Come la figlia del mattin, la bella
Dalle dita di rose Aurora surse,
Surse di letto anche il figliuol d'Ulisse,
I suoi panni vestì, sospese il brando
Per lo pendaglio all'omero, i leggiadri
Calzari strinse sotto i molli piedi
E della stanza uscì rapidamente,
Simile ad un degli Immortali in volto.
Tosto agli araldi dall'arguta voce
Chiamare impose i capelluti Achivi;
E questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si ragunaro, s'affollaro. Ei pure
Al parlamento s'avviò: tra mano
Stavagli un'asta di polito rame
E due bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa ciascun, mentr'ei mutava il passo,
E il paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:
Tanta in quel punto e sì divina grazia
Sparse d'intorno a lui Pallade amica.
Chi ragionò primiero? Egizio illustre,
Che il dorso avea per l'età grande in arco,
E di vario saver ricca la mente.
Sulle navi d'Ulisse alla feconda
Di nobili destrier ventosa Troia
Andò il più caro de' figliuoli, Antìfo;
E a lui diè morte nel cavato speco
Il Ciclope crudel, che la cruenta
S'imbandì del suo corpo ultima cena.
Tre figli al vecchio rimanean: l'un, detto
Eurìnomo, co' proci erasi unito,
E alla coltura de' paterni campi
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,
Che più non ha, sempre s'affisa il padre,
Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte
Parole allor, pur lagrimando, sciolse:
«O Itacesi, uditemi. Nessuna,
Dacché Ulisse levò nel mar le vele,
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse
Di estrania gente che s'appressi armata?
O d'altro, da cui penda il ben comune,
Ci viene a favellar? Giusto ed umano
Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri
Per la sua mente, il favorisca Giove!
Telemaco gioìa di tali accenti,
Quasi d'ottimo augurio, e, sorto in piedi,
Ché il pungea d'arringar giovane brama,
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli araldi Pisènore lo scettro
Prese, e ad Egizio indi rivolto: «O», disse,
«Buon vecchio, non è assai quinci lontano
L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi,
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di gente che a noi s'appressi armata,
Né d'altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d'un male, anzi di duo,
Che aspramente m'investono ad un'ora.
Il mio padre io perdei! Che dico il mio?
Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre,
Più assai che re, si dimostrava Ulisse.
E a questa piaga, ohimè l'altra s'arroge,
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi dal suo fondo a me la casa.
Noioso assedio alla ritrosa madre
Poser de' primi tra gli Achivi i figli.
Perché di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan tanto, che la figlia ei doti
E a consorte la dia cui più vuol bene?
L'intero dì nel mio palagio in vece
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo e dell'armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando,
Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, né uguale all'opra
In me si trova esperïenza e forza.
Oh così le avess'io, com'io le bramo!
Poscia che il lor peccar varca ogni segno.
E, che più m'ange, con infamia io pero.
Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto;
Temete il biasmo delle genti intorno;
Degl'immortali dèi, non forse cada
Delle colpe de' proci in voi la pena,
L'ira temete. Per l'Olimpio Giove,
Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,
Costoro, amici, d'aizzarmi contro
Restate, e me lasciate a quello in preda
Cordoglio sol, che il genitor mi reca.
Se non che forse Ulisse alcuni offese
De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti
Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi
Stendete ai beni la rapace destra:
Meglio fôra per me, quando consunti
Suppellettil da voi fóssemi e censo,
Da voi, dond'io sperar potrei restauro.
Vi assalirei per la città con blande
Parole ad uno ad un, né cesserei,
Che tutto in poter mio pria non tornasse,
E di nuovo s'ergesse in piè il mio stato.
Ma or dolori entro del petto, a cui
Non so rimedio alcun, voi mi versate.
Detto così, gittò lo scettro a terra,
Ruppe in lagrime d'ira e viva corse
Di core in cor nel popolo pietade.
Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d'una risposta,
Tutti stavano i proci. Antìnoo solo
Sorse e arringò: «Telemaco, a cui bolle
Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,
Quai parole parlasti ad onta nostra?
Improntar sovra noi macchia sì nera?
Non i migliori degli Achei: la cara
Tua madre e l'arti, ond'è maestra, incolpa.
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,
Che degli amanti suoi prendesi gioco;
Tutti di speme e d'impromesse allatta,
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Tela sottile, tela grande, immensa,
Questo ancor non pensò novello inganno?
A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:
"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poiché già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch'io questo possa
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte,
Acciò le fila inutili io non perda,
Prima fornir, che l'inclemente Parca,
Di lunghi sonni apportatrice, il colga.
Non vo' che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo,
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".
Con simil fola leggermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finché il giorno splendea, tessea la tela
Superba, e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di mute faci.
Così un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le volubili ore anno sorvenne,
Noi da un'ancella non ignara instrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice: quindi
Compierla dové al fin, benché a dispetto.
Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,
Ecco risposta che ti fanno i proci.
Accommiata la madre, e quel di loro,
Che non dispiace a Icario e a lei talenta,
A disposar costringila. Ma dove,
Le doti usando, onde la ornò Minerva,
Che man formolle così dotta e ingegno
Tanto sagace, e accorgimenti dielle,
Quali non s'udir mai né dell'antiche
Di Grecia donne dalle belle trecce,
Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì fini pensier mai non fioriro;
Dove credesse lungo tempo a bada
Tenerci ancor, la sua prudenza usata
Qui l'abbandonerìa. Noi tanto il figlio
Consumerem, quanto la madre in core
Serberà questo suo, che un dio le infuse,
Strano proposto. Eterna gloria forse
A sé procaccerà, ma gran difetto
Di vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te pensiam non istaccarci, s'ella
Quel che le aggrada più pria non impalma».
«Io», rispose Telemaco, «di casa
Colei sbandir, donde la vita io tengo?
Dal cui lattante sen pendei bambino?
Grave inoltre mi fôra, ov'io la madre
Dipartissi da me, sì ricca dote
Tornare a Icario. Cruccierìasi un giorno
L'amato genitor che forse vive,
Benché lontano, e punìrianmi i numi,
Perch'ella, slontanandosi, le odiate
Implorerìa vendicatrici Erinni.
Che le genti dirìan? No; tal congedo
Non sarà mai ch'io liberi dal labbro.
L'avete voi per mal? Da me sgombrate;
Gozzovigliate altrove; alternamente
L'un l'altro inviti, e il suo retaggio scemi.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguìte. Io dell'Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Speme che il Saturnìde a tai misfatti
La debita mercé renda, e che inulto
Scorra nel mio palagio il vostro sangue».
Sì favellò Telemaco, e dall'alto
Del monte due volanti aquile a lui
Mandò l'eterno onniveggente Giove.
Tra lor vicine, distendendo i vanni,
Fendean la vana regïon de' venti.
Né prima fur dell'assemblea sul mezzo,
Che si volsero in giro, e, l'ali folte
Starnazzando, e mirando tutti in faccia,
Morte auguraro: al fin, poiché a vicenda
Con l'unghie il capo insanguinato e il collo
S'ebber, volaro a destra, e dileguârsi
Della città su per gli eccelsi tetti.
Maravigliò ciascuno, e ruminava
Fra sé quai mali promettesse il fato.
Quivi era un uom di molto tempo e senno,
Di Mastore figliuol, detto Aliterse,
Che nell'arte di trar dagli osservati
Volanti augelli le future cose,
Tutti vinceva i più canuti crini.
«Itacesi, ascoltatemi, e più ancora
M'ascoltin», disse, «i proci, a cui davante
S'apre un gran precipizio. Ulisse lungi
Da' cari suoi non rimarrà molt'anni.
Che parlo? Ei spunta, e non ai soli proci
Strage prepara e morte: altri, e non pochi
Che abitiam la serena Itaca, troppo
Ci accorgerem di lui. Consultiam dunque
Come gli amanti, che pel meglio loro
Cessar dovrìan per sé, noi raffreniamo.
Uom vi ragiona de' presagi esperto
Per lunghissima prova. Ecco maturo
Ciò ch'io vaticinai, quando per Troia
Scioglieano i Greci, e Ulisse anch'ei salpava.
«Molti», io gridai, «patirà duoli, e tutti
Perderà i suoi: ma nel ventesim'anno,
Solo e ignoto a ciascun, farà ritorno».
Già si compie l'oracolo: tremate!»
«Folle vecchiardo, in tua magion ricovra»,
Eurìmaco di Pòlibo rispose,
«oracoleggia ai figli tuoi, non forse
Gl'incolga un dì qualche infortunio. Assai
Più là di te ne' vaticinî io veggio.
Volan, rivolan mille augelli e mille
Per l'aere immenso, e non dibatton tutti
Sotto i raggi del sol penne fatali.
Quinci lontano perì Ulisse. Oh fossi
Tu perito con lui! Ché non t'udremmo
Profetare in tal guisa, e il furor cieco
Secondar di Telemaco, da cui
Qualche don, credo, alle tue porte attendi.
Ma oracol più verace odi. Se quanto
D'esperïenza il bianco pel t'addusse,
A sedurre il fanciullo e a più infiammarlo
L'adopri, tu gli nuoci, a' tuoi disegni
Non giovi, e noi tale imporremti multa,
Che morte fìati il sostenerla. Io poi
Tal consiglio al fanciul porgo: la madre
Rimandi a Icario, che i sponsali e ricca,
Qual dee seguir una diletta figlia,
Dote apparecchierà. Prima io non penso
Che da questa di nozze ardua tenzone
I figli degli Achei vorran giù tôrsi.
Di nessuno temiam; non, benché tanto
Loquace, di Telemaco; né punto
Del vaticinio ci curiam, che indarno
T'uscì, vecchio, di bocca, e che fruttarti
Maggiore odio sol può. Fine i conviti
Non avran dunque, e non sarà mai calma,
Finché d'oggi in doman costei ci mandi.
Noi ciascun dì contenderem per lei,
Né ad altre donne andrem, quali ha l'Acaia
Degne di noi, perché cagion primiera
Dell'illustre contesa è la virtude».
«Eurìmaco e voi tutti», il giovinetto
Soggiunse allor, «competitori alteri,
Non più: già il tutto sanno uomini e dèi.
Or non vi chiedo che veloce nave
Con dieci e dieci poderosi remi,
Che sul mar mi trasporti. All'arenosa
Pilo ed a Sparta valicare io bramo,
Del padre assente per ritrar s'io mai
Trovar potessi chi men parli chiaro,
O quella udir voce fortuita in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
Vivrà? ritornerà? Benché dolente,
Sosterrò un anno. Ma se morto e fatto
Cenere il risapessi, al patrio nido
Riederò senza indugio; e qui un sepolcro
Gli alzerò, renderogli i più solenni,
Qual si convien, fùnebri onori, e un altro
Sposo da me riceverà la madre».
Tacque, e s'assise; e Mentore levossi
Del padre il buon compagno, a cui su tutto
Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi
Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse,
Quando per l'alto sal mise la nave.
«O Itacesi», tal parlava il saggio
Vecchio, «alle voci mie l'orecchio date.
Né giusto più, né liberal, né mite,
Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo
D'ora innanzi un re sia, poiché tra gente
Su cui stendea scettro paterno Ulisse,
Più non s'incontra un sol, cui viva in core.
Che arroganti rivali ad opre ingiuste
Trascorran ciechi della mente, io taccio.
Svelgono, è ver, sin dalle sue radici,
La casa di quel Grande, a cui disdetto
Sperano il ritornar, ma in rischio almeno
Porgon la vita. Ben con voi m'adiro,
Con voi, che muti ed infingardi e vili
Vi state lì, né d'un sol moto il vostro
Signore ìnclito aitate. Ohimé! dai pochi
Restano i molti soverchiati e vinti».
«Mentor, non so qual più, se audace, o stolto»,
Leòcrito d'Evènore rispose,
«Che mai dicestu? Contra noi tu ardisci
Il popol eccitar? Non lieve impresa
Una gente assalir, che per la mensa
Brandisca l'armi, e i piacer suoi difenda.
Se lo stesso re d'Itaca tornato
Scacciar tentasse i banchettanti proci,
Scarso del suo ritorno avrìa diletto
Questa sua donna, che il sospira tanto,
E morire il vedrìa morte crudele,
Benché tra molti ei combattesse: quindi
Del tuo parlar la vanità si scorge.
Ma, su via, dividetevi, e alle vostre
Faccende usate vi rendete tutti.
Mentore ed Aliterse, che fedeli
A Telemaco son paterni amici,
Gli metteran questo viaggio in punto:
Bench'ei del padre le novelle, in vece
Di cercarle sul mar, senza fatica
Le aspetterà nel suo palagio, io credo».
Disse, e ruppe il concilio. I cittadini
Scioglieansi l'un dall'altro, e alle lor case
Qua e là s'avvïavano: d'Ulisse
Si ritiraro alla magione i proci.
Ma, dalla turba solitario e scevro,
Telemaco rivolse al mare i passi,
Le mani asterse nel canuto mare,
E supplicò a Minerva: «O diva amica,
Che degnasti a me ier scender dal cielo,
E fender l'onde m'imponesti, un padre
Per rintracciar, che non ritorna mai,
Il tuo solo favor puommi davante
Gl'inciampi tôr, che m'opporranno i Greci,
E più che altr'uomo in Itaca, i malvagi
Proci, la cui superbia ognor più monta».
Così pregava; e se gli pose allato
Con la faccia di Mentore e la voce,
Palla, e a nome chiamollo, e feo tai detti:
«Telemaco, né ardir giammai, né senno
Ti verrà men, se la virtù col sangue
Trasfuse in te veracemente Ulisse,
Che quanto impreso avea, quanto avea detto,
Compiea mai sempre. Il tuo vïaggio a vôto
Non andrà, qual temer, dove tu figlio
Non gli fossi, io dovrei. Vero è che spesso
Dal padre il figlio non ritrae: rimane
Spesso da lui lungo intervallo indietro,
E raro è assai che aggiungalo od il passi.
Ma senno a te non verrà men, né ardire,
Ed io vivere Ulisse in te già veggo.
Lieto dunque degli atti il fine spera;
Né t'anga il vano macchinar de' proci,
Che non sentono, incauti e ingiusti al paro,
La nera Parca che gli assal da tergo,
Ed in un giorno sol tutti gli abbranca.
Io d'Ulisse il compagno, un tale aiuto
Ti porgerò, che partirai di corto
Su parata da me celere nave,
E con me stesso al fianco, in su la poppa.
Orsù, rïentra nel palagio, ai proci
Nuovamente ti mostra, ed apparecchia
Quanto al vïaggio si richiede, e il tutto
Riponi: il bianco nelle dense pelli
Gran macinato, ch'è dell'uom la vita,
E nell'urne il licor che la rallegra.
Compagni a radunarti in fretta io movo,
Che ti seguano allegri. Ha sull'arena
Molte l'ondicerchiata Itaca navi
Novelle e antiche: ne' salati flutti
Noi lancerem senza ritardo armata
Qual miglior mi parrà veleggiatrice».
Così di Giove la celeste figlia:
Né più, gli accenti della diva uditi,
S'indugiava Telemaco. Al palagio,
Turbato della mente, ire affrettossi,
E trovò i proci, che a scoiar capretti,
E pingui ad abbronzar corpi di verri,
Nel cortile intendeano. Il vide appena,
Che gli fu incontro sogghignando, e il prese
Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa:
«O molto in arringar, ma forte poco
Nel dominar te stesso, ogni rancore
Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra
Da prode il dente, e i colmi nappi asciuga.
Tutto gli Achei t'allestiran di botto:
Nave e rèmigi eletti, acciò tu possa,
Ratto varcando alla divina Pilo,
Correr del padre tuo dietro alla fama».
E Telemaco allor: «Sedermi a mensa
Con voi, superbi, e una tranquilla gioia
Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta
Cio che de' miei più prezïosi beni
Nella prima età mia voi mi rapiste?
Ma or ch'io posso dell'altrui saggezza
Giovarmi, e sento con le membra in petto
Cresciutami anco l'alma, io disertarvi
Tenterò pure, o ch'io qui resti, o parta.
Ma parto, e non invan, spero, e su nave
Parto non mia, quando al figliuol d'Ulisse,
Né ciò sémbravi sconcio, un legno manca».
Tal rispose crucciato, e destramente
Dalla man d'Antinòo la sua disvelse.
Già il convito apprestavano, ed acerbi
Motti scoccavan dalle labbra i proci.
«Certo», dicea di que' protervi alcuno,
«Telemaco un gran danno a noi disegna.
Da Pilo aiuti validi o da Sparta
Menerà seco, però ch'ei non vive
Che di sì fatta speme; o al suol fecondo
D'Efira condurrassi e ritrarranne
Fiero velen, che getterà nell'urne
Con man furtiva; e noi berrem la morte»,
E un altro ancor de' pretendenti audaci:
«Chi sa ch'egli non men, sul mar vagando,
Dagli amici lontano, un dì non muoia,
Come il suo genitor? Carco più grave
Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio
Partirci tutto, ma la casta madre,
E quel di noi, ch'ella scegliesse a sposo,
Nel palagio lasciar sola con solo».
Telemaco frattanto in quella scese
Di largo giro e di sublime volta
Paterna sala, ove rai biondi e rossi
L'oro mandava e l'ammassato rame;
Ove nitide vesti, e di fragrante
Olio gran copia chiudean l'arche in grembo;
E presso al muro ìvano intorno molte
Di vino antico, saporoso, degno
Di presentarsi a un dio, gravide botti,
Che del ramingo travagliato Ulisse
Il ritorno aspettavano. Munite
D'opportuni serrami eranvi, e doppie
Con lungo studio accomodate imposte;
Ed Euriclèa, la vigilante figlia
D'Opi di Pisenorre, il dì e la notte
Questi tesori custodìa col senno.
Chiamolla nella sala, e a lei tai voci
Telemaco drizzò: «Nutrice, vino,
Su via, m'attigni delicato, e solo
Minor di quel che a un infelice serbi,
Se mai scampato dal destin di morte,
Comparisse tra noi. Dodici n'empi
Anfore, e tutte le suggella. Venti
Di macinato gran giuste misure
Versami ancor ne' fedeli otri, e il tutto
Colloca in un: ma sappilo tu sola.
Come la notte alle superne stanze
La madre inviti e al solitario letto,
Per tai cose io verrò: ché l'arenosa
Pilo visitar voglio, e la ferace
Sparta, e ad entrambe domandar del padre».
Dié un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto
Euriclèa volar feo queste parole:
«Donde a te, caro figlio, in mente cadde
Pensiero tal? Tu l'unico rampollo
Di Penelope, tu, la nostra gioia,
Per tanto mondo raggirarti? Lunge
Dal suo nido perì l'inclito Ulisse,
Fra estranie genti: e perirai tu ancora.
Sciolta la fune non avrai, che i proci
Ti tenderanno agguati, uccideranti,
E tutte partirannosi tra loro
Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani,
Con noi qui siedi, e su i marini campi,
Che fecondi non son che di sventure,
Lascia che altri a sua posta errando vada».
«Fa cor, Nutrice», ei le risponde tosto:
«Senza un nume non è questo consiglio.
Ma giura che alla madre, ov'aura altronde
Non le ne giunga prima e ten richiegga,
Nulla dirai, che non appaia in cielo
La dodicesim'aurora; onde col pianto
Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio».
L'ottima vecchia il giuramento grande
Giurò de' numi: e a lui versò ne' cavi
Otri, versò nell'anfore capaci
Le candide farine e il rosso vino.
Ei, nella sala un'altra volta entrato,
Tra i proci s'avvolgea: né in questo mezzo
Stavasi indarno la Tritonia Palla.
Vestite di Telemaco le forme,
Per tutto si mostrava ed appressava
Tutti, e loro ingiungea che al mare in riva
Si raccogliesser nottetempo, e il ratto
Legno chiedea di Fronio al figlio illustre,
A Noemòn, cui non chiedealo indarno.
S'ascose il Sole, e in Itaca omai tutte
S'inombravan le vie. Minerva il ratto
Legno nel mar tirò, l'armò di quanto
Soffre d'arnesi un'impalcata nave,
E al porto in bocca l'arrestò. Frequenti
Si raccoglieano i remator forzuti
Sul lido, e inanimavali la dea
Dallo sguardo azzurrin, che altro disegno
Concepì in mente. La magion d'Ulisse
Ritrova, e sparge su i beventi proci
Tal di sonno un vapor, che lor si turba
L'intelletto e confondesi, e di mano
Casca sul desco, la sonante coppa.
Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo,
Né fu più nulla del sedere a mensa:
Tal pondo stava sulle lor palpèbre.
Ma l'occhiglauca dea, ripreso il volto
Di Mentore e la voce, e richiamato
Fuor del palagio il giovinetto, disse:
Telemaco, ciascun de' tuoi compagni,
Che d'egregi schinier veston le gambe,
Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda».
Ciò detto, la via prese, ed il garzone
Seguitavane l'orme. Al mar calati,
Trovàr sul lido i capelluti Achivi;
Cui di tal guisa favellò la sacra
Di Telemaco possa: «Amici, in casa
Quanto al cammin bisogna, unito giace:
Trasportarlo è mestieri. Né la madre
Sa, né, fuor che una, il mio pensier le ancelle».
Tacque, e loro entrò innanzi; e quelli dietro
Teneangli. Indi con l'anfore e con gli otri,
Come d'Ulisse il caro figlio ingiunse,
Tornâro, e il carco nella salda nave
Deposero. Il garzon sopra vi salse,
Preceduto da Pallade, che in poppa
S'assise; accanto ei le sedea: la fune
I remiganti sciolsero, e montàro
La negra nave anch'essi, e i banchi empiero.
Tosto la dea dalle cerulee luci
Chiamò di verso l'occidente un vento
Destro, gagliardo, che battendo venne
Su pel tremulo mar l'ale sonanti.
«Mano, mano agli attrezzi», allor gridava
Telemaco; «ov'è l'albero»? I compagni
L'udiro, e il grosso e lungo abete in alto
Drizzaro, e l'impiantaro entro la cava
Base, e di corda l'annodaro al piede:
Poi tiravano in su le bianche vele,
Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo
Le vele il vento; e forte alla carena
L'azzurro mar romoreggiava intorno,
Mentre la nave sino al fin del corso
Su l'elemento liquido volava.
Legati i remi del naviglio ai fianchi,
Incoronaro di vin maschio l'urne,
E a ciascun degli dèi sempre viventi
Libaro, ma più a te, figlia di Giove,
Che le pupille di cilestro tingi.
Il naviglio correa la notte intera,
E del suo corso al fin giungea con l'alba.