I libri


Testo

DITTI CRETESE

LA ROVINA DI TROJA
Libro I°

Tutti di Grecia i Re, che per Minosse
Discendevan da Giove, eran
In Candia, a prender del retaggio avito
Parte ne’ beni, che lasciogli il vecchio
Atrèo, figliuol del Re Minosse, il quale
L’oro , e l’argento, e gli animali, e ogn’altro
In sua morte lasciato, ai suoi nipoti
Nati dalle sue figlio in Candia volle,
Che sen facesse eredital partaggio;
Ma dell’Impero poi volle, che sola
Parte ne avesse Idomenèo di Molio,
E l’altro Idomenèo con Merione
Figlio a Deucalione. A quest’oggetto
Palamede di Nauplio era, e Climene,
Ed Eas Ditte dell’Ida a Candia gito,
Come pur Menelao figlio d’Europa,
Clistene, e la sorella Anasibèa
Moglie a Nestorre, e ancor Agamennone,
Che di Plistene in vece, erano detti
Figli d’Atrèo, perchè Plistene a morte
Giovine venne, e senza fatti egregi,
E l’avo Atreo avea del padre loro
Le cure assunto, e come proprj figli
Educato, e quai regi. A tale avviso
Corsi eran tutti in Candia i discendenti
D’Europa; in Candia, dove evvi un gran tempio
In onore di lei, e quivi tutti
Convennero i nipoti, ove raccolti
Furo, solennemente i sacrifici
Giusta il costume celebrati, e quivi
A regal mensa lautamente furo
Tutti trattati. E abbenchè i Re di Grecia
Passassero quei dì fra l’allegrezza,
Tra conviti, e piaceri, al tempio pure
Tutti volgean la loro attenzione,
Ammirando la fabbrica superba,
Gli ornamenti, i tesori ivi apportati
Dalla Fenicia, allorché in Candia venne
Europa di Sidone, ed ogni cosa,
Ch’indi in prosieguo avea di casa avuto.
A quest’ epoca fu, che venne a Sparta
Alessandro figliuol del Re Trojano
In compagnia d’ Enea, e d’altri suoi
E parenti, ed amici. Ei fu alloggiato
Nel palazzo real di Menelao,
Approdando di Sparta al greco lido.
Ivi spreggiando gli ospitali Dei,
Da malvaggio portossi, e disleale,
E profittando della lontananza
Di Menelao, ed Elena sua moglie
Sola si stando, e la più bella donna
Trovandola di Grecia, immantinenti
Di lei s’innamorò , e colle sue
Ricchezze la rapì, menando seco
Etra, e Clistene a Menelao congiunte,
Che d’Elena si stean in compagnia.
E saputosi in Candia il fatto atroce,
E la fama rendendo ognor maggiore
Di quel ratto il delitto, ed il saccheggio
Dato al regio palagio, e della moglie
Solo increscendo al tenero marito,
Non che delle parenti; Palamede
Fece le navi sciogliere dal lido,
E i tesori asportando a lui toccati,
Volse a Sparta il cammin con Menelao:
Ivi era Agamennon, Nestore, e tutti
Del lignaggio di Pelope, che in Grecia.
Aveano impero allora insiem raccolti.
Qui seggono a consiglio, e abbenchè un fatto
Cotanto atroce a sdegno, ed a vendetta
Solo muovere gli animi sapesse,
Ulisse, Menelao, e Palamede
Opinan, che inviati ambasciadori
Fossero a Troja, a dimandar non solo
Elena, e quanto dalla regia casa
Alessandro rapì, ma di vantaggio
A far di tanta ingiuria aspra doglianza
Col vecchio Priamo. A Troja in pochi giorni
Vengon gli ambasciadori, e non peranche
V’era giunto Alessandro, e la sua preda;
Che avendo il rapitor sciolto di Sparta,
Volse a Cipro il cammin, e di là prese
Alquante navi, avea della Fenicia
Penetrato ne’ porti, e di Sidonia
Accolto nella reggia, avea li santi
Numi ospitali ancor quivi violati,
Che insidiosamente in una notte
Uccise il Re, e come fece in Sparta,
Quel palagio saccheggia, e sulle navi
Li regali tesori, asporta, e fugge:
Ma quei del popol, che l’indegna azione
Sanno al momento della fuga infame,
Corron veloci alle sue navi armati,
Ed attaccando del predon la ciurma
Molto sangue dall’una, e l’altra parte
Spargesi, questi per menar sull’onde
I rapiti tesori, e quei per torli
Al rapitore, e vendicare il Rege,
Finchè tolte due navi al Trojan duce,
E incendiate, e molti al lido estinti,
Ebbe campo a fuggir colle restanti
Carche delle fenicie altrui ricchezze.
Tra i legali, che Grecia a Priamo allora
D’ inviare pensò, fu Palamede,
Che in quell’età fioria pe’ suoi consigli
Atti alla guerra, ed al civil maneggio.
Esso a Priamo si porta, ed il consiglio
Adunato de’ suoi vecchi ministri,
Dell’ingiuria di Paride si lagna
A nome della Grecia, a lui narrando
II fatto indegno, e l’ospital ragione
Tradita, e i furti del real palagio,
Nonchè il ratto di lei, che tanto incresce
All’offeso marito; alta vendetta
Minacciando al suo regno, ai figli suoi,
Se ostinato di rendere ricusa
E le donne, e i tesori. Indi a sua mente
Chiama li danni, e le discordie eterne
Delli due regni, e sull’esempio antico
D’Ilio, e Pelope allor la gran cagione
Della comun rovina egli l’esorta
A rimuovere, e infin a lui dimostra
I mali della guerra, e della pace
I commodi, e ‘1 piacer: le stragi, e morti
De’ suoi, se esposti ad una guerra ingineta
S’attirasser de’ Dei l’ira tremenda:
E volendo più dir, Priamo rispose:
Di grazia, Palamede, usa men foco,
Più modestia, e ritegno ai regi innanti,
E rammenta, che ingiusto è l’accusare
Un assente, che scusa, o che ragione
Addur non puote all’imputato fallo:
Che impossibil non è, che sia pur falso
Quanto gli addossa la calunnia greca.
Ciò detto, in piè levossi, ed il consiglio
Disse di differirsi alla venuta
D’Alessandro; che ben si discerneva
Quanto ciascuno a malincuor soffriva
La condotta del figlio, ed il leggeva
Sul taciturno volto di ciascuno,
Che Palamede a suo talento aveva
Mosso ogni cor, e fu perciò il consiglio
Sospeso, e differito. I greci messi
Furo in casa d’Antenore alloggiati,
Ch’era Antenore allor buon cittadino,
Di giustizia, e onestà piucch’altri amante.
Non passò molto, ed Alessandro in Troja
Co’ suoi compagni, ed Elena rapita,
E co’ tesori ritornò. Quel giorno
Ai Trojani fatale un lutto sparse
Per la città, che in odio altri lo prese
Per l’infame azione, ed altri a sdegno
Per l’ingiuria recata, a Menelao;
Cosicchè alcun non fu contento appieno
Intanto Priamo i figli suoi raccoglie
A privato consiglio, e seco loro
Consulta qual si debba in tale impresa
Sì difficil condotta allor tenere.
Tutti costoro ad una voce istessa
Negano di doversi Elena ai Greci
Restituire; imperocchè i tesori
D’Elena perder non voleano, e poi
S’era ciascun delle fanciulle greche
Invaghito, e menava ognuno in mente
II segreto desìo delle lor nozze,
Che i barbari per lingua, e per costume
L’onesto, e ‘l giusto valutando un nulla,
Sol di lussuria agl’impeti possenti,
E di preda fan cedere l’istinto.
Irrisoluto ancor Priamo de’ figli
Al parere non cede, e tosto aduna
Il Consiglio de’ vecchi, o lor dimanda
Che far si debba in sì pericolose
Circostanze: se lor piaccia, che sia
Elena resa, e seco i suoi tesori
Al marito, alla Grecia, ovver se meglio
Fosse colei di ritenere in Troja.
Ma pria che i vecchi, giusta il lor costume,
Dicessero la loro opinione,
I figliuoli del Re, che del Consiglio
Erano fuori, impetuosamente
Entrano, e in modi assai sconci, ed alteri
Minacciano chiunque avesse ardire
Consultar, che si renda Elena ai Greci.
Intanto il popol mal soffriva il torto
Fatto a quei vecchi, e più la somma offesa
Ai Greci ambasciadori, e mormorava
Per le strade, e pel foro, onde temendo
Alessandro, che gir potesse all’armi,
E cieco altronde del di lui amore,
Impetuosamente coi fratelli
Fa violenza nel popolo, e ne ammazza
Molti, e molti costringe a ritirarsi,
Dovendo questi la di lor salvezza
Ad Antenore, e quei che dal Consiglio
Eran sortiti; e ‘l popolo sprezzato
Fe’ ritorno così nelle sue case
Con suo gran danno, e senz’effetto alcuno.
Il dì vegnente il Re volle, che andasse
Ecuba a consolar Elena greca,
Perchè di nulla tema, e sia tranquilla.
Dopo de’ complimenti a lei richiese
Ecuba chi mai fosse, ed in cortese
Modo le replicò, ch’era parente
D’Alessandro suo figlio, e che congiunta
Era a Priamo, ed a lei, più che non fosse
Ai figli di Plistene, e allor narrolle
Chi furo i suoi maggiori, e come a lei,
Come a Priamo parente ella si fosse,
Che di Priamo, e del sue legnaggio antico
Erano autori Dardano, ed Agenore;
Ch’Elettra figlia di Plejone nacque
Da Danao un dì, e d’Atlante, e quella madre
Fatta da Giove partorì poi Dardano,
Da cui ne venne Tros, e gli altri tutti,
Che sino a Priamo hanno regnato in Troja.
Ma d’Agenore poi nacque Taigèra,
La qual di Giove ancor diede alla luce
Lacedemone, e questi Amito Musculo,
Dal qual Argalo venne, e da costui
Erbalo, e questi a Tindaro mio padre
Diede la vita: e mi sovviene ancora,
Elena disse, di mia madre Leda
La parentela, che la stringe a voi;
Che Fenice d’Agenore figliuolo,
E i discendenti suoi il parentado
D’Ecuba, e Leda adesso hanno diviso;
Che per siffatte cose io vi scongiuro
(Ad Ecuba piangendo ella diceva)
Che poichè in vostra fede io ricevuta
Son nella vostra casa, ai Dei non piaccia,
Che mi tradiate un giorno, e me vogliate
Rendere a Menelào: che quei tesori
Qui recati son miei, nè del marito
Tolto ho di casa più del mio, che aveva.
Ma non si sa, se ricusava andare
Elena a Menelào sol per amore
D’Alessandro, o per tema di castigo
D’aver fuggito il maritale albergo.
Ecuba dunque del di lei volere
Fatta conscia, e saputo il parentado,
Che a lei l’univa per ragion di sangue,
S’alza, l’abbraccia, e l’assicura in fine,
Che ai Greci non saria resa giammai.
Ma Priamo instava, e al popolo si univa,
Ed ai Proci di Troja, affinchè ai Greci
Elena si rendesse, e che i legati
Più trattener non si doveano in Troja.
Solo Deifèbo d’Elena non meno
Quando Alessandro amante, al comun voto
Forte si ostava, e ad Ecuba congiunto
Di parer, di desio, ai prieghi loro,
Alle carezze d’Ecuba fu il primo
A ceder Priamo, e quindi i figli tutti;
E così finalmente il ben comune,
La patria, il giusto, e i sacrosanti Iddii
Furon, per aderire ad una donna,
Calpestati, e corrotti. Il dì seguente
Menelào colli suoi ambasciadori
D’ira bollente il cor, entra in Consiglio,
La sua donna dimanda, e i suoi tesori,
Giove Ospitale, e vindici chiamando
I Dei di Sparta, ch’eran stati offesi.
Allor Priamo sedendo in mezzo ai suoi
Imposto alto silenzio, a se venire
Elena fece, e diede a lei la scelta
Di gir, se le pareva, o di restare:
Imperterrita, e franca ella rispose,
Che a Sparta ritornar più non voleva,
E che di Menelào il matrimonio
S’era reso insoffribile al suo core.
Lieti all’eccesso allor furo i figliuoli
D’Ecuba, e tutti frettolosi usciro
Dal Consiglio con Elena restata.
Ulisse allor colla facondia sua
Meno per ottenere un qualche effetto,
Che per rimproccio replicò gli oltraggi
D’Alessandro con modi i più villani
Contro Grecia commessi, e minacciogli
Alta vendetta, ed esterminio a Troja.
Menelào dal furor più trasportato
Con torvo aspetto, e minaccioso insieme
Disse: Troja deh trema, e tu di Priamo
Reggia infedel, verrà qui Grecia tutta
A punirvi, o malvagi , e partì tosto
Dal Consiglio, e ‘1 palagio. Allor di Priamo
I figli a sdegno, ed a vendetta mossi,
E non osando disvelatamente
Di Grecia ai messi d’inferire oltraggio,
Gli tramarono insidie, e di soppiatto
Congiuraron lor morte. II fatto atroce
Antenore riseppe, e volò tosto
Dal Re, portando a lui acri lagnanze
Contro i suoi figli temerarii a segno
Di congiurar contro i Legati greci
Albergati in sua casa; e che qualora
Essi l’indegnitate avrian commessa,
Sembrerebb’egli il reo, e dalli Greci
Doppia s’aspetterìa vendetta, e pena;
Ciocchè soffrir non mai doveva un padre
Un Re del dritto delle genti amico,
Dell’onesto, e del giusto: e non contento
Antenore di ciò, alli legati
Tutto svelò il tradimento ordito,
E da scorta maggiore accompagnati,
Quando opportuno a lui il tempo, e ‘l loco
Sembrò, li fece dalla patria uscire.
Mentre ciò in Troja si trattava, in Sparta
Dietro la fama del misfatto orrendo
Tutti s’eran raccolti i discendenti
Di Pelope, e giurato avea ciascuno,
Che se resa non era Elena in casa,
Tutti avrebbero a Priamo la guerra
Portata. Intanto a Sparta di ritorno
Vengon gli ambasciadori, e in primo luogo
La ripugnanza d’Elena infedele
Al letto maritai fanno palese,
Quindi di Priamo i detti, e de’ figliuoli
Gli oltraggi, e i tradimenti, e lodan tutti
D’Antenore la fede, e l’onestate:
E questo udito, fu da tutti allora
Stabilito, che ognun tornasse a casa,
E quanto bisognar possa alla guerra
Ciascuno apparecchiasse, e fu trascelto
A consiglio comun Argo per centro,
Ove dovesse radunarsi quanto
Fia d’uopo per trattar guerra sì grande,
E a tempo proprio il Telamonio Ajace
Celebre in guerra, e Teucro suo fratello
Furono i primi a radunarsi in Argo,
Nè molto dopo venne Idomeneo,
E v’arrivò il suo amico Merione.
« Io, che questi seguii, ho scritto quello
» Ch’udii D’avere Ulisse a Troja oprato
» E somma diligenza usai, ma il resto,
» Che scriverò, non d’altri per udito
» Ma poichè fui presente, e militai
» Nel greco campo, scriverò con tutta
» Sincerità, con esattezza intera.
Dopo quei primi sopraggiunse in Argo
Nestore ancor, e lo seguiro i figli,
Che diegli Anasibèa, uno per nome
Antiloco, e poi l’altro Trasimede;
Seguì poi Penelèo; seguì Leìto,
E Archesilào parenti, e di Beòzia
I Principi Protenore, e Clodio,
Indi i Focensi Epistrofo, e quell’altro
Schedio nomato, e dopo questi allora
Ialmèno, e Ascolfo, e a questi venne appresso
Diòre, e Mege di Filèo figliuoli,
D’Andremone Toas, e l’Orcomenio
Eùrifilo Fuemone, e Leontèo;
Nè fu lento a venire il bravo Achille
Figlio a Teti, e Pelèo, che da Chirone
Padre di Teti, ed in molt’arti esperto
La scherma apprese infin dai suoi prim’anni;
Grande, e di vago aspetto avea nell’armi
Soverchiato ciascun, e gloria e nome
A sua virtute avea acquistato eguale,
Benchè il furor lo trasportasse assai,
Ed arroganti avesse i suoi costumi:
Seguìa Patroclo questi, e 1’amicizia
Gliel dea scorta, e compagno, ed il seguiva
Fenice ancor per guida, e per custode
Datogli dalla madre. Eufrate ancora
Vennevi, e Tlepolèmo, indi Fidippo,
E Antifo, ch’eran d’Ercole nipoti,
E nell’armi valenti, ed i figliuoli
D’Iflico, i quali son Protesilào,
E ‘1 fratello Podarco, ed eziandio
Fuvvi Eumelèo, e Ferèo, il di cui padre
Admeto allor che fu vicino a morte
Campollo Alceste sua pietosa moglie.
Fu Podalirio ancor, e Macaone
Tracensi d’Esculapio eccelsi figli,
Che come in medicina erano esperti,
Così furo guidati a quella guerra.
Di Peante il figliuol, quel Filottete
D’Ercol compagno, il qual del morto amico
Ebbe in retaggio le saette, e venne
Nereo il bel giovanetto a Sime nato,
Non che Mnestèo, e vennevi di Locri
Ajace d’Oilo, e d’Argo fuvvi ancora
Anfimaco figliuol d’Anfiarao;
Di Canapèo Stelèno in compagnia
D’ Eurìalo figliuol di Mecistèo:
Dall’Etolia ne venne anche Tisandro
Figlio di Polinìce: ultimi poi
Vennero Demofonte, e seco Acàmo,
E tutti questi, che ho narrati, sono
Del legnaggio di Pelope. Vi furo
Altri Principi ancor, che i Re seguiro,
O che avean parte ai regni, e di costoro
I nomi palesare ad uno ad uno
Non ho creduto convenevol cosa.
Tutti in Argo raccolti, ed albergati
Furo tai Duci da Diomede, e quello
Ebber, di cui potean bisogno avere.
Agamennòn di poi ampi tesori
Da Micene recando, infra li Duci
Quolli divise, acciocchè ognun più pronto
Andasse della guerra agli apparecchi.
Fu per comune avviso allor prescritto,
Che si giurasse in pubblica, e solenne
Forma sul modo, e la miglior maniera
Come trattare si dovea la guerra:
E Calcante di Nestore figliuolo
Sacerdote, e indovino allor presente
Un porco maschio in mezzo all’ampio foro
Fe’ condurre, ed in due parti diviso,
Una alla plaga oriental fe’ porre,
A1l’occaso poi l’altra, e a tutt’impose,
Che per mezzo passassero portando
Nelle destre le spade, e sguainate,
Le di cui punte attingere nel sangue
Dovevan di quel porco, e inimicizia
Giurar contro di Priamo Troiano,
E che nessun si tornerìa di Troia,
Abbandonando l’intrapresa guerra,
Se pria non fosse interamente il Regno
Abbattuto di Priamo. E fatto questo
Giuramento solenne, alla concordia
Più sacrificj offriro, ed al Dio Marte;
Indi nel Tempio di Giunone Argiva
Sceglier si volle il Capitan fra tutti,
Che il sommo avesse della guerra impero,
E sulle tavolette a tal disegno
Distribuite a tutti Duci ognuno
In lettere africane il nome scrisse
D’Agamennòn, alla qual scelta invero
Tutti aderendo in favorevol grido,
Dell’esercito prese, e della guerra
II supremo comando, e ciò non solo
Perchè fratello a Menelao offeso,
Per cui s’intraprendeva una tal guerra,
Ma bensì per le somme ampie ricchezze,
In cui di Grecia li Sovrani tutti
Ei sorpassava, ond’era allor tenuto
Famoso assai, un tale onore ottenne;
E furon quivi ancora delle navi
Duci eletti Fenice, Ajace, Achille,
Ed al terrestre esercito prescelti
Furon Diomede, Ulisse, e Palamede,
Lor commettendo, che tra lor divisi
S’avessero gli ufficj, e le vigilie
Della notte, e del dì, giusta il costume.
Ciò fatto, ognun si ritornò al suo Regno,
Per apprestar quanto facesse all’uopo
Di tanta guerra; e tutta allor la Grecia
In questo studio immersa armi, e cavalli,
E navi apparecchiava, e per due anni
Fu l’apparecchio proseguito innanti.
La greca gioventù e da se stessa,
Ed all’esempio altrui emula, e lieta,
S’affrettava alla guerra, e soprattutto
Si travagliava a fabricar di navi
Gran quantità, perchè non vi mancasse
II mezzo a trasportare il numeroso
Esercito raccolto in ogni loco,
Dopo due anni adunque i Re mandaro
Ciascun le proprie navi, e ben guernite
Di Beozia in Aulide, ove a comune
Consiglio tutta si dovea la Grecia
In armi unire. E da Micene il primo
Agamennone ne spedì pria cento,
Indi sessanta, che raccolse poscia.
Dalle città soggette al proprio Regno,
E Agapenore tenne Capitano:
Cinquanta ne mandò Mnestèo d’Atene,
Quaranta Ajace Telamon ne fece
In Salamina costruire, e trenta
Elfenore d’Euboja: e ne condusse
D’Argo Diomede ottanta: e gli Orcomenj
Ascalfo, e Jalmèno ancora trenta:
Dodici Ajace d’Oilo, e Archesilao,
Protenor, Peneleo, Clonio, Leito
Cinquanta da Beozia ne inviaro:
Da Focide ne vennero quaranta,
Che vi spedirò Schedio, ed Epistrofo;
Talpio, e Diòre poi, e Polisino,
Amplimaco d’Elide, e dalle loro
Città soggette ne fornir quaranta:
E Toade d’Etolia anche quaranta:
Quaranta Mege di Dulichio, e l’altre
Echirrade soggette: Idomenèo
Con Merion di Creta anche quaranta
Seco ne trasse; e d’Itaca ne venne
Ulisse colle sue dodici navi:
Proteo Magno quaranta ivi n’accolse,
Tepolèmo di Rodi otto, ed Eumelio
Undici: dai Pelasgi anche menate
Ne fur cinquanta; e tre da Nereo, e Sime:
Ma da Podarce, e da Protesilao
Se ne accolser quaranta, e non fu sola
Filaca a darle, ma v’ebbero parte
Anche l’altre Città loro soggette.
Polidario, e ‘1 fratello Macaone
Trenta ne diero, e Filottete sette
Mandonne di Metone: e l’Orcomenio
Euripilo ne diè quarantadue.
Venti Guneo: Leontèo, e Polipìto
Dai Stati lor ne armarono quaranta,
E da Coo, Caprate, e da Nisiro
Trenta ne diero ancor Filippo, Antifo,
Eutrafrate. E ne vennero da Tebe
Cinquanta, che spedì Tisandro il figlio
Di Polinice: e dall’Arcadia venti
Ne condusse Calcante, e Mepso venti
Da Colafona: Epèo dalle Cicladi
Trenta spedinne, e di frumento carche,
E d’altri cibi, e necessarie cose,
Ch’Agamennòne avea loro prescritto,
Affinchè nulla mai mancar potesse
A un numero sì grande di soldati.
Era fornito l’apparecchio, ed era
Grande l’armata, e nulla vi mancava
D’armi, cavalli, e carri, e soprattutto
Fu de’ pedoni il numero maggiore,
Dappoichè in Grecia i pascoli non sono
Vasti così, che di cavalli possa
Nodrir gran copia, e v’eran nell’armata
Oltracciò molti al navigare esperti.
Vera a quel tempo Licio Sarpedone,
Che da Falide Re delli Sidoni
Nè per prezzo, o favor esser rimosso
Dall’amicizia può del Re Trojano,
Acciò 1’armata sua contro di Troja
Le nostr’armi seguisse, avendo quegli
Doppj da Priamo ricevuto i doni,
Onde serbava a lui sacra la fede,
Delle navi il gran numero di sopra
Detto, che Grecia dalli regni suoi
Già nel porto di Aulide avea spedito,
In cinqu’anni era stato fabricato,
E d’ogni bisognevole fornito;
Mancava sol la soldatesca, e i Duci,
Ma come a un segno convenuto tutti
Concorrono in Aulide al tempo istesso.
Già s’apprestava al navigar l’istante,
Agamennòn, che noi dicemmo, il capo
Esser di quell’armata, e il Generale,
Dall’esercito alquanto un dì scostato
Presso la selva di Diana a caso
Vide una capra, ed ignorando affatto
Qual religion s’abbia pel loco, ei trasse
Un dardo, ed ammazzolla. Un luogo tempo
Non trascorse, che l’ira della Dea
Non si mostrasse a chiari segni nota:
Bentosto l’aria si corruppe, e molti
Infermando moriano, e in pochi giorni
Crebbe la pestilenza, ed a migliaja
Sen morian’i soldati, e gli animali,
Ed il contagio, che crescea col fatto
L’esterminio rendea sempre maggiore.
Afflitti i duci, e non sapendo al male
Qual rimedio apprestar, loro d’innanzi
Venne una santa donna, e della Dea
L’ira scoprigli, e la ragion, dicendo:
Diana avea una capra a lei non poco
Cara, ed accetta, e dessa è stata uccisa
Da sacrilega man, onde punisce
L’esercito, nè pria si placherebbe
L’ira di lei, che dell’autor la figlia
Fosse sull’ara sua Sacrificata,
Di quella capra in vece. Una tal voce
Giunse appena tra il volgo de’ soldati,
Che i Duci ad Agamennone ne andaro,
E del fatto informato, e risaputo,
Ch’egli n’era l’autor, prima il pregaro
Di calmar della Dea l’ira col mezzo
Del sacrificio della sua maggiore
Figliuola, e ritrovandolo restìo
Lo costrinsero, affinchè a tanto male
Egli, ch’era cagion, desse riparo.
Ostinato pertanto Agamennòne,
Nè piegandosi ai prieghi, ed ai scongiuri,
Alle ingiurie si venne, ed a minacce;
Nè valendo ancor queste, allor la somma
Dell’Impero gli tolsero, e l’onore
Anche regal, e affinchè tanta armata
Senza Duce non fosse, e disciplina,
Per cui disperder si potea, fur scelti
Quattro Duci, tra quai fu Palamede,
Diomede, Ajace Telamonio e ‘l quarto
Idomenèo, laonde in quattro corpi
Fu l’esercito tutto allor diviso:
Ma non pertanto si cresceva ancora
Dalla, parte il furore, ed il macello:
Ulisse allor fingendosi sdegnato
Per l’inflessibilità d’Agamennòne
Disse alla patria sua voler tornare,
Ma pensò, dar rimedio a tanto male:
Ei portossi a Micene, e a Clitennestra
False lettere finse del marito,
Con cui dicea, che data Ifigenia
Avea per sposa al generoso Achille,
E che non pria s’andrebbe a invader Troja,
Che celebrato il maritaggio; ond’era
Uopo inviarla seco, e di fornirla
Di quanto fosse necessario a tali
Sontuosissime nozze: aggiunse inoltre
Altro, che verosimile rendesse
L’inventata menzogna. A un tal racconto,
E a un tanto messo Clitennestra fede
Negar non seppe, e lieta, che la figlia
Ad uom sì chiaro si legasse, e in grazia
D’Elena ancor, fa a condiscender pronta,
E Ifìgenia consegnò ad Ulisse.
Così riuscito nell’impresa, ei tosto
All’esercito vola, e all’improvviso
Comparve di Diana in mezzo al bosco,
Insiem con Ifigenia. Agamennone
Ciò risaputo, dal paterno affetto
Mosso, volea fuggir, perché presente
A sacrifìcio scellerato tanto
Esservi non volea: li Greci accorti
Del suo disegno, Nestore di Pilo,
Che in facondia ogni Greco allor vincea
Con lunga orazion lo dissuade;
Ma già frattanto Ulisse, e Menelao,
E con Calcante, a cui tal fu commessa
Nefanda impresa, allontanar fean tutti,
Apparecchiando al sacrificio orrendo
La vergine infelice. Ecco repente
S’oscura il dì, cuoprendosi di nubi
II Ciel, che tuona, e tra i frequenti suoi
Baleni scaglia, e fulmini, e saette;
Dalli cardini suoi scossa la terra
Minaccia d’ingojar ogni mortale;
Bolle il mar, ed innalza in sino al Cielo
I cavalloni suoi, e finalmente
L’aer turbato, e d’ogni luce esente
Manda pioggia dirotta, e una gragnuola,
Che sterminar minaccia ogni vivente.
Dubbiosi, e irresoluti i Duci stanno,
Questo credendo, che de’ Dei si fosse
Chiaro linguaggio a non versare il sangue
Di vergine innocente, e poi d’altronde
Li movea dell’armata il grave danno,
E l’impresa, che al fin non può più andare.
In tale stato d’incertezza, il bosco
Fe’ questa voce risuonare intorno:
Che sprezzava la Dea quel sacrifìcio,
E che perciò la Vergine disciolta
Fosse salva alli suoi restituita,
Pietà di lei avendone la Dea,
E che la moglie avria d’Agamennòne
Dopo la guerra il debito castigo
Preso per tal delitto, e ch’essi intanto
Della Vergine in vece in sull’altare
Avessero alla Dea sacrificato
Ciocchè sarebbe lor fatto presente;
E questo detto, in un balen cessaro
Li venti, le procelle, e le saette,
E quanto aveano il ciel reso tremendo.
Mentre nel bosco avvengono tai cose,
Riceve Achille e lettere, e tesori
Da Clitennestra, che gli raccomanda
Sè, la fanciulla, e tutta la famiglia;
Quali lette, e d’Ulisse conosciuto
L’inganno, venne tosto al bosco Achille,
E Menelao chiamato, ed i compagni
Con alta assai, e minaccevol voce
Commise lor, che rispettata fosse
Ifigenia, nè a lei fatto alcun male;
E qui smarriti, e stupefatti, il giorno
Visto più chiaro, ricondusser fuori
La Vergine dal bosco, e consultando
Cosa a Diana in sacrificio offrire
Si doveva, una cerva assai graziosa
Senza timor s’offerse all’ara innanti:
Avvisandosi quei, ch’essa sia l’ostia
Voluta dalla Dea, l’offrono, e tosto
Cessa la peste, e ‘1 Ciel fassi benigno.
Achille, e quei, che avevan preparato
Il sacrificio, diedero per sposa
Ifigenìa al Re de’ Sciti, il quale
Ivi ne stava allor. I capitani
Veggendo la stagion al navigare
Atta, sen vanno a ritrovar giulivi
Agamennone, e fatti i complimenti
Per la salvata figlia, il sommo impero
Dell’armata di nuovo a lui da prima
Conferito gli danno, e fu ciò grato
All’esercito tutto, che qual padre
Pel consigli l’amava. Egli prudente
Obliando il passato, il grado eccelso
Con umiltà riprese, e in un convito
Accolse tutt’i capitani; e dopo
Alquanti giorni essendo proprio il tempo
A navigar fece ne’ legni tutto
L’esercito imbarcar, e seco ancora
Il grano, il vino, e quelle cose tutte,
Ch’Anio, e le figlie Cenetròpe dette,
(Perch’eran religiose), avean donato
Alli Duci, all’armata, e così sciolse
La flotta greca dall’Audilie sponde.