostrano forse qualche altra cosa se non l'acume di uomini che, in base a una certa analogia, rivolgono la loro interpretazione ora in un senso, ora in un altro? I medici conoscono certi sintomi tratti dalle pulsazioni delle vene e dal respiro del malato, e in base a molti altri indizi prevedono l'andamento della malattia; i navigatori, quando vedono i tòtani guizzare a fior d'acqua o i delfini affrettarsi verso il porto, capiscono che è indizio di burrasca. Questi fatti possono essere spiegati razionalmente ed essere ricondotti a cause naturali; ma quelli che ho citato poco fa non lo possono in alcun modo.

LXXI

146 "Ma l'assidua osservazione, con la registrazione dei fatti, creò l'arte divinatoria": questa è l'ultima difesa che resta. da prendere in esame. Ma lo credi davvero? "I sogni si possono osservare." In che modo? Ve ne sono innumerevoli varietà. Non si può immaginare niente di così assurdo, incoerente, mostruoso che non possa apparirci in sogno: in che modo queste visioni infinite e sempre nuove si possono ricordare o registrare mediante l'osservazione? Gli astronomi hanno potuto notare i movimenti dei pianeti: nei loro movimenti, infatti, si è scoperta una regolarità di cui prima non si aveva alcuna idea. Ma dimmi un po' quale è l'ordine o la coincidenza dei sogni; in che modo, poi, si possono distinguere i sogni veri dai falsi, poiché gli stessi sogni dànno luogo a risultati diversi per le diverse persone, e nemmeno per la stessa persona l'evento è sempre uguale? Sicché mi sembra stranissimo che, mentre a un bugiardo siamo soliti non credere nemmeno quando dice la verità, codesti fautori dei sogni, se una volta tanto un sogno si è avverato, non neghino fede a quell'unico fra tanti, invece di legittimarne innumerevoli sul fondamento di uno solo.

147 Se, dunque, né la divinità è causa dei sogni, né vi è alcuna connessione fra la natura e i sogni, né la scienza dei sogni si è potuta stabilire mediante l'osservazione, la conclusione è che ai sogni non si deve attribuire assolutamente alcun valore, tanto più che quelli che fanno sogni non sanno prevedere nulla in base a essi, quelli che li interpretano ricorrono a spiegazioni vaghe, non a leggi naturali, e il caso, nel volgere di innumerevoli secoli, ha prodotto in ogni campo più effetti mirabili che nelle visioni dei sogni, e niente è più incerto dell'interpretazione, la quale si può trascinare in varie direzioni, spesso in direzioni addirittura opposte.

LXXII

148 Si cacci via, «dunque,» anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana. L'ho detto nell'opera Della natura degli dèi e ne ho trattato più particolarmente in questa discussione. Ho pensato che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione. Né, d'altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l'eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzi tutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell'universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirarla.

149 Perciò, come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione. Essa incalza e preme e, dovunque tu ti volga, ti perseguita, sia che tu abbia dato ascolto a un indovino, sia a un detto casuale, sia che abbia compiuto un sacrificio o abbia veduto un uccello, o abbia appena scòrto un caldeo, un arùspice, o abbia visto lampi o udito tuoni, o un luogo sia stato colpito dal fulmine, o sia nato o si sia prodotto qualcosa di simile a un prodigio. Qualcuno di questi eventi è inevitabile che spesso accada, cosicché non è mai possibile sostare con animo pacato.

150 Può sembrare che lo scampo da tutti i travagli e le ansie sia il sonno. Ma anche da esso sorgono in gran copia affanni e timori, i quali, di per se stessi, avrebbero minor forza e si potrebbero più facilmente trascurare, se i filosofi non avessero assunto il compito di avvocati difensori dei sogni. E non parlo di quei filosofi disprezzati da tutti, ma di quelli particolarmente acuti e capaci di vedere le coerenze e le contraddizioni, di quelli che sono ormai ritenuti perfetti e superiori a tutti. Se alla loro arroganza non avesse fatto fronte Carneade, forse sarebbero ormai considerati gli unici filosofi degni di questo nome. Contro di essi è rivolta quasi tutta questa mia veemente discussione, non perché io li disprezzi più degli altri, ma perché può sembrare che essi difendano le loro idee con più acume e dottrina di tutti. Siccome, d'altra parte, è un principio basilare dell'Accademia non imporre mai alcun proprio giudizio, dare il proprio assenso a quelle tesi che più appaiono vicine alla verità, mettere a confronto le ragioni di ciascuno ed esporre ciò che si può dire contro ciascuna opinione, lasciare agli uditori il loro giudizio libero e illeso senza far pesare in alcun modo su di essi la propria autorità, manterremo questa consuetudine ereditata da Socrate e la metteremo in pratica tra di noi - se a te, fratello mio Quinto, piacerà - il più spesso possibile." Per me, rispose Quinto, nulla può essere più piacevole. E, detto ciò, ci alzammo.