I libri

Testo

Omero - Iliade

Libro Ventitreesimo

Mentre in Troia si piange, all'Ellesponto

giungon gli Achivi, e spargesi ciascuno

alla sua nave. Ma l'andar dispersi

non permise il Pelìde ai bellicosi

suoi Mirmidóni, da cui cinto disse:

Miei diletti compagni e cavalieri,

non distacchiamo per ancor dai cocchi

i corridori: procediam con questi

a piagnere Patròclo, a tributargli

l'onor dovuto ai trapassati. E quando

avrem del pianto al cor dato il diletto,

sciolti i destrieri, appresterem le cene.

Disse, e tutti innalzâr ristretti insieme

il fùnebre lamento, Achille il primo.

Corser tre volte colle bighe intorno

all'estinto ululando, e ne' lor petti

destò Teti di pianto alto desìo.

Si bagnava di lagrime l'arena,

di lagrime gli usberghi; cotant'era

il desiderio dell'eroe perduto.

Ma fra tutti piagnea dirottamente

Achille, e poste le omicide mani

dell'amico sul cor, Salve, dicea,

salve, caro Patròclo, anco sotterra.

Tutto io voglio compir che ti promisi.

D'Ettore il corpo al tuo piè strascinato

farò pasto de' cani, e alla tua pira

dodici capi troncherò d'eletti

figli de' Teucri, di tua morte irato.

Disse; ed opra crudel contra il divino

Ettor volgendo in suo pensiero, il trasse

per la polve boccon presso al ferètro

del figliuol di Menèzio: e gli altri intanto

scinsero le corrusche armi, e staccati

gli annitrenti corsier, folti sull'alta

capitana d'Achille a lauto desco

s'assisero. Muggìan sotto la scure

molti candidi buoi, molte belando

cadean capre scannate e pecorelle,

e molti di pinguedine fiorenti

cinghiai sannuti alle vulcanie vampe

venìan distesi a brustolarsi. Il sangue

scorrea dintorno al morto in larghi rivi.

Al sommo Atride intanto i prenci achei

scortâr vinto da' preghi, e per l'amico

sempre d'ira infiammato il re Pelìde.

Giunti i duci alla tenda, immantinente

ai prodi araldi Agamennón comanda

che alle fiamme un gran tripode si metta,

onde il Pelìde indur, se gli rïesca,

a lavarsi del sangue ogni sozzura.

Recusollo il feroce, e fermamente

giurò: Non sia per Giove ottimo e sommo

che lavacro mi tocchi anzi ch'io ponga

l'amico mio sul rogo, e gli consacri

sull'eretto sepolcro il crin reciso.

Ah! mai pari dolor, fin ch'io mi viva,

in questo petto non cadrà, giammai.

Nondimeno si segga all'abborrita

mensa: ma tu, supremo Atride, imponi

alla tua gente che domàn per tempo

molta selva qua porti; e qual conviensi

ad illustre defunto che nell'atra

notte discende, le cataste appresti,

onde rapido il foco lo consumi,

e tolto agli occhi il doloroso obbietto,

tornin le schiere ai consueti offici.

Obbedîr tutti al detto, e prontamente

poste le mense, a convivar si diero,

e vivandò ciascuno a suo talento.

Del cibarsi e del ber spenta la voglia,

tutti sbandârsi alle lor tende, e al sonno

cesser le membra. Ma del mar sonante

lungo il lido si stese in mezzo ai folti

tessali Achille su la nuda arena,

di cui l'onda gli estremi orli lambìa.

Ivi stanco di gemiti e sospiri

e della molta in perseguendo Ettorre

sostenuta fatica, il dolce sonno

alleggiator dell'aspre cure il prese,

soavemente circonfuso. Ed ecco

comparirgli del misero Patròclo

in visïon lo spettro, a lui del tutto

ne' begli occhi simìle e nella voce,

nella statura, nelle vesti, e tale

sovra il capo gli stette, e così disse:

Tu dormi, Achille, né di me più pensi.

Vivo m'amasti, e morto m'abbandoni.

Deh tosto mi sotterra, onde mi sia

dato nell'Orco penetrar. Respinto

io ne son dalle vane ombre defunte,

né meschiarmi con lor di là dal fiume

mi si concede. Vagabondo io quindi

m'aggiro intorno alla magion di Pluto.

Or deh porgi la man, ché teco io pianga

anco una volta: perocché consunto

dalle fiamme del rogo a te dall'Orco

non tornerò più mai. Più non potremo

vivi entrambi, e lontan dagli altri amici

seduti in dolci parlamenti aprire

i segreti del cor: ché preda io sono

della Parca crudele a me nascente

un dì sortita. E a te pur anco, Achille,

a te che un Dio somigli, è destinato

il perir sotto le dardanie mura.

Ben ti prego, o mio caro, e raccomando

che tu non voglia, se mi sei cortese,

dal tuo disgiunto il cener mio. Noi fummo

nella tua reggia allor nudriti insieme

che Menèzio d'Opunte a Ftia menommi

giovinetto quel dì che per la lite

degli astragali irato e fuor di senno

d'Anfidamante a morte misi il figlio,

mio malgrado. M'accolse il re Pelèo

ne' suoi palagi umanamente, e posta

nell'educarmi diligente cura,

mi nomò tuo donzello. Una sol'urna

chiuda adunque le nostre ossa, quell'urna

che d'ôr ti diè la tua madre divina.

A che ne vieni, o anima diletta?

gli rispose il Pelìde; e a che m'ingiungi

partitamente queste cose? Io tutto

che comandi farò: ma deh t'appressa,

ch'io t'abbracci, che stretti almen per poco

gustiam la trista voluttà del pianto.

Così dicendo, coll'aperte braccia

amoroso avventossi, e nulla strinse,

ché stridendo calò l'ombra sotterra,

e svanì come fumo. In piè rizzossi

sbalordito il Pelìde, e palma a palma

battendo, in suono di lamento disse:

Oh ciel! dell'Orco gli abitanti han dunque

spirito ed ombra, ma non corpo alcuno?

Del misero Patròclo in questa notte

sovra il capo mi stette il sospiroso

spettro piangente, tutto desso al vivo,

e più cose m'ingiunse ad una ad una.

Ridestâr delle lagrime la brama

queste parole: raddoppiossi il lutto

sul miserando corpo, e l'Alba intanto

col roseo dito l'Orïente aprìa.

Da tutte parti allor fece l'Atride

dalle trabacche uscir giumenti e turbe

per lo trasporto del funereo bosco,

duce il valente Merïon, del prode

Idomenèo scudier. Givan costoro

di corde armati e di taglienti scuri

co' giumenti dinanzi. E per distorti

aspri greppi montando e discendendo

e rimontando, agli erti boschi alfine

giunser dell'Ida che di fonti abbonda.

Qui dier sùbita man con affilate

bipenni al taglio dell'aeree querce

che strepitose al suol cadeano, e poscia

legavansi spaccate in su la schiena

de' giumenti, che ratte orme stampando

scendean bramosi d'arrivar pe' folti

roveti alla pianura: e li seguièno

carchi il dosso di ciocchi i tagliatori;

ché tal di Merïon era il precetto.

Giunti sul lido, scaricâr le some,

ne fêr catasta al luogo ove il Pelìde

un tumulo sublime al morto amico

ed a se stesso disegnato avea.

E tutta apparecchiata in questa guisa

l'immensa selva, riposâr seduti,

nuovi cenni aspettando. Intanto Achille

ai bellicosi Mirmidón comanda

di porsi in armi, ed aggiogar ciascuno

alle bighe i destrier. Sursero quelli

frettolosi, e fur tutti in tutto punto.

Montan su i cocchi aurighi e duci, e danno

alla pompa principio. Immenso un nembo

di pedoni li segue, e a questi in mezzo

di Patròclo procede il cataletto

da' compagni portato, che sul morto

venìan gittando le recise chiome,

di che tutto il coprìan. Di retro Achille

colla man gli reggea la tremolante

testa, e plorava sui fùnebri onori

con che all'Orco spedìa l'illustre amico.

Giunti al luogo lor detto, il mesto incarco

deposero, e a ribocco intorno a quello

adunâr pronti la funerea selva.

Recatosi in se stesso, un altro avviso

fece allora il Pelìde. Allontanossi

dal rogo alquanto, e il biondo si recise,

che allo Sperchio nudrìa, florido crine,

e al mar guardando con dolor, sì disse:

Sperchio, invan ti promise il padre mio

che tomando al natìo dolce terreno

io t'avrei tronco la mia chioma, e offerto

una sacra ecatombe, ed immolato

cinquanta agnelli accanto alla tua fonte

ov'hai delubro, ed odorati altari.

Del canuto Pelèo fu questo il voto:

tu nol compiesti. Poiché dunque or tolto

n'è alla patria il ritorno, abbia il mio crine

l'eroe Patròclo, e lo si porti seco.

Così detto, alla man del caro amico

pose la chioma, e rinnovossi il pianto

de' circostanti: e tra gli omei gli avrìa

colti il cader della dïurna luce,

se non si fea davanti al grande Atride

il figlio di Pelèo con questi accenti:

Agamennón, di lagrime potremo

satollarci altra volta. Or tu, cui tutti

obbediscon gli Achei, tu li congeda

da questa pira, e a ristorar li manda

colla mensa le membra. Avrem del resto

noi la cura, ché nostro innanzi a tutti

dell'esequie è il pensiero, e rimarranno

nosco, a tal uopo di pietade, i duci.

Udito questo, Agamennón disperse

tosto le schiere per le tende, e soli

vi restaro i deletti al ministero

dell'esequie e del rogo. Essi una pira

cento piedi sublime in ogni lato

innalzâr primamente, e sovra il sommo,

d'angoscia oppressi, collocâr l'estinto;

poi davanti alla pira una gran torma

scuoiâr di pingui agnelle e di giovenchi,

e traendone l'adipe il Pelìde

coprìane il morto dalla fronte al piede,

e le scuoiate vittime dintorno

gli accumolò. Da canto indi gli pose

colle bocche sul fèretro inclinate

due di miele e d'unguento urne ricolme.

Precipitoso ei poscia e sospiroso

sulla pira gittò quattro corsieri

d'alta cervice, e due smembrati cani

di nove che del sir nudrìa la mensa.

Preso alfin da spietata ira, le gole

di dodici segò prestanti figli

de' magnanimi Teucri, e sulla pira

scagliandoli, destò del fuoco in quella

l'invitto spirto struggitor, che il tutto

divorasse, e chiamò con dolorosi

gridi l'amico: Addio, Patròclo, addio

ne' regni anche di Pluto. Ecco adempite

le mie promesse: dodici d'illustre

sangue Troiani si consuman teco

in queste fiamme, ed Ettore fia pasto

delle fiamme non già, ma delle belve.

Queste minacce ei fea; ma gl'incitati

mastin la salma non toccâr d'Ettorre,

ché notte e dì sollecita la figlia

di Giove Citerea gli allontanava,

e il cadavere ugnea d'una celeste

rosata essenza che impedìa del corpo

strascinato l'offesa. Intanto Apollo

sul campo indusse una cerulea nube

che tutto intorno ricoprìa lo spazio

dal cadavere ingombro, onde alle membra

e de' nervi al tessuto innocua fosse

dell'igneo Sole la virtute attiva.

Ma del morto Patròclo il rogo ancora

non avvampa. Allor prende altro consiglio

il divo Achille. Trattosi in disparte,

ai due venti Ponente e Tramontana

supplicando, solenni ostie promette,

e in aurea coppa ad ambedue libando,

di venirne li prega, e intorno al morto

sì le fiamme animar, che in un momento

lo si struggano tutto, esso e la pira.

Udito la veloce Iride il prego,

ai venti lo recò, che accolti insieme

nella reggia di Zefiro un festivo

tenean convito. S'arrestò la Diva

su la marmorea soglia, e alla sua vista

sursero tutti frettolosi: ognuno

a sé chiamolla, ognun le offerse il seggio,

ma ricusollo la Taumànzia, e disse:

Di seder non è tempo: alle correnti

dell'Oceàno ritornar mi deggio

nell'etìope terreno ove s'appresta

agl'Immortali un'ecatombe, e bramo

ne' sacrifici aver mia parte io pure.

Ma il Pelìde te, Borea, e te, sonoro

Zefiro, prega di soffiar nel rogo

su cui giace di Pàtroclo la spoglia

dagli Achei tutti deplorata, e molte

vittime ei v'offre, se avvampar lo fate.

Così detto, disparve; e quei levârsi

con immenso stridor, densate innanzi

a sé le nubi. Si sfrenâr soffiando

sulla marina, sollevaro i flutti,

e di Troia arrivati alla pianura,

riunâr su la pira; e strepitoso

immane incendio si destò. Dai forti

soffii agitata divampò sublime

tutta notte la fiamma, e tutta notte

il Pelìde da vasto aureo cratere

il vino attinse con ritonda coppa,

e spargendolo al suol devotamente,

n'irrigava la terra, e l'infelice

ombra invocava dell'estinto amico.

Come un padre talor piange bruciando

l'ossa d'un figlio che morì già sposo,

e morendo lasciò gli sventurati

suoi genitori di cordoglio oppressi;

così dando alle fiamme il suo compagno,

geme il Pelìde, e crebri alti sospiri

traendo, intorno al rogo si strascina.

Come poi nunzio della luce al mondo

Lucifero brillò, dopo cui stende

sul pelago l'Aurora il croceo velo,

morì la vampa sul consunto rogo,

e per lo tracio mar, che rabbuffato

muggìa, tornaro alle lor case i venti.

Stanco allora il Pelìde, e dalla pira

scostatosi, sdraiossi, e dolce il sonno

l'occupò. Ma il tumulto e il calpestìo

de' capitani, che all'Atride in folla

si raccogliean, destollo; ei surse, e assiso

così loro parlò: Supremo Atride,

e voi primati degli Achei, spegnete

voi tutti or meco con purpureo vino

di tutto il rogo in pria la brage, e poscia

raccogliam di Patròclo attentamente

le sacrate ossa; e scernerle fia lieve,

imperocché nel mezzo ei si giacea

della catasta, e gli altri all'orlo estremo

separati, fur arsi alla rinfusa

e uomini e cavalli. Indi d'opimo

doppio zirbo ravvolte, in urna d'oro

le riporremo, finché vegna il giorno

ch'io pur di Pluto alla magion discenda.

Non vo' gli s'erga una superba tomba,

ma modesta. Potrete ampia e sublime

voi poscia alzarla, o duci achei, che vivi

dopo me rimarrete a questa riva.

Del Pelìde al comando obbedïenti

con larghi sprazzi di vermiglio bacco

di tutto il rogo ei spensero alla prima

le vive brage, e giù cadde profonda

la cenere. Adunâr quindi piangendo

del mansueto eroe le candid'ossa;

le composer nell'urna avvolte in doppio

adipe, e dentro il padiglion deposte,

di sottil lino le coprîr. Ciò fatto,

disegnâr presti in tondo il monumento,

ne gittaro dintorno all'arsa pira

i fondamenti, v'ammassâr di sopra

lo scavato terreno, e a fin condotta

la tomba, si partìan. Ma li rattenne

il Pelìde, e lì fatto in ampio agone

il popolo seder, de' ludi i premii

fe' dai legni recar; tripodi e vasi

e destrieri e giumenti e generosi

tauri e captive di gentil cintiglio

e forbite armature. E primamente

alla corsa de' cocchi il premio pose:

una leggiadra in bei lavori esperta

donzella a chi primier tocca la meta,

con un tripode a doppia ansa, e capace

di ventidue misure. Una giumenta

che al sest'anno già venne, ancor non doma,

e il sen già grave di bastarda prole

al secondo. Un lebète intatto e bello

e di quattro misure al terzo auriga;

al quarto un doppio aureo talento, e al quinto

una coppa dal foco ancor non tocca.

Surto in piedi allor disse: Atride, Argivi,

gioventù bellicosa, a voi dinanzi

ecco i premii che attendono nel circo

degli aurighi il valor. S'altra cagione

questi ludi eccitasse, i primi onori

miei per certo sarìan, ché la prestezza

de' miei destrieri non ha pari, e voi

lo vi sapete: perocché son essi

immortali, e donolli il re Nettunno

al mio padre Pelèo, che a me li cesse.

Queto io dunque starommi, e queti insieme

i miei cavalli. I miseri perduto

hanno il lor forte condottiero e mite,

che lavarne solea le belle chiome

alla chiara corrente, ed irrorarle

di liquid'olio rilucente; ed ora

piangonlo immoti, colle meste giubbe

al suol diffuse, e il cor di doglia oppresso.

Chïunque degli Achei pertanto ha speme

ne' cocchi e ne' destrier, si metta in punto.

Ciò disse appena, che animosi e pronti

presentârsi gli aurighi; Eumelo il primo,

regal germe d'Admeto, e delle bighe

perito agitator. Mosse secondo

il gagliardo Tidìde Dïomède

co' destrieri di Troe tolti ad Enea,

cui da morte campò l'opra d'Apollo.

Il biondo Menelao, sangue di Giove,

levossi il terzo, e sotto al giogo addusse

due veloci cavalli, il suo Podargo,

ed Eta, del fratello una puledra,

dell'aringo bramosa a meraviglia.

Donata al rege Agamennón l'avea

l'Anchisìade Echepòlo, onde francarsi

dal seguitarlo a Troia, e neghittoso

nell'opulenta Sicïon sua stanza

rimanersi a fruir le concedute

dal saturnio Signor molte ricchezze.

Del magnanimo Nèstore buon figlio

Antìloco aggiogò quarto i criniti

suoi cavalli di Pilo, ancor del cocchio

buoni al tiro. Si trasse il vecchio padre

a lui già saggio per se stesso, e un saggio

utile avviso gli porgea dicendo:

Antìloco, te amâr Giove e Nettunno

giovane ancora, e t'erudîr di tutta

l'arte equestre: perciò poco fia l'uopo

d'ammaestrarti, perocché sai destro

girar la meta: ma son tardi al corso

i tuoi destrieri, e qualche danno io temo.

Destrier più ratti han gli altri, ma non arte

né scïenza maggior. Dunque, o mio caro,

tutti richiama al cor gli accorgimenti,

se vuoi che il premio da tue man non fugga.

L'arte più che la forza al fabbro è buona;

coll'arte in mar da venti combattuto

regge il piloto la sua presta nave,

e coll'arte il cocchier passa il cocchiero.

Chi sol del cocchio e de' corsier si fida,

qua e là s'aggira senza senno; incerti

divagano i cavalli, ed ei non puote

più governarli. Ma l'esperto auriga,

benché meno valenti i suoi sospinga,

sempre ha l'occhio alla meta, e volta stretto,

e sa come lentar, sa come a tempo

con fermi polsi rattener le briglie,

ed osserva il rival che lo precede.

Or la meta, perché tu senza errore

la distingua, dirò. Sorge da terra

alto sei piedi un tronco di larìce

o di quercia che sia, secco e da pioggia

non putrefatto ancor. Stan quinci e quindi,

dove sbocca la via, due bianche pietre

da cui si stende tutto piano in giro

de' cavalli lo stadio. O che sepolcro

questo si fosse d'un illustre estinto,

o confin posto dalla prisca gente,

meta al corso lo fece oggi il Pelìde.

Tu fa di rasentarla, e vi sospingi

vicin vicino il cocchio e i corridori,

alcun poco piegando alla sinistra

la persona, e flagella e incalza e sgrida

il cavallo alla dritta, e gli abbandona

tutta la briglia, e fa che l'altro intanto

rada la meta sì che paia il mozzo

della ruota volubile toccarla;

ma vedi, ve', che non la tocchi, infranto

n'andrebbe il carro, offesi i corridori,

e tu deriso e di disnor coperto.

Sii dunque saggio e cauto. Ove la meta

trascorrer netto ti rïesca, alcuno

non fia che poi t'aggiunga o ti trapassi,

no, s'anco a tergo ti venisse a volo

quel d'Adrasto corsier nato d'un Dio,

il veloce Arïone, o quei famosi

che qui Laomedonte un dì nudrìa.

Divisate al figliuol distintamente

queste avvertenze, si raccolse il veglio

nell'erboso suo seggio. Ultimo intanto

con bella coppia di corsier superbi

Merïon nella lizza era venuto.

Montati i carri, si gittâr le sorti.

Agitolle il Pelìde, e uscì primiero

Antìloco; indi Eumelo, indi l'Atride,

fu quarto Merïon, quinto il fortissimo

Dïomede. Locârsi in ordinanza

tutti, ed Achille mostrò lor lontana

nel pian la meta a cui giudice avea

posto del padre lo scudier Fenice

venerando vegliardo, onde notasse

le corse attento, e riferisse il vero.

Stavano tutti colle sferze alzate

su gli ardenti destrieri, e dato il segno,

lentâr tutti le briglie, e co' flagelli

e co' gridi animaro i generosi

corsier che ratti si lanciâr nel campo,

e dal lido spariro in un baleno.

Sorge sotto i lor petti alta la polve

che di nugolo a guisa o di procella

si condensa, ed al vento abbandonate

svolazzano le giubbe. Or vedi i cocchi

rader bassi la terra, ed or sublimi

balzarsi, né perciò perde mai piede

degli aurighi veruno, e batte a tutti

per desiderio della palma il core;

e in un nembo di polve ognun dà spirto

a' suoi volanti alipedi. Varcata

la meta, e preso il rimanente corso

di ritorno alle mosse, allor rifulse

di ciascun la prodezza, allor si stese

nello stadio ogni cocchio. Innanzi a tutti

le puledre volavano veloci

del Ferezìade Eumelo; e dopo queste,

ma di poco intervallo, i corridori

di Troe, guidati dal Tidìde, e tanto

imminenti che ognor parean sul carro

montar d'Eumelo, a cui co' fiati ardenti

già scaldano le spalle, e già le toccano

colle fervide teste. E oltrepassato

forse l'avrebbe, o pareggiato almeno,

se al figlio di Tidèo Febo la palma

invidïando, non gli fea sdegnoso

balzar dal pugno la lucente sferza.

Lagrime d'ira e di dolor le gote

inondâr dell'eroe, vista d'Eumelo

lontanarsi più rapida la biga,

e per difetto di flagel più lenta

correr la sua. Ma Pallade d'Apollo

scorta la frode, e del Tidìde il danno,

presta a lui corse, e alla sua man rimessa

la sferza, aggiunse ai corridor la lena.

Indi al figlio d'Admeto avvicinossi

irata, e il giogo gli spezzò. Turbate

si svïar le cavalle, andò per terra

il timon, riversossi il cavaliero

presso alla ruota, e il cubito e la bocca

lacerossi e le nari, e su le ciglia

n'ebbe pesta la fronte: le pupille

s'empîr di pianto, s'arrestò la voce,

e Dïomede il trapassò sferzando

gli animosi destrier che innanzi a tutti

scappan di molto, perocché Minerva

gli afforza, e vincitor vuole il Tidìde.

Vien dopo questi Menelao cui preme

di Nèstore il figliuol che confortando

i paterni destrier, grida: Correte,

stendetevi prestissimi: non io

già vi comando gareggiar con quelli

del forte Dïomède, a' quai Minerva

diè l'ali al piede, e a lui la palma: solo

raggiungete l'Atride, e non soffrite

restando addietro, ch'Eta, una giumenta,

vi sorpassi di corso e disonori.

Che lentezza s'è questa? ov'è l'antica

vostra prestanza? Io lo vi giuro, e il giuro

s'adempirà; se pigri un premio vile

riporterem, negletti, anzi trafitti

da Nèstore sarete. Or via, volate,

ch'io di astuzia giovandomi senz'erro

trapasserò l'Atride nello stretto.

Antìloco sì disse, e quei temendo

le sue minacce rinforzaro il corso;

ed ecco dopo poco il passo angusto

del concavo cammin. V'era una frana

ove l'acqua invernal, raccolta in copia,

dirotta avea la strada, e tutto intorno

affondato il terren. Per quella parte

si drizzava l'Atride, onde il concorso

ischivar delle bighe. Ivi si spinse

Antìloco pur esso; e devïando

dalla carriera un cotal poco, e forte

flagellando i corsier, lo stringe, e tenta

prevenirlo. Temettene l'Atride,

e gridò: Dove vai, pazzo? rattieni,

Antìloco, i destrier: stretta è la via.

Aspetta che s'allarghi, e trapassarmi

potrai: qui entrambi romperemo i cocchi.

Antìloco non l'ode, e stimolando

più veemente i corridor, s'avanza.

Quanto è il tratto d'un disco da robusto

giovin scagliato per provar sue forze,

tanto trascorse la nestòrea biga.

Iscansossi l'Atride, e volontario

i suoi destrieri rallentò, temendo

che da quegli altri urtati in quello stretto

non gli versino il cocchio, e al suol stramazzino

essi medesmi nel voler per troppo

amor di lode acccelerarsi. Intanto

dietro al figlio di Nèstore l'Atride

gridar s'udiva: Antìloco, non avvi

il più tristo di te: va pure: a torto

noi saggio ti tenemmo: ma tu premio

non toccherai, per dio! se pria non giuri.

Quindi animando i suoi corsier, dicea:

non v'impigrite, non mi state afflitti;

pria di voi perderan quelli la lena,

ch'ei son vecchi ambidue. - Così lor grida,

e docili i destrieri alla sua voce

doppiaro il corso, e tosto li raggiunsero.

Nel circo assisi intanto i prenci achei

stavansi attenti ad osservar da lungi

i volanti cavalli che nel campo

sollevavan la polve. Idomeneo

re de' Cretesi gli avvisò primiero,

che fuor del circo si sedea sublime

a una vedetta. E di lontano udita

del primo auriga che venìa, la voce,

lo conobbe, e distinse il precorrente

destrier che tutto sauro in fronte avea

bianca una macchia, tonda come luna.

Rizzossi in piedi, e disse: O degli Achei

prenci amici, m'inganno, o ravvisate

quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano

da quei di prima, ed altro il condottiero.

Le puledre che dianzi eran davanti

forse sofferto han qualche sconcio. Al certo

girar primiere le vid'io la meta;

or come che pel campo il guardo io volga,

più non le scorgo. O che scappâr di mano

all'auriga le briglie, o ch'ei non seppe

rattenerne la foga, e non fe' netto

il giro della meta. Ei forse quivi

cadde, e infranse la biga, e le cavalle

deviâr furïose. Or voi pur anco

alzatevi e guardate: io non discerno

abbastanza; ma parmi esser quel primo

l'ètolo prence argivo Dïomede.

Che vai tu vaneggiando? aspro riprese

Aiace d'Oilèo. Quelle che miri

da lungi a noi volar son le puledre.

Più non sei giovinetto, o Idomenèo:

la vista hai corta, e ciance assai, né il farne

molte t'è bello ov'altri è più prestante.

Quelle davanti son, qual pria, d'Eumelo

le puledre, e ne regge esso le briglie.

E a lui cruccioso de' Cretesi il sire:

Malèdico rissoso, in questo solo

tra noi valente, ed ultimo nel resto,

villano Aiace, deponiam su via

un tripode o un lebète, e Agamennóne

giudichi e dica che corsier sian primi,

e pagando il saprai. Sorgea parato

a far risposta con acerbi detti

lo stizzito Oilìde, e la contesa

crescea: ma grave la precise Achille:

Fine, o duci, a un ontoso ed indecoro

parlar che in altri biasmereste. In pace

sedetevi e guardate. I gareggianti

corridori son presso, e voi ben tosto

chi sia primo saprete, e chi secondo.

Fra questo dire, a furia ecco il Tidìde

avanzarsi, e le groppe senza posa

tempestar de' cavalli che sublimi

divorano la via. Schizzi di polve

incessanti percuotono l'auriga.

D'ôr raggiante e di stagno si rivolve

dietro i ratti corsier sì lieve il cocchio

che appena vedi della ruota il solco

nella sabbia sottil. Giunto alle mosse,

fra le plaudenti turbe il vincitore

fermossi. Un rivo di sudor dal collo

e dal petto scorrea degli anelanti

corsieri, ed esso dal lucente carro

leggier d'un salto al suol gittossi, e al giogo

lo scudiscio appoggiò. Né stette a bada

Stenelo, il forte suo scudier, che pronto

il tripode si tolse e la donzella

premio del corso, e consegnato il tutto

ai prodi amici, i corridor disciolse.

Secondo giunse Antìloco che avea

non per rattezza di destrier precorso

Menelao, ma per arte; e nondimeno

questi a tergo gli è sì, che quasi il tocca.

Quanto si scosta dalla ruota il piede

di corsier che pel campo alla distesa

tragge sul cocchio il suo signor, lambendo

co' crini estremi della coda il cerchio

del volubile giro che diviso

da minimo intervallo ognor si volve

dietro i rapidi passi; iva l'Atride

sol di tanto discosto allor dal figlio

di Nèstore, quantunque egli da prima

fosse rimasto un trar di disco indietro.

Ma dell'agamennònia Eta fu tale

la prestezza e il valor, che tosto il giunse.

E l'avrìa pure oltrepassato, e fatta

non dubbia la vittoria, ove più lunga

stata si fosse d'ambedue la corsa.

Seguìa l'Atride Merïon, preclaro

scudier d'Idomenèo, distante il tiro

d'una lancia, perché belli, ma pigri

i corridori egli ebbe, e perché desso

era il men destro nel guidar la biga.

Ultimo ne venìa d'Admeto il figlio,

a stento il cocchio traendo, e dinanzi

cacciandosi i destrieri. Lo compianse,

come lo vide, Achille, e circondato

dagli Achei, profferì queste parole:

Ultimo giunge il più valente. Or via,

diamgli il premio secondo; egli n'è degno.

Ma il primo al figlio di Tidèo si resti.

Lodâr tutti il decreto, e fra gli applausi

degli Achei sull'istante egli donata

la giumenta gli avrìa, se posta in campo

la sua ragione Antìloco al Pelìde

non si volgea dicendo: Achille, io teco

mi corruccio davver, se il tuo disegno

metti ad effetto. Perché un Dio gli offese

i cavalli ed il cocchio, e non gli valse

la sua prodezza, mi vorrai tu dunque

il mio premio rapir? Ché non pors'egli

prima ai numi i suoi voti? Ei non sarìa

ultimo giunto nell'illustre aringo.

Ché se di lui pietà ti move, e questo

al cor t'è grato, nella tenda hai molte

d'auro e bronzo conserve, hai molto gregge,

hai fanciulle e cavalli. E tu il presenta

di queste cose, e sian maggiori ancora,

ma in altro tempo, o se il vuoi, pure adesso,

onde ten vegna degli Achei la lode.

Ma questa io non vo' darla, e dovrà meco

sperimentarsi ogni uom che la pretenda.

Delle franche d'Antìloco parole

compiaciuto, sorrise il divo Achille,

cui caro amico egli era; e gli rispose:

Antìloco, tu vuoi che s'abbia Eumelo

di ciò che in serbo io tengo, altro presente;

e l'avrà. Gli darò d'Asteropeo

la di bronzo lorica, a cui dintorno

scorre un bell'orlo di fulgente stagno;

lavoro di gran pregio. - E così detto,

al suo fedele Automedonte impose

di recar dalla tenda la lorica.

Volò quegli, e recolla al suo signore

che in man la pose dell'allegro Eumelo.

Contro Antìloco allor surse il cor pieno

di doglia e d'ira Menelao. L'araldo

misegli tosto nelle man lo scettro,

e silenzio intimò. Quindi l'eroe

così a dir prese: O tu, che per l'innanzi

grido avevi di saggio, che facesti?

Disonestasti, o Antìloco, la mia

gloria, e cacciati per inganno avanti

li tuoi corsieri assai da meno, i miei

sconciamente offendesti. Or voi qui fate,

prenci achivi, ragione ad ambedue

senza rispetti; ch'io non vo' che poi

dica qualcuno degli Achei: L'Atride

colle menzogne Antìloco aggravando

via la giumenta si menò, vincendo

di cavalli non già, ma di possanza

e di forza. Ma che? Senza paura

di biasmo io stesso finirò la lite,

e fia retto il giudizio. Orsù, t'accosta,

prode alunno di Giove, e giusta il rito

statti innanzi alla biga, e d'una mano

impugnando la sfera agitatrice,

e sì coll'altra i corridor toccando,

giura a Nettunno non aver volente

né con frode impedito il cocchio mio.

Re Menelao, mi compatisci, accorto

l'altro rispose: giovinetto ancora

son io: tu d'anni e di virtù mi vinci,

e dell'etade giovanil ben sai

i difetti: cuor caldo e poco senno.

Siimi dunque benigno. Ecco a te cedo

l'ottenuta giumenta; e s'altro brami

del mio, darollo di cuor pronto, e tosto,

anzi che l'amor tuo per sempre, o prence,

perdere e farmi ai sommi iddii spergiuro.

Sì dicendo, di Nèstore il buon figlio

la giumenta condusse, ed alle mani

la ponea dell'Atride a cui di gioia

intenerissi il cor. Siccome quando

su i sitibondi culti la rugiada

spargesi e avviva le crescenti spighe:

a te del pari, o Menelao, nel petto

si sparse la letizia, e dolcemente

gli rispondesti: Antìloco, a te cedo,

deposta l'ira, io stesso. Unqua non fosti

né leggier né bizzarro. Oggi fu vinto

da sconsigliata giovinezza il senno.

Ma il ben guardarsi dagl'inganni è bello

co' maggiori. Nessun m'avrìa placato

sì facilmente degli Achei: ma molto

coll'egregio tuo padre e col fratello

per mia cagion tu soffri, e molto sudi;

perciò m'arrendo al tuo pregare, e questa,

ch'è mia, ti dono, a fin che ognun si vegga

che né fier né superbo ho il cor nel petto.

Diè, ciò detto, d'Antìloco al compagno

Nöemón la giumenta, indi si tolse

il fulgido lebète; e Merïone,

che quarto giunse, i due talenti d'oro.

Restava il quinto guiderdon, la coppa.

La prese Achille, e traversando il pieno

circo, accostossi al buon Nestorre, e lieto

presentolla all'eroe con questi accenti:

Tieni, illustre vegliardo, e questo dono

ricordanza ti sia delle funèbri

pompe del nostro Pàtroclo, cui, lasso!

non rivedrem più mai. Questo vogl'io

che gratuito sia, poiché del cesto,

e dell'arco il certame e della lotta,

e del corso pedestre a te si vieta

dalla triste vecchiezza che ti grava.

Tacque, e la coppa fra le man gli mise.

Lieto il veglio accettolla, e sì rispose:

Ben parli, o figlio: le mie forze tutte

sono inferme, o mio caro: il piè va lento:

dispossato mi pende dalle spalle

l'un braccio e l'altro. Oh! giovine foss'io

e intero di vigor siccome il giorno

che in Buprasio gli Epei diero al sepolcro

il rege Amarincèo, proposti i ludi

dai regali suoi figli! Ivi nessuno

né degli Epei né de' medesmi Pilii

pari mi stette di valor, né manco

de' magnanimi Etòli. Io vinsi al cesto

il figliuolo d'Enòpe Clitomède,

Alceo Pleurònio nella lotta a cui

m'avea sfidato: superai nel corso

l'agile Ificlo, e nel vibrar dell'asta

Polidoro e Filèo. Soli all'equestre

lizza innanzi m'andâr d'Attore i figli,

che due contr'un gelosi invidiârmi

una vittoria d'infinito prezzo.

Indivisi gemelli, uno reggeva

sempre sempre i destrier, l'altro di sferza

li percotea. Tal fui già tempo: or lascio

siffatte imprese ai giovinetti, e forza

m'è l'obbedire alla feral vecchiezza.

Ma tra gli eroi fui chiaro anch'io. Tu segui

del morto amico ad onorar la tomba

co' fùnebri certami. Il tuo bel dono

m'è caro, e il prendo. Mi gioisce il core

al veder che di me, che t'amo, ognora

sei memore, e sai quale al mio canuto

crine si debba dagli Achivi onore:

di ciò ti dien gli Dei larga mercede.

Tutta udita di Nestore la lode,

entrò il Pelìde nella calca, e il duro

pugilato propose. Addur si fece

ed annodar nel circo una gagliarda

infaticabil mula, a cui già il sesto

anno fiorìa, non doma, ed a domarsi

malagevole: premio al vincitore.

Pel vinto pose una ritonda coppa.

Indi surse, e parlava: Atridi, Achei,

ecco i premii alli due che valorosi

vorranno al cesto perigliarsi. Quegli,

cui doni amico la vittoria il figlio

di Latona, e l'affermino gli Achei,

s'abbia la mula, e il perditor la coppa.

Disse, e un uom si levò forte, membruto,

pugilatore assai perito, Epèo,

di Panope figliuol. Stese alla mula

costui la mano, e favellò: S'accosti

chi vuol la coppa, ché la mula è mia.

Niun degli Achivi vincerammi, io spero,

nel certame del cesto, in che mi vanto

prestantissimo. E che? forse non basta

che agli altri io ceda in battagliar? Non puote

a verun patto un solo esser di tutte

arti maestro. Io vel dichiaro, e il fatto

proverà ciò che dico: al mio rivale

spezzerò il corpo e l'ossa. Abbia vicino

molti assistenti a trasportarlo pronti

fuor della lizza da mie forze domo.

Tacque, e tutti ammutiro. Eravi un figlio

del Taleònio Mecistèo, di quello

che un dì nell'alta Tebe ai sepolcrali

ludi venuto del defunto Edippo,

tutti vinse i Cadmei. Costui di nome

Eurïalo, e guerrier di divo aspetto,

fu il solo che s'alzò. Molto dintorno

gli si adoprava il grande Dïomede,

e co' detti il pungea, lui desïando

vincitore. Egli stesso al fianco il cinto

gli avvinse, e il guanto gli fornì di duro

cuoio, già spoglia di selvaggio bue.

Come in punto si furo, ambi nel mezzo

presentârsi gli atleti, e sollevate

l'un contra l'altro le robuste pugna,

si mischiâr fieramente. Odesi orrendo

sotto i colpi il crosciar delle mascelle,

e da tutte le membra il sudor piove.

Il terribile Epèo con improvvisa

furia si scaglia all'avversario, e mentre

questi bada a mirar dove ferire,

Epèo la guancia gli tempesta in guisa,

che il meschin più non regge, e balenando

con tutto il corpo si rovescia in terra.

Qual di Borea al soffiar l'onda sul lido

gitta il pesce talvolta, e lo risorbe;

tale l'invitto Epèo stese al terreno

il suo rivale, e tosto generosa

la man gli porse, e il rïalzò. Pietosi

accorsero del vinto i fidi amici

che fuor del circo lo menâr gittante

atro sangue, e i ginocchi egri traente

col capo spenzolato, ed in disparte

condottolo, il posâr de' sensi uscito:

ed altri intorno gli restaro, ed altri

a tor ne giro la ritonda coppa.

Tronco ogn'indugio, Achille il terzo giuoco

propose, il giuoco della dura lotta,

e de' premii fe' mostra; al vincitore

un tripode da fuoco, e a cui di dodici

tauri il valore dagli Achei si dava,

ed al perdente una leggiadra ancella

quattro tauri estimata, e che di molti

bei lavori donneschi era perita.

Rizzossi Achille, e a quegli eroi rivolto,

Sorga, disse, chi vuole in questo ludo

del suo valor far prova. Immantinente

surse l'immane Telamònio Aiace,

e il saggio mastro delle frodi Ulisse.

Nel mezzo della lizza entrambi accinti

presentârsi, e stringendosi a vicenda

colle man forti s'afferrâr, siccome

due travi che valente architettore

congegna insieme a sostener d'eccelso

edificio il colmigno, agli urti invitto

degli aquiloni. Allo stirar de' validi

polsi intrecciati scricchiolar si sentono

le spalle, il sudor gronda, e spessi appaiono

pe' larghi dossi e per le coste i lividi

rosseggianti di sangue. Ambi del tripode

a tutta prova la conquista agognano,

ma né Ulisse può mai l'altro dismuovere

e atterrarlo, né il puote il Telamònio,

ché del rivale la gran forza il vieta.

Gli Achei noiando omai la zuffa, Aiace

all'emolo guerrier fe' questo invito:

Nobile figlio di Laerte, in alto

sollevami, o sollevo io te: del resto

abbia Giove la cura. E così detto,

l'abbranca, e l'alza. Ma di sue malizie

memore Ulisse col tallon gli sferra,

al ginocchio di retro ove si piega,

tale un sùbito colpo, che le forze

sciolse ad Aiace, e resupino il gitta

con Ulisse sul petto. Alto levossi

de' riguardanti stupefatti il grido.

Tentò secondo il sofferente Ulisse

alzar da terra l'avversario, e alquanto

lo mosse ei sì, ma non alzollo. Intanto

l'altro gl'impaccia le ginocchia in guisa

che sossopra ambedue si riversaro

e lordârsi di polve. E già risurti

sarìano al terzo paragon venuti,

se il figlio di Pelèo levato in piedi

non l'impedìa, dicendo: Oltre non vada

la tenzon, né vi state, o valorosi,

a consumar le forze. Ambo vinceste,

e v'avrete egual premio. Itene, e resti

agli altri Achivi libero l'aringo.

Obbedîr quegli al detto, e dalle membra

tersa la polve, ripigliâr le vesti.

Pose, ciò fatto, i premii alla pedestre

corsa: al primo un cratere ampio d'argento,

messo a rilievi, contenea sei metri,

né al mondo si vedea vaso più bello.

Era d'industri artefici sidonii

ammirando lavoro, e per l'azzurre

onde ai porti di Lenno trasportato

l'avean fenicii mercatanti, e in dono

cesso a Toante. A Pàtroclo poi diello

il Giasònide Eunèo, prezzo del figlio

di Prìamo Licaone: ed or l'espose

premio il Pelìde al vincitor del corso

in onor dell'amico. Un grande e pingue

tauro al secondo; all'ultimo d'ôr mette

mezzo talento, e ritto alza la voce:

Sorga chi al premio delle corse aspira.

E sursero di sùbito il veloce

Aiace d'Oilèo, lo scaltro Ulisse,

e il Nestòride Antìloco, il più ratto

de' giovinetti achei. Posti in diritta

riga alle mosse, additò lor la meta

il Pelìde, e diè il segno. In un baleno

s'avventâr dalla sbarra, e innanzi a tutti

l'Oilìde spiccossi: Ulisse a lui

vicino si spingea quanto di snella

tessitrice al sen candido la spola,

quando presta dall'una all'altra mano

la gitta, e svolge per la trama il filo,

e sull'opra gentil pende col petto:

così l'incalza Ulisse, e col seguace

piè ne preme i vestigi anzi che s'alzi

il polverìo dintorno; e sì correndo

gli manda il fiato nella nuca. Un grido

sorge di plauso d'ogni parte, e tutti

gli fan cuore alla palma a cui sospira.

Eran del corso ormai presso alla fine,

quando a Minerva l'Itaco dal core

mandò questa preghiera: Odimi, o Dea,

e soccorri al mio piè. - La Dea l'intese,

gli fe' lievi le membra, i piè, le braccia;

e come fur per avventarsi entrambi

ad un tempo sul premio, l'Oilìde

da Minerva sospinto sdrucciolò

in lubrico terren sparso del fimo

de' buoi mugghianti dal Pelìde uccisi

di Pàtroclo alla pira. Ivi il caduto

nari e bocca insozzossi. Il precorrente

divo Ulisse il cratere ampio si prese,

e l'Oilìde il bue. Della selvaggia

fera il corno impugnò l'eroe doglioso,

la lordura sputando, e fra la turba

ruppe in questo lamento: Empio destino!

Per certo i piedi mi rubò la Dea

che da gran tempo va d'Ulisse al fianco,

e qual madre sel guarda. - Accompagnaro

tutti il suo cruccio con un dolce riso.

Ultimo giunto Antìloco si tolse

l'ultimo premio, e sorridendo disse:

Amici, i numi, lo vedete, onorano

i provetti mortali. Aiace innanzi

mi va di poca etade: Ulisse al tempo

de' nostri padri è nato, e nondimeno

egli è rubizzo e verde, e nullo al corso

superarlo potrìa, tranne il Pelìde.

Questo sol disse: e l'esaltato Achille

così rispose: Antìloco, non fia

detta invan la tua lode. Eccoti d'oro

altro mezzo talento. - E sì dicendo

gliel porse, e quegli giubilando il prese.

Dopo ciò, fe' recarsi, e nell'arena

depose Achille una lunghissim'asta,

uno scudo ed un elmo, armi rapite

già da Patròclo a Sarpedonte; e ritto

nel mezzo degli Achei, Vogliamo, ei disse,

che per l'esposto guiderdone armati

due guerrieri de' più forti con acuto

tagliente acciar davanti all'adunanza

combattano. Chi pria punga la pelle

dell'avversario, e rotte l'armi, il sangue

ne tragga, avrassi questo brando in dono

di tracia lama, e bello e tempestato

d'argentei chiovi. Di quest'arme io stesso

Asteropèo spogliai. L'altre saranno

premio comune. Ai combattenti io poscia

nelle tende farò lauto banchetto.

Surse subitamente al fiero invito

lo smisurato Telamònio Aiace,

surse del par l'invitto Dïomède,

e armatisi in disparte ambo nel campo

pronti alla pugna s'avanzâr gli eroi

con terribili sguardi. Alto stupore

tutti occupava i circostanti Achei.

L'uno all'altro appressati a fiero assalto

si disserrâr tre volte, e tre alla vita

impetuosi s'investîr. Primiero

Aiace traforò di Dïomède

il rotondo brocchier, ma non la pelle

dall'usbergo difesa. Indi il Tidìde

sopra la penna dello scudo all'altro

spinse rapido l'asta, e nella strozza

gliel'appuntò. D'Aiace al fier periglio

spaventârsi gli Achivi, e della pugna

gridâr la fine, e premio egual. Ma il brando

col bel cinto l'eroe diello al Tidìde.

Grezzo, qual già dalla fornace uscìo,

un gran disco il Pelìde allor nel mezzo

collocò. Lo solea l'immensa forza

scagliar d'Eezïone; a costui morte

diè poscia il divo Achille, e nelle navi

con altre spoglie si portò quel peso.

Ritto alzossi, e gridò: Sorga chi brama

così bel premio meritarsi. In questo

il vincitor s'avrà per cinque interi

giri di Sole di che all'uopo tutto

provveder de' suoi campi anche remoti:

né suoi bifolchi né pastori andranno

per bisogno di ferro alla cittade,

ché questo ne darà quanto è mestiero.

Levossi il bellicoso Polipete;

levossi Leontèo, forza divina;

levossi Aiace Telamònio, e seco

il muscoloso Epèo. Locârsi in fila,

e primo Epèo scagliò l'orbe rotato,

ma sì mal destro, che ne rise ognuno.

Il rampollo di Marte Leontèo

fu secondo a lanciar: terzo il gran figlio

di Telamone, che con man robusta

ogni segno passò: quarto alla fine

con fermo polso Polipete il disco

afferrò. Quanto lungi un pastorello

gitta il vincastro che rotato in alto

vola sopra l'armento; andò di tanto

fuor del circo il suo tiro. Applause tutto

il consesso: affollârsi i fidi amici

del forte Polipete, e alla sua nave

portâr del disco la pesante massa.

Invitò quindi i saettieri, e in mezzo

dieci bipenni espose e dieci accette;

e piantato lontano nell'arena

un albero navale, avvinse a questo

con sottil fune al piede una colomba,

segno alle frecce. Le bipenni prenda

chi l'augel coglie, e le si porti. Quello

che il fallisca, e a toccar vada la fune,

essendo inferïor, s'abbia l'accette.

Ciò detto appena, presentossi il forte

re Teucro, e Merïon d'Idomenèo

prode sergente, e in un sonoro elmetto

agitate le sorti, uscì primiero

Teucro, e tosto lo stral tirò di forza.

Ma perché non aveva votata a Febo

di primo-nati agnelli un'ecatombe,

sfallì l'augello (ché tal lode il Dio

gl'invidïò); sol colse al piè la fune

che legato il tenea. Tagliolla il dardo;

libera la colomba a volo alzossi

per lo cielo, e fuggì; cadde la fune,

e di plausi sonar s'udìa l'arena.

Ratto allora di mano a Teucro tolse

Merïon l'arco, e ben presa la mira

colla cocca sul nervo, al saettante

nume promise un'ecatombe; e in alto

adocchiata la timida colomba

che in vario giro s'avvolgea, la colse

sotto l'ala. Passolla il dardo acuto,

e ricadde, e s'infisse alto nel suolo

di Merïone al piè. Ma la ferita

colomba si posò sovra l'antenna,

stese il collo, abbassò l'ali diffuse,

e dal corpo volata la veloce

alma, dal tronco piombò. Stupefatte

guardavano le turbe. Allor si tolse

le scuri Merïon, Teucro l'accette.

Produsse Achille all'ultimo nel mezzo

una lunga lunga asta, ed un lebète

non vïolato dalle fiamme ancora,

del valore d'un tauro, e sculto a fiori,

premio alla prova delle lance. Alzossi

l'ampio-regnante Atride Agamennóne

e il compagno fedel del re cretese

Merïon. Ma levatosi il Pelìde,

trasse innanzi, e parlò: Figlio d'Atrèo,

sappiam noi tutti come tutti avanzi

e nel vibrar dell'asta e nella possa.

Prenditi dunque questo premio, e il manda

alla tua nave. A Merïon daremo,

se il consenti, la lancia; ed io ten prego.

Acconsentì l'Atride. A Merïone

diede Achille la lancia, ed all'araldo

d'Agamennón lo splendido lebète.