I libri

Testo

Omero - Iliade

Libro Ottavo

Già spiegava l'aurora il croceo velo

sul volto della terra, e co' Celesti

su l'alto Olimpo il folgorante Giove

tenea consiglio. Ei parla, e riverenti

stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite

tutti, ed abbiate il mio voler palese;

e nessuno di voi né Dio né Diva

di frangere s'ardisca il mio decreto,

ma tutti insieme il secondate, ond'io

l'opra, che penso, a presto fin conduca.

Qualunque degli Dei vedrò furtivo

partir dal cielo, e scendere a soccorso

de' Troiani o de' Greci, egli all'Olimpo

di turpe piaga tornerassi offeso;

o l'afferrando di mia mano io stesso,

nel Tartaro remoto e tenebroso

lo gitterò, voragine profonda

che di bronzo ha la soglia e ferree porte,

e tanto in giù nell'Orco s'inabissa,

quanto va lungi dalla terra il cielo.

Allor saprà che degli Dei son io

il più possente. E vuolsene la prova?

D'oro al cielo appendete una catena,

e tutti a questa v'attaccate, o Divi

e voi Dive, e traete. E non per questo

dal ciel trarrete in terra il sommo Giove,

supremo senno, né pur tutte oprando

le vostre posse. Ma ben io, se il voglio,

la trarrò colla terra e il mar sospeso:

indi alla vetta dell'immoto Olimpo

annoderò la gran catena, ed alto

tutte da quella penderan le cose.

Cotanto il mio poter vince de' numi

le forze e de' mortai. - Qui tacque, e tutti

dal minaccioso ragionar percossi

ammutolîr gli Dei. Ruppe Minerva

finalmente il silenzio, e così disse:

Padre e re de' Celesti, e noi pur anco

sappiam che invitta è la tua gran possanza.

Ma nondimen de' bellicosi Achei

pietà ne prende, che di fato iniquo

son vicini a perir. Noi dalla pugna,

se tu il comandi, ci terrem lontani;

ma non vietar che di consiglio almeno

sien giovati gli Achivi, onde non tutti

cadan nell'ira tua disfatti e morti.

Con un sorriso le rispose il sommo

de' nembi adunator: Conforta il core,

diletta figlia; favellai severo,

ma vo' teco esser mite. - E così detto,

gli orocriniti eripedi cavalli

come vento veloci al carro aggioga:

al divin corpo induce una lorica

tutta d'auro, e alla man data una sferza

pur d'auro intesta e di gentil lavoro,

monta il cocchio, e flagella a tutto corso

i corridori che volâr bramosi

infra la terra e lo stellato Olimpo.

Tosto all'Ida, di belve e di rigosi

fonti altrice, arrivò su l'ardua cima

del Gargaro, ove sacro a lui frondeggia

un bosco, e fuma un odorato altare.

Qui degli uomini il padre e degli Dei

rattenne e dal timon sciolse i cavalli,

e di nebbia gli avvolse. Indi s'assise

esultante di gloria in su la vetta

di là lo sguardo a Troia rivolgendo

ed alle navi degli Achei, che preso

per le tende alla presta un parco cibo

armavansi. Ed all'armi anch'essi i Teucri

per la città correan; né gli sgomenta

il numero minor, ché per le spose

e pe' figli a pugnar pronti li rende

necessità. Spalancansi le porte:

erompono pedoni e cavalieri

con immenso tumulto, e giunti a fronte,

scudi a scudi, aste ad aste e petti a petti

oppongono, e di targhe odi e d'usberghi

un fiero cozzo, ed un fragor di pugna

che rinforza più sempre. De' cadenti

l'urlo si mesce coll'orribil vanto

de' vincitori, e il suol sangue correa.

Dall'ora che le porte apre al mattino

fino al merigge, d'ambedue le parti

durò la strage con egual fortuna.

Ma quando ascese a mezzo cielo il sole,

alto spiegò l'onnipossente Iddio

l'auree bilance, e due diversi fati

di sonnifera morte entro vi pose,

il troiano e l'acheo. Le prese in mezzo,

le librò, sollevolle, e degli Achivi

il fato dechinò, che traboccando

percosse in terra, e balzò l'altro al cielo.

Tonò tremendo allor Giove dall'Ida,

e un infocato fulmine nel campo

avventò degli Achei, che stupefatti

a quella vista impallidîr di tema.

Né Idomenèo né il grande Agamennóne,

né gli Aiaci, ambedue lampi di Marte,

fermi al lor posto rimaner fur osi.

Solo il Gerenio, degli Achei tutela,

Nestore vi restò, ma suo mal grado

ché un destrier l'impedìa, cui di saetta

d'Elena bella l'avvenente drudo

nella fronte ferì laddove spunta

nel teschio de' cavalli il primo crine,

ed è letale il loco alle ferite.

Inalberossi il corridor trafitto,

ché nel cerèbro entrata era la freccia,

e dintorno alla rota per l'acuto

dolor si voltolando, in iscompiglio

mettea gli altri cavalli. Or mentre il vecchio

gli si fa sopra colla daga, e tenta

tagliarne le tirelle, ecco veloci

fra la calca e il ferir de' combattenti

sopraggiungere d'Ettore i destrieri,

superbi di portar sì grande auriga.

E qui perduta il veglio avrìa la vita,

se del rischio di lui non s'accorgea

l'invitto Dïomede. Un grido orrendo

di pugna eccitator mise l'eroe

alla volta d'Ulisse: Ah dove immemore

di tua stirpe divina, dove fuggi,

astuto figlio di Laerte, e volgi,

come un codardo della turba, il tergo?

Bada che alcun le fuggitive spalle

non ti giunga coll'asta. Agl'inimici

volta la fronte, ed a salvar vien meco

dal furor di quel fiero il vecchio amico.

Quelle grida non ode, e ratto in salvo

fugge Ulisse alle navi. Allor rimasto

solo il Tidìde, si sospinse in mezzo

ai guerrier della fronte, avanti al cocchio

di Nestore piantossi, e lui chiamando

veloci gli drizzò queste parole:

Troppo feroce gioventù nemica

ti sta contra, o buon vecchio, e infermi troppo

sono i tuoi polsi: hai grave d'anni il dorso,

hai debole l'auriga e i corridori.

Monta il mio cocchio, e la virtù vedrai

dei cavalli di Troe, che dianzi io tolsi

d'Anchise al figlio, a maraviglia sperti

a fuggir ratti in campo e ad inseguire.

Lascia cotesti agli scudieri in cura,

drizziam questi ne' Teucri, e vegga Ettorre

s'anco in mia man la lancia è furibonda.

Disse: né il veglio ricusò l'invito.

Di Stènelo e del buon Eurimedonte,

valorosi scudieri, egli al governo

cesse le sue puledre, e tosto il cocchio

del Tidìde salito, in man si tolse

le bellissime briglie, e col flagello

i corsieri percosse. In un baleno

giunser d'Ettore a fronte, che diritto

lor d'incontro venìa con gran tempesta.

Trasse la lancia Dïomede, e il colpo

errò; ma su le poppe in mezzo al petto

colpì l'auriga Enïopèo, figliuolo

dell'inclito Tebèo. Cade il trafitto

giù tra le rote colle briglie in pugno:

s'arretrano i destrieri, e in quello stato

perde ogni forza l'infelice, e spira.

Del morto auriga addolorossi Ettorre,

e mesto di lasciar quivi il compagno

nella polve disteso, un altro audace

alla guida del carro iva cercando:

né di rettor gran tempo ebber bisogno

i suoi destrieri, ché gli occorse all'uopo

l'animoso Archepòlemo d'Ifito,

cui sul carro montar fa senza indugio,

e gli abbandona nella man le briglie.

Immensa strage allora e fatti orrendi

fôran d'arme seguìti, e come agnelli

stati in Ilio sarìan racchiusi i Teucri,

se de' Celesti il padre e de' mortali

tosto di ciò non s'accorgea. Tonando

con gran fragore un fulmine rovente

vibrò nel campo il nume, e il fece in terra

guizzar di Dïomede innanzi al cocchio:

e subita n'uscìa d'ardente zolfo

una terribil vampa. Spaventati

costernansi i destrier, scappan di mano

a Nestore le briglie; onde al Tidìde

rivoltosi tremante; Ah piega, ei grida,

piega indietro i cavalli, o Dïomede,

fuggiam: nol vedi? contro noi combatte

Giove irato, e a costui tutto dar vuole

di presente l'onor della battaglia.

Darallo, se gli piace, un'altra volta

a noi pur: ma di Giove oltrapossente

il supremo voler forza non pate.

Tutto ben parli, o vecchio, gli rispose

l'imperturbato eroe; ma il cor mi crucia

la dolorosa idea ch'Ettore un giorno

fra' Troiani dirà gonfio d'orgoglio:

Io fugai Dïomede, io lo costrinsi

a scampar nelle navi. - Ei questo vanto

menerà certo, e a me si fenda allora

sotto i piedi la terra, e mi divori.

E Nestore ripiglia: Ah che dicesti,

valoroso Tidìde? E quando avvegna

che un codardo, un imbelle Ettor ti chiami,

i Troiani non già sel crederanno,

né le troiane spose, a cui nell'atra

polve stendesti i floridi mariti.

Disse; e addietro girò tosto i cavalli

tra la calca fuggendo. Ettore e i Teucri

con urli orrendi li seguiro, e un nembo

piovean su lor d'acerbi strali, ed alto

gridar s'udiva de' Troiani il duce:

I cavalieri argivi, o Dïomede,

e di seggio e di tazze e di vivande

te finora onorâr su gli altri a mensa;

ma deriso or n'andrai, che un cor palesi

di femminetta. Via di qua, fanciulla;

non salirai tu, no, fin ch'io respiro,

d'Ilio le torri, né trarrai cattive

le nostre mogli nelle navi, e morto

per la mia destra giacerai tu pria.

Stettesi in forse a quel parlar l'eroe

di dar volta ai cavalli, e d'affrontarlo.

Ben tre volte nel core e nella mente

gliene corse il desìo, tre volte Giove

rimormorò dall'Ida, e fe' securi

della vittoria con quel segno i Teucri.

Con orribile grido Ettore allora

animando le schiere: O Licii, o Dardani,

o Troiani, dicea, prodi compagni,

mostratevi valenti, e fuor mettete

le generose forze. Io non m'inganno,

Giove è propizio; di vittoria a noi

e d'esizio a' nemici ei diede il segno.

Stolti! che questo alzâr debile muro,

troppo al nostro valor frale ritegno.

Quella lor fossa varcheran d'un salto

i miei cavalli; e quando emerso a vista

io sarò delle navi, allor le faci

ministrarmi qualcun si risovvegna,

ond'io que' legni incenda, e fra le vampe

sbalorditi dal fumo i Greci uccida.

Poi conforta i destrieri, e sì lor parla:

Xanto, Podargo, Etón, Lampo divino,

mercé del largo cibo or mi rendete,

che dell'illustre Eezïon la figlia

Andromaca vi porge, il dolce io dico

frumento, e l'alma di Lïeo bevanda,

ch'ella a voi mesce desïosi, a voi

pria che a me stesso che pur suo mi vanto

giovine sposo. Or via, volate; andiamo

alla conquista del nestòreo scudo

di cui va il grido al cielo, e tutto il dice

d'auro perfetto, e d'auro anco la guiggia.

Poi di dosso trarremo a Dïomede

l'usbergo, esimia di Vulcan fatica.

Se cotal preda ne riesce, io spero

che ratti i Greci su le navi in questa

notte medesma salperan dal lido.

Del superbo parlar forte sdegnossi

l'augusta Giuno, e s'agitò sul trono

sì che scosso tremonne il vasto Olimpo.

Quindi rivolte le parole al grande

dio Nettunno, sì disse: E sarà vero,

possente Enosigèo, che degli Argivi

a pietà non ti mova la ruina!

Pur son essi che in Elice ed in Ege

rècanti offerte graziose e molte.

E perché dunque non vorrai tu loro

la vittoria bramar? Certo se quanti

siam difensori degli Achivi in cielo

vorrem de' Teucri rintuzzar l'orgoglio

e al Tonante far forza, egli soletto

e sconsolato sederà su l'Ida.

Oh! che mai parli, temeraria Giuno?

le rispose sdegnoso il re Nettunno:

non sia, no mai, che col saturnio Giove

a cozzar ne sospinga il nostro ardire;

rammenta ch'egli è onnipossente, e taci.

Mentre seguìan tra lor queste parole,

quanto intervallo dalle navi al muro

la fossa comprendea, tutto era denso

di cavalli, di cocchi e di guerrieri

ivi dal fiero Ettòr serrati e chiusi,

che simigliante al rapido Gradivo

infuriava col favor di Giove.

E ben le navi avrìa messe in faville,

se l'alma Giuno in cor d'Agamennóne

il pensier non ponea di girne attorno

ratto egli stesso a incoraggiar gli Achivi.

Per le tende egli dunque e per le navi

sollecito correa, raccolto il grande

purpureo manto nel robusto pugno:

e cotal su la negra capitana

d'Ulisse si fermò, che vasta il mezzo

dell'armata tenea, donde distinta

d'ogni parte mandar potea la voce

fin d'Aiace e d'Achille al padiglione,

che l'eguali lor prore ai lati estremi,

nel valor delle braccia ambo securi,

avean dedotte all'arenoso lido.

Di là fec'egli rimbombar sul campo

quest'alto grido: Svergognati Achivi,

vitupèri nell'opre e sol d'aspetto

maravigliosi! dove dunque andaro

gli alteri vanti che menammo un giorno

di prodezza e di forza? In Lenno queste

fur le vostre burbanze allor che l'epa

v'empiean le polpe de' giovenchi uccisi,

e le ricolme tazze inghirlandate

si venìan tracannando, e si dicea

che un sol per cento e per dugento Teucri,

un sol Greco valea nella battaglia.

Ed or tutti ne fuga un solo Ettorre,

che ben tosto farà di queste navi

cenere e fumo. O Giove padre, e quale

altro mai re di tanti danni afflitto,

di tanto disonor carco volesti?

Pur io so ben, che quando a questo lido

il perverso destin mi conducea,

giammai veruno de' tuoi santi altari

navigando lasciai sprezzato indietro;

ma l'adipe a te sempre e i miglior fianchi

de' giovenchi abbruciai sovra ciascuno,

bramoso d'atterrar l'iliache mura.

Deh almen n'adempi questo voto, almeno

danne, o Giove, uno scampo colla fuga,

né per le mani del crudel Troiano

consentir degli Achivi un tanto scempio.

Così dicea piangendo. Ebbe pietade

di sue lagrime il nume, e ad accennargli

che non tutto il suo campo andrìa disfatto,

il più sicuro de' volanti augurio

un'aquila spedì che negli unghioni

tolto al covil della veloce madre

un cerbiatto stringendo, accanto all'ara,

ove l'ostie svenar solean gli Achivi

al fatidico Giove, dall'artiglio

cader lasciò la palpitante preda.

Gli Achei veduto il sacro augel, cui spinto

conobbero da Giove, ad affrontarsi

più coraggiosi ritornâr co' Teucri,

e rinfrescâr la pugna. Allor nessuno

pria del Tidìde fra cotanti Argivi

vanto si diede d'agitar pel campo

i veloci corsieri, ed oltre il fosso

cacciarli ed azzuffarsi. Egli primiero

anzi a tutti si spinse, e a prima giunta

Agelao di Fradmon tolse di mezzo

uom troiano. Costui piegàti in fuga

i suoi destrieri avea. Coll'asta il tergo

gli raggiunse il Tidìde, gliela fisse

tra gli omeri, e passar la fece al petto.

Cadde Agelao dal carro, e cupamente

l'armi sovr'esso rintonâr. Secondo

Agamennón si mosse, indi il fratello,

indi gli Aiaci impetuosi, e poi

Idomenèo con esso il suo scudiero

Merïon che di Marte avea l'aspetto;

poi d'Evemon l'illustre figlio Eurìpilo,

ed ultimo giungea Teucro del curvo

elastic'arco tenditor famoso.

D'Aiace Telamònio egli locossi

dietro lo scudo, e dello scudo Aiace

gli antepose la mole. Ivi securo

l'eroe guatava intorno, e quando avea

saettato nel denso un inimico,

quegli cadendo perdea l'alma, e questi,

come fanciullo della madre al manto,

ricovrava al fratel che alla grand'ombra

dello splendido scudo il proteggea.

Or dall'egregio arcier chi de' Troiani

fu primo ucciso? Primamente Orsìloco,

indi Ormeno e Ofeleste: a questi aggiunse

Detore e Cromio, e per divin sembiante

Licofonte lodato, e Amopaone

Poliemonìde, e Melanippo, tutti

l'un dopo l'altro nella polve stesi.

Gioiva il re de' regi Agamennóne

mirandolo dall'arco vigoroso

lanciar la morte fra' nemici, e a lui

vicin venuto soffermossi, e disse:

Diletto capo Telamònio Teucro,

siegui l'arco a scoccar, porta, se puoi,

a' Dànai un raggio di salute, e onora

il tuo buon padre Telamon che un giorno

ti raccolse fanciullo, e benché frutto

di non giusto imeneo, pur con pietoso

tenero affetto in sua magion ti crebbe.

Or tu fa ch'egli salga in alta fama,

sebben lontano. Ti prometto io poi

(e sacra tieni la promessa mia)

che se Giove e Minerva mi daranno

d'Ilio il conquisto, tu primier t'avrai

il premio, dopo me, de' forti onore,

ed in tua man porrollo io stesso, un tripode,

o due cavalli ad un bel cocchio aggiunti,

o di vaghe sembianze una fanciulla

che teco il letto e l'amor tuo divida.

E Teucro gli rispose: Illustre Atride,

a che mi sproni, per me stesso assai

già fervido e corrente? Io non rimango

di far qui tutto il mio poter. Dal punto

che verso la città li respingemmo,

mi sto coll'arco ad aspettar costoro,

e li trafiggo. E già ben otto acuti

dardi dal nervo liberai, che tutti

profondamente si ficcâr nel corpo

di giovani guerrieri, e non ancora

ferir m'è dato questo can rabbioso.

Disse; e di nuovo fe' volar dall'arco

contr'Ettore uno strale. Al colpo tutta

ei l'anima diresse, e nondimeno

fallì la freccia, ché l'accolse in petto

di Prïamo un valente esimio figlio

Gorgizïon, cui d'Esima condotta

partorì la gentil Castïanira,

che una Diva parea nella persona.

Come carco talor del proprio frutto,

e di troppa rugiada a primavera

il papaver nell'orto il capo abbassa,

così la testa dell'elmo gravata

su la spalla chinò quell'infelice.

E Teucro dalla corda ecco sprigiona

alla volta d'Ettorre altra saetta,

più che mai del suo sangue sitibondo.

E pur di nuovo uscì lo strale in fallo,

ché Apollo il devïò, ma colse al petto

d'Ettòr l'audace bellicoso auriga

Archepòlemo presso alla mammella.

Cadde ei rovescio giù dal cocchio, addietro

si piegaro i cavalli, e quivi a lui

il cor ghiacciossi, e l'anima si sciolse.

Di quella morte gravemente afflitto

il teucro duce, e di lasciar costretto,

mal suo grado, l'amico, a Cebrïone

di lui fratello che il seguìa, fe' cenno

di dar mano alle briglie. Ad obbedirlo

Cebrïon non fu lento; ed ei d'un salto

dallo splendido cocchio al suol disceso

con terribile grido un sasso afferra,

a Teucro s'addirizza, e di ferirlo

l'infiammava il desìo. Teucro in quel punto

traeva un altro doloroso telo

dalla faretra, e lo ponea sul nervo.

Mentre alla spalla lo ritragge in fretta,

e l'inimico adocchia, il sopraggiunge

crollando l'elmo Ettorre, e dove il collo

s'innesta al petto ed è letale il sito,

coll'aspro sasso il coglie, e rotto il nervo

gl'intorpidisce il braccio. Dalle dita

l'arco gli fugge, e sul ginocchio ei casca.

Il caduto fratello in abbandono

Aiace non lasciò, ma ratto accorse,

e col proteso scudo il ricoprìa,

finché lo si recâr sovra le spalle

due suoi cari compagni, Mecistèo

d'Echìo figliuolo, e il nobile Alastorre,

e alle navi il portâr che gravemente

sospirava e gemea. Ne' Teucri allora

di nuovo suscitò l'Olimpio Giove

tal forza e lena, che al profondo fosso

dirittamente ricacciâr gli Achei.

Iva Ettorre alla testa, e dalle truci

sue pupille mettea lampi e paura.

Qual fiero alano che ne' presti piedi

confidando, un cinghial da tergo assalta,

od un lïone, e al suo voltarsi attento

or le cluni gli addenta, ora la coscia;

così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre

uccidendo il postremo li disperde.

Ma poiché l'alto fosso ed il palizzo

ebber varcato i fuggitivi, e molti

il troiano valor n'avea già spenti,

giunti alle navi si fermaro, e insieme

mettendosi coraggio, e a tutti i numi

sollevando le man spingea ciascuno

con alta voce le preghiere al cielo.

Signor del campo d'ogni parte intanto

agitava i destrieri il grande Ettorre

di bel crine superbi, e rotar bieco

le luci si vedea come il Gorgóne,

o come Marte che nel sangue esulta.

Impietosita degli Achei la bianca

Giuno a Minerva si rivolse, e disse:

Invitta figlia dell'Egìoco Giove,

dunque, ohimè! non vorremo aver più nullo

pensier de' Greci già cadenti, almeno

nell'estremo lor punto? Eccoli tutti

l'empio lor fato a consumar vicini

per l'impeto d'un sol, del fiero Ettorre

che in suo furore intollerando omai

passa ogni modo, e ne fa troppe offese!

A cui la Diva dalle glauche luci

Minerva rispondea: Certo perduta

avrìa costui la furia e l'alma ancora,

a giacer posto nella patria terra

dal valor degli Achei; ma quel mio padre

di sdegnosi pensier calda ha la mente,

sempre avverso, e de' miei forti disegni

acerbo correttor; né si rimembra

quante volte servar gli seppi il figlio

dai duri d'Euristèo comandi oppresso.

Ei lagrimava lamentoso al cielo,

e me dal cielo allora ad aïtarlo

Giove spediva. Ma se il cor prudente

detto m'avesse le presenti cose,

quando alle ferree porte il suo tiranno

l'invïò dell'Averno a trar dal negro

Erebo il can dell'abborrito Pluto,

ei, no, scampato non avrìa di Stige

la profonda fiumana. Or m'odia il padre,

e di Teti adempir cerca le brame,

che lusinghiera gli baciò il ginocchio,

e accarezzògli colla destra il mento,

d'onorar supplicandolo il Pelìde

delle cittadi atterrator. Ma tempo,

sì, verrà tempo che la sua diletta

Glaucòpide a chiamarmi egli ritorni.

Or tu vanne, ed il carro m'apparecchia

co' veloci cornipedi, ché tosto

io ne vo dentro alle paterne stanze,

e dell'armi mi vesto per la pugna.

Vedrem se questo Ettòr, che sì superbo

crolla il cimiero, riderà quand'io

nel folto apparirò della battaglia.

Qualcun per certo de' Troiani ancora

presso le navi achee satolli e pingui

di sue polpe farà cani ed augelli.

Disse; né Giuno ricusò, ma corse

ai divini cavalli, e d'auree barde

in fretta li guarnìa, Giuno la figlia

del gran Saturno, veneranda Diva.

D'altra parte Minerva il rabescato

suo bellissimo peplo, delle stesse

immortali sue dita opra stupenda,

sul pavimento dell'Egìoco padre

lasciò cader diffuso; ed indossando

del nimbifero Giove il grande usbergo,

tutta s'armava a lagrimosa pugna.

Sul rilucente cocchio indi salita

impugnò la pesante e poderosa

gran lancia, ond'ella, allor che monta in ira,

di forte genitor figlia tremenda,

le schiere degli eroi rovescia e doma.

Stimolava Giunon velocemente

colla sferza i destrieri, e tosto fûro

alle celesti soglie, a cui custodi

vegliano l'Ore che il maggior de' cieli

hanno in cura e l'Olimpo, onde sgombrarlo

o circondarlo della sacra nube.

Cigolando s'aprîr per sé medesme

l'eteree porte, e docili al flagello

spinser per queste i corridor le Dive.

Come Giove dal Gàrgaro le vide,

forte sdegnossi, ed Iri a sé chiamando

ali-dorata Dea, Vola, le disse,

Iri veloce, le rivolgi indietro,

e lor divieta il venir oltre meco

ad inegual cimento. Io lo protesto,

e il fatto seguirà le mie parole,

io loro fiaccherò sotto la biga

i corridori, e dall'infranto cocchio

balzerò le superbe, e delle piaghe

che loro impresse lascerà il mio telo,

né pur due lustri salderanno il solco.

Saprà Minerva allor qual sia stoltezza

il cimentarsi col suo padre in guerra.

Quanto a Giunon, m'è forza esser con ella

meno irato: gli è questo il suo costume

di sempre attraversarmi ogni disegno.

Disse; ed Iri a portar l'alto messaggio

mosse veloce al par delle procelle;

ed ascesa dall'Ida al grande Olimpo

di molti gioghi altero, e su le soglie

incontrate le Dee, sì le rattenne,

e lor di Giove le parole espose:

Dove correte? Che furore è questo?

Sostate il piè, ché il dar soccorso ai Greci

nol vi consente Giove. Le minacce

dell'alto figlio di Saturno udite,

che fian messe ad effetto. Ei sotto il carro

storpieravvi i destrieri, e dall'infranto

carro voi stesse balzerà, né dieci

anni le piaghe salderan che impresse

lasceravvi il suo telo; e tu, Minerva,

allor saprai qual sia demenza il farti

al tuo padre nemica. Né con Giuno,

sempre usata a turbargli ogni disegno,

tanto s'adira, ei no, quanto con teco,

invereconda audace Dea, che ardisci

contra il Tonante sollevar la lancia.

Disse, e ratta sparì la messaggiera.

Ed a Minerva allor con questi accenti

Giuno si volse: Ohimè! più non si parli,

figlia di Giove, di pugnar con esso

per cagion de' mortali: io nol consento.

Di loro altri si muoia, altri si viva,

come piace alla sorte; e Giove intanto,

come dispon suo senno e sua giustizia,

fra i Troiani e gli Achei tempri il destino.

Sì dicendo la Dea ritorse indietro

i criniti destrieri, e l'Ore ancelle

li distaccâr dal giogo, e li legaro

ai nettarei presepi, ed il bel cocchio

appoggiaro alla lucida parete.

Si raccolser le Dive in aureo seggio

con gli altri Dei confuse; e Giove intanto

dal Gàrgaro all'Olimpo i corridori

e le fulgide ruote alto spingea.

Giunto alle case de' Celesti, a lui

sciolse i corsieri l'inclito Nettunno,

rimesse il cocchio, e lo coprì d'un velo.

Giove sul trono si compose e tutto

tremò sotto il suo piè l'immenso Olimpo.

Ma Minerva e Giunon sole in disparte

sedean, né motto né dimanda a Giove

ardìan veruna indirizzar. S'avvide

de' lor pensieri il nume, e così disse:

Perché sì meste, o voi Minerva e Giuno?

e' non si par che molto affaticate

v'abbia finor la glorïosa pugna

in esizio de' Teucri, a cui sì grave

odio poneste. E v'è di mente uscito

che invitto è il braccio mio? che quanti ha numi

il ciel, cangiare il mio voler non ponno?

A voi bensì le delicate membra

prese un freddo tremor pria che la guerra

pur contemplaste, e della guerra i duri

esperimenti. Io vel dichiaro (e fôra

già seguìto l'effetto) che percosse

dalla folgore mia, no, non v'avrebbe

il vostro cocchio ricondotte al cielo,

albergo degli Eterni. - Il Dio sì disse,

e in secreto fremean Minerva e Giuno

sedendosi vicino, ed ai Troiani

meditando nel cor alte sciagure.

Stette muta Minerva, e contra il padre

l'acerbo che l'ardea sdegno represse;

ma sciolto all'ira il fren Giuno rispose:

Tremendissimo Giove, e che dicesti?

Ben anco a noi la tua possanza invitta

è manifesta; ma pietà ne prende

dei dannati a perir miseri Achei.

Noi certo l'armi lascerem, se questo

è il tuo strano voler; ma nondimeno

qualche ai Greci daremo util consiglio,

onde non tutti il tuo furor li spegna.

E Giove replicò: Più fiero ancora

vedrai dimani, se t'aggrada, o moglie,

l'onnipotente di Saturno figlio

dell'esercito achèo struggere il fiore.

Perocché dalla pugna il forte Ettorre

non pria desisterà, che finalmente

l'ozïosa si svegli ira d'Achille

il dì che in gran periglio appo le navi

combatterassi per Patròclo ucciso.

Tal de' fati è il voler, né de' tuoi sdegni

sollecito son io, no, s'anco ai muti

della terra e del mar confini estremi

andar ti piaccia, nel rimoto esiglio

di Giapeto e Saturno, che nel cupo

Tartaro chiusi né il superno raggio

del Sole, né di vento aura ricrea;

no, se tant'oltre pure il tuo dispetto

vagabonda ti porti, io non ti curo,

poiché d'ogni pudor possasti il segno.

Tacque; né Giuno osò pure d'un detto

fargli risposta. In grembo al mar frattanto

la splendida cadea lampa del Sole

l'atra notte traendo su la terra.

Della luce l'occaso i Teucri afflisse,

ma pregata più volte e sospirata

sovraggiunse agli Achei l'ombra notturna.

Fuor del campo navale Ettore allora

i Troiani ritrasse in su la riva

del rapido Scamandro, ed in pianura

da' cadaveri sgombra a parlamento

chiamolli; ed essi dismontâr dai cocchi,

e affollati dintorno al gran guerriero

cura di Giove, a sue parole attenti

porgean gli orecchi. Una grand'asta in pugno

di ben undici cubiti sostiene:

tutta di bronzo folgora la punta,

e d'oro un cerchio le discorre intorno.

Appoggiato su questa, così disse:

Dardani, Teucri, Collegati, udite:

io poc'anzi sperai ch'arse le navi

e distrutti gli Argivi a Troia avremmo

fatto ritorno. Ma sì bella speme

ne rapîr le tenèbre invidiose,

che inopportune sul cruento lido

salvâr le navi e i paurosi Achei.

Obbediamo alle negre ombre nemiche,

apparecchiam le cene. Ognun dal temo

sciolga i cavalli, e liberal sia loro

di largo cibo. Di voi parte intanto

alla città si affretti, e pingui agnelle

e giovenchi n'adduca, e di Lïeo

e di Cerere il frutto almo e gradito.

Sian di secche boscaglie anco raccolte

abbondanti cataste, e si cosparga,

finché regna la notte e l'alba arriva,

tutto di fuochi il campo e il ciel di luce,

onde dell'ombre nel silenzio i Greci

non prendano del mar su l'ampio dorso

taciturni la fuga; o i legni almeno

non salgano tranquilli, e la partenza

senza terror non sia; ma nell'imbarco

o di lancia piagato o di saetta

vada più d'uno alle paterne case

a curar la ferita, e rechi ai figli

l'orror de' Teucri, e così loro insegni

a non tentarli con funesta guerra.

Voi cari a Giove diligenti araldi,

per la città frattanto ite, e bandite

che i canuti vegliardi, e i giovinetti

a cui le guance il primo pelo infiora,

custodiscan le mura in su gli spaldi

dagli Dei fabbricati. Entro le case

allumino gran fuoco anco le donne,

e stazïon vi sia di sentinelle,

onde, sendo noi lungi, ostile insidia

nell'inerme città non s'introduca.

Quanto or dico s'adémpia, e non fia vano,

magnanimi compagni, il mio consiglio.

Dirò dimani ciò che far ne resta.

Spero ben io, se Giove e gli altri Eterni

avrem propizi, di cacciarne lungi

cotesti cani da funesto fato

qua su le prore addutti. Or per la notte

custodiamo noi stessi. Al primo raggio

del nuovo giorno in tutto punto armati

desteremo sul lido acre conflitto;

vedrem se Dïomede, questo forte

figliuolo di Tidèo, respingerammi

dalle navi alle mura, o s'io coll'asta

saprò passargli il fianco, e via portarne

le sanguinose spoglie. Egli dimani

manifesto farà se sua prodezza

tal sia che possa di mia lancia il duro

assalto sostener. Ma se fallace

non è mia speme, ei giacerà tra' primi

spento con molti de' compagni intorno,

ei sì, dimani, all'apparir del Sole.

Così immortal foss'io, né mai vecchiezza

vïolasse i miei giorni, ed onorato

foss'io del par che Pallade ed Apollo,

come fatale ai Greci è il dì futuro.

Tal fu d'Ettorre il favellar superbo,

e gli fêr plauso i Teucri. Immantinente

sciolsero dal timone i polverosi

destrier sudati, e colle briglie al carro

gli annodò ciascheduno. Indi menaro

pecore e buoi dalla cittade in fretta.

Altri vien carco di nettareo vino,

altri di cibo cereale; ed altri

cataste aduna di virgulti e tronchi.

Rapìan l'odor delle vivande i venti

da tutto il campo, e lo spargeano al cielo.

Ed essi gonfi di baldanza, e in torme

belliche assisi dispendean la notte,

tutta empiendo di fuochi la campagna.

Siccome quando in ciel tersa è la Luna,

e tremole e vezzose a lei dintorno

sfavillano le stelle, allor che l'aria

è senza vento, ed allo sguardo tutte

si scuoprono le torri e le foreste

e le cime de' monti; immenso e puro

l'etra si spande, gli astri tutti il volto

rivelano ridenti, e in cor ne gode

l'attonito pastor: tali al vederli,

e altrettanti apparìan de' Teucri i fuochi

tra le navi e del Xanto le correnti

sotto il muro di Troia. Erano mille

che di gran fiamma interrompeano il campo,

e cinquanta guerrieri a ciascheduno

sedeansi al lume delle vampe ardenti.

Presso i carri frattanto orzo ed avena

i cavalli pascevano, aspettando

che dal bel trono suo l'Alba sorgesse.