I libri

Testo

Omero - Iliade

Libro Settimo

Così dicendo, dalle porte eruppe

seguìto dal fratello il grande Ettorre.

Ardono entrambi di far pugna: e quale

i naviganti allegra amico vento

che un Dio lor manda allor che stanchi ei sono

d'agitar le spumanti onde co' remi,

e cascano le membra di fatica;

tali al desìo de' Teucri essi appariro.

A prima giunta Paride stramazza

Menestio d'Arna abitatore, e figlio

del portator di clava Arëitòo,

a cui lo partorìa Filomedusa

per grand'occhi lodata. Ettore attasta

Eïoneo di lancia alla cervice

sotto l'elmetto, e morto lo distende.

Glauco, duce de' Licii, a un tempo istesso

d'un colpo di zagaglia ad Ifinòo,

prole di Dèssio, l'omero trafigge

appunto in quella che salìa sul cocchio,

e dal cocchio al terren morto il trabocca.

Vista la strage degli Achei, Minerva

dall'Olimpo calossi impetuosa

verso il sacro Ilïon. La vide Apollo

dalla pergàmea rocca, e vincitori

bramando i Teucri, le si fece incontro

vicino al faggio, e favellò primiero:

Figlia di Giove, e quale il cor t'invade

furia novella? E qual sì grande affetto

dall'Olimpo ti spinge? a portar forse

della pugna agli Achei la dubbia palma,

poiché niuna ti tocca il cor pietade

dello strazio de' Teucri? Or su, m'ascolta,

e fia lo meglio. Si sospenda in questo

giorno la zuffa, e alla novella aurora

si ripigli e s'incalzi infin che Troia

cada: da che la sua caduta a voi

possenti Dive il cor cotanto invoglia.

Sia così, Palla gli rispose: io scesi

fra i Troiani e gli Achei con questa mente.

Ma come avvisi di quetar la pugna?

Suscitiam, replicava il saettante

figlio di Giove, suscitiam la forte

alma d'Ettorre a provocar qualcuno

de' prodi Achivi a singolar tenzone:

e indignati gli Achivi un valoroso

spingano anch'essi a cimentarsi in campo

da solo a solo col troian guerriero.

Disse, e Minerva acconsentìa. Conobbe

de' consultanti iddii tosto il disegno

il Prïamide Elèno in suo pensiero,

e ad Ettore venuto: Ettore, ei disse,

pari a quello d'un nume è il tuo consiglio;

ma udir vuoi tu del tuo fratello il senno?

Fa dall'armi cessar Teucri ed Achei,

e degli Achei tu sfida il più valente

a singolar certame. Io ti fo certo

che il tuo giorno fatal non giunse ancora;

così mi dice degli Dei la voce.

Esultò di letizia all'alto invito

il valoroso: e presa per lo mezzo

la sua gran lancia, e tra l'un campo e l'altro

procedendo, fe' alto alle troiane

falangi; ed elle soffermârsi tutte.

Soffermârsi del pari al riverito

cenno d'Atride i coturnati Achivi,

e in forma d'avoltoi Minerva e Febo

sull'alto faggio s'arrestâr di Giove,

con diletto mirando de' guerrieri

quinci e quindi seder dense le file

d'elmi orrende e di scudi e d'aste erette.

Quale è l'orror che di Favonio il soffio

nel suo primo spirar spande sul mare,

che destato s'arruffa e l'onde imbruna:

tale de' Teucri e degli Achei nel vasto

campo sedute comparìan le file.

Trasse Ettorre nel mezzo, e così disse:

Udite, o Teucri, udite attenti, o Achivi,

ciò che nel petto mi ragiona il core.

Ratificar non piacque all'alto Giove

i nostri giuramenti, e in suo segreto

agli uni e agli altri macchinar ne sembra

grandi infortunii, finché l'ora arrivi

ch'Ilio per voi s'atterri, o che voi stessi

atterrati restiate appo le navi.

Or quando il vostro campo il fior racchiude

degli achivi guerrieri, esca a duello

chi cuor si sente: lo disfida Ettorre.

Eccovi i patti del certame, e Giove

testimonio ne sia. Se il mio nemico

m'ucciderà, dell'armi ei mi dispogli,

e le si porti; ma il mio corpo renda,

onde i Troiani e le troiane spose

m'onorino del rogo. Ov'io lui spegna,

ed Apollo la palma a me conceda,

porteronne le tolte armi nel sacro

Ilio, e del nume appenderolle al tempio:

ma l'intatto cadavere alle navi

vi sarà rimandato, onde d'esequie

l'orni l'achea pietade e di sepolcro

su l'Ellesponto. Lo vedrà de' posteri

naviganti qualcuno, e fia che dica:

Ecco la tomba d'un antico prode

che combattendo coll'illustre Ettorre

glorïoso perì. Questo fia detto,

ed eterno vivrassi il nome mio.

All'audace disfida ammutoliro

gli Achei, tementi d'accettarla, e insieme

di recusarla vergognosi. Alfine

in piè rizzossi Menelao, nell'imo

del cor gemendo, ed in acerbi detti

prorompendo gridò: Vili superbi,

Achive, non Achei! Fia questo il colmo

dell'ignominia, se tra voi non trova

quell'audace Troian chi gli risponda.

Oh possiate voi tutti in nebbia e polve

resoluti sparir, voi che vi state

qui senza core immoti e senza onore.

Ma io medesmo, io sì, contra costui

scenderò nell'arena. In man de' numi

della vittoria i termini son posti.

Ciò detto, l'armi indossa. E certo allora

per le mani d'Ettorre, o Menelao,

trovato avresti di tua vita il fine,

(ch'egli di forza ti vincea d'assai)

se subito in piè surti i prenci achivi

non rattenean tua foga. Egli medesmo

il regnatore Atride Agamennóne

l'afferrò per la mano, e, Tu deliri,

disse, e il delirio non ti giova. Or via,

fa senno, e premi il tuo dolor, né spinto

da bellicosa gara avventurarti

con un più prode di cui tutti han tema,

col Prïamide Ettorre. Anco il Pelìde,

sì più forte di te, lo scontro teme

di quella lancia nel conflitto. Or dunque

ritorna alla tua schiera, e statti in posa.

Gli desteranno incontra altro più fermo

duellator gli Achivi, e tal ch'Ettorre,

intrepido quantunque ed indefesso,

metterà volentier, se dritto io veggo,

le ginocchia in riposo, ove pur sia

che netto egli esca dalla gran tenzone.

Svolge il saggio parlar del sommo Atride

del fratello il pensier, che obbedïente

quetossi, e lieti gli levâr di dosso

le bell'arme i sergenti. Allor nel mezzo

surse Nestore, e disse: Eterni Dei!

Oh di che lutto ricoprirsi io veggio

la casa degli eroi, l'achea contrada!

Oh quanto in cor ne gemerà l'antico

di cocchi agitator Pelèo, di lingua

fra' Mirmidon sì chiaro e di consiglio;

egli che in sua magion solea di tutti

gli Achei le schiatte dimandarmi e i figli,

e giubilava nell'udirli! Ed ora

se per Ettorre ei tutti li sapesse

di terror costernati, oh come al cielo

alzerebbe le mani, e pregherebbe

di scendere dolente anima a Pluto!

O Giove padre, o Pallade, o divino

di Latona figliuol! ché non son io

nel fior degli anni, come quando in riva

pugnâr del ratto Celadonte i Pilii

con la sperta di lancia arcade gente

sotto il muro di Fea verso le chiare

del Jàrdano correnti? Alla lor testa

Ereutalion venìa, che pari a nume

l'armatura regal d'Arëitòo

indosso avea, del divo Arëitòo

che gli uomini tutti e le ben cinte donne

clavigero nomâr; perché non d'arco

né di lunga asta armato ei combattea,

ma con clava di ferro poderosa

rompea le schiere. A lui diè morte poscia,

pel valore non già, ma per inganno

Licurgo al varco d'un angusto calle,

ove il rotar della ferrata clava

al suo scampo non valse; ché Licurgo

prevenendone il colpo traforògli

l'epa coll'asta, e stramazzollo; e l'armi

così gli tolse che da Marte egli ebbe,

armi che poscia l'uccisor portava

ne' fervidi conflitti; insin che, fatto

per vecchiezza impotente, al suo diletto

prode scudiero Ereutalion le cesse.

Di queste dunque altero iva costui

disfidando i più forti, ed atterriti

n'eran sì tutti, che nessun si mosse.

Ma io mi mossi audace core, e d'anni

minor di tutti m'azzuffai con esso,

e col favor di Pallade lo spensi:

forte eccelso campion che in molta arena

giaceami steso al piede. Oh mi fiorisse

or quell'etade e la mia forza intégra!

Per certo Ettorre troverìa qui tosto

chi gli risponda. E voi del campo acheo

i più forti, i più degni, ad incontrarlo

voi non andrete con allegro petto?

Tacque: e rizzârsi subitani in piedi

nove guerrieri. Si rizzò primiero

il re de' prodi Agamennón; rizzossi

dopo lui Dïomede, indi ambedue

gl'impetuosi Aiaci; indi, col fido

Merïon bellicoso, Idomenèo;

e poscia d'Evemon l'inclito figlio

Eurìpilo, e Toante Andremonìde,

e il saggio Ulisse finalmente. Ognuno

chiese il certame coll'eroe troiano.

Disse allora il buon veglio: Arbitra sia

della scelta la sorta, e sia l'eletto,

salvo tornando dall'ardente agone,

degli Achei la salute e di sé stesso.

Segna a quel detto ognun sua sorte: e dentro

l'elmo la gitta del maggior Atride.

La turba intanto supplicante ai numi

sollevava le palme; e con gli sguardi

fissi nel cielo udìasi dire: O Giove,

fa che la sorte il Telamònio Aiace

nomi, o il Tidìde, o di Micene il sire.

Così pregava; e il cavalier Nestorre

agitava le sorti: ed ecco uscirne

quella che tutti desïâr. La prese,

e a dritta e a manca ai prenci achivi in giro

la mostrava l'araldo, e nullo ancora

la conoscea per sua. Ma come, andando

dall'uno all'altro, il banditor pervenne

al Telamònio Aiace e gliela porse,

riconobbe l'eroe lieto il suo segno,

e gittatolo in mezzo, Amici, è mia,

gridò, la sorte, e ne gioisce il core,

che su l'illustre Ettòr spera la palma.

Voi, mentre l'arma io vesto, al sommo Giove

supplicate in silenzio, onde non sia

dai teucri orecchi il vostro prego udito;

o supplicate ad alta voce ancora,

se sì vi piace, ché nessuno io temo,

né guerriero v'avrà che mio malgrado

di me trionfi, né per fallo mio.

Sì rozzo in guerra non lasciommi, io spero,

la marzïal palestra in Salamina,

né il chiaro sangue di che nato io sono.

Disse; e gli Achivi alzâr gli sguardi al cielo,

e a Giove supplicâr con questi accenti:

Saturnio padre, che dall'Ida imperi

massimo, augusto! vincitor deh rendi

e glorioso Aiace; o se pur anco

t'è caro Ettorre e lo proteggi, almeno

forza ad entrambi e gloria ugual concedi.

Di splendid'armi frettoloso intanto

Aiace si vestiva: e poiché tutte

l'ebbe assunte dintorno alla persona,

concitato avvïossi, a camminava

quale incede il gran Marte allor che scende

tra fiere genti stimolate all'armi

dallo sdegno di Giove, e dall'insana

roditrice dell'alme émpia Contesa.

Tale si mosse degli Achei trinciera

lo smisurato Aiace, sorridendo

con terribile piglio, e misurava

a vasti passi il suol, l'asta crollando

che lunga sul terren l'ombra spandea.

Di letizia esultavano gli Achivi

a riguardarlo; ma per l'ossa ai Teucri

corse subito un gelo. Palpitonne

lo stesso Ettòr; ma né schivar per tema

il fier cimento, né tra' suoi ritrarsi

più non gli lice, ché fu sua la sfida.

E già gli è sopra Aiace coll'immenso

pavese che parea mobile torre;

opra di Tichio, d'Ila abitatore,

prestantissimo fabbro, che di sette

costruito l'avea ben salde e grosse

cuoia di tauro, e indóttavi di sopra

una falda d'acciar. Con questo al petto

enorme scudo il Telamònio eroe

féssi avanti al Troiano, e minaccioso

mosse queste parole: Ettore, or chiaro

saprai da solo a sol quai prodi ancora

rimangono agli Achei dopo il Pelìde

cuor di lïone e rompitor di schiere.

Irato coll'Atride egli alle navi

neghittoso si sta; ma noi siam tali,

che non temiamo lo tuo scontro, e molti.

Comincia or tu la pugna, e tira il primo.

Nobile prence Telamònio Aiace,

rispose Ettorre, a che mi tenti, e parli

come a imbelle fanciullo o femminetta

cui dell'armi il mestiero è pellegrino?

E anch'io trattar so il ferro e dar la morte,

e a dritta e a manca anch'io girar lo scudo,

e infaticato sostener l'attacco,

e a piè fermo danzar nel sanguinoso

ballo di Marte, o d'un salto sul cocchio

lanciarmi, e concitar nella battaglia

i veloci destrier. Né già vogl'io

un tuo pari ferire insidïoso,

ma discoperto, se arrivar ti posso.

Ciò detto, bilanciò colla man forte

la lunga lancia, e saettò d'Aiace

il settemplice scudo. Furïosa

la punta trapassò la ferrea falda

che di fuor lo copriva, e via scorrendo

squarciò sei giri del bovin tessuto,

e al settimo fermossi. Allor secondo

trasse Aiace, e colpì di Priamo il figlio

nella rotonda targa. Traforolla

il frassino veloce, e nell'usbergo

sì addentro si ficcò, che presso al lombo

lacerògli la tunica. Piegossi

Ettore a tempo, ed evitò la morte.

Ricovrò l'uno e l'altro il proprio telo,

e all'assalto tornâr come per fame

fieri leoni, o per vigor tremendi

arruffati cinghiali alla montagna.

Di nuovo Ettorre coll'acuto cerro

colpì, lo scudo ostil, ma senza offesa,

ch'ivi la punta si curvò: di nuovo

trasse Aiace il suo telo, ed alla penna

dello scudo ferendo, a parte a parte

lo trapassò, gli punse il collo, e vivo

sangue spiccionne. Né per ciò l'attacco

lasciò l'audace Ettorre. Era nel campo

un negro ed aspro enorme sasso: a questo

diè di piglio il Troiano, e contra il Greco

lo fulminò. Percosse il duro scoglio

il colmo dello scudo, e orribilmente

ne rimbombò la ferrea piastra intorno.

Seguì l'esempio il gran Telamonìde,

ed afferrato e sollevato ei pure

un altro più d'assai rude macigno,

con forza immensa lo rotò, lo spinse

contra il nemico. Il molar sasso infranse

l'ettoreo scudo, e di tal colpo offese

lui nel ginocchio, che riverso ei cadde

con lo scudo sul petto: ma rizzollo

immantinente di Latona il figlio.

E qui tratte le spade i due campioni

più da vicino si ferìan, se ratti,

messaggieri di Giove e de' mortali,

non accorrean gli araldi, il teucro Idèo,

e l'achivo Taltìbio, ambo lodati

di prudente consiglio. Entrâr costoro

con securtade in mezzo ai combattenti,

ed interposto fra le nude spade

il pacifico scettro, il saggio Idèo

così primiero favellò: Cessate,

diletti figli, la battaglia. Entrambi

siete cari al gran Giove, entrambi (e chiaro

ognun sel vede) acerrimi guerrieri:

ma la notte discende, e giova, o figli,

alla notte obbedir. - Dimandi Ettorre

questa tregua, rispose il fiero Aiace:

primo ei tutti sfidonne, e primo ei chiegga.

Ritirerommi, se l'esempio ei porga.

E l'illustre rival tosto riprese:

Aiace, i numi ti largîr cortesi

pari alla forza ed al valore il senno,

e nel valor tu vinci ogni altro Acheo.

Abbian riposo le nostr'armi, e cessi

la tenzon. Pugneremo altra fïata

finché la Parca ne divida, e intera

all'uno o all'altro la vittoria doni.

Or la notte già cade, e della notte

romper non dêssi la ragion. Tu riedi

dunque alle navi a rallegrar gli Achivi,

i congiunti, gli amici. Io nella sacra

città rïentro a serenar de' Teucri

le meste fronti e le dardanie donne,

che in lunghi pepli avvolte appiè dell'are

per me si stanno a supplicar. Ma pria

di dipartirci, un mutuo dono attesti

la nostra stima: e gli Achei poscia e i Teucri

diran: Costoro duellâr coll'ira

di fier nemici, e separârsi amici.

Così dicendo, la sua propria spada

gli presentò d'argentei chiovi adorna

con fulgida vagina ed un pendaglio

di leggiadro lavoro; Aiace a lui

il risplendente suo purpureo cinto.

Così divisi, agli Achei l'uno, ai Teucri

l'altro avvïossi. Esilarârsi i Teucri,

vivo il lor duce ritornar veggendo

dalla forza scampato e dall'invitte

mani d'Aiace; e trepidanti ancora

del passato periglio alla cittade

l'accompagnaro. Dall'opposta parte

della palma superbo il lor campione

guidâr gli Achivi al padiglion d'Atride,

che per tutti onorar tosto al Tonante

un bue quinquenne in sacrificio offerse.

Lo scuoiâr, lo spaccâr, lo fêro in brani

acconciamente, e negli spiedi infisso

l'abbrustolâr con molta cura, e tolto

il tutto al foco, l'apprestâr sul desco,

e banchettando ne cibò ciascuno

a pien talento. Ma l'immenso tergo

del sacro bue donollo Agamennóne

d'onore in segno al vincitor guerriero.

Del cibarsi e del ber spento il desìo,

il buon veglio Nestorre, di cui sempre

ottimo uscìa l'avviso, in questo dire

svolse il suo senno: Atride e duci achei,

questo giorno fatal la vita estinse

di molti prodi, del cui sangue rossa

fe' l'aspro Marte la scamandria riva,

e all'Orco ne passâr l'ombre insepolte.

Al nuovo sole le nostr'armi adunque

si restino tranquille, e noi sul campo

convenendo, imporrem le salme esangui

su le carrette, e muli oprando e buoi,

qui ne faremo il pio trasporto, e al rogo

le darem lungi dalle navi alquanto,

onde al nostro tornar nel patrio suolo

le ceneri portarne ai mesti figli.

E dintorno alla pira una comune

tomba ergeremo, e di muraglia e d'alte

torri, a difesa delle navi e nostra,

con rapido lavor la cingeremo,

e salde vi apriremo e larghe porte

per l'egresso de' cocchi. Indi un'esterna

profonda fossa scaverem che tutta

circondi la muraglia, e de' cavalli

l'impeto affreni e de' pedon, se mai

de' Teucri irrompa l'orgoglioso ardire.

Disse, e tutti annuiro i prenci achei.

Di Prïamo alle soglie in questo mentre

su l'alta iliaca rocca i Teucri anch'essi

tenean confusa e trepida consulta.

Primo il saggio Antenòr sì prese a dire:

Dardanidi, Troiani, e voi venuti

in sussidio di Troia, i sensi udite

che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi

con tutto il suo tesor l'argiva Elèna.

Vïolammo noi soli il giuramento,

e quindi inique le nostr'armi sono.

Se non si rende, non avrem che danno.

Così detto, s'assise. E surto in piedi

il bel marito della bella Argiva

così Pari rispose: Al cor m'è grave,

Antenore, il tuo detto, e so che porti

una miglior sentenza in tuo segreto.

Ché se parli davver, davvero i numi

ti han tolto il senno. Ma ben io qui schietti

i miei sensi aprirò. La donna io mai

non renderò, giammai. Quanto alle ricche

spoglie che d'Argo a queste rive addussi,

tutte render le voglio, ed altre ancora

aggiungeronne di mio proprio dritto.

Tacque, e sul seggio si raccolse. Allora

in sembianza d'un Dio levossi in mezzo

il Dardanide Prïamo, ed, Udite,

Teucri, ei disse, e alleati, il mio pensiero,

quale il cor lo significa. Pel campo

del consueto cibo si ristauri

ognuno, e attenda alla sua scolta, e vegli.

Col nuovo sole alle nemiche navi

Idèo sen vada, e ad ambedue gli Atridi

di Paride, cagion della contesa,

riferisca la mente, e una discreta

proposta aggiunga di cessar la guerra,

finché il rogo consunte abbia le morte

salme de' nostri, per pugnar di poi

finché la Parca ne spartisca, e agli uni

conceda o agli altri la vittoria intégra.

Tutti assentiro riverenti al detto:

indi pel campo procurâr le cene

in divisi drappelli. Il dì novello

alle navi s'avvìa l'araldo Idèo,

e raccolti ritrova a parlamento

i bellicosi Achei davanti all'alta

agamennònia poppa. Appresentossi

tosto il canoro banditore, e disse:

Atridi e duci achei, mi diè comando

Priamo e di Troia gli ottimati insieme

di sporvi, se vi fia grato l'udirla,

di Paride, cagion di questa guerra,

una proferta. Le ricchezze tutte

ch'ei d'Argo addusse (oh pria perito ei fosse!)

ei tutte le vi rende, ed altre ancora

di sua ragion n'aggiungerà. Ma quanto

alla gentil tua donna, o Menelao,

di questa ei niega il rendimento, e indarno

l'esortano i Troiani. E un'altra io reco

di lor proposta: Se quetar vi piaccia

della guerra il furor, finché de' morti

le care spoglie il foco abbia combuste,

per indi razzuffarci infin che piena

tra noi decida la vittoria il fato.

Disse, e tutti ammutîr. Sciolse il Tidìde

alfin la voce; e, Niun di Pari, ei grida,

l'offerta accetti, né la stessa pure

rapita donna. Ai Dardani sovrasta,

un fanciullo il vedrìa, l'esizio estremo.

Plausero tutti al suo parlar gli Achivi

con alte grida, e n'ammiraro il senno.

Indi vòlto all'araldo il grande Atride:

Idèo, diss'egli, per te stesso udisti

degli Achei la risposta, e in un la mia.

Quanto agli estinti, di buon grado assento

che siano incesi; ché non dêssi avaro

esser di rogo a chi di vita è privo,

né porre indugio a consolarne l'ombra

coll'officio pietoso. Il fulminante

sposo di Giuno il nostro giuro ascolti.

Così dicendo alzò lo scettro al cielo,

e l'araldo tornossi entro la sacra

cittade ai Teucri, già del suo ritorno

impazïenti e in pien consesso accolti.

Giunse, e intromesso la risposta espose.

Si sparsero allor ratti, altri al carreggio

de' cadaveri intenti, altri al funèbre

taglio de' boschi. Dall'opposta parte

un cuor medesmo, una medesma cura

occupava gli Achivi. E già dal queto

grembo del mare al ciel montando il sole

co' rugiadosi lucidi suoi strali

le campagne ferìa, quando nell'atra

pianura si scontrâr Teucri ed Achei

ognuno in cerca de' suoi morti, a tale

dal sangue sfigurati e dalla polve,

che mal se ne potea, senza lavarli,

ravvisar le sembianze. Alfin trovati

e conosciuti li ponean su i mesti

plaustri piangendo. Ma di Priamo il senno

non consentìa del pianto a' suoi lo sfogo:

quindi afflitti, ma muti, al rogo i Teucri

diero a mucchi le salme; ed arse tutte,

col cuor serrato alla città tornaro.

D'un medesmo dolor rotti gli Achei

i lor morti ammassâr sovra la pira,

e come gli ebbe la funerea fiamma

consumati, del mar preser la via.

Non biancheggiava ancor l'alba novella,

ma il barlume soltanto antelucano,

quando d'Achei dintorno all'alto rogo

scelto stuolo affollossi. E primamente

alzâr dappresso a quello una comune

tomba agli estinti, ed alla tomba accanto

una muraglia a edificar si diero

d'alti torrazzi ghirlandata, a schermo

delle navi e di sé: porte vi fêro

di salda imposta, e di gran varco al volo

de' bellicosi cocchi: indi lunghesso

l'esterno muro una profonda e vasta

fossa scavâr di pali irta e gremita.

Degli Achei la stupenda opra tal era.

La contemplâr maravigliando i numi

seduti intorno al Dio de' tuoni, e irato

sì prese a dir l'Enosigèo Nettunno:

Giove padre, chi fia più tra' mortali,

che gl'Immortali in avvenir consulti,

e n'implori il favor? Vedi tu quale

e quanto muro gli orgogliosi Achei

innanti alle lor navi abbian costrutto

e circondato d'un'immensa fossa

senza offerir solenni ostie agli Dei?

Di cotant'opra andrà certo la fama

ovunque giunge la divina luce,

e il grido morirà delle sacrate

mura che al re Laomedonte un tempo

intorno ad Ilïone Apollo ed io

edificammo con assai fatica.

Che dicesti? sdegnoso gli rispose

l'adunator de' numbi: altro qualunque

Iddio di forza a te minor potrebbe

di questo paventar. Ma del possente

Enosigèo la gloria al par dell'almo

raggio del sole splenderà per tutto.

Or ben: sì tosto che gli Achei faranno

veleggiando ritorno al patrio lido,

e tu quel muro abbatti e tutto quanto

sprofondalo nel mare, e d'alta arena

coprilo sì che ogni orma ne svanisca.

In questo favellar l'astro s'estinse

del giorno, e l'opra degli Achei fu piena.

Della sera allestite indi le mense

per le tende, cibâr le opime carni

di scannati giovenchi, e ristorârsi

del vino che recato avean di Lenno

molti navigli; e li spediva Eunèo

d'Issipile figliuolo e di Giasone.

Mille sestieri in amichevol dono

Eunèo ne manda ad ambedue gli Atridi;

compra il resto l'armata, altri con bronzo,

altri con lame di lucente ferro;

qual con pelli bovine, e qual col corpo

del bue medesmo, o di robusto schiavo.

Lieto adunque imbandîr pronto convito

gli Achivi, e tutta banchettâr la notte.

Banchettava del par nella cittade

con gli alleati la dardania gente.

Ma tutta notte di Saturno il figlio

con terribili tuoni annunzïava

alte sventure nel suo senno ordite.

Di pallido terror tutti compresi

dalle tazze spargean le spume a terra

devotamente, né veruno ardìa

appressarvi le labbra, se libato

pria non avesse al prepotente Giove.

Corcârsi alfine, e su lor scese il sonno.