Satire

Testo

Persio Aulo Flacco

Satira terza

«Sempre la solita storia? già il chiaro mattino
entra dalle finestre e allarga con la luce le strette fessure,
e continui a russare quanto basti a smaltire il robusto
Falerno, mentre la quinta linea è toccata dall'ombra.
Ehi, che fai? Già da un pezzo la canicola infuriata cuoce
le messi inaridite e ogni gregge è al riparo d'un ampio olmo»,
dice uno degli amici. «Davvero? è cosi? presto,
qualcuno! Nessuno?» Gli si gonfia la vitrea bile:
«Mi sento scoppiare» grida quasi ragliassero gli armenti
d'Arcadia. Subito brandisce un libro, una rasata pergamena
di doppio colore, la carta, il nodoso astile.
Allora cominciano i lamenti: l'inchiostro rappreso ristagna
sulla penna, il nero di seppia sbiadisce per eccesso d'acqua,
è un continuo gemito per la cannuccia che semina gocce.
«O meschino, e ogni giorno più meschino, a ciò siamo giunti?
Ma perché piuttosto, al pari d'un tenero piccioncino
e dei figli dei ricchi non chiedi la pappa a bocconcini,
e bizzoso non ti quieti neppure alla ninnananna della balia?»
«Studiare con questa penna?». «A chi lo racconti? Perché
canticchi codeste storielle? Ci sei tu, in gioco. Il cervello
ti si scioglie in acqua. Tutti ti sprezzeranno. Risuona del difetto
a percuoterla, e risponde stonata una brocca di creta malcotta.
Sei umido e molle fango, ora bisogna affrettarsi
a plasmarti con l'instancabile ruota. Certo hai un discreto raccolto
di grano dal podere paterno, una saliera tersa e immacolata,
cos'hai da temere? - e una padella sicura abitatrice del fuoco.
Basta così? o ti si conviene far scoppiare i polmoni di vento,
perché millesimo trai il tuo ramo da una genealogia etrusca,
o perché drappeggiato nella tràbea saluti il tuo censore?
Al volgo le fàlere. Io ti conosco fin sotto la pelle.
Non ti vergogni di vivere al modo di quel dissoluto di Natta?
Ma egli è inebetito dal vizio e nelle fibre del cuore gli cresce
grasso lardo, è irresponsabile, non sa cosa perde, e se affonda
non ritorna più a gorgogliare alla superficie delle onde.
Grande padre degli dèi, quando un'atroce passione
tinta di bollente veleno sfrena la mente dei crudeli
tiranni, non punirli in altra maniera che questa:
scorgano la virtù, e si sentano marcire per averla abbandonata.
O forse più gemettero i bronzi del siculo giovenco,
o più atterri la spada che pendeva dai dorati soffitti
sulla testa porporata, di chi debba dire a se stesso: "Precipitiamo,
precipitiamo fino al fondo", e in sé impallidisca, infelice,
mentre ne è ignara la sposa che gli dorme accanto.»
Da bambino, ricordo, spesso mi ungevo gli occhi con olio,
se non volevo imparare le solenni parole di Catone morituro,
e che mio padre ascoltava sudando con gli amici condotti
fin troppo elogiate dal maestro un po' tocco di mente, con sé.
Giustamente il mio desiderio più grande consisteva nel sapere
cosa mi fruttasse un buon colpo da sei, quanto mi sottraesse
un rovinoso uno, non fallire lo stretto collo di un'anfora,
e che nessuno mi superasse nel far girare la trottola con la frusta.
Ma ormai non dovresti essere inesperto nel redarguire il malcostume,
e di ciò che insegna il sapiente Portico dipinto dei bracati
Medi, per cui la gioventù veglia insonne e rasa
le chiome, nutrita di baccelli e di grosse fette di polenta;
e a te la lettera del filosofo di Samo dai divergenti rami,
già mostrò la via che si leva sul destro lato.
Ma continui a russare, e la testa ti ciondola come slogata,
sbadiglia il vino di ieri con le mascelle sgangherate da ogni parte!
V'è qualcosa cui miri, quasi bersaglio al tuo arco?
O insegui qua e là i corvi con cocci e zolle
di terra, affidando al caso i tuoi passi e vivendo alla giornata?
Riconoscerai che si ricorre invano all'ellèboro quando la pelle
già ammalata si gonfia: prevenite il morbo mentre
arriva. A che serve promettere a Cratero mari e monti?
Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose;
ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo
assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta,
la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l'utilità
della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare
alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi,
e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.
Apprendi, e non invidiare l'odore delle molte giare
nella ricca dispensa d'un avvocato che ha difeso i grassi Umbri
e le spezie e i prosciutti, ricordo di qualche cliente della Marsica,
e i pesci in salamoia non ancora affondati dalla sommità del barile.
Ma ora qualcuno della razza dei centurioni di lezzo caprigno,
potrà dire: «Per me, quello che so mi basta,
non mi curo di essere un Arcesilao o uno di quei disgraziati
Soloni con la testa bassa e gli occhi fissi a terra,
che sembrano masticare i loro brontolii e rabbiosi silenzi;
con il labbro sporgente pare che ci pesino le parole,
rimuginando le allucinazioni di quel vecchio infermo, "nulla
nasce dal nulla, nulla può tornare nel nulla".
Per questo sei pallido? per ciò qualcuno non mangia?»
A questo la gente ride e i giovani muscolosi
arricciando il naso ripetono tremule risate.
«Guarda bene, il cuore mi palpita per non so che, e il respiro
mi esala pesante dalla gola ammalata, guarda, per cortesia».
Chi parla così al medico, che gli prescrive il riposo a letto,
se la terza notte constata che il polso gli batte normale,
chiederà a una casa più ricca, con una bottiglia mezzana,
del vino leggero di Sorrento da bere prima del bagno.
«Ehi, amico, sei pallido!» «Non è niente». «Ma guarda qui,
sia quel che sia, la pelle, senza che l'avverta, ti si gonfia
giallastra». «Sei più pallido tu, non farmi il tutore;
quello l'ho sepolto: resti tu». «Via, tacerò».
E lui, gonfio di cibo, con il ventre sbiancato, si bagna,
mentre la gola espira faticosamente fiati sulfurei.
Ma tra i calici lo coglie un tremore che gli scuote via dalle mani
un bicchiere di vino caldo, i denti gli battono scoperti,
grassi bocconi gli cadono dalle labbra molli.
Di lì a poco le trombe, le candele, e infine quel signorino
felice sul catafalco, spalmato di grasso balsamo di amomo,
protende tese le rigide gambe verso la porta.
Ma l'hanno recato a spalla i Quiriti, fatti ieri,
con il pileo in testa. «Toccami il polso, baggiano, poggiami
la destra sul petto: non brucio; toccami la punta dei piedi
e delle mani, non è mica gelata». Ma se per caso vedi del denaro,
o la splendida figlia del tuo vicino ti sorride languidamente, il cuore
ti sobbalza come dovrebbe? Se ti portano irta verdura
in un gelido piatto, e pane di farina passata a uno staccio
grossolano, proviamo se mangi! Ti viene subito un'ulcera
purulenta nella tenera bocca, invisibile, ma guai se la irrita
una bietola plebea. Agghiacci quando la sbiancante paura
ti drizza i peli del corpo; o il sangue ti bolle, come
per sottoposta fiamma, ti scintillano gli occhi e dici e fai cose
che lo stesso folle Oreste giurerebbe degne di un folle.