I libri


Testo

DITTI CRETESE

LA ROVINA DI TROJA
Libro II°

EMPIA propizio i nostri lini il vento,
E in pochi di l’armata a una provincia
Della Misia approdò; e dato il segno,
S’accostan tutti frettolosi al lido;
Ma volendo calcar col piè la terra,
Telèfo allor di Misia il Regno avendo,
Cel vietò; che a quest’uopo a quelle coste
Avea le guardie sue fatto disporre,
Perchè quella region fosse difesa
Da scorrerie marittime. Pertanto
Noi non potendo disbarcar, se prima
Di noi non fosse al Re portato avviso,
Impazienti, e poca stima invero
Di lui facendo, a terra incominciammo
Ad uscir dalle navi. Allor le guardie
Usano ad impedirci ogni lor sforzo,
E ai nostri duci del di loro ardire
Parve giusto di farne alta vendetta;
Onde dell’ armi rivestiti, fuori
Saltano delle navi, e di furore
Accesi fanno delle guardie ardite
Strage, e macello, e non risparmian quelli,
Che fuggon per lor tema alle cittadi.
Quei, che fuggendo si salvaro i primi
La novella recarono a Telèfo,
Che più migliaja di nimici entrati
Eran di già nel suo paese, e avendo
Le guardie uccise, già teneano il lido,
E a queste tutte quelle cose uniro,
Che suggerire gli potea il timore.
Telèfo allor con quei, che avea d’intorno,
Ed altri, che potè con tutta fretta
Far raccogliere, andò contro li Greci
E ordinato dall’una, e l’altra parte
L’esercito si venne con coraggio
A sanguinosa pugna, e ognun morendo
Ove coll’altro si affrontava, in breve
Fassi grande la strage, e incrudelita
La battaglia, Tisandro, ch’ a Pleonice
Era figliuol, di cui sopra dicemmo,
Pugnando con Telèfo a terra estinto
Cadde per le sue mani, avendo prima
Uccisi molti delli suoi nimici,
Tra quali favvi di Telèfo istesso
Un compagno, ed amico, e ch’onorato
Era molto dal Re per forza e ingegno,
E tra suoi Capitani combattendo
Gagliardamente, fu benanche ucciso;
Che fu il motivo, onde Tisandro reso
Oltremodo arrogante, e intraprendendo
Imprese di sue forze assai maggiori
Cadde trafitto, e ‘1 di lui corpo estinto
Tutto del sangue suo lordo, ed intriso
Fu tolto da Diomede, il qual compagno
L’ebbe dal padre suo molt’anni addietro,
E sulle spalle trasportato, il rese
Al rogo, ed arso, il cenere sepolto
Fu della Patria sua giusta il costume.
Achille, e Ajace Telamonio allora
Veggendo divenir aspro il conflitto,
Con grave delli suoi perdita, e danno,
Confortate le truppe, e ripigliato
Breve respiro, assalsero il nemico
Con molta gagliardia, ed essi istessi
Ora incalzando chi fuggiva, ed ora
Resistendo a chi lor vi si opponeva,
Tra i primi combattendo, il lor valore
Fra nimici, e tra i nostri illustre, e chiaro
Resero sì, che ne suonò la fama.
Teutrazio di Teutrazio, ed Auge figlio
Sol di madre fratello al Re Telèfo,
Veduto Ajace, che con gloria somma
Contro i suoi combatteva, incontro fessi,
L’attaccò, ma fu tosto a morte posto
Dal Greco Duce; e allor preso da sdegno
Telèfo, e vendicare il suo fratello
Desiando, acremente incontro Ajace
Si spinse, e l’assalì, cacciando quelli,
Che lo impedian; ed inseguendo Ulisse
Tra le viti di un campo, ove correa,
Da un troncone impedito a terra cadde;
Locchè da lungi appena vide Achille
Corse, e ferillo alla sinistra coscia;
Ma Telèfo levatesi di botto,
E tratto il dardo dalla coscia offesa,
Fu da’ suoi al suo rischio accorsi tosto
Liberato. Ma già piegava il giorno,
E gli eserciti avean senza riposo
Combattuto gran tempo, ed era stanco
Ogni soldato, ed ogni Duce insieme:
S’aggiunga, che li nostri eran più giorni,
Che navigando, avean delle lor forze,
Gran perdita sofferta, ed or smarriti
Eran dalla presenza di Telèfo;
Ch’era d’Ercol costui figlio, ed aveva
Alto, e gagliardo il corpo, e alle paterne
Virtù divine avea la gloria sua
Elevata, e portata assai vicina.
Sopraggiunta per ciò la desiata
Notte da tutti, si cessò dal sangue,
Facendo alto alla pugna: e alle lor case
Tornaro i Misj, e noi ne’ nostri legni.
Grande de’ morti il numero, e minore
De’ feriti non fu per amendue
Gli eserciti, e nissuno, o molto pochi
Tornaro senza danno, e senza sangue.
Appena rosseggiò nel Ciel l’aurora
D’ambe le parti furono spediti
Ambasciadori, acciò fosse permesso
Di sotterrar gli estinti, e fatta tregua,
Si raccolsero i morti, ed arsi poscia
Le ceneri sepolte. Infra di tanto
Tepolèmo col suo fratello Antifo,
E Fidippo, di cui sopra abbiam detto,
Ch’eran figliuoli a Tesalo, e nipoti
Ad Ercole, venendo ora a sentire,
Che quì seggio regal Telèfo aveva,
Ne vengono da lui, e fangli noto
Chi fossero, e con chi su quelli legni
Navigavano il mare, e a lui più cose
Dette, gli fero poi riprensione,
Che avesse fatto lor come nemici
Cotanta resistenza; Agamennòne,
E Menelao di Pelope nipoti
Non estranei al suo sangue, avendo il sommo
Impero dell’armata, e d’essi accolte
Per ordin fosser quelle immense schiere,
Essi gli fero ancor palese, come
Alessandro rapita a Menelao
La moglie avesse, e li tesori; e quanto
Gli convenia pel parentado unire
L’armi sue alle greche, e vendicare
La scelleraggin del comune albergo
Violato in Sparta, e come Ercole avea
Memorevoli fatte in Grecia tutta
Fatiche a quest’oggetto, allor Telèfo
Dalla ferita sua non poco afflitto,
Pure cortesemente a quei rispose:
Che sol per di lor colpa era accaduto,
Che gli amici, e i parenti al regno suo
Avvicinati non avean novella
Di lor fatta al suo orecchio pervenire,
Perchè venuto tosto al loro incontro
Dato gli avrebbe albergo, e provveduto
D’ogni cosa, di cui sentian bisogno,
E quindi de’ suoi doni ricolmati
Fosser lieti partiti. In quanto poi
Al voler l’armi sue a quelle unire
De’Greci, si scusò, che nol poteva;
Avend’egli per moglie la figliuola
Di Priamo istesso Astioche nominata,
Ch’aveagli dato Euripide, qual pegno
Di stretta, ed inviolabil parentela.
Indi a popoli suoi Telèfo indisse,
Che si cessasse guerreggiar coi Greci,
Ed ai nostri concesse dalle navi
A lor grado di uscir: e Tlepolèmo
Cogli altri a lui venuti allor ritorno
Fanno alle navi, e la concordia, e pace
Conchiusa con Telèfo ai regi tutti
E ad Agamennòn fanno palese;
Locchè senz’allegria universale
Non s’udì dall’armata, e capitani,
E lietamente abbandonò ciascuno
Gli apparecchi di guerra, a cui vacava:
Indi a comun consiglio Ajace, e Achille
Vanno a Telèfo a consolarlo, a fine
Che virilmente il suo dolor sopporti,
Del quale alquanto alleggerito, i Greci
Incolpava Telèfo, ed a ragione,
Che innanzi non avevangli spedito
Ad avvertirlo un messo, indi richiese
Saper quanti di Pelope nipoti
Nell’esercito allor fosser presenti;
E saputolo, a quei porse i suoi preghi,
Che da lui tutti fossero venuti,
E promessogli far quant’ei voleva,
Fero i sensi del Re noti a ciascuno
Del suddetto legnaggio, e tutti andaro,
Fuorchè Agamennòne, e Menelao,
E quando furo di Telefo innanti
N’ebbe piacere, ed allegria si grande,
Che colmolli di doni, e loro diede
Nella casa regal stanza, ed albergo,
Nè mancò d’inviare anche ai soldati
Nelle navi i suoi doni, ed in ragione
Del numero lor diè copiosamente
E grano, e molte cose, che alla vita
Son reputate necessarie. Inoltre
Il Re vedendo, che mancavan solo
Agamennòne, e Menelao, suoi preghi
Diede ad Ulisse, acciocchè di persona
Gisse da parte sua ad invitarli
Di passare in sua casa, ei vi andò tosto,
E venuti a Telèfo in regio modo,
E magnificamente ricevuti
Colmi di doni a lor persone eguali
Fecero questi i figli d’Esculapio,
Macaone cioè, e Podalirio,
Da Telèfo venire, acciò sanare
Gli si potesse la ferita avuta;
Nè tardare quest’altri, e conosciuto
Il mal, vi usaro medicine acconce.
Eran passati alquanti giorni, e ‘l tempo
Più contrario si fece al navigare;
S’inferociano i venti, ed ogni giorno
La tempesta crescea, onde a Telèfo
Per consiglio n’andaro, ed ei rispose,
Che sol di primavera al cominciare
Era sicuro il mar da Misia a Troja,
Ma ch’era periglioso in altri tempi;
Onde a voto comun fu risoluto
A Beozia tornare, e a terra tratte
Le navi, ognun nel Regno suo si torna.
In questo tempo esercitar potero
La loro nimistà li due fratelli
Agamennòne, e Menelao, ch’ognuno
Credea ben, che da questi il tradimento
D’Ifigenia s’era tramato, il quale
Tanto travaglio, tanta pena, e rischio
Era costato al suo fratel maggiore.
Nel tempo stesso fu palese a Troja
Di tutta Grecia la congiura ordita,
Poichè i mercanti, soliti a cambiare
Per l’Ellesponto le lor merci, a tutti
Quegli abitanti avevano recato
La notizia, che in Grecia si levava
Un esercito immenso incontro a Troja;
Quindi sommo timore, e malcontento
Ne’ lor petti si sparge, e chi da prima
Aveva d’Alessandro biasimata
La condotta malvagia, e scellerata,
Tenuta contro i Greci, or si dolea,
Che per colpa di pochi il popol tutto
Veniva esposto alla total rovina.
Tra questi lagrimevoli pensieri
Alessandro, ed i suoi empj ministri
Spediro gente d’ogni intorno, affinchè
Ogni sorta d’ajuto a lui sia dato
Dai vicini paesi, e d’ogni cosa
Necessaria alla guerra accolto fosse
Provvedimento, e subito tornati,
E raccolto l’esercito, si fosse
Nelle provincie della Grecia andato,
Perchè vessati nelle proprie case,
Fosser distolti dal portare i Greci
La minacciata guerra insino a Troja.
Mentre in Troja si fa tale apparecchio,
È Diomede avvertito, e tutta Grecia
Scorre velocemente, e i Capitani
Trova, ed informa del Trojan consiglio,
Onde gli esorta ad approntar ben tosto
Quanto alla guerra necessario fosse,
E che tolto di mezzo ogni ritardo
A riunirsi ciascun s’affretti in Argo.
Ivi Ulisse trovò, ch’Agamennòne
Era tanto adirato, e tanto immerso
Nella malinconia per la sua figlia,
Che l’armi imprender più si ricusava
A prò di Menelao creduto autore
Del tradimento; e allora al Re palese
Fece l’occorso, e ne placò lo sdegno,
E ‘l dispose a pigliar l’armi di nuovo.
Essendo adunque tutt’in Argo accolti
I Duci, e tutti all’apparecchio intenti,
Ajace Telamonio, e ‘l bravo Achille,
E Diomede sommamente a fine
Si studiavan di condur la guerra:
Piacque a costor, ch’oltre l’accolta armata
Si preparasse ancor di nuove navi
Altro numero, e queste alla difesa
De’ luoghi, che potean essere invasi
Da’ nimici si fussero lasciate,
E in pochi dì da tutta Grecia accolte
Furo cinquanta navi, e fur di genti
Atte all’armi fornite, e d’ogni cosa
Necessaria creduta alla difesa.
Camminava al suo fin già l’anno ottavo
Dacchè la guerra s’era incominciata,
E sorgeva già il nono, allorchè tutta
Era pronta l’armata, e a navigare
Commodo il mar, e senza d’altro indugio,
Condotti a prezzo alcuni Citi, i quali
Ivi ne stavan mercatando a caso,
Servirono di guida in quel viaggio.
Soffriva allor dalla ferita avuta
Nella guerra coi Greci un gran dolore
Telèfo, e non potendo in modo alcuno
Risanare, mandò per consultare
L’oracolo d’Apollo, ed in risposta
Ebbe, che avesse i figli d’Esculapio,
Ed Achille chiamato; ed egli in vece
Con fretta ad Argo navigando, a quelli,
Ch’ivi allor ritrovò, fece palese
L’oracolo del Dio; con caldi prieghi
Cerca loro, ed ottien, che medicata
Gli venga di lor man la sua ferita,
Al che nissuno si negò restìo,
E in breve tempo si mostrò col fatto
Verace Apollo, e si guari Telèfo.
Quindi li Greci, i sacrificj offerti,
Per rendere li Dei propizj all’opra,
Ascendono le navi, ed in Aulide
Felicemente abbassano le vele:
Di là muovonsi in fretta, e fu lor guida
Grato Telèfo al beneficio avuto,
E senza stenti in pochi dì, spirando
Secondo il vento, alle Trojane arene
Placidamente v’approdò l’armata.
In quel momento il Lizio Sarpedone
Figlio di Xanto, e Laodamia, più messi
Ricevuti da Priamo, avea approdato
Con numeroso esercito di Troja
Alle sponde; e da lungi egli veduta
La greca armata, avvicinossi al lido,
Dispone in fretta le sue squadre, e i Greci
Nel lor disbarco assale: a lui D’appresso
Corron di Priamo i figli, a mano armata
Portan guerra crudele ai Greci, i quali
Nè posson tutti uscir dalle lor navi,
Nè ai nimici resistere, turbati
Essendo tutti al subitaneo assalto,
Ed impediti a porre il piede a terra;
Ma tuttavia, e finalmente quelli,
Che in fretta armar ponno di ferro il braccio,
Ed unirsi alla pugna, impeto fanno
Contro il nimico, e vigorosamente
Gli resistono; allor Protesilào,
LA di cui nave avea prima toccato
Il trojan lido, e che tra i combattenti
Venne prima alle mani, il trojan suolo
Bagnò di sangue, e lo uccise Enea:
Ma di Priamo periro anche due figli,
E fu d’ambi gli eserciti non scarsa
La strage, e ‘l danno: Achille, e ‘l Telamonio
Ajace sostenendo con vigore
I Greci quasi daIl’assalto oppressi,
Loro ispirò coraggio, e tra nimici
Lo spavento, e ‘l timor sparse, e diffuse;
Nè potendo i Trojani oltre portare
La resistenza, a passo a passo in dietro
Cedendo il suol, si ritiraro alfine:
Così disgombri dai nimici, i Greci
Traggon le navi a terra, ed IN sicuro
Luogo vengon disposte, ed ordinate,
Ed alla lor custodia eletti sono
Achille, e Ajace, nel di cui valore
Fidano assai li Greci, e dell’armata
Son essi scelti a custodire i lati.
Erano in questo stato allor le cose,
Quando Telèfo, che guidogli in Troja,
Caro, e grato alli Greci al regno suo
Fe’ ritorno. Li Greci in seppellire
Prolesilao intenti, e de’ nimici
Nulla avendo paura, ascostamente
Cigno ne venne, dal di cui Reame
Troja lungi non è, e con agguati
I Greci assalse, che dispersi allora
Trovò ne’ campi, a cui spavento, e tema
Ispirando fugò; ma quei, che intenti
Al funeral non erano, gli andaro
Tosto all’incontro, e tra di questi Achille
Combattendo col Re, lo pose a morte,
Con copia di minici; e colla fuga
Libero a noi abbandonaro il campo.
I Duci allor per tante scorrerie,
Che dai nimici gli venian soventi
Risolvon, ch’ una parte dell’armata
Le vicine Città tutte invadesse.
Così fu fatta prima irruzione
Nel paese di Cigno, e d’ogni intorno
Fu dato il guasto alle campagne, e presa
Senza contrasto alcun la capitale,
Che si diceva Metorensi, dove
Eran di Cigno i figli. I cittadini
Colle ginocchia al suol con preghi, e pianti
Scongiuran per gli Dei, per ogni cosa
Ed umana, e divina, acciò il peccato
Del Re malvagio alla Città innocente
Non vogliano imputare, e che fedele
Sarebbe ai Greci pel perdon concesso:
Mosse lor pianto la pietà de’ Greci,
E da rovina fu sottratta allora,
Ma fur costretti a consegnare ai nostri
Cobino, e Coriana, e la sorella
Glauca del Re figliuoli, e tra la preda
Questa ad Ajace fu concessa in premio
De’ fatti egregi suoi. I Metorensi
Vennero poi al nostro campo, e chine
Le ginocchia, e le mani incrocchiate
Stabiliro la pace, e della pace
I patti colli Greci, e s’obbligaro
Far quanto lor fosse prescritto, e imposto.
Dipartiti costero i Greci a Cilla
Si portano, e la prendono d’assalto,
Ma Corone però città vicina
Danno non soffre, e ciò per sol riguardo
De’ Mandrini, che sono a lei d’appresso,
Che i Mandrini con noi sempre fedeli
Si son portati, e da fedeli amici.
In quel tempo pervenne al campo greco
L’Oracolo di Pizio, il qual prescrisse,
Ch’ a Palamede sol fosse concesso
A Sminzio Apollo i sacrificj offrire,
Locchè quanto riuscì grato ai soldati
Per l’amor, che all’esercito portava,
Tanto a non pochi Principi dispiacque,
Per gelosia, e invidia. E già si andava
Ad offerir (siccome era predetto)
Per l’esercito tutto il sacrificio,
E Crise precedea, che di quel luogo
N’era il sacro Ministro, e sull’altare
Cento doveansi vittime scannare.
Alessandro il riseppe, e con armati
Glien venne ad impedire; allor gli Ajaci
Si fanno incontro, e uccisi de’ Trojani
Alquanti, lo cacciarono alle mura:
Crise però, che dello Sminzio Apollo
Dicemmo d’esser Sacerdote, avea
Timor d’ambi gli eserciti, e mostrava
Amicizia ad entrambi. In questo mentre,
Che il rito sacro si eseguiva, avvenne,
Che Filottete, il qual poco lontano
Dall’ara stava, per disgrazia morso
Fu da un serpente, ed al rumore Ulisse
Fattosi avanti, quel serpente uccise;
E quindi fatta la ferita grave,
Fu Filottete all’isola di Lenno
Inviato con pochi a medicarsi;
A cagion, che in quell’isola vi sono
I Sacerdoti di Vulcano esperti
A medicare i velenosi morbi.
Allor venne ad Ulisse, ed a Diomede
II pensiero crudel di porre a morte
Palamede, perchè male nell’alma
Soffrian la pena di vederlo estolto,
E preferito ad essi. A lui fingendo
D’aver scoperto adunque un gran tesoro,
Ch’era in seno d’un pozzo, e che a lui dare
Parte volean, e tripartirlo insieme,
Soli il menaro in luogo assai lontano
Dall’esercito, dove avean trovato
II pozzo adatto al lor disegno infame;
Quindi lo persuadono, che il primo
Voglia scendere a basso, e ben ligato
Con fune il fan calare, essendo quegli
Lontano dal suppor qualunque inganno;
Ma quando fu quell’infelice al fondo
Del pozzo insidioso, allora in fretta
Raccolgon quanti son là sassi intorno,
E ‘l ricuopron lì dentro; e in questo modo
Quest’uom valente, e glorioso, amato
Pe’ suoi consigli dall’armata intera,
Fu tradito, e fu messo a iniqua morte.
Che fosse stato Agamennòne a parte
Del consiglio crudel, fu sospettato,
Perchè l’amava Palamede il volgo,
E spesso desiato avea, che a lui
Dato si fosse della guerra il sommo
Impero, e delle cose. I Greci tutti
Grave n’ebbero il duolo, ed a comune
Pubblica spesa furono l’esequie
Celebrate, il corpo arso, e in vaso d’oro
Le ceneri onorate accolte infine.
Achille intanto le città vicine,
Che soccorrevan Troja in quella guerra,
D’invadere pensò, e alquante navi
Prese, Lesbo assalì, nè gran fatica
Durò, perchè padron se ne rendesse,
E Forgarita re di quel paese
Diede a morte; costui contro li Greci
Aveva combattuto, e la sua figlia
Per nome Diomedea fe’ prigioniera
Con molta, e ricca preda: ed indi a Pirra,
Ed Jeropoli andò, città pur ricche,
A prieghi de’ soldati avidi, e ingordi
Sempre di nuove prede; ed assalite,
In pochi dì le soggiogò: dovunque
Volgeva l’armi sue i ricchi campi
Saccheggiava, ed intatta, e senza offesa
Niuna cosa lasciava; essendo ai suoi
Occhi delitto esser creduto amico
De’ Trojani, per cui tutt’ i vicini
Correan da lui a domandargli pace,
A patto, che se salvi eran lor campi
Dall’armi sue, l’avrian di tutt’i frutti
Concessa la metà; con questo patto
Con quei popoli fu chiusa la pace:
Quindi al campo ritorna Achille, e porta
Chiara fama, ampia preda, e molti schiavi.
Udì tai cose il re de’ Sciti, e incontro
Ci venne, ed implorò con ricchi doni
Nostr’amicizia, e non contento Achille
Di ciocchè fatto aveva alla Cilicia,
Volse l’armi, e l’invase, e in pochi giorni
A viva forza presevi Lirnesso,
E ucciso Fatton di là Signore,
Di ricche spoglie ricolmò sue navi,
Menando seco di Crisèo la figlia,
Arsinome per nome al re congiunta
In nodo marital: indi con fretta
Passa a Pedaso, che de’ Selegoni
Era la capitale: il Re Brisèo
Vedendo i nostri incrudeliti assai
Nell’assedio, ed i suoi deboli troppo
Per ribatterci, e altronde una speranza
Non lusingando il suo misero core,
Mentre ardeva la zuffa, e tutt’ intenti
Erano i suoi alla difesa, in casa
Si ritira, ed appicca, e poco dopo
Fu presa la città, molti restando
Distesi a terra, e fu fatta cattiva
Ippodamia allor del Re figliuola
Ajace Telamonio al tempo stesso
Dava molestia a Cheronesso in Tracia.
Polinestore qui regnava allora,
II qual ben conoscendo il gran valore
Di cotanto nimico, e mal fidando
Ne’ suoi, si rese al Telamonio Duce;
Ed in mercè gli consegnò di Priamo
L’ultimo figlio Polidoro a nome,
Che nato di recente ascostamente
A lui rimesso avea, perché nodrito
Fosse in sua Corte; e consegnolli ancora
Molt’oro, e molti doni, e preziosi,
Per guadagnar dei suoi nimici il core;
Promise inoltre provveder l’armata
D’un anno di fromento, e cariconne
Ulisse allor quante n’aveva seco
Navi a trasporto, e con i giuramenti
I più solenni rinunciò per sempre
Di Priamo all’amicizia, e in questo modo
Fu delli Greci in grazia ricevuto.
Dopo di ciò, si volse Ajace ai Frigi,
Ed invaso il paese, a corpo, a corpo
Il Signore di quei Teutrante uccise;
E presa, ed arsa la città, gran preda
Cavonne, e menò seco la figliuola
Di quel Re, che Tegmessa aveva nome:
Questi due Duci al tempo stesso adunque
Più luoghi presi, e saccheggiati, e tratta
Gran preda, e fama, e somma gloria insieme,
Come se di concerto, e al tempo istesso
All’esercito fecero ritorno,
Ove per mezzo delli banditori
Raccolti i Duci, ed i soldati, ognuno
Di sue fatiche, e suoi travagli espone
II merito acquistato; indi la preda
Recano in mezzo, il che veduto, e inteso,
Furono estolti con eccelse lodi,
E in pubblico menati, il crine ornato
Ottennero d’olivo i vincitori:
La preda quindi per comun consiglio
Di dividere a Nestore fu dato,
E ad Idomenéo, comechè un nome
Avean di probità presso del volgo.
Della preda d’Achille Aristomène
Di Crise figlia, e moglie a Faccione
Fu messa fuora, e data al sommo Duce
Agamennòn, perché era Regina;
Tocca ad Achille, oltre d’Ippodamia
Figlia a Brisèo, ancor Diomedèa,
La qual, com’era dell’etade istessa
D’Ippodamia, cosi non si poteva
Separare, e dividere da lei,
Senza un dolore estremo, e prosternate
Alli piedi d’Achille alto il pregaro
D’essere unite, e separarsi mai;
Furo i preghi esauditi, e funne il resto
Della preda di poi fra tutti gli altri,
Secondo i merti di ciascun, diviso.
Quella, che poi condotta aveva Ajace,
E Ulisse fu nel pubblico disposta,
E tratto l’oro, e quanto argento parve,
Che tolse Agamennòne, il resto tutto
Col grano fu all’esercito diviso,
Tolta Tegmessa di Teutrante figlia,
Che per l’opere eccelse destinata
Fu per preda ad Ajace Telamonio.
Ciò fatto, narra Ajace allor la fede
Impegnata col Re Polinestorre,
E come Polidoro aveagli dato;
Onde ai Greci sembrò, che con Ulisse
Diomede andasse al Re di Troja, e a lui
Di Polidoro proponendo il cambio,
Ridomandasse coi tesori tolti
Elena loro: Menelao compagno
Esser volle all’invio, e Polidoro
Seco portando, alla città ne andaro.
Il popolo Trojan, vedendo entrare
Personaggi sì degni, e di gran nome,
Fero, che i vecchi, e i principi Trojani
Tutti al Consiglio fussero adunati,
Sol Priamo vi mancò, nella sua stanza
Ritenuto dai figli. Alla presenza
Allor di tutti Menelao principio
Diede al suo dir: che la seconda volta
Per la stessa cagion veniva a Troja, E numerando tutte le nefande
Azioni commesse incontro a lui,
Si dolse poi, che la di lui figliuola,
Perduta la sua madre, era dolente,
E inconsolabilmente desolata:
E che tali disgrazie in sua famiglia
Senza sua colpa, e immeritevolmente
Veniano a lui dall’oste, e dall’amico.
Queste cose dicea, e i vecchi tutti
L’ascoltavan piangendo, avendo al core
Pietà di lui, ed aderendo in tutto
Quello, che dimandava: allora Ulisse
Levatosi nel mezzo, al suo parlare
Diè corso colla sua facondia greca.
Credo, o Trojani, che non siate ignari
Della condotta ognor dai Greci usata,
A nulla imprender pazzamente, e prima
Di cominciare, a esaminar l’impresa,
Calcolandone il rischio, e che i maggiori
Nostri non mai hann’opera intrapresa
Degna di biasmo, ed han studiato solo
Come faccian seguir lode, e mai colpa
All’opre, ai fatti : e per tacer di quelle
Passate già, voi giudicar potete
Dalle presenti, se mentire ardisco.
Guari non ha, la Grecia tutta offesa
Fu d’Alessandro, che di mille ingiurie
L’ha ricolmata: all’arme ella volare
Avrìa tosto potuto, e dello sdegno
Seguir gl’impulsi, e pur fu della Grecia
Un consiglio comun molto prudente,
Che noi venimmo insiem con Menelao
Elena a dimandarvi, e in vece solo,
Si ottennero minacce, e agguati, e insidie,
E da Priamo, e dai figli: e ritornati
Senz’alcun pro, ragion le nostre destre
Armò, per ottener quello per forza,
Che per giustizia non ci fu concesso:
E raccolto di Grecia il fior de’ duci,
E della gioventù, pur non ci parve
Portarvi guerra, e la seconda volta
Nostro costume usando, a voi venimmo
Per la stessa cagion; il resto a voi
Rimettiamo, o Trojani, e ‘1 pentimento
Non sentiremo mai d’aver voluto
Giovarvi, e di salvar la vostra Patria,
Oggi potendo, se pur savj siete,
Il passato emendar, ed i passati
Consigli ritrattar, avendo il tempo:
Considerate sol, se vi opponete,
Quanta rovina vi soprasta, e quanta
Peste l’esempio porterà nel mondo.
Chi fia, che saggio, richiamando a mente
La scelleragin d’Alessandro, voglia
Più fidar dell’amico? E qual fratello
Fede darà al suo fratello istesso?
E chi l’ospite più nella sua casa,
O il suo parente ammetterà? Se questo,
Ch’io mai non crederò, per giusto avrete,
Ogni legge, ogni dritto, ogni rapporto
Fra li Greci, e li barbari fìa rotto.
Che per ciò parlo a voi, prenci Trojani,
Credo, che il giusto, ed il miglior partito
Sia rendere alli Greci ogni lor cosa,
Ch’Alessandro rapì, e che mandate
Sieno a casa le donne, e che i due Regni
Pria tanto amici a dispietata guerra
Non vengano a comun danno, e rovina;
Locchè quand’io rifletto, il cor mi duole
Della vostra disgrazia, avendo pochi
Per lussuria brutal solo peccato
Per pagarsi il gran fio dagl’innocenti.
Nè cred’io, che voi soli oggi ignorate
A qual destino le citta vicine
Furon date da noi, e qual s’aspetta
Aspro governo all’altre rimanenti.
Saprete ancor, che nel poter de’ Greci
Polidoro è caduto, e che ben fora
Reso a Priamo, se tosto Elena a noi
Co’ rapiti tesori oggi rendete:
Che se vi ricusate, ed ostinati
Volete il nostro ritenervi, adesso
Comincerà la guerra, e non mai fine
Farassi, che allor quando o tutt’i i nostri
Duci, e soldati fian menati a morte,
O, ciocchè spero, ed è più facil cosa,
Che la vostra città arsa, e distrutta
Sia alli posteri vostri un tristo esempio
Di vostra scellerata, empia condotta;
Ed or, che da voi pende il grande affare,
Risolvete, ed a voi meglio badate.
Qui tacque Ulisse. Ognun (com’è costume)
Attendea, ch’ altri incominciasse a dire,
Ed esprimesse il suo parer, ma fatto
Lungo silenzio, alfine alzò la voce
Panto, e drizzando il suo discorso a Ulisse,
Tu detto hai cose, a cui noi non possiamo
Oltre del nostro buon volere apporre
Rimedio alcun: e Antenore soggiunse;
Noi sosterrem quanto voi detto avete,
Nè manca a noi la volontà, ma manca
Il poter eseguir quel, che vogliamo;
L’impero essendo nelle man di quelli,
Che le sfrenate passioni fanno
All’util prevalere, ed all’onesto.
E terminato Antenore, introdotti
Furo in consiglio i capitani tutti
Ch’aveano in Troja eserciti condotti
Per amicizia al Re, o per mercede,
E innanzi a questi Ulisse una seconda
Orazion ebbe, cominciando a dire,
Ch’eran essi malvagi, e scellerati,
Ad Alessandro eguali, e con ragione,
Che seguivan colui, ch’era l’autore
Di tanta scelleragine, e avverrebbe,
che se a traverso di sì atroce torto
Pur venisse difeso, allor diffuso
Fra gli uomini l’esempio si cattivo,
S’aprirebbe il cammin alle nefande
Inique azioni autorizzate adesso.
Questi rimbrocci com’erano atroci,
Così da tutti fur ben ponderati,
E biasmando ciascun un tale esempio,
Ne mormorò fra se pieno di sdegno.
Fu il parere comun di tutt’i vecchi
Ch’a torto Menelao, e ingiustamente
Era stato oltraggiato, ed in favore
D’Alessandro s’udia solo parlare
Antimaco, che a tutti si opponeva.
Essendo intanto assente il Re, fur scelti
Due del Consiglio, a rapportare a Priamo
Quanto i Legati Greci aveano detto;
E che fra l’altre cose in lor potere
Ne stava Polidoro, a quest’avviso
Ebbe del figlio un gran dolore, e cadde
Innanzi a tutti io terra, e sollevato
Poscia, ed al suo rancor dato conforto,
Volea portarsi nel Consiglio, e pure
Gli vien vietato da’ suoi figli, i quali,
Lasciato il padre lor, furiosamente
Si spingono lì dentro, e in quell’istante,
Ch’Antimaco dicea gran villanie
Ai greci ambasciadori, e sosteneva,
Che Menelao in Troja abbia a tenersi,
Finchè sia reso Polidoro a Troja.
Contro di che tacendo tutti, il solo
Antenore s’oppose, e con rigore
Ei sostenea, che non si decretasse
Così iniqua sentenza, e riscaldate
Ambe le parli contendenti, al punto
Già s’era di venire all’armi in mano.
Onde tutti avvisaronsi cacciare
Dalla curia colui, che commoveva
Tai risse, come un uom sedizioso,
Antimaco violento, ed inquieto.
Usciti poscia ancor di Priamo i figli,
Cominciò Panto a scongiurare Ettorre,
Acciò amichevolmente Elena ai Greci
Restituita fosse, e ch’ oramai
Alessandro potesse esser contento
D’aver potuto saziare appieno
L’amor, che concepito avea per lei,
E che dovea riflettersi, che in Troja
Eran di Grecia tanti Re venuti
Con tante armate, ed i lor fatti illustri,
E la gloria novella oggi acquistata
Per le rovine di città vicine
A Troja amiche, ed adequate al suolo;
A quale effetto avea spontaneamente
Polinestore dato in man de’ Greci
Polidoro, biasmando i fatti indegni
De’ Trojani, e la lor cattiva fede,
Onde temer ben si dovea a ragione,
Che mossi a sdegno ancor gli altri paesi,
O presi dal timor del nostro assedio,
S’abbiano a ribellar; e non v’è cosa
Più facile di questa, e che fedele
Non ci resta l’amico, allorchè noi
Siam minacciati da fortuna arversa,
Che all’amico potria nuocere ancora:
Che tali cose ben considerate,
Se fossero dall’alma, al certo allora
Non si terriano qui più lungamente
I Legali di Grecia, e consegnata
Elena chiesta, un amichevol nodo
Stringerebbe i due Regni: Ettore allora
Mesto nel volto, e di tristezza colmo,
Considerando del di lui fratello
L’azione iniqua a Menelao commessa,
Bagnò di pianto i lumi, e sovvenito
D’aver promessa ad Elena difesa,
Progettò, ch’egli rendere alli Greci
Avrebbe fatto ogni tesor rapito,
Ma che d’Elena in vece, a Menelao
Si dasse Polissena, o pur Cassandra,
O qual moglie piacesse alli Legati
Con ricchi doni, e preziosi assai.
Ma Menelao allor pien di furore,
Disse, dunque sarò stato spogliato
Dai nimici del mio, perchè di poi
I° fossi astretto a solo arbitrio loro
Di cangiar moglie? Enea rispose allora;
Nè consent’io, i parenti, e gli altri amici,
Ch’Alessandro sostengono coll’armi,
Nè mancheranno quei, che con valore
Difenderanno il Regno, e senza figli
No, che Priamo non resta, allorchè privo
Sarà di Polidoro, avendo tanti,
E tanti figli a consolarlo in questa
Perdita sua. E che credono i Greci?
Che sian dai Dei ad essi sol permesse
Queste rapine? Europa in Candia tratta
Fu di Sidonia, e Ganimede istesso
Nol rapiro di qui? Medea dai Colchi
Non recò dalla Grecia anche Giasone
Ed Io non venne da Sidonia in Argo?
Han tutto ciò dimenticato i Greci,
Per ostentarci una virtù mentita?
È intollerabil la baldanza vostra,
Ma se finor l’abbiam sol con parole
Quest’affare trattato, ora vi dico,
Che se all’istante coll’intera armata
Non disgombrate dai Trojani lidi,
Voi del nostro valer prove vedrete.
Noi per favor de’ nostri Dei abbiamo
Gioventù molta, e nella guerra esperta,
Nè ci mancan soccorsi, ed ogni giorno
Nuovi ne vengon; ci vedremo ai fatti.
Compiuto Enea il suo discorso, Ulisse
Piacevolmente a lui diede risposta:
Da quel, ch’io veggo, è un’impossibil cosa
Potere in modo alcuno essere amici;
Dunque il segnale della guerra alzate
Che come foste nell’ingiuria i primi,
Così alla guerra anche il dovete, e noi
Provocati per Dio vi seguiremo.
Dette tai cose d’amendue le parti,
Dal consiglio partironsi i Legati;
E ‘1 popolo informato allor di quello,
Che detto, aveva Enea, nacque un tumulto,
Accusandolo ognun, ch’egli l’autore
Sarìa della rovina, a cui la patria
Andrebbe esposta pel furor de’ Greci.
I Legati all’esercito venuti,
I fatti de’ Trojani, e le parole
Narrano ai Duci, ed è tosto deciso,
Che Polidoro a vista delle mura
Ucciso fosse; e senza indugio alcuno
Vi fu recato, e sotto, gli occhi allora
De’ Trojani il fanciul fu lapidato,
Del fraterno misfatto il fio pagando.
Indi i Greci mandaro un banditore
Ad avvisarli, che di Polidoro
Potean prendersi il corpo, ed onorata
Dargli, se lor placea, la sepoltura.
Colli servi del Re venne spedito
A quest’ufficio Ideo, che alla dolente
Madre recò di Polidoro estinto
II corpo tutto dalle pietre pesto.
Per dare intanto il Telamonio Ajace
Guasto ai paesi più vicini a Troja,
Tolse una parte dell’armata, e prese
Prima Botira, e Cilla allor cittadi
Assai ricche, e felici, e non contento
Gargaro saccheggiò, Scepsi, e Genite,
E Marispa, e Larisca, e avendo udito
Che molte mandre d’animai sull’Ida
Pascevano, v’entrò co’ suoi soldati,
E delle greggi i guardiani uccisi
Giù ne menò gran quantità; di poi
Cacciando tutti, ov’egli andava, al campo,
Quando gli parve tempo, ei fe’ ritorno.
Crise allor, che dicemmo esser d’Apollo
Sacerdote, sapendo esser sua figlia
Per nome Aristomène in sorte data
Al Duce Agamennon, nel gran potere
Fidato del suo Dio, venne alle navi,
L’immagine d’Apollo, e del suo Tempio,
Alcuni rispettabili ornamenti
Portando, perchè il Re più facilmente
Potesse aver di lui stima, e rispetto;
E presentati al Re d’oro, e d’argento
Più doni, domandò, che la figliuola
Resa gli fosse, per l’onor dovuto
Al Dio, del quale il Sacerdote egli era,
Che per la bocca del suo Dio parlava:
Quindi chiamò alla memoria sua
Quel, che sofferto d’Alessandro avea,
E dai congiunti, allorch’egli pei Greci
II santo sacrifìcio offerto avea
Al suo Dio, E dai Greci udito questo,
Tutti D’accordo, senza premio alcuno
Dicean, che si rendesse al Sacerdote
La figlia, essendo quei de’ Greci amico,
E meritevol troppo, e maggiormente
Tale il rendea la Religion del Dio,
Cui serviva il buon vecchio: Agamennòne
A traverso di ciò, si oppose a tutti,
E minacciando con irato volto
La morte al Sacerdote, il caccia via.
Il buon vecchio smarrito a lento passo
Il Consiglio lasciò; tornando al Tempio
Desolato, ed afflitto. I Re di Grecia
Mal sofferendo la di lui condotta,
Il villaneggian tutti, avendo un Dio
Tanto sprezzato, e un degno Sacerdote
Per una serva, ch’ era pur lor serva;
E come sprezzator de’ sommi Dei
Il lasciaro e partiro, il cor ripieno
Della memoria atroce in aver egli
Avuto man di Palamede amato
Tanto dai Greci alla spietata morte:
E Achille istesso, e gli altri Duci insieme
Tutti il biasmaro, e Menelao medesmo.
Crise fra tanto per l’ingiuria atroce
Ricevuta partì, nè molli giorni
Passaro, e fu da grave pestilenza
L’esercito aggravato, e gli animali
Ne risentiro i primi i tristi effetti;
E quindi poi tra gli uomini si sparse.
Molta n’era la strage, e i re soltanto
Nè morivan, nè alcun giaceva infermo:
Nè cessando il contagio, anzi crescendo
Di giorno in giorno, e un numero maggiore
Andando a morte, alfine i Duci tutti
Dubitando di sè, chiaman Calcante,
Che noi dicemmo d’essere indovino,
E ‘1 pregano di far lor manifesto
Qual fosse la cagion di tanto male;
Ei disse, che sapea ben la cagione
Di tanta peste, che struggea l’armata;
Ma che svelarla non potea giammai,
Potendogli costar il provocare
D’un tanto Re lo sdegno, ed il furore.
Udito questo Achille, a cadauno
Con giuramento dimandò, che offeso
Non sarebbe Calcante, allorchè espressa
Avrebbe la cagion di quella peste.
Obbligati cosi gli animi tutti
De’ Capitani greci, allor Calcante
Disse, che Apollo con ragion sdegnato
Per l’ingiuria inferita al Sacerdote
L’esercito de’ Greci castigava:
E richiedendo Achille all’indovino
Qual il rimedio fosse, egli rispose,
Che con venia restituir la Vergine.
Allora Agamennon tranquillamente
Dal Consiglio si parte, e ai suoi comanda,
Che s’ armassero tutti: allora Achille
Preso da sdegno, fe’, che i corpi morti
Fossero esposti innanzi a tutti gli occhi,
Spettacolo, che i Re, che il volgo mosse,
Onde ad Achille fu commesso andare
Coll’armata, se più vi s’ostinava
A rendere la vergine al suo Padre.
Agamennon per tanto udito questo,
E della serva non potendo affatto
Dimenticar l’amore, avea disposto
D’attendere 1’assalto, e non piegarsi
In modo alcuno, e per qualsiasi forza.
Infrattanto i Trojani, udito avendo
La grave pestilenza, ed i proprj occhi
Facendo fede delle sepolture
Si continue, che davano li Greci
Alli lor morti, e risapendo ancora,
Che il resto dell’armata era languente,
Animandosi insieme escono armati
Dalle lor porte, e in due dividon tutto
L’esercito composto; di Trojani
Era un corpo, ed Ettorre il comandava,
L’altro de’ forestieri, e Sarpedone
Fu scelto Capitan. I nostri allora,
I nimici veduti armati uscire,
E di venirci incontro, ordinan essi
Pur l’esercito nostro, e al corno destro
Achille con Antiloco, al sinistro
Il Telamonio Ajace, e insiem Diomede
Mettono, e tiene poi del centro il mezzo
II nostro Duce Idomenèo. Disposte
Così le nostre file, incontro vassi
All’armata nimica, ed appressati,
Confortando ciascuno i suoi, si venne
All’attacco; e dall’una, e l’Altra parte
Molto si sparse sangue, e molto intorno
Girò più tempo la sua falce morte,
Tra barbari famoso essendo Ettorre,
E Sarpedone, che de’ nostri eccidio
Molto facean; e tra li nostri v’era
Diomede, e Menelao, che de’ nimici
Strage facean eguale, e combattendo
Con egual sorte, alfin venne la notte,
Che invitando al riposo, e nascondendo
De’ più grandi il valor, termine impose
Alla gloria, al morir. Il dì seguente
Fu destinato a seppellire i morti;
Quindi dai Greci conosciuto assai
II valore d’Achille, e la fermezza
Nelle disgrazie, e quanta diligenza
Impiegava a condur bene gli affari,
Disposero tra loro al sommo grado
Elevarlo di re: Agamennòne
Temendo allor la dignità suprema
Di perdere, in Consiglio espose il suo
Desiderio, ch’avea, di render sano
L’esercito languente, e che tantosto
Aristomène manderebbe al Padre,
Per evitare alfin la pestilenza,
Ma che voleva in cambio Ippodamìa
Posseduta d’Achille, acciò costei
Di sua donna perduta al gran dolore
Fosse rimedio almen. Locchè quantunque
Sembrasse atroce a tutti, e indegno, pure
Achille acconsentì, cedendo quella
Che in premio delli suoi nobili fatti
L’era stata concessa, ed assegnata;
Tanto il giovane egregio amore avea
Per l’esercito, e tanto era capace
Sacrificar sè stesso al di lui bene.
Contro il voler di tutti, e non osando
Ripugnarvi ciascun, Agamennòne
Commise ai suoi ministri, acciò levata
Fosse d’Achille Ippodamia, e ben tosto
Quei l’eseguiro. Allor mandaro i Greci
Aristomene al Padre, in compagnia
Di Diomede, ed Ulisse, e seco loro
Molte vittime ancor, perchè scannate
Fossero tutte in sull’altar d’Apollo
Nel suo tempio: e compiuti i sacrificj,
La peste si calmò; e quei, che prima
Ne risentian, per un divin favore
Furono tosto del malor rifatti,
E in breve tempo vigoroso, e sano
L’esercito divenne. A Filottete,
Fu poscia in Lenno porzion mandata
Della preda, che Achille, e ‘l Duce Ajace
Menata avean dalle Città conquise.
Intanto Achille si rodea nel core
Per l’ingiuria sofferta, e separarsi
Dal Consiglio, pensò, tant’odio il prese
Pel Rege Agamennòn, a parte messo
L’amor che per l’esercito sentiva,
A cagion che soffrire avea potuto,
Che dopo tante sue gloriose imprese,
Dopo tante vittorie, e illustri fatti,

Tolta gli fosse Ippodamìa, la quale
Era premio, e mercè di sue fatiche;
Per ciò crucciato, ammetter ricusava
I Principi, che a lui voleano andare,
Perchè contro l’ingiuria ricevuta
Difeso non l’avean. Nel padiglione
Chiuso dunque sen stava, e ritenea
Solo l’amico Patroclo, e Fenice

De’ costumi maestro, e Automedonte
Condottier del suo carro, e de’ cavalli.
In questo tempo infra i compagni, e socj,
E tra i soldati per mercè condotti,
Ed i Trojani s’eccitò dissidio,
Tal che nissun voleva a pugna uscire;
Ciocch’Ettore costrinse a comandare
A’ suoi soldati di star tutti in arme
Pronti al conflitto, acciocchè al primo segno
D’essi ciascun alla battaglia il segua,
Perchè sul loro esempio il seguan gli altri.
Convien narrare i Re di quelle genti,
Che per mercè, per amicizia a Troja
Da più paesi aveano i lor soldati
Condotti, per seguir di Priamo i figli.
Dato il segno all’uscita, il primo fuori
Venne Pandaro, il qual era figliuolo
Del Licio Licaone. Ippoto appresso
Di Pileo, e Larissa de’ Pelasgi,
Indi Agàmo di Tracia, e dopo questi
Eufemo di Trizenio, il qual Signore
È de’ Cicogni: e quindi Filemène
Paflagonio famoso assai per Melio
Suo genitor: del Re de’ Numangani
Dio, Epistrofo figli, e Sarpedone
D’Auto figliuol, de’ Lizj Capitano;
E Monante di Iole, ed anche Anfima
Figlio di Nomione di Calanto,
E Menetéo di Telamenéo,
Moneante d’Ippolito, compagno
Di Sarpedone Lizio, a quest’oggetto
Seco menato, che in consiglio tutti,
Ed in armi vincea: Forci, ed Ascanio
Dalla Frigia: veniva ancor di Misia
Frodio di Midione, e di Peòne
Pregamo: Anipio, e Adrasto ambi figliuoli
Di Merope, e Agrestina: Irtaco Asiro,
E un altro Asiro ad Ecuba fratello,
Di Dimento figliuol: seguiano appresso
Uomini senza numero, e di vari
Costumi, e leggi, e di dissimil lingua,
Che combatter soleano alla rinfusa,
Senz’ordine, e disegno, e senza legge.
Ciò veduto dai nostri, e in mezzo al piano
Stando schierato esercito sì grande,
Si danno tosto ad ordinare il nostro,
Disponendo ogni corpo, ed ogni schiera
Mnestèo Ateniese, e mentre questi
Le varie genti, e nazion diverse
In drappelli mettea, sen stava Achille
Co’ Mirmidoni suoi in lontananza,
Che non aveva ancor l’ira placata
Per l’ingiuria sofferta, e per la tolta
Ippodamia, e di furore acceso
Era, perchè invitato a cena avendo
Gli altri principi il Duce, escluso ei solo;
E negletto restonne: avendo l’oste
Venutaci all’incontro, e niuno ardire
Avuto d’esser primo ad attaccare,
E stando fermi nel medesmo luogo
D’ambe le parli li soldati un’ora,
E due, e più, suonaro a ritirata,
Come se di concerto e gli uni, e gli altri.
Tornare quindi alle lor navi i Greci,
E deposte lor armi, ognun badava
Ristorarsi col cibo, allorchè Achille,
Meditando vendetta, ascostamente
S’ingegnava assalire i nostri, i quali
Allora stavan sprovveduti, e in ozio
Ma dalle sentinelle udendo Ulisse
Ciocchè Achille pensava, ad alta voce
Ad ammonirne i Capitani imprese,
Acciocchè all’armi ognun corresse, e ognuno
A difesa comun stasse vegghiante;
E ‘1 consiglio d’Achille a ognun disvela;
Ciocchè d’alto rumor fu gran cagione,
Ch’ognun correa ad armarsi, e ognun volea
Provvedere a se stesso. In questo modo
Scoperto Achille, e conosciuto avendo,
Che tutti all’armi avean volato, e invano
Tentato avria l’assalto al padiglione,
Senz’alcun prò fece ritorno alfine.
Avvisandosi intanto i nostri Duci,
Che a nostre grida muoversi i Trojani
Potean, ed attaccar nuova intrapresa,
Nuove guardie disposte, ai due Ajaci,
A Diomede, ed Ulisse incarco dato
Fu, che vegliato fosse, e questi il luogo
Divisero tra lor, per dove l’oste
Venir potea; nè vano un tal consiglio
Certo non fu, ch’Ettore a quel rumore
Mosse, e volendo la cagion saperne,
Incaricò Dolone, il qual d’Eumene
Era figliuol, perchè tra noi spiasse,
E con premj, e promesse agir l’indusse.
Venne questi di fatti, ed alle navi
Greche si accosta a tale effetto, e cade
D’Ulisse, e Diomede entro le mani,
Poichè quel luogo era di questi in guardia,
E confessando il suo disegno, a morte
Messo fu tosto. Alquanti giorni dopo
Al conflitto apprestaronsi l’armate,
E diviso tra lor tutto quel campo,
Che fra Troja, e le navi era frapposto,
Quando lor parve il tempo idoneo, e fatto
Per la battaglia, allor si avvicinaro,
E dato il segno, fu il principio dato
Alla mischia crudel. I Greci ai loro
Capitani ubbidian, giusta il costume,
Lor ordine seguendo, ed i Trojani
Alla rinfusa, e senz’ordine alcuno
Si diffondon dovunque, a vera usanza
De’ barbari, com’erano i Trojani.
In quel conflitto oh quanti andaro a morte
Dall’uno, e l’altra parte! Ognuno ambiva
Aver sul forte suo nimico il vanto,
E uguagliar l’altrui glorioso nome.
Enea fra tanto, Sarpedone, e Glauco,
Eleno, Euforbio, ed altri delli duci
De’ barbari feriti uscir costretti
Fur dalla mischia, e delli nostri ancora
Ulisse, Merione, ed anche Eumèlo:
Ma Menelao avea visto Alessandro
Appena, che gli andò con gran violenza
Incontro, ma schivandolo colui,
Nè lungo tempo star sulle difese
Potendo seco lui, pensò fuggirsi,
Del che avveduto il suo fratello Ettorre,
Nonchè l’altro Deifèbo, accorse tosto,
E ripreso acremente il vil fratello,
L’obbligaro a restar, e a corpo, a corpo
Battersi insiem con Menelao: costretto
Alessandro tornò; e uscito fuori
Dalle file, locchè segno ben chiaro
Era, che l’inimico egli invitava;
Allegro corre Menelao, che vede
Propizia già l’occasion bramata
D’assalire colui, che la sua donna,
Ed i tesori suoi avea rapito,
Per cui gli corse cori trasporto incontro;
Locchè videro appena ambe le armate
Che ritirossi ognun, libero il campo
Loro lasciando: ed accostati quanto
Lungo è il lanciar d’un dardo, e desioso
Alessandro, che fosse egli il primiero
In ferire il nimico, un colpo d’asta
Corre, e gli tira, e perforò lo scudo,
Menelao con violenza a lui tirando,
E 1’altro essendo ad ischivarlo intento
Il ferro in terra conficcossi; allora
A nuovi colpi dando essi di piglio,
Alessandro è ferito in una coscia,
E baciando la terra, ebro di gioja
Menelao pel nimico a terra steso,
Avendo in mano la sua spada ignuda,
Mentre correa per isvenarlo, un dardo
Da Pandaro tirato ascostamente
Il ferì, lo distolse, ed Alessandro
Dove sua vita al tradimento altrui,
Ch’esser potrebbe ad altri un tristo esempio.
Levaro allora un alto grido i nostri,
Sdegnati, che battendosi quei due,
Per cagione de’ quali allora ardea
La guerra, dai Trojani a bella posta
Interrotti eran stati; ed una squadra
Di Trojani avanzata, e fatta innanti,
Alessandro coperse, e portò via.
Stando i nostri cosi da dubbio, e tema
Presi, Pandaro fe’ grave macello,
Tirando di lontan di sue saette,
Finchè mosso Diomede, e avvicinato
A1l’uccisor de’ saettati Greci,
L’ uccise, e impose fine a quella strage;
Così dopo, che Pandaro violato
Ebbe le leggi della guerra, e uccisi
Molti nimici, ricevè la pena
Della malizia sua sì scellerata.
Ma il corpo suo fu dagli amici tolto,
Arso, e gli avanzi ai Lidii suoi compagni
Fur consegnati, acciò nella lor patria
Si fossero recati: allor la mischia
Ricominciò, e qui novelli sforzi
Ambo fanno gli eserciti accaniti,
E con dubbia fortuna, e incerto evento
Pugnossi insino a sera, allorchè venne
La notte amica del riposo, e volle,
Che dalla strage si cessasse, e allora
I Re d’ambe le parti, i lor soldati
Richiamano; gli eserciti lontani.
L’un dall’altro disposti, in guardia danno
A sentinelle accorte i siti, e i posti.
Così più giorni fu aspettata invano
l’occasion di cominciar la zuffa,
Tenendosi ciascuno indarno armato,
Fintantochè s’avvicinò l’inverno;
E di piogge coprendosi li campi,
In città ritiraronsi i Trojani,
E partilo il nimico, i nostri ancora
Ripigliano le navi, e dansi ad opre
Al verno adatte, e ‘1 campo in due diviso,
Metà lo cuopron di fromento, ed altri
Vi spargon semi alla stagione amici.
Ajace Telamonio in questo mentre
Presi de’ suoi, e de’ soldati ancora
Dell’adirato Achille, in la provincia
Entra di Frigia, e più città saccheggia;
Ed onusto di preda, e di bottino
Carco di gloria fa ritorno ai suoi,
In quei giorni d’inverno, essendo cheti
Senza sospetto alcuno i nostri Greci,
I barbari d’uscir dalle lor mura
S’avvisaro, il comando Ettorre avendo,
Che animati gli aveva a questa impresa.
Egli alla prima aurora avea le truppe
Fuor di città menate, ed a sforzato
Passo alle navi comandò di andare,
E i nimici assalire. I Greci sparsi
Dovunque, e disarmati, ed impediti
Ad armarsi non fur risparmiati,
E molti ne periro: Ettore allora
Sconfitti quei, che ritrovato avea
Per innanzi, alle navi essendo giunto,
Nè v’essendo chi a lui potesse ostare,
Comincia a incendiarle. I Greci afflitti,
Desolati si gittano alli piedi
D’Achille, e ‘l pregan, che prestargli ajuto
Voglia in tal caso estremo: ed infrattanto
Ajace Telamonio avendo udito,
Ch’era alle navi Ettorre, unisce armati,
Corre, e combatte, e con gran stenti alfine
I nimici costringea disgombrare
Lo steccato, e a lasciar salve le navi,
E nel mentre gl’incalza, e arditamente
Ettore se gli oppon, con un gran sasso
Quel capitan percosse, e rovescìollo,
Ma soccorso da’ suoi, dalla battaglia
Fu tratto, e dalle valorose mani
Del terribile Ajace, e mezzo morto
Fu riportato in casa, avendo avuto
La sua intrapresa un infelice evento.
Ajace per la gloria a lui rapita
Fatto più fiero, e preso in compagnia
Diomede, e Idomenèo, e l’altro Ajace,
Le spalle preme alli nimici presi
Da terrore, e spavento, e di lontano
Molti a dardi ne uccide, e de’ prigioni
Ne calpesta, a niun risparmiando
Di quanti a lui per via si fanno incontro.
E pur fra tal disordine, e spavento
Ippomolo si ferma, e Sarpedone,
E seco lor Steroppo, ed hanno ardire
Di fermare il nimico, e ‘1 fero insino,
Che feriti fuggirò anch’ essi in casa.
Questi alla fuga i barbari vedendo,
Ogni speme perduta, ai piedi l’ale
Diedero lutti, e presero le porte,
Ma stretta essendo la di loro entrata,
E molti li fugaci, uno sull’altro
Vi cadea per timor; vi giunse Ajace
Cogli altri capitani, e molti uccisi
De’ barbari ne furo entro l’ingresso,
Ed alle porte innanti, e fuvvi Antifo
E Polite fra gli altri a Priamo figli,
E vi morì Nestorre, e seco Eufemo,
Nè sua vita potè salvar Troeno
Duce delli Ceconi. In questo modo
I Trojani già prima vincitori
Cangiata la fortuna al sol venire
D’Ajace, e messi in fuga i capitani,
Pagaro il fio del temerario ardire,
O dell’impresa mal condotta a fine:
Ma poichè l’ascondea dal cielo il sole
Fu sonato a raccolta, e lieti i nostri
Per la vittoria tornano alle navi,
E a lauta cena son tutt’invitati
Presso d’Agamennon, laddove Ajace
Dai Re lodato egregi doni ottenne,
E non vi fu tra tanti capitani
Chi non alzasse a somme lodi un uomo,
Che tante aveva illustri imprese oprato,
Abbattute città, tolta gran preda.
E finalmente parlasi d’Ettorre
Dalle navi cacciato, e dall’incendio
Liberate del foco, in guisa tale,
Che ognuno in lui la speme, ed il sostegno
Della guerra mettea, e sen lodava.
Rifece intanto Epeo solo due navi
Nell’arsa prora, il foco altro di danno
A quei legni non fè; convinti i nostri
Che i Trojani battuti, ed avviliti
Avessero deposto ogni pensiero
D’altro novello assalto, in se tranquilli
Stavan senza paura al foco intorno.
Neso in quel tempo a soldo avea condotto
Gran numero di Traci a Priamo amico:
E comechè s’avvicinò la sera
Fermossi alquanto all’Isola d’Ooèn,
Che poco mar dalla città divide:
E penetrato ne’ trojani campi
La vigilia seconda, i padiglioni
Drizzati, ivi attendeva il nuovo giorno:
Ma Diomede, ed Ulisse, i quali in guardia
Avean quei luoghi, di lontano avendo
Gente veduta, e sospettando spie
Inviate da Priamo, a lento passo
S’avviaro a quel luogo attentamente,
L’occhio sempre portando intorno intorno,
E trovate le guardie al suol sdrajate,
Che stanche dal viaggio in un profondo
Sonno giacevan seppellite, e immerse,
Senza svegliarle, penetraro addentro,
E nel reale padiglione entrati,
Scannano il Re, nè gli sembrò di fare
Altro, se non che via menare il regio
Carro colle sue insegue, e coi cavalli,
Che guidano alle navi; e ‘1 rimanente
Della notte ciascun nella sua tenda
Tranquillo si passò. Del nuovo giorno
All’apparire agli altri capitani
Di ciocché s’era nella notte innanti
Per essi fatto, ne fu dato avviso.
Ma prevedendo i Greci, che la morte
Del Re in furore metteria li Traci,
Appena che se ne sarieno accorti;
E che in balia del lor trasporto il nostro
Campo venuto avriano ad assalire,
L’esercito si fè metter sull’armi,
E ‘1 nimico aspettar con tutta quella
Previdenza alla guerra necessaria.
Infatti dal lor sonno i Traci desti
Avveduti del Re nel padiglione
A terra nel suo sangue immerso, e intriso,
E ‘l carro dai vestigi trafugato,
Messi in furor così come ciascuno
Trovossi alla rinfusa, e senz’alcuno
Ordine, e disciplina al nostro campa
Corron veloci. I nostri di lontano
Vedendoli venir, ristretti in schiera
Gli vanno incontro, e li due Ajaci i primi
D’ordine usciti, e gli altri precedendo,
Danno addosso alli Traci, e gran macello
D’essi ne fanno, e gli altri capitani
Sieguono il loro esempio, e dove sono
Più Traci uniti, ivi l’assalto fassi
Più mortale, e maggior; in guisa tale,
Che tutti furo allora i Traci uccisi,
E quelle guardie, che ne’ lor steccati
Lasciate avean, veduti andarle incontro
I nimici, avvilite, e da spavento
Prese, fuggiro alla Città, lasciando
Quanto v’era nel Campo, e i nostri allora
D’ogni parte facendo irruzione,
Arme, cavalli, e spoglie, e quanto in mano
Lor vien, tolgono via, ed alle navi
Vittoriosi, e di gran preda onusti
Ritornano, de’ Traci avendo fatto
Macello, e ucciso il loro Imperadore:
Ed i Trojani intanto dalle mura
Lo spettacol vedean, senzachè ardire
Lor venisse a soccorrere gli amici,
Ch’anzi de’ Greci avean per le lor mura
Gran tema allor, che una vittoria rende
Spesso un’armata intraprendente, ardita.
Da tante, e tante perdite avviliti
I barbari ci mandano legali
A chieder tregua, e fatto il sagrificio,
E piacendo alli Greci i patti offerti,
Fu la tregua conchiusa, ed ordinata.
D’Apollo Sminzio il sacerdote Crise
Venne allora all’esercito, rendendo
Grazie a ciascun, perchè la sua figliuola
Fatta render gli avevano. Per questa
Compiacenza, e perchè con molto onore
Aristomene avean tutti trattata
E in molto pregio il Duce Agamennòne
L’avea, di nuovo a lui egli la rese.
Non molto dopo Filottete infermo
Alquanto ancor, e non sanato appieno,
Con quei, che a Lenno avevangli recata
Della preda la parte a noi ritorna.
Stando i Greci a consiglio, il Telamonio
Ajace in mezzo si levò, e propose
Esser d’uopo mandar gente ad Achille,
Che in nome dell’esercito, e de’ Duci
Il pregasse alla fin il suo deporre
Concepito furor, e di tornare
In amicizia colli suoi amici,
Perchè tal uom non dispregevol era,
E maggiormente adesso, che li Greci
Eran vittoriosi, e varie imprese
L’eran felicemente riuscite:
Non per 1’utile lor, ma sol pel merto,
E pel suo onore l’amicizia sua
E ‘1 suo favor si dimandava, e insieme
Pregarsi ancor Agamennon, che anch’egli
Dal canto suo ogn’ira, ogni dispetto
Depor dovesse, e che ogni studio, ed arte
Al comun ben rivolgere dovria,
E ‘1 comun rischio ad evitar ciascuno,
Lungi essendo di casa, ed in paesi
Dalli nostri diversi, ed inimici;
E che d’intorno essendo circondati
Da Provincie nimiche, a conservarsi,
A difendersi sol era bastante
La lor concordia, e l’union soltanto.
Sì disse, e tutti i capitani allora
Suo consiglio lodaro, e che non solo
In valore, e fortezza ognun vincea,
Ma nell’ingegno, e ne’ consigli ancora.
Agamennòne pur fece palese
Il desiderio suo, e che niun altro
Bramava tanto, che la sua amicizia;
Perlocchè prima aveva a lui spediti
Più messi a questo oggetto, e allor ne dava
Le preghiere ad Ulisse, e Ajace istesso,
Affinchè in nome suo, e ancor di tutti
I capitani Achille in giù ponesse
L’odio, e ‘1 furor, e seco ritornasse
Nell’antica amistade; e facilmente
Sperava di riuscirvi, essendo Ajace
Suo parente, ed amico: a tutti piacque
La scelta, e questi non la ricusaro,
Promettendo ciascun l’opera sua.
Spontaneamente ancor s’offerse andarvi
Anche Diomede: e fatto questo, allora
Agamennòn commise a’ suoi Ministri
Di condurvi là un’ostia, e due persone
Tenendola, la fè mettere a terra,
Indi tratta la spada, in due divise
Di quella il corpo, ed al cospetto innanzi
Di tutt’i circostanti al modo istesso,
ch’ era divisa, fecela riporre;
Indi la spada insanguinata in mano
Ei tenendo, per mezzo al sacrificio
Passò tra l’una, e l’altra parte; allora
II Re giurò, che non avea toccata
Sino a quel dì la bella Ippodamìa,
E che non mai pretesa egli l’avea
Per lussuria, ed amor, ma sol per ira,
A cui era trascorso, e donde spesso
Vengon più mali; e vi soggiunse inoltre,
Che se piacea ad Achille, ei gli darebbe
Per moglie una sua figlia, e del suo Regno
Una decima parte, e per sua dote
Pur cinquanta talenti: er tutti allora
Quei, che presenti stavano al Consiglio
Del Re lodaro la magnificenza,
E più di tutti Patroclo l’amico
D’Achille, che trovavasi presente,
Il qual veloce, e per l’offerta lieto
Delle tante ricchezze, e specialmente,
Ch’Agamennòn Ippodamìa violata
Mai non avea, narrò tutto ad Achille;
II quale udito ciò, mentre nell’alma
Stava deliberando, Ajace giunse
Cogli altri Duci all’imbasciata eletti,
Ed entrati, vi fur benignamente
Ricevuti, e trattati, e accanto a lui
Fece Ajace sedere, il qual trovato
Tempo a un discorso famigliare, allora
Incominciò liberamente a fargli
Delle riprensioni, e delle accuse,
Che ne’ rischi de’ suoi stato si fosse
Placido, e indifferente, e che per nulla
Mosso l’avesse dell’armata intera
La rovina, e che avea si virilmente
Alle preghiere resistito tanto
Degli amici, e parenti, Ulisse allora
Soggiunse, che dai Dei tutto veniva:
Indi narrogli quel, che nel Consiglio
S’era operato, e quello avea promesso
Agamennòn, e quel, che avea giurato;
E infin lo prega a non voler sprezzare
I prieghi universali, e le promesse
Nozze del Re, di lui soltanto degne.
Riprese Achille, e con parlar non breve
Le sue gesta narrò, chiamando a mente
Per l’utile comun quante fatiche
Avea sofferte, e perigliosi affanni,
Quante Città conquise, e come gli altri
Riposando, avev’egli, e notte, e giorno
Al guerreggiare atteso, e come ai suoi
Soldati, e a se negando ogni riposo
All’esercito avea cotante prede
E recate, e divise, ed in mercede
Egli solo fra tutti era poi scelto,
Cui tanta ingiuria si recasse, e tale,
Ch’esser dovesse disprezzato ei solo,
Togliendogli con biasmo Ippodamìa,
Premio concesso alle di lui fatiche.
Nè si doleva sol d’Agamennòne,
Ma colpevole ancor vieppiù credeva
I Greci tutti, a cui dalla memoria
Eran caduti i beneficj suoi,
Perchè sofferta avevano impunita
L’ingiuria sua. Avendo egli al parlare
Dato fine, Diomede allor rispose,
Che del passato ogni memoria pera,
Mal convenendo ad uom prudente addietro
Volgere il suo pensier, e più qualora
Far non si può, che non fosse avvenuto
Quel che già avvenne. Allor Fenice ancora,
E Patroclo suo amico intorno a lui
Stando, e la faccia or l’un, l’altro baciando,
E le mani, e gli stringon le ginocchia,
Pregandolo, che infin facesse pace,
E ‘l furor deponesse; ed a riflesso
Di quei, ch’eran venuti a scongiurarlo,
E de’ soldati, a cui tant’era caro,
Più non resiste Achille, e per riguardo
Di quei, che messi a lui eran venuti,
E per gli preghi de’ suoi famigliari,
E perchè non avea colpa l’armata,
Piegossi, e dal furor calmò lo spirto:
Indi co’ Greci si mischiò qual prima,
Ed entrò nel Consiglio, ove incontrato
Dal Re fu regalmente ricevuto,
E salutato ancor, e questo grido
Tra principi diffuso, un piacer sommo
Sparse per tutto, e un’allegria verace
Ne risentì l’esercito giulivo.
Agamennon tenendo per la mano
Achille seco lo condusse a cena
Con altri capitani, ove sedendo,
Il Re pregò, che Patroclo menasse
Al padiglion d’Achille Ippodamia
Cogli ornamenti istessi, che portati
Ella aveva d’Achille, e volentieri
Fece Patroclo ciò, che il Re gl’impose.
Era intanto l’inverno, ed i Trojani
E i Greci insiem, o ch’eran pochi, o molti,
D’Apolline Timbrèo per dentro al bosco
Si mischiavano insiem senza timore.