I libri

Testo

Omero - Iliade

Libro Undicesimo

Dal croceo letto di Titon l'Aurora

sorgea, la terra illuminando e il cielo,

e vêr le navi achee Giove spedìa

la Discordia feral. Scotea di guerra

l'orrida insegna nella man la Dira,

e tal d'Ulisse s'arrestò su l'alta

capitana che posta era nel mezzo,

donde intorno mandar potea la voce

fin d'Aiace e d'Achille al padiglione,

che nella forza e nel gran cor securi

sottratte ai lati estremi avean le prore.

Qui ferma d'un acuto orrendo grido

empì l'achive orecchie, e tal ne' petti

un vigor suscitò, tale un desìo

di pugnar, d'azzuffarsi e di ferire,

che sonava nel cor dolce la guerra

più che il ritorno al caro patrio lido.

Alza Atride la voce, e a tutti impone

di porsi in tutto punto; e d'armi ei pure

folgoranti si veste. E pria circonda

di calzari le gambe ornati e stretti

d'argentee fibbie. Una lorica al petto

quindi si pon che Cinira gli avea

un dì mandata in ospital presente.

Perocché quando strepitosa in Cipro

corse la fama che l'achiva armata

verso Troia spiegar dovea le vele,

gratificar di quell'usbergo ei volle

l'amico Agamennón. Di bruno acciaro

dieci strisce il cingean, dodici d'oro,

venti di stagno. Lubrici sul collo

stendon le spire tre cerulei draghi

simiglianti alle pinte iri che Giove

suol nelle nubi colorar, portento

ai parlanti mortali. Indi la spada

agli omeri sospende rilucente

d'aurate bolle, e la vestìa d'argento

larga vagina col pendaglio d'oro.

Poi lo scudo imbracciò che vario e bello

e di facil maneggio tutto cuopre

il combattente. Ha dieci fasce intorno

di bronzo, e venti di forbito stagno

candidissimi colmi, e un altro in mezzo

di bruno acciar. Su questo era scolpita

terribile gli sguardi la Gorgone

col Terrore da lato e con la Fuga,

rilievo orrendo. Dallo scudo poscia

una gran lassa dipendea d'argento,

lungo la quale azzurro e sinuoso

serpe un drago a tre teste, che ritorte

d'una sola cervice eran germoglio.

Quindi al capo diè l'elmo adorno tutto

di lucenti chiavelli, irto di quattro

coni e d'equine setole con una

superba cresta che di sopra ondeggia

terribilmente. Alfin due lance impugna

massicce, acute, le cui ferree punte

mettean baleni di lontano. Intanto

Giuno e Palla onorando il grande Atride

dier di sua mossa con fragore il segno.

All'auriga ciascuno allor comanda

che parati in bell'ordine sostegna

alla fossa i destrier, mentre a gran passi

chiuse nell'armi le pedestri schiere

procedono al nemico. Ancor non vedi

spuntar l'aurora, e d'ogni parte immenso

romor già senti. Come tutto giunse

l'esercito alla fossa, immantinente

fur cavalli e pedoni in ordinanza,

questi primieri e quei secondi. Intanto

Giove dall'alto romoreggia, e piove

di sangue una rugiada, annunziatrice

delle molte che all'Orco in quel conflitto

anime generose avrìa sospinto.

D'altra parte i Troiani in su l'altezza

si schierano del poggio. In mezzo a loro

s'affaccendano i duci; il grande Ettorre,

d'Anchise il figlio che venìa qual nume

da' Troiani onorato, il giusto e pio

Polidamante, e i tre antenòrei figli,

Polibo, io dico, ed il preclaro Agènore,

ed Acamante, giovinetto a cui

di celeste beltà fiorìa la guancia.

Maestoso fra tutti Ettor si volve

coll'egual d'ogni parte ampio pavese.

E qual di Sirio la funesta stella

or senza vel fiammeggia ed or rientra

nel buio delle nubi, a tal sembianza

or nelle prime file or nell'estreme

Ettore comparìa dando per tutto

provvidenza e comandi, e tutta d'arme

rilucea la persona, e folgorava

come il baleno dell'Egìoco Giove.

Qual di ricco padron nel campo vanno

i mietitori con opposte fronti

falciando l'orzo od il frumento; in lunga

serie recise cadono le bionde

figlie de' solchi, e in un momento ingombra

di manipoli tutta è la campagna;

così Teucri ed Achei gli uni su gli altri

irruendo si mietono col ferro

in mutua strage. Immemore ciascuno

di vil fuga, e guerrier contra guerriero

pugnan tutti del pari, e si van contra

coll'impeto de' lupi. A riguardarli

sta la Discordia, e della strage esulta

a cui sola de' numi era presente.

Sedeansi gli altri taciturni in cielo

in sua magion ciascuno, edificata

su gli ardui gioghi del sereno Olimpo.

Ivi ognuno in suo cor fremea di sdegno

contro l'alto de' nembi addensatore,

che dar vittoria a' Troi volea; ma nullo

pensier si prende di quell'ira il padre

che in sua gloria esultante e tutto solo

in disparte sedea, Troia mirando

e l'achee navi, e il folgorar dell'armi,

e il ferire e il morir de' combattenti.

Finché il mattin processe, e crebbe il sacro

raggio del giorno, d'ambe parti eguale

si mantenne la strage. Ma nell'ora

che in montana foresta il legnaiuolo

pon mano al parco desinar, sentendo

dall'assiduo tagliar cerri ed abeti

stanche le braccia e fastidito il core,

e dolce per la mente e per le membra

serpe del cibo il natural desìo,

prevalse la virtù de' forti Argivi,

che animando lor file e compagnie

sbaragliâr le nemiche. Agamennóne

saltò primier nel mezzo, e Bïanorre,

pastor di genti, uccise, indi Oilèo,

suo compagno ed auriga. Era dal carro

costui sceso d'un salto, e gli venìa

dirittamente contro. A mezza fronte

coll'acuta asta lo colpì l'Atride.

Non resse al colpo la celata; il ferro

penetrò l'elmo e l'osso, e tutto interna-

mente di sangue gli allagò il cerèbro.

Così l'audace assalitor fu domo.

Rapì d'ambo le spoglie Agamennóne,

e nudi il petto li lasciò supini.

Andò poscia diretto ad assalire

due di Priamo figliuoli, Iso ed Antifo,

l'un frutto d'Imeneo, l'altro d'Amore.

Venìano entrambi sul medesmo cocchio

i fratelli: reggeva Iso i destrieri,

Antifo combattea. Sul balzo d'Ida

aveali un giorno sopraggiunti Achille,

mentre pascean le gregge, e di pieghevoli

vermene avvinti, e poi disciolti a prezzo.

Ed or l'Atride Agamennón coll'asta

spalanca ad Iso tra le mamme il petto,

fiede di brando Antifo nella tempia,

e lo spiomba dal cocchio. Immantinente

delle bell'armi li dispoglia entrambi,

che ben li conoscea dal dì che Achille

dai boschi d'Ida prigionier li trasse

seco alle navi, ed ei notonne i volti.

Come quando un lïon nel covo entrato

d'agil cerva, ne sbrana agevolmente

i pargoli portati, e li maciulla

co' forti denti mormorando e sperde

l'anime tenerelle; la vicina

misera madre, non che dar soccorso,

compresa di terror fugge veloce

per le dense boscaglie, e trafelando

suda al pensier della possente belva:

così nullo de' Troi poteo da morte

salvar que' due: ma tutti anzi le spalle

conversero agli Achivi. Assalse ei dopo

Ippòloco e Pisandro, ambo figliuoli

del bellicoso Antìmaco, di quello

che da Paride compro per molt'oro

e ricchi doni, d'Elena impedìa

il rimando al marito. I figli adunque

di costui colse al varco Agamennóne

sovra un medesmo carro ambo volanti,

e turbati e smarriti; ché pel campo

sfrenaronsi i destrieri, e dalla mano

le scorrevoli briglie eran cadute.

Come lïon fu loro addosso, e quelli

s'inginocchiâr, dal carro supplicando:

Lasciane vivi, Atride, e di riscatto

gran pezzo n'otterrai. Molta risplende

nella magion d'Antìmaco ricchezza,

d'oro, di bronzo e lavorato ferro.

Di questo il padre ti darà gran pondo

per la nostra riscossa, ov'egli intenda

vivi i suoi figli nelle navi achee.

Così piangendo supplicâr con dolci

modi, ma dolce non rispose Atride.

Voi d'Antìmaco figli? di colui

che nel troiano parlamento osava

d'Ulisse e Menelao, venuti a Troia

ambasciatori, consigliar la morte?

Pagherete voi dunque ora del padre

l'indegna offesa. - Sì dicendo, immerge

l'asta in petto a Pisandro, e giù dal carro

supin lo stende sul terren. Ciò visto,

balza Ippoloco al suolo, e lui secondo

spaccia l'Atride; coll'acciar gli pota

ambe le mani, e poi la testa, e lungi

come palèo la scaglia a rotolarsi

fra la turba. Lasciati ivi costoro,

fulminando si spinge nel più caldo

tumulto della pugna, e l'accompagna

molta mano d'Achei. Fan strage i fanti

de' fanti fuggitivi, i cavalieri

de' cavalier. Si volve al ciel la polve

dalle sonanti zampe sollevata

de' fervidi corsieri, e Agamennóne

sempre insegue ed uccide, e gli altri accende.

Come quando s'appiglia a denso bosco

incendio struggitor, cui gruppo aggira

di fiero vento e d'ogni parte il gitta:

cadono i rami dall'invitta fiamma

atterrati e combusti; a questo modo

sotto l'Atride Agamennón le teste

cadean de' Teucri fuggitivi; e molti

colle chiome sul collo fluttuanti

destrier traean pel campo i vôti carri,

sgominando le file, ed il governo

desiderando de' lor primi aurighi:

ma quei giacean già spenti, agli avoltoi

gradita vista, alle consorti orrenda.

Fuori intanto dell'armi e della polve,

delle stragi, del sangue e del tumulto

condusse Giove Ettòr. Ma gl'inseguiti

Teucri dritto al sepolcro del vetusto

Dardanid'Ilo verso il caprifico

la piena fuga dirigean, bramosi

di ripararsi alla cittade; e sempre

gl'incalza Atride, e orrendo grida, e lorda

di polveroso sangue il braccio invitto.

Giunti alfine alle Scee quivi sostârsi

vicino al faggio, ed aspettâr l'arrivo

de' compagni pel campo ancor fuggenti,

e simiglianti a torma d'atterrite

giovenche che lïon di notte assalta.

Alla prima che abbranca ei figge i duri

denti nel collo, e avidamente il sangue

succhiatone, n'incanna i palpitanti

visceri: e tale gl'inseguìa l'Atride

sempre il postremo atterrando, e quei sempre

spaventati fuggendo: e giù dal cocchio

altri cadea boccone, altri supino

sotto i colpi del re che innanzi a tutti

oltre modo coll'asta infurïava.

E già in cospetto gli venìan dell'alto

Ilio le mura, e vi giungea; quand'ecco

degli uomini il gran padre e degli Dei

scender dal cielo, e maestoso in cima

sedersi dell'acquosa Ida, stringendo

la folgore nel pugno. Iri a sé chiama

l'ali-dorata messaggiera, e, Vanne

vola, le disse, Iri veloce, e ad Ettore

porta queste parole. Infin ch'ei vegga

tra' primi combattenti Agamennóne

romper le file furibondo, ei cauto

stìasi in disparte, e d'animar sia pago

gli altri a far testa, e oprar le mani. Appena

o di lancia percosso o di saetta

l'Atride il cocchio monterà, si spinga

ei ratto nella mischia. Io porgerogli

alla strage la forza, infin che giunga

vincitore alle navi, e al dì caduto

della notte succeda il sacro orrore.

Disse; e veloce la veloce Diva

dal gioco idèo discende al campo, e trova

stante in piè sul suo carro il bellicoso

Prïamide: e appressata, O tu, gli disse,

che il consiglio d'un Dio porti nel core,

Ettore, le parole odi che Giove

per me ti manda. Infin che Agamennóne

vedrai tra' primi infurïar rompendo

de' guerrieri le file, il piè ritira

tu dal conflitto, e fa che col nemico

pugni il resto de' tuoi. Ma quando ei d'asta

o di strale ferito darà volta

sopra il suo cocchio, allor t'avanza. Avrai

tal da Giove un vigor ch'anco alle navi

la strage spingerai, finché la sacra

ombra si stenda su la morta luce.

Disse, e sparve. L'eroe balza dal cocchio

risonante nell'armi, e nella mano

palleggiando la lancia il campo scorre,

e raccende la pugna. Allor destossi

grande conflitto. Rivoltaro i Teucri

agli Achivi la faccia, e di rincontro

le lor falangi rinforzâr gli Achivi.

Venuti a fronte, rinnovossi il cozzo,

e primiero si mosse Agamennóne

innanzi a tutti di pugnar bramoso.

Muse dell'alto Olimpo abitatrici,

or voi ne dite chi primier si spinse

o troiano guerriero od alleato

contro il supremo Atride. Ifidamante,

d'Antenore figliuolo, un giovinetto

d'altere forme e di gran cor, nudrito

nell'opima di greggi odrisia terra.

L'educò bambinetto in propria casa

della bella Teano il genitore

Cissèo l'avo materno, e maturati

di glorïosa pubertate i giorni

sposo alla figlia il diè. Ma colta appena

d'Imen la rosa, al talamo strappollo

da dodici navigli accompagnato

della venuta degli Achei la fama.

Quindi lasciate alla percopia riva

le sue navi, pedone ad Ilio ei venne,

e primo si piantò contro l'Atride.

Giunti al tiro dell'asta, Agamennóne

vibrò la sua, ma in fallo. Ifidamante

appuntò l'avversario alla cintura

sotto il torace, e colla man robusta

di tutta forza l'asta sospingea;

ma non valse a forarne il ben tessuto

cinto, e spuntossi nell'argentea lama

l'acuta punta, come piombo fosse.

A due mani l'afferra allor l'Atride

con ira di lïone, a sé la tira,

gliela svelle dal pugno; e tratto il brando,

lo percuote alla nuca, e lo distende.

Sì cadde, e chiuse in ferreo sonno i lumi.

Miserando garzon! venne a difesa

del patrio suolo e vi trovò la morte:

né gli compose i rai la giovinetta

consorte, né di lei frutto lasciava

che il ravvivasse; e sì l'avea con molti

doni acquistata: perocché da prima

di cento buoi dotolla, e mille in oltre

madri promise di lanute torme

che numerose gli pasceva il prato.

Spoglia Atride l'ucciso, e le bell'armi

ne porta ovante fra le turbe achee.

Come vide Coon morto il fratello,

(d'Antenore era questi il maggior figlio

e guerriero di grido), una gran nube

di dolor gl'ingombrò la mente e gli occhi.

Ponsi in agguato con un dardo in mano

al re di costa, e vibra. A mezzo il braccio

conficcossi la punta sotto il cubito,

e trapassollo. Inorridì del colpo

l'Atride regnator; ma non per questo

abbandona la pugna; anzi più fiero

colla salda dagli Euri asta nudrita

avventossi a Coon che frettoloso

dell'amato fratello Ifidamante

d'un piè traea la salma, alto chiedendo

de' più forti l'aita. Lo raggiunge

in quell'atto l'Atride, e sotto il colmo

dello scudo gli caccia impetuoso

la zagaglia, e l'atterra. Indi sul corpo

d'Ifidamante il capo gli recide.

Così n'andâr, compiuto il fato, all'Orco

per man d'Atride gli antenòrei figli.

Finché fu calda la ferita, il sire

coll'asta, colla spada e con enormi

ciotti la pugna seguitò; ma come

stagnossi il sangue, e s'aggelò la piaga,

d'acerbe doglie saettar sentissi.

Qual trafigge la donna, al partorire,

l'acuto strale del dolor, vibrato

dalle figlie di Giuno alme Ilitìe,

d'amare fitte apportatrici; e tali

eran le punte che ferìan l'Atride.

Salì dunque sul carro, ed all'auriga

comandò di dar volta alla marina,

e cruccioso elevando alto la voce,

Prenci, amici, gridava, e voi valenti

capitani de' Greci, allontanate

dalle navi il conflitto, or che di Giove

non consente il voler ch'io qui compisca,

combattendo co' Teucri, il giorno intero.

Disse, e l'auriga flagellò i destrieri

verso le navi; e quei volâr spargendo

le belle chiome all'aura; e il petto aspersi

d'alta spuma e di polve in un baleno

fuor del campo ebber tratto il re ferito.

Come dall'armi ritirarsi il vide,

diè un alto grido Ettorre, e rincorando

Troiani e Licii e Dardani tonava:

Uomini siate, amici, e richiamate

l'antica gagliardìa: lasciato ha il campo

quel fortissimo duce, e a me promette

l'Olimpio Giove la vittoria. Or via

gli animosi cornipedi spingete

dirittamente addosso ai forti Achivi,

e acquisto fate d'immortal corona.

Disse, e in tutti destò la forza e il core.

Come buon cacciator contra un lïone

o silvestre cignale il morso aizza

de' fier molossi, così l'ira instiga

de' magnanimi Troi contro gli Achivi

il Prïamide Marte: ed ei tra' primi

intrepido si volve, e nel più folto

della mischia coll'impeto si spinge

di sonante procella che dall'alto

piomba e solleva il ferrugineo flutto.

Allor chi pria, chi poi fu messo a morte

dal Prïamide eroe, quando a lui Giove

fu di gloria cortese? Assèo da prima,

Autònoo, Opìte, e Dòlope di Clito,

Ofeltio ed Agelao, Esimno, ed Oro

e il bellicoso Ippònoo. Fur questi

i dànai duci che il Troiano uccise:

dopo lor, molta plebe. Come quando

di Ponente il soffiar l'umide figlie

di Noto aggira, e con rapido vortice

le sbatte irato: il mar gonfiati e crebri

volve i flutti, e dal turbo in larghi sprazzi

sollevata diffondesi la spuma:

tal Ettore cader confuse e spesse

fa le teste plebee. Disfatta intera

allor sarìa seguìta, e colla strage

de' fuggitivi ineluttabil danno,

se con questo parlar l'accorto Ulisse

non destava il valor di Dïomede.

Magnanimo Tidìde, e qual disdetta

della nostra virtù ci toglie adesso

la ricordanza? Or su; ti metti, amico,

al mio fianco, e tien fermo: onta sarebbe

lasciar che piombi su le navi Ettorre.

E Dïomede di rincontro: Io certo

rimarrò, pugnerò; ma vano il nostro

sforzo sarà, ché la vittoria ai Teucri

dar vuole, non a noi, Giove nemico.

Disse; e coll'asta alla sinistra poppa

Timbrèo percosse, e il riversò dal carro.

Ulisse uccise Molïon, guerriero

d'apparenza divina, e valoroso

del re Timbrèo scudiero. E spenti questi,

si cacciâr nella turba, simiglianti

a due cinghiali di gran cor, che il cerchio

sbarattano de' veltri; e impetuosi

voltando faccia sgominaro i Teucri,

sì che fuggenti dall'ettòreo ferro

preser conforto e respirâr gli Achivi.

Combattean fra le turbe alti sul carro

fortissimi campioni i due figliuoli

di Merope Percòsio. Il genitore,

celebrato indovino, avea dell'armi

il funesto mestier loro interdetto.

Non l'obbediro i figli, e la possanza

seguîr del fato che traeali a morte.

Coll'asta in guerra sì famosa entrambi

gl'investì Dïomede, e colla vita

dell'armi li spogliò, mentre per mano

cadean d'Ulisse Ippòdamo e Ipiròco.

Contemplava dall'Ida i combattenti

di Saturno il gran figlio, e nel suo senno

equilibrava tuttavia la pugna,

e l'orror della strage. Infurïava

pedon tra' primi battaglianti il figlio

di Peone Agastròfo, e non avea

l'incauto eroe dappresso i suoi corsieri,

onde all'uopo salvarsi; ché in disparte

lo scudier li tenea. Mirollo, e ratto

l'assalse Dïomede, e all'anguinaglia

lo ferì di tal colpo che l'uccise.

Cader lo vide Ettorre, e tra le file

si spinse alto gridando, e lo seguièno

le troiane falangi. Al suo venire

turbossi il forte Dïomede, e vòlto

ad Ulisse, dicea: Ci piomba addosso

del furibondo Ettorre la ruina.

Stiam saldi, amico, e sosteniam lo scontro.

Disse, e drizzando alla nemica testa

la mira, fulminò l'asta vibrata,

e colse al sommo del cimier; ma il ferro

fu respinto dal ferro, e non offese

la bella fronte dell'eroe, ché il lungo

triplice elmetto l'impedì, fatato

dono d'Apollo. Sbalordì del colpo

Ettore, e lungi riparò tra' suoi.

Qui cadde su i ginocchi, puntellando

contro il suol la gran palma, e tenebroso

su le pupille gli si stese un velo.

Ma mentre corre a ricovrar Tidìde

la fitta nella sabbia asta possente,

si rïebbe il caduto, e sopra il carro

balzando, nella turba si confuse

novellamente, ed ischivò la morte.

Perocché il figlio di Tidèo coll'asta

un'altra volta l'assalìa gridando:

Cane troian, di nuovo tu la scappi

dalla Parca che già t'avea raggiunto.

Gli è Febo che ti salva, a cui, dell'armi

entrando nel fragor, ti raccomandi.

Ma se verrai per anco al paragone,

ti spaccerò, s'io pure ho qualche Dio.

Qualunque intanto mi verrà ghermito

sconterà la tua fuga. - E sì dicendo,

l'ucciso figlio di Peon spogliava.

Ma della ben chiomata Elena il drudo

Alessandro tenea contro il Tidìde

lo strale in cocca, standosi nascoso

diretro al cippo sepolcral che al santo

Dardanid'Ilo, antico padre, eresse

de' Teucri la pietà. Curvo l'eroe

di dosso al morto Agàstrofo traea

il varïato usbergo, ed il brocchiero

ed il pesante elmetto, allor che l'altro

lentò la corda, e non invan. Veloce

il quadrello volò, nell'ima parte

del destro piè s'infisse, e trapassando

conficcossi nel suolo. Uscì d'agguato

sghignazzando il fellone, e, Sei ferito,

glorïoso gridò: Ve' s'io t'ho côlto

pur finalmente! Oh t'avess'io trafitta

più vital fibra, e tolta l'alma! Avrebbe

dall'affanno dell'armi respirato

il popolo troiano a cui se' orrendo

come il leone alle belanti agnelle.

Villan, cirrato arciero, e di fanciulle

vagheggiator codardo (gli rispose

nulla atterrito Dïomede), vieni

in aperta tenzon, vieni e vedrai

a che l'arco ti giova, e la di strali

piena faretra. Mi graffiasti un piede,

e sì gran vampo meni? Io de' tuoi colpi

prendo il timor che mi darebbe il fuso

di femminetta, o di fanciul lo stecco;

ché non fa piaga degl'imbelli il dardo.

Ma ben altro è il ferir di questa mano.

Ogni puntura del mio telo è morte

del mio nemico, e pianto de' suoi figli

e della sposa che le gote oltraggia;

mentre di sangue il suol quegli arrossando

imputridisce, e intorno gli s'accoglie,

più che di donne, d'avoltoi corona.

Così parlava. Accorso intanto Ulisse

di sé gli fea riparo: ed ei seduto

dell'amico alle spalle il dardo acuto

sconficcossi dal piede. Allor gli venne

per tutto il corpo un dolor grave e tanto,

che angosciato nell'alma e impazïente

montò sul cocchio, ed all'auriga impose

di portarlo volando alle sue tende.

Solo rimase di Laerte il figlio,

ché la paura avea tutti sbandati

gli Argivi; ond'egli addolorato e mesto

seco nel chiuso del gran cor dicea:

Misero, che farò? Male, se in fuga

mi volgo per timor: peggio, se solo

qui mi coglie il nemico ora che Giove

gli altri Achei sgominò. Ma quai pensieri

mi ragiona la mente? Ignoro io forse

che nell'armi il vil fugge, e resta il prode

a ferire o a morir morte onorata?

Mentre in cor queste cose egli discorre,

di scutati Troiani ecco venirne

una gran torma che l'accerchia. Stolti!

che il proprio danno si chiudean nel mezzo.

Come stuol di molossi e di fiorenti

giovani intorno ad un cinghial s'addensa

per investirlo, ed ei da folto vepre

sbocca aguzzando le fulminee sanne

tra le curve mascelle; d'ogni parte

impeto fassi, e suon di denti ascolti,

e della belva si sostien l'assalto,

benché tremenda irrompa e spaventosa:

tali intorno ad Ulisse furïosi

s'aggruppano i Troiani. Alto ei sull'asta

insorge, e primo all'omero ferisce

il buon Deïopìte; indi Toone

mette a morte ed Ennomo, e dopo questi

Chersidamante nel saltar che fea

dal cocchio a terra. Gli cacciò la picca

sotto il rotondo scudo all'umbilico,

e quei riverso nella polve strinse

colla palma la sabbia. Abbandonati

costor, coll'asta avventasi a Caropo,

d'Ippaso figlio, e dell'illustre Soco

fratel germano; e lo ferisce. Accorre

il dëiforme Soco in sua difesa,

e all'Itacense fattosi vicino

fermasi, e parla: Artefice di frodi

famoso, e sempre infatigato Ulisse,

oggi, o palma otterrai d'entrambi i figli

d'Ippaso, e, spenti, n'avrai l'armi; o colto

tu dal mio telo perderai la vita.

Vibrò, ciò detto, e lo colpì nel mezzo

della salda rotella. Il vïolento

dardo lo scudo traforò, ficcossi

nella corazza, e gli stracciò sul fianco

tutta la pelle: non permise al ferro

l'addentrarsi di più Palla Minerva.

Conobbe tosto che letal non era

il colpo Ulisse; e retrocesso alquanto,

Sciagurato, rispose al suo nemico,

or sì che morte al varco ti raggiunse.

Mi togliesti, egli è vero, il poter oltre

pugnar co' Teucri, ma ben io t'affermo

che questa di tua vita è l'ultim'ora,

e che tu dalla mia lancia qui domo,

la palma a me darai, lo spirto a Pluto.

Disse, e l'altro fuggiva. Al fuggitivo

scaglia Ulisse il suo cerro, e a mezzo il tergo

sì glielo pianta che gli passa al petto.

Diè d'armi un suono nel cadere, e il divo

vincitor l'insultò: Soco, del forte

Ippaso cavaliero audace figlio,

morte t'ha giunto innanzi tempo, e vana

fu la tua fuga. Misero! né il padre

gli occhi tuoi chiuderà né la pietosa

madre, ma densi a te gli scaveranno

gli avoltoi dibattendo le grandi ali

su la tua fronte; e me spento di tomba

onoreranno i generosi Achei.

Detto ciò, dalla pelle e dal ricolmo

brocchier si svelse del possente Soco

il duro giavellotto, e nel cavarlo

diè sangue, e forte dolorossi il fianco.

Visto il sangue d'Ulisse, i coraggiosi

Teucri l'un l'altro inanimando mossero

per assalirlo: ma l'accorto indietro

si ritrasse, e i compagni ad alta voce

chiamò. Tre volte a tutta gola ei grida,

tre volte il marzio Menelao l'intese,

e ad Aiace converso, Aiace, ei disse,

Telamònio regal seme divino,

sento all'orecchio risonarmi il grido

del sofferente Ulisse, e tal mi sembra

qual se, solo rimasto, ei sia da' Teucri

nel forte della mischia oppresso e chiuso.

Corriam, ché giusto è l'aitarlo: solo

fra nemici potrebbe il valoroso

grave danno patirne, e costerìa

la sua morte agli Achei molti sospiri.

Si mise in via, ciò detto, e lo seguiva

quel magnanimo, tale al portamento

che un Dio detto l'avresti: e il caro a Giove

Ulisse ritrovâr da densa torma

accerchiato di Teucri. A quella guisa

che affamate s'attruppano le linci

dintorno a cervo di gran corna, a cui

fisse lo strale il cacciator nel fianco,

e il ferito fuggì dal feritore

finché fu caldo il sangue e lesto il piede;

ma domo alfine dallo stral nel bosco

lo dismembran le linci; allor, se guida

colà fortuna un fier lïon, disperse

sfrattano quelle, ed ei fa sua la preda:

molta turba così di valorosi

Teucri intorno al pugnace astuto Ulisse

aggirasi; ma l'asta dimenando

l'eroe tien lungi la fatal sua sera.

E comparir tremendo ecco d'Aiace

il torreggiante scudo, eccolo fermo

dinanzi a quell'oppresso, e scombuiarsi

chi qua chi là per lo spavento i Teucri.

Per man lo prende allora il generoso

minor Atride, e fuor dell'armi il tragge

finché l'auriga i corridor gli adduca.

Ma il Telamònio eroe contra i Troiani

irrompendo, il Prïamide bastardo

Doriclo uccide; e poi Pandoco, e poi

Lisandro fiede e Piraso e Pilarte.

E come quando ruinoso un fiume,

cui crebbe l'invernal pioggia di Giove,

si devolve dal monte alla pianura,

e molte aride querce e molti pini

rotando spinge una gran torba al mare:

tal cavalli tagliando e cavalieri

l'illustre Aiace furïoso insegue

per lo campo i Troiani; e non per anco

n'aveva Ettorre udita la ruina,

ch'ei della zuffa sul sinistro corno

pugnava in riva allo Scamandro, dove

il cader delle teste era più spesso,

e infinito il clamor dintorno al grande

Nestore e al marzio Idomenèo. Qui stava

Ettore, e oprava orrende cose, e densa

colla lancia e col carro distruggeva

la gioventude achea. Né ancor per tanto

avrian gli Argivi abbandonato il campo,

se il bel marito della bella Elèna

Alessandro ritrar non fea dall'armi

il bellicoso Macaon, ferendo

l'illustre duce all'omero diritto

con trisulca saetta. Di quel colpo

tremâr gli Achivi, e si scorâr, temendo

che, inclinata di Marte la fortuna,

non vi restasse il buon guerriero ucciso.

Onde a Nestore vòlto Idomenèo:

Eroe Nelìde, ei disse, alto splendore

degli Achivi, t'affretta, il carro ascendi

e Macaone vi raccogli, e ratto

sferza i cavalli al mar, salva quel prode,

ch'egli val molte vite, e non ha pari

nel cavar dardi dalle piaghe, e spargerle

di balsamiche stille. - A questo dire

montò l'antico cavaliero il cocchio

subitamente, vi raccolse il figlio

d'Esculapio divin medicatore,

sferzò i destrieri, e quei volaro al lido

volonterosi e dal desìo chiamati.

Vide in questa de' Teucri lo scompiglio

Cebrïon che d'Ettorre al fianco stava,

e rivolto a quel duce: Ettorre, ei disse,

noi di Dànai qui stiamo a far macello

nel corno estremo dell'orrenda mischia,

e gli altri Teucri intanto in fuga vanno

cavalli e battaglier cacciati e rotti

dal Telamònio Aiace: io ben lo scerno

all'ampio scudo che gli copre il petto.

Drizziamo il carro a quella volta, ch'ivi

più feroce de' fanti e cavalieri

è la zuffa, e più forti odo le grida.

Così dicendo, col flagel sonoro

i ben chiomati corridor percosse,

che sentita la sferza a tutto corso

fra i Troiani e gli Achei traean la biga,

cadaveri pestando ed elmi e scudi.

Era tutto di sangue orrido e lordo

l'asse di sotto e l'àmbito del cocchio,

cui l'ugna de' corsieri e la veloce

ruota spargean di larghi sprazzi. Anela

il teucro duce di sfondar la turba,

e spezzarla d'assalto. In un momento

gli Achivi sgominò, sempre coll'asta

fulminando; e scorrendo entro le file,

colla lancia, col brando e con enormi

macigni le rompea. Solo d'Aiace

evitava lo scontro. Ma l'Eterno

alto-sedente al cor d'Aiace incusse

tale un terror che attonito ristette,

e paventoso si gittò sul tergo

la settemplice pelle, e nel dar volta

come una fiera si guatava intorno

nel mezzo della turba, e tardi e lenti

alternando i ginocchi, all'inimico

ad or ad ora convertìa la fronte.

Come fulvo leon che dall'ovile

vien da' cani cacciato e da' pastori

che de' buoi gli frastornano la pingue

preda, la notte vigilando intera:

famelico di carne ei nondimeno

dritto si scaglia, e in van; ché dall'ardite

destre gli piove di saette un nembo

e di tizzi e di faci, onde il feroce

atterrito rifugge, e in sul mattino

mesto i campi traversa e si rinselva:

tale Aiace da' Teucri in suo cor tristo

e di mal grado assai si dipartìa

delle navi temendo. E quale intorno

ad un pigro somier, che nella messe

si ficcò, s'arrabattano i fanciulli

molte verghe rompendogli sul tergo,

ed ei pur segue a cimar l'alta biada,

né de' lor colpi cura la tempesta,

ché la forza è bambina, e appena il ponno

allontanar poiché satolla ha l'epa;

non altrimenti i Teucri e le coorti

collegate inseguìan senza riposo

il gran Telamonìde, e colle basse

lance nel mezzo gli ferìan lo scudo.

Ma memore l'eroe di sua virtude

or rivolta la faccia, e le falangi

respinge de' nemici, or lento i passi

move alla fuga: e sì potette ei solo

che di sboccarsi al mar tutti rattenne.

Ritto in mezzo ai Troiani ed agli Achivi

infurïava, e sostenea di strali

una gran selva sull'immenso scudo,

e molti a mezzo spazio e senza forza,

pria che il corpo gustar, perdeano il volo

desïosi di sangue. In questo stato

lo mirò d'Evemon l'inclito figlio

Euripilo, ed a lui, che sotto il nembo

degli strali languìa, fatto dappresso,

a vibrar cominciò l'asta lucente,

e il duce Apisaon, di Fausia figlio,

nell'epate percosse, e gli disciolse

de' ginocchi il vigor. Sovra il caduto

Euripilo avventossi, e le bell'armi

di dosso gli traea. Ma come il vide

Paride, il drudo di beltà divina,

del morto Apisaon l'armi rapire,

mise in cocca lo strale, e d'aspra punta

la destra coscia gli ferì. Si franse

il calamo pennuto, e tal nell'anca

spasmo destò, che ad ischivar la morte

gli fu mestieri ripararsi a' suoi,

alto gridando, O amici, o prenci achivi,

volgetevi, sostate, liberate

da morte Aiace; egli è da' teli oppresso,

sì ch'io pavento, ohimè! che più non abbia

scampo l'eroe: correte, circondate

de' vostri petti il Telamònio figlio.

Così disse il ferito: e quelli a gara

stretti inclinando agli omeri gli scudi,

e l'aste sollevando, al grande Aiace

si fêr dappresso; ed ei venuto in salvo

tra' suoi, di nuovo la terribil faccia

converse all'inimico. In cotal guisa,

come fiamma, tra questi ardea la zuffa.

Di sudor molli intanto e polverose

le cavalle nelèe fuor della pugna

traean col duce Macaon Nestorre.

Lo vide il divo Achille e lo conobbe,

mentre ritto si stava in su la poppa

della sua grande capitana, e il fiero

lavor di Marte, e degli Achei mirava

la lagrimosa fuga. Incontanente

mise un grido, e chiamò dall'alta nave

il compagno Patròclo: e questi appena

dalla tenda l'udì, che fuori apparve

in marzïal sembianza; e dal quel punto

ebbe inizio fatal la sua sventura.

Parlò primiero di Menèzio il figlio:

A che mi chiami, a che mi brami, Achille?

O mio diletto nobile Patròclo,

gli rispose il Pelìde, or sì che spero

supplicanti e prostesi a' miei ginocchi

veder gli Achivi, ché suprema e dura

necessità li preme. Or vanne, o caro,

vanne e chiedi a Nestòr chi quel ferito

sia, ch'ei ritragge dalla pugna. Il vidi

ben io da tergo, e Macaon mi parve,

d'Esculapio il figliuol; ma del guerriero

non vidi il volto, ché veloci innanzi

mi passâr le cavalle, e via spariro.

Disse; e Patròclo obbedïente al cenno

dell'amico diletto già correa

tra le navi e le tende. E quelli intanto

del buon Nelìde al padiglion venuti

dismontaro, e l'auriga Eurimedonte

sciolse dal carro le nelèe puledre,

mentr'essi al vento asciugano sul lido

le tuniche sudate, e delle membra

rinfrescano la vampa: indi raccolti

dietro la tenda s'adagiâr su i seggi.

Apparecchiava intanto una bevanda

la ricciuta Ecamède. Era costei

del magnanimo Arsìnoo una figliuola

che il buon vecchio da Tenedo condotta

avea quel dì che la distrusse Achille,

e a lui, perché vincea gli altri di senno,

fra cento eletta la donâr gli Achivi.

Trass'ella innanzi a lor prima un bel desco

su piè sorretto d'un color che imbruna,

sovra il desco un taglier pose di rame,

e fresco miel sovresso, e la cipolla

del largo bere irritatrice, e il fiore

di sacra polve cereal. V'aggiunse

un bellissimo nappo, che recato

aveasi il veglio dal paterno tetto,

d'aurei chiovi trapunto, a doppio fondo,

con quattro orecchie, e intorno a ciascheduna

due beventi colombe, auree pur esse.

Altri a stento l'avrìa colmo rimosso;

l'alzava il veglio agevolmente. In questo

la simile alle Dee presta donzella

pramnio vino versava; indi tritando

su le spume caprin latte rappreso,

e spargendovi sovra un leggier nembo

di candida farina, una bevanda

uscir ne fece di cotal mistura,

che apprestata e libata, ai due guerrieri

la sete estinse e rinfrancò le forze.

Diersi, ciò fatto, a ricrear parlando

gli affaticati spirti; e sulla soglia

ecco apparir Patròclo, e soffermarsi

in sembianza di nume il giovinetto.

Nel vederlo levossi il vecchio in piedi

dal suo lucido seggio, e l'introdusse

presol per mano, e di seder pregollo.

Egli all'invito resistea, dicendo:

Di seder non m'è tempo, egregio veglio,

né obbedirti poss'io. Tremendo, iroso

è colui che mi manda a interrogarti

del guerrier che ferito hai qui condotto.

Or io mel so per me medesmo, e in lui

ravviso il duce Macaon. Ritorno

dunque ad Achille relator di tutto.

Sai quanto, augusto veglio, ei sia stizzoso

e a colpar pronto l'innocente ancora.

Disse, e il gerenio cavalier rispose:

E donde avvien che de' feriti Achivi

sente Achille pietà? Né ancor sa quanta

pel campo s'innalzò nube di lutto.

Piagati altri da lungi, altri da presso

nelle navi languiscono i più prodi.

Di saetta ferito è Dïomede,

d'asta l'inclito Ulisse e Agamennóne,

Euripilo di strale nella coscia,

e di strale egli pur questo che vedi

da me condotto. Il prode Achille intanto

niuna si prende né pietà né cura

degl'infelici Achivi. Aspetta ei forse

che mal grado di noi la fiamma ostile

arda al lido le navi, e che noi tutti

l'un su l'altro cadiam trafitti e spenti?

Ahi che la possa mia non è più quella

ch'agili un tempo mi facea le membra!

Oh quel fior m'avess'io d'anni e di forza,

ch'io m'ebbi allor che per rapiti armenti

tra noi surse e gli Elèi fiera contesa!

Io predai con ardita rappresaglia

del nemico le mandre, e l'elïese

Ipirochìde Itimonèo distesi.

Combattea de' suoi tauri alla difesa

l'uom forte, e un dardo di mia mano uscito

lui tra' primi percosse, e al suo cadere

l'agreste torma si disperse in fuga.

Noi molta preda n'adducemmo e ricca:

di buoi cinquanta armenti, ed altrettante

di porcelli, d'agnelle e di caprette,

distinte mandre, e cento oltre cinquanta

fulve cavalle, tutte madri, e molte

col poledro alla poppa. Ecco la preda

che noi di notte ne menammo in Pilo.

Gioì Nelèo vedendo il giovinetto

figlio guerrier di tante spoglie opimo.

Venuto il giorno, la sonora voce

de' banditor chiamò tutti cui fosse

qualche compenso dagli Elèi dovuto.

Di Pilo i capi congregârsi, e grande

sendo il dovere degli Elèi, fu tutta

scompartita la preda, e rintegrate

l'antiche offese. Perciocché la forza

d'Ercole avendo desolata un giorno

la nostra terra, e i più prestanti uccisi,

e di dodici figli di Nelèo

prodi guerrier rimasto io solo in Pilo

con altri pochi oppressi, i baldanzosi

Elèi di nostre disventure alteri

n'insultâr, ne fêr danno. Or dunque in serbo

tenne il vecchio per sé di tauri intero

un armento trascelto, e un'ampia greggia

di ben trecento pecorelle, insieme

co' mandriani; giusta ricompensa

di quattro egregi corridor, mandati

in un col carro a conquistargli un tripode

nell'olimpica polve, e dall'elèo

rege rapiti, rimandando spoglio

de' bei corsieri il doloroso auriga.

Di questi oltraggi il vecchio padre irato

larga preda si tolse, e al popol diede,

giusta il dovuto, a ripartirsi il resto.

Mentre intenti ne stiamo a queste cose,

e offriam per tutta la città solenni

sacrifici agli Eterni, ecco nel terzo

giorno gli Elèi con tutte de' lor fanti

e cavalli le forze in campo uscire,

ed ambedue con essi i Molïoni,

giovinetti ancor sori ed inesperti

negl'impeti di Marte. Su l'Alfèo

in arduo colle assisa è una cittade

Trïoessa nomata, ultima terra

dell'arenosa Pilo. Desïosi

di porla al fondo la cingean d'assedio.

Ma come tutto superaro il campo,

frettolosa e notturna a noi discese

dall'Olimpo Minerva, ad avvisarne

di pigliar l'armi; e congregò le turbe

per la cittade, non già lente e schive,

ma tutte accese del desìo di guerra.

Non mi assentiva il genitor Nelèo

l'uscir con gli altri armato; e perché destro

nel fiero Marte ancor non mi credea,

occultommi i destrieri. Ed io pedone

v'andai scorto da Pallade, e tra' nostri

cavalier mi distinsi in quella pugna.

Sul fiume Minïèo che presso Arena

si devolve nel mar, noi squadra equestre

posammo ad aspettar l'alba divina,

finché n'avesse la pedestre aggiunti.

Riunito l'esercito, movemmo

ben armati ed accinti, e sul merigge

d'Alfèo giungemmo all'onde sacre. Quivi

propizïammo con opime offerte

l'onnipossente Giove; al fiume un toro

svenammo, un altro al gran Nettunno, e intatta

a Palla una giovenca. Indi pel campo

preso a drappelli della sera il cibo,

tutti ne demmo, ognun coll'armi indosso,

lungo il fiume a dormir. Stringean frattanto

d'assedio la cittade i forti Elèi

d'espugnarla bramosi. Ma di Marte

ebber tosto davanti una grand'opra.

Brillò sul volto della terra il sole,

e noi Minerva supplicando e Giove

appiccammo la zuffa. Aspro fu il cozzo

delle due genti, ed io primiero uccisi

(e i corsieri gli tolsi) il bellicoso

Mulio, gener d'Augìa, del quale in moglie

la maggior figlia possedea, la bionda

Agamède, cui nota era, di quante

l'almo sen della terra erbe produce,

la medica virtù. Questo io trafissi

coll'asta, e lo distesi, e, dell'ucciso

salito il cocchio, mi cacciai tra' primi.

Visto il duce cader de' cavalieri

che gli altri tutti di valor vincea,

si sgomentaro i generosi Elèi,

e fuggîr d'ogni parte. Io come turbo

mi serrai loro addosso, e di cinquanta

carri fei preda, e intorno a ciascheduno

mordean la polve dal mio ferro ancisi

due combattenti. E messi a morte avrei

gli Attòridi pur anco, i due medesmi

Molïoni, se fuor della battaglia

non li traea, coprendoli di nebbia,

il gran rege Nettunno. Al nostro ardire

alta vittoria allor Giove concesse.

Perocché per lo campo, tutto sparso

di scudi e di cadaveri, tant'oltre

gl'inseguimmo uccidendo, e raccogliendo

le bell'armi nemiche, che spingemmo

fino ai buprasii solchi i corridori,

fin all'olenio sasso, ed alla riva

d'Alèsio, al luogo che Calon si noma.

Qui fêr alto per cenno di Minerva

i vincitori, e qui l'estremo io spensi.

Da Buprasio frattanto i nostri prodi

riconduceano a Pilo i polverosi

carri, e dar laude si sentìa da tutti

a Giove in cielo, ed a Nestorre in terra.

Tal nelle pugne apparve il valor mio.

Ma del valor d'Achille il solo Achille

godrassi, e quando consumati ahi! tutti

vedrà gli Achivi, piangerà, ma indarno.

Caro Patròclo, nel pensier richiama

di Menèzio i precetti, onde il buon veglio

t'accompagnava il giorno che da Ftia

ti spediva all'Atride Agamennóne.

Fummo presenti, e gli ascoltammo interi

il divo Ulisse ed io Nestorre, entrambi

al regal tetto di Pelèo venuti

a far eletta di guerrieri achei.

Ivi l'eroe Menèzio e te vedemmo

d'Achille al fianco. Il cavalier Pelèo,

venerando vegliardo, entro il cortile

al fulminante Giove ardea le pingui

cosce d'un tauro, e sull'ardenti fibre

negro vino da nappo aureo versava.

Voi vi stavate preparando entrambi

le sacre carni, e noi giungemmo in quella

sul limitar. Stupì, levossi Achille,

per man ne prese, e n'introdusse, in seggio

ne collocò, ne pose innanzi i doni

che il santo dritto dell'ospizio chiede.

Ristorati di cibo e di bevanda,

io parlai primamente, e v'esortava

l'uno e l'altro a seguirne; e il bramavate

voi fortemente. E quai de' due canuti

fûro allora i conforti? Al figlio Achille

raccomandò Pelèo l'oprar mai sempre

da prode, e a tutti di valor star sopra.

Ma volto a te l'Attòride Menèzio,

Figlio, il vecchio dicea, ti vince Achille

di sangue, e tu lui d'anni; egli di forza,

tu di consiglio. Con prudenti avvisi

dunque il governa e l'ammonisci, e all'uopo

t'obbedirà. Tal era il suo precetto;

tu l'obblïasti. Or via, l'adempi adesso,

parla all'amico bellicoso, e tenta

süaderlo. Chi sa? Qualche buon Dio

animerà le tue parole, e l'alma

toccherà di quel fiero. Al cor va sempre

l'ammonimento d'un diletto amico.

Ché s'ei paventa in suo segreto un qualche

vaticinio, se alcuno a lui da Giove

la madre ne recò, te mandi almeno

co' Mirmidóni a confortar gli Achivi

nella battaglia, e l'armi sue ti ceda.

Forse ingannati dall'aspetto i Teucri

ti crederan lui stesso, e fuggiranno,

e gli egri Achei respireranno: è spesso

di gran momento in guerra un sol respiro.

E voi freschi guerrieri agevolmente

respingerete lo stanco nemico

dalle tende e dal mare alla cittade.

Sì disse il saggio, e tutto si commosse

il cor nel petto di Patròclo. Ei corse

lungo il lido ad Achille, e giunto all'alta

capitana d'Ulisse, ove nel mezzo

ai santi altari si tenea ragione

e parlamento, d'Evemone il figlio

Eurìpilo scontrò, che di saetta

ferito nella coscia e vacillante

dalla pugna partìa. Largo il sudore

gli discorrea dal capo e dalle spalle,

e molto sangue dalla ria ferita,

ma intrepida era l'alma. Il vide e n'ebbe

pietade il forte Menezìade, e a lui

lagrimando si volse: Oh sventurati

duci Achei! così dunque, ohimè! lontani

dai cari amici e dalla patria terra

de' vostri corpi sazïar di Troia

dovevate le belve? Eroe divino

Eurìpilo, rispondi: Sosterranno

gli Achei la possa dell'immane Ettorre,

o cadran spenti dal suo ferro? - Oh diva

stirpe, Patròclo, (Eurìpilo rispose)

nullo è più scampo per gli Achei, se scampo

non ne danno le navi. I più gagliardi

tutti giaccion feriti, e ognor più monta

de' Troiani la forza. Or tu cortese

conservami la vita. Alla mia nave

guidami, e svelli dalla coscia il dardo,

con tepid'onda lavane la piaga

e su vi spargi i farmaci salubri

de' quali è grido che imparata hai l'arte

dal Pelìde, e il Pelìde da Chirone

de' Centauri il più giusto. Or tu m'aita,

ché Podalirio e Macaon son lungi;

questi, credo, in sua tenda, anch'ei piagato

è di medica man necessitoso;

l'altro co' Teucri in campo si travaglia.

Qual fia dunque la fin di tanti affanni?

soggiunse di Menèzio il forte figlio,

e che faremo, Eurìpilo? Gran fretta

mi sospinge ad Achille a riportargli

del guardïano degli Achei Nestorre

una risposta: ma pietà non vuole

che in questo stato io t'abbandoni. - Il cinse

colle braccia, ciò detto, e nella tenda

il menò, l'adagiò sopra bovine

pelli dal servo acconciamente stese,

indi col ferro dispiccò dall'anca

l'acerbissimo strale, e con tepenti

linfe la tabe ne lavò. Vi spresse

poi colle palme il lenïente sugo

d'un'amara radice. Incontanente

calmossi il duolo, ristagnossi il sangue,

ed asciutta si chiuse la ferita.