Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον
LIBRO DECIMO
Erano anco i Trojan fuor delle mura
Della città di Priamo, armati insieme Co’ carri, e velocissimi destrieri. Perocché ardendo i già caduti in guerra Dell’Argolico stuol temean l’insulto. Cui poscia che mirar ver la cittade Muover veloce impetuoso il piede, Con gran prestezza accumular la terra Sovra gli estinti, e fecer lor sepolcro: Perché soverchio in lor potea la tema. A costor sì dolenti, e mesti il core, Così parlò Polidamante, il quale Sovra tutt’altri era prudente, e saggio: Amici, omai non tollerabilmente Contro noi furiando arrabbia Marte; Che dunque non cerchiam, se a questa guerra Possa trovarsi pur qualche rimedio? Or non vedete voi, che ognor più forza Vanno acquistando incontro a noi gli Argivi? Su dunque via, nell’intagliate torri Saliamo, ed ivi dimoriam pugnando E giorno, e notte, infinché, ovvero i Greci Ritornino di Sparta ai larghi campi, Ovver quì assisi intorno al muro, il tempo Menino neghittosi, e senza gloria. Perché già non saran, cred’io, potenti Di romper l’alto giro, ancorché molta Vi spendano fatica, perché l’opre Già non son degli Dei, debili, e frali. Né mancheranno a noi bevanda, ed esca: Perché del ricco Priamo entro l’ostello Sempre v’ha vettovaglia in tanta copia, Che a molti basterìa per lungo tempo, Ed abbondantemente al vitto, quando Venisse anco chiamato a nostra aita Tre volte tanto più copioso stuolo. Così diss’egli, e in questa guisa allora S’oppose a’ detti suoi d’Anchise il figlio: Polidamante, or come dir te ponno Le genti saggio, se consigli, e vuoi, Che noi soffriam nella città rinchiusi Di questa guerra una continua pena? Non staran qui come tu stimi, lenti Gli Argivi, ed oziosi, e mesi ed anni, Ma noi ceder mirando, e ritirarci, Faranno impeto in noi con maggior forza; E certo fia grave tormento il nostro Il vedersi morir nel patrio muro, Se lungo il tempo fia di quest’assedio: Perocché alcun non sia, che a noi, da Tebe Di Cerere conduca il dolce frutto, Quivi entro chiusi, e da Meonia il vino, Talché miseramente i nostri giorni Benché sì ne difenda il forte muro, Vinti qui finirem dall’aspra fame. O dunque voglia abbiam di liberarci Da morte acerba, e dalle crude Parche, O forza è pur, che con travaglio, e pena Con infelice fin perdiam la vita. Armianci tutti, e noi co’ nostri figli, E i venerandi padri opriamo il ferro. Giove n’aiterà, poiché da lui Principio tragge il nostro sangue illustre. E se pur fia che in odio suo moriamo Gloriosi morrem, perocché è meglio Per la patria pugnando il trovar morte, Che miseri morir senza far nulla. Disse ed i detti suoi secondar tutti Con favorevol grido, e quindi a gara Tosto s’armar di scudi, e lancie, ed elmi. Di Giove infaticabile mirando Gli occhi stavan dal cielo, i Teucri armarsi Contro i Greci in battaglia, e desioso, Che seguisse fra lor crudel conflitto, E di questi e di quelli accendea i cori Perché dovea Alessandro in quel certame, Per la mogliera affaticando in arme, Restar per man di Filottete ucciso. Questi in un luogo la Discordia addusse La zuffa preparando, agli occhi altrui Celata, poi che sanguinosa nebbia Le ricopria le spalle, iva costei Or nel campo Trojano, or nell’Achivo Girando, e commovendo allo contrasto. Il terrore, e l’orror l’erano a tergo Feri ministri, alla feroce suora Del padre lor pregio, ed onor penando. Ella nel moto impetuoso gìa Di piccioletta in pria ognor crescendo; L’arme avea di diamante, asperse intorno D’immondo sangue, e gìa crollando l’asta Crudel per l’aere: a’ piè le si movea Sotto la fosca terra, ed essa orrende Dalle fauci spargea faville, e fiamme; Dava altissime voci, alla battaglia I soldati incitando; ed essi pronti Alla tenzon movean: tal fiera Dea Era lor duce alla terribile opra, Di questi era il rumor simile a quello Del vento, allor che impetuoso spira Nel cominciar di primavera, quando Si veston già l’eccelse piante, e i boschi Di tenerelle frondi: od a quel suono, Che suol destar fra gli aridi virgulti Tremando il fuoco ardente: ovvero a quello, Che rauco s’ode, quando il flutto immenso Da Strepitoso vento è desto all’ira, E stride altero sì, che le ginocchia La tema scuote a’ miseri nocchieri: Così nel moto di costor veloce Grave fremea la spaziosa terra. Fra lor gittossi la Discordia intanto, E questo e quello alla battaglia spinse. Il primiero Enea fu, che fra gli Argivi Uccise Arpalion, che d’Arizelo Nacque, e di lui nella Beozia terra Anafinome sgravossi, ed egli vago Di pugnar per gli Achei, sen venne a Troja Con Protenore il divo. Ora costui Sotto il tenero ventre Enea ferendo, Spogliò dell’alma, e della dolce vita. Ialo indi atterrò presso a costui Figlio del buon Tersandro, entro la gola Con acuto quadrel percosso; questi Prodotto fu nella marina Creta Dalla Diva Aretusa in riva all’acque Del Leteo fiume; onde gran doglia al core Sentinne Idomeneo Cretese duce. Di Pelide il figliuol quindi con l’asta Paterna in un balen dodici eroi Di vita sciolse, e Cebro fu il primiero, Arione il secondo, e dopo questi Pasiteo, Ismino, Imbrasio, e Chidio, e Flege; Mneseo con questi, ed Eunomo insieme, Amfinomo con lor, Fasi, e Galeno, Galeno, il qual di Gargano sublime Abitator fra’ bellicosi Teucri Di tutti era il migliore; e venne questi Con abbondante, e ricco stuolo a Troja; Perocché molti e preziosi, e grandi Doni promessi avea Priamo a lui Da Dardano disceso, ed era ascoso Il proprio fato al misero, dovendo Egli morir nella battaglia rea, Pria che dato a lui fosse il portar fuori Dall’albergo di Priamo i doni illustri. Allor la fera Parca incontro spinse Eurimene agli Achei, del coraggioso Enea compagno, e gran valor dal petto Destogli, affinché molti avendo ucciso, Egli sortisse poi l’ultimo fato. Uccidea questo, e quel simile a fera Spietata, onde da lui, che sull’estremo Del viver suo senza stimar periglio Grand’impeto facea, prendean la fuga. E certo avria quel dì mirabil opra Fatto costui pugnando in quell’assalto, Ma si stancaro a lui le mani, e il ferro Rintuzzossi dell’asta, e non poteo Più l’elsa giunta a se tener la spada. Cui poscia spezzò il fato, e con la lancia Nello stomaco lui Mege ferìo Talché sgorgò fuor della bocca il sangue, E con la piaga in un morte s’aggiunse. Costui caduto, i due scudier d’Epeo Deileonte, ed Amfion tentaro Di spogliar lui dell’arme, onde il feroce Enea, mentre all’ucciso erano intorno, Miseramente ad ambedue diè morte, Come se alcun, mentre importuno insulto Fan le vespe d’autunno alle dolci uve, L’uccide sui racemi, onde pria morte Han, che possan gustar soave il frutto: Tal questi uccise Enea, priachè all’estinto Potessero levar predando l’arme. Il figlio di Tideo Menonte uccise, Ed Anfinoo in un perfetti eroi. Pari Demoleonte infra gli estinti Mandò d’Ippaso figlio, il qual primiero Nella terra Laconia ebbe l’ostello Non lunge all’acque del profondo Eurota. A Troja venne questi, e seguì il duce Menelao bellicoso: ora a costui Diè morte Pari, avendo lui trafitto Con un quadrel sotto la destra poppa, Sì che da’ membri suoi l’alma fuggìo. Teucro l’inclito Zechi uccise figlio Di Medon, che abitò Frigia copiosa Di gregge, ov’è delle comate Muse Il sacro speco; ove la Diva Luna Dall’alto cielo Endimion mirando Nel sonno involto appresso a’ buoi discese A lui; sì fero a lei forza facea L’amor, benché immortal, del giovanetto. E sonvi ancor del luogo, ov’essa giacque Segni sotto le quercie, intorno a cui Delle vacche diffuso appar nel bosco Il latte, e fino ad or le genti vanno Lui contemplando, ed a colui, che il mira Alquanto da lontan, bianco rassembra Latte: ma se a lui presso uom muove il piede È candid’acqua, che scortata alquanto Nel corso indura, e si converte in marmo. Assaltò Mege di Fileo figliuolo Alceo con l’asta, e trapassando a lui Il cor, che sempre palpitando muove, Fé, che la verde età da lui si sciolse; Né più raccolser lui dal lacrimoso Conflitto, ciò bramando, i suoi parenti Miseri, Filli bella, e il suo consorte Margasio, che vicin menar la vita Del chiaro Arpaso all’onda, ove il Meandro Col terribil suo corso, e strepitoso Colmo d’acque infinite, e gonfio d’ira Il flutto avvolge impetuoso, eterno. Il figlio d’Oileo nell’incontrarsi Nel forte Scilaceo fedel compagno Di Glauco, ferì lui poco di sopra Lo scudo, e trapassò la punta acerba Per l’ampia spalla, e zampillò scorrendo Il sangue per lo scudo; e non l’uccise Però; poiché prescritto il dì fatale Gli era nel far ritorno appresso ai muri Della sua cara patria. Perché, quando Ilion desolata ebber gli Achei, Dalla guerra campato, in Licia venne Solo, e senza compagni, e lui vicino Alla città, le femmine raccolte Chieser de’ figli, e de’ mariti, ed egli Di tutti narrò lor l’ultimo fato; Ond’esse fatto a lui d’intorno cerchio L’ucciser con le pietre, e non godeo Dell’aver fatto al patrio suol ritorno; Ma grave sospirando, i sassi a lui Fecer coverchio, e misero sepolcro Gli fur gli stessi dardi appresso al bosco Ed alla statua di Bellerofonte Il forte. Or quivi Scilaceo si giace Alla Titania presso illustre rupe. Ma questi ancor che il dì fatal morendo Sortito avesse, alfin, siccome piacque Al chiaro figlio di Latona, in guisa D’un Dio viene onorato, e la sua gloria Non cade mai per aggirar di tempo. Il figlio di Peante appresso a questi Dejoneo conquise, ed Acamante D’Antenore figliuol nell’arme esperto: D’altri soldati ancor copiosa turba Ancise, furiando infra i nemici All’indomito Marte eguale, ed anco Al risonante fiume, il qual gonfiando Spezza le lunghe sponde, allor che scende Impetuoso da lontana rupe; E benché sia per se rapido, eterno, Misto s’avvolge alla cadente pioggia: Talché neppur gli scogli stessi alteri POSSON lui ritener, che immenso freme; Tal del chiaro Peante il figlio ardito Non era alcun, che sostener di vista Osasse pure, od appressarsi a lui, Perché chiudea nel petto estrema forza, E l’arme si vestìa del valoroso Alcide ornate e belle; entro al cui cinto Lucido si vedean crudi orsi audaci, Orride linci, e di terribil vista Sotto le ciglia i pardi, appresso a cui Vedeansi lupi arditi, e in un di bianche Zanne armati i cinghiali, e i leon forti, E questi sì ben finti apparean quivi, Che a vive fere in tutto eran sembianti, Vedeansi appresso a queste intorno al giro Le guerre espresse, e le crudeli stragi; Tante cose, e sì varie avea d’intorno Il bel cinto scolpite; e d’altre appresso Ornata si vedea la gran faretra. Ivi di Giove il figlio era distinto Mercurio snello, e sovra il piè veloce, Il qual d’Inaco là sovra le sponde Uccideva il grand’Argo, Argo, in cui gli occhi Donavansi alternando al sonno in preda. Era ivi anco Fetonte, il qual dal carro Fulminato del Po cadea nell’onda: Ardea la terra, e. quasi vero al cielo Da lei combusta alzar vedeasi il fumo. D’altra parte uccidea Perseo divino L’orribile Medusa, ove le stelle Vansi a lavar nell’acque, ove l’estremo Confine è della terra, e le sue fonti Ha l’Oceán profondo, in quella parte Ove cadendo il Sol la notte sorge. Eravi ancor con infrangibil laccio Dell’invitto Giapeto il gran figliuolo Pendente giù del Caucaso sublime Dall’alte rupi, e il rinascente core A lui squarciava l’aquila vorace Col rostro, ed ei dolente apparea in vista. Or queste cose avea l’inclita mano Di Vulcan fabbricato al forte Alcide, Il qual lasciolle al figlio di Peante, Ch’era di lui familiare amico. In queste dunque altero, e glorioso Già le genti atterrando, infin che Pari Pure assaltollo, con le man trattando Dolorose saette, audace, e l’arco Ritorto: perché questi avea vicino Omai l’ultimo giorno. Egli dal nervo Disserrò la saetta, il qual sonando Con impeto cacciolla, e non a vuoto Gli fuggì dalla man; sebben da lui Il colpo errò, che si distorse alquanto; Ma Cleodoro illustre un poco sopra Alla mammella colse, e passò il dardo Fin alla spalla, perché il largo scudo Ei non avea, che difendesse lui Dalla grave ruina, e così nudo Era fuggito, perché A lui col taglio Della ferrata lancia avea disciolto Polidamante recidendo i lacci, Onde pendea dagli omeri, lo scudo; E così ritirato ei combattea Con la terribil asta, allor che in lui Si fisse altronde spinto il crudo strale. Perocché in guisa tal dovea dar morte Al buon figliuol di Lerno il duro fato, Cui partorìo nella felice terra Amfiale di Rodi. Or poiché ucciso Ebbe Pari costui col fero strale, Allor del buon Peante il forte figlio Tendendo in un balen rapido l’arco, In questa guisa a lui parlò gridando: Oh! cane, ecco ti uccido, ecco ti porgo Morte crudel, poi ch’hai bramar potuto Di pareggiarmi e di venirmi a fronte. E quindi pur riposo avran coloro, Che sol per tua cagion nella battaglia Tanto mal van soffrendo, e forse sia, Che cessi al morir tuo cotanta strage, Poiché da te l’altrui ruina pende. Detto in tal guisa, il ben ritorto nervo Vicin si trasse alla mammella, e il corno Fé curvo, e sovra lui drizzò l’acuto Quadrello: il ferro, cui per la gran forza Di lui, che lo rapìa, sovrastò poco All’arco, indi scoccando, alto rumore Ne diede il nervo al dipartir da lui Lo strepitoso, e impetuoso dardo. Non errò l’uom divino, e non si sciolse L’alma a quell’altro, che animoso ancora Sostenne il colpo, perché appieno in lui Lo stral non cadde, anzi fuggendo appena Sol gli graffiò la delicata pelle. Quinci di nuovo il figlio di Peante L’arco suo tese, e prevenendo l’altro Con l’acuto quadrel di sopra alquanto L’anguinaglia ferillo, e non sostenne Egli di pugnar più, ma via fuggissi Ratto, sì come il can dal leon fugge Timido, cui feroce ei cacciò dianzi: In guisa tal colui da mortal doglia Trafitto il cor, dalla tenzon partissi. Intanto combattean confuse, e miste Le genti, e s’uccidean fra loro a prova, E di color nel sangue aveasi guerra, Che quinci, e quindi eran caduti estinti. Sovra i morti distesi erano i morti Confusamente, a gocciole simili Di minuta rugiada, o qual gelata Grandine, o neve pur, che in larghe falde Giù cade allor, che per voler di Giove Gli eccelsi monti, e le sfrondate selve Il vento occidental cosparge, e il verno: In guisa tal da questa, e quella parte Da cruda man percossi eran distesi L’un sovra l’altro in monti i corpi uccisi. Miseramente sospirava intanto Pari, cui dea la piaga aspro tormento. Onde a lui, che altamente iva gemendo I medici discreti intorno fersi, Poscia nella città tornaro i Teucri, E i Greci tosto alle cerulee navi, Perché la negra notte alla battaglia Diè posa, e la stanchezza a’ membri tolse, Della fatica diffondendo sopra Alle palpebre il sonno almo restauro. Ma già non prese il sonno il mesto Pari Fino all’Aurora, perché alcun rimedio Ritrovar non poter, benché bramosi, I medicanti ancorché molti, e molti Gisser tentando, che giovasser lui: Perocch’era fatal, che dalla mano D’Enone avesse morte, ovver le Parche Schivasse, quando ei se n’andasse a lei. Ond’ei prestando a’ savj detti fede Andovvi contro a grado, e pur la dura Necessitade a lei l’addusse avante. Faceansi nell’andare a lui d’intorno Meste voci spargendo augel funebri Volandogli a sinistra, ed ei talora Temea vedendo lor, talor stimava, Che spiegassero invan la voce, e il volo. E pur questi dal duol predicean lui Infelice ruina. Or poiché giunto Alla magione ei fu d’Enone illustre, Tutte nel veder lui stupir le ancelle, Stupissi Enone stessa, ed egli a’ piedi Tosto gittossi della donna avanti Livido tutto fuor, perché il veleno, Che fino alle midolle era disceso Nell’ossa, il bel color guasto gli avea, E intanto dal dolor saldo, e pungente Sentia ferirsi, e trapassarsi il core. Sì come tale, a cui febbre maligna, Ed aspra sete il cor nel petto incende, Arido e debil vien, mentre in lui ferve L’ardente bile, e sull’asciutte labbra La stanca anima sua volando brama Con immenso desio la vita, e l’acqua; Tal nel petto a costui l’anima ardea Dal dolor vinto; che languendo alfine Questi appena formò debili accenti: O degna d’ogni onor, donna gentile, Deh non voler mostrarti a me nemica, A me, cui fieramente afflitto vedi, Perché vedova te lasciassi, e sola Già nell’albergo, perch’io ciò non volli, Ma sforzò me l’inevitabil fato, Che ad Elena mi spinse. Ah! così pria Che seco accomunato avessi il letto, Versata avessi io l’anima, e la vita, E provato il morir fra le tue braccia! Or per gli Dei ti prego, a cui è nel cielo Eterno albergo, e pel tuo letto ed anco Per l’amor marital, che tu benigno Ver me l’animo pieghi, e l’aspra doglia, Ponendo sopra alla crudel ferita Salubri medicine, acqueti, e sani; Poiché è fatal, che da te sola, quando Ciò non ricusi, aggia il mio mal rimedio: Pende dal tuo voler libero in tutto Ritormi a morte, o pur lasciarmi a lei. Miserere di me, rimedia tosto Alla forza crudel delle saette, Che portan presta morte, onde anco torni Dell’alma in me il vigore, e delle membra. Deh non voler, dell’empia gelosia Membrando ancor, lasciar, che sì ferito Dall’acerbe saette avanti a’ tuoi Piè morto io caggia, onde tu poi le Lite Co’ sacrificj abbi a placar, che sono Del gran Giove tonante anch’esse figlie, Che incontro agli aspri, e rigidi mortali Accese d’ira, alfin destano avverse L’orride Furie, e degli Dei lo sdegno. Su dunque, donna, non tardar, ti prego, A discacciar da me l’orride Parche Ancor che per follia già t’abbia offeso. Così diss’egli; e la turbata mente Di lei non persuase, anzi lui mesto In cotal guisa rampognò severa: Per qual cagion sei tu venuto avanti A me, cui già lasciasti entro l’albergo In grave involta, e disperato pianto? E questo sol per la Tindarea donna Infausta, cui sì di giacere appresso Eri lieto, e giojoso; eh ciò facevi Certo, perocché a me primiera moglie Tua, di gran lunga in leggiadrìa sovrasta; E quant’uom dice, unqua invecchiar non puote. A lei vanne; lei prega, e lascia omai Di sparger meco più questi di pianto Misti lamenti tuoi, queste querele. Che se di leonessa e forza e core Avessi, le tue carni a brano a brano Andrei squarciando, e suggereiti il sangue, Sì crudelmente mi trattasti, dietro Muovendo folle a’ tuoi desir perversi. Misero! ov’ora è Citerea la bella, Ov’è Giove immortal, che non ha cura Di te genero suo? dove son questi Ch’eran tuoi difensori? Or via lontano Vanne da mia magion, dolente scempio Degli Dei, de’ mortal, perché per tua Cagion, profano, anco gli Dei medesmi Sentito han doglia, altri di lor perdendo I figli, altri i nipoti. Escimi dunque Da questo albergo mio, vattene a quello D’Elena tua, dove le notti, e i giorni Nel letto giacerai, versando strida Acerbamente dal dolor trafitto, Finché l’aspra tua doglia ella risani. Detto così, lui dal suo tetto amato Fuor mandò lacrimoso, e non sapea Insana il fato suo, che la sforzava, Lui morendo, a morire, e per la stessa Via veloce a seguir le fere Parche: Poiché così di Giove avea il destino Prefisso. Ora costui, mentre sen gìa Per le selvose, ed alte cime d’Ida Miseramente zoppicando, e mesto, Vide Giunone, e gran piacer ne prese Dentro l’immortal petto, assisa in cielo Colà, ‘ve giace il bel giardin di Giove. Quattro vicino a lei sedeano ancelle, Cui già dal Sol la rilucente Luna Gravida resa partorì nel cielo, Eterne tutte, e non simil fra loro, Poiché d’aspetto son varie, e distinte. Col Monton l’una il dolce tempo adduce, L’altra la messe in un col Granchio indora La terza ha l’uve, e le bilance libra, Dell’altra il Capro,e il freddo verno è a cura. Divisa in quattro parti ognor trascorre La mortal vita, che da queste viene Alternamente ministrata, e poscia D’ogni cosa have in ciel Giove il governo. Queste fra lor gìan ragionando, come Gran cose dentro a se rivolge il fato Acerbo infauste, d’Elena apportando A Deifobo nozze, e in un lo sdegno Dicean d’Eleno fero, e l’ira cruda Per cagion della donna, e come lui Devean co’ Teucri irato i Greci figli Per gli alti monti alle veloci navi Conducer seco, indi venian dicendo, Che pe’ consigli di costui devea Del forte Tideo il figlio, e seco Ulisse, Oltrepassando all’elevato muro, Ad Alcatoo apportar morte crudele; E poscia volontaria indi Minerva Saggia rapir, ch’era difesa, e scampo Della cittade, e del Trojano stuolo. Perocché degli Dei non potea alcuno, Benché co’ Teucri alteramente irato, Di Priamo la città ricca, e potente Strugger, mentr’ivi intatta era la Dea. Né già di lei l’immagine immortale Scolpita avea col ferro umana destra, Ma Giove stesso di Saturno figlio, Di Priamo nobil re, copioso d’oro Nella città gittata infin dal cielo. Or queste cose tutte, ed altre assai Con l’ancelle Giunon venia dicendo. E Pari intanto per le cime d’Ida Lasciò lo spirto, onde veder lui poscia Elena non poteo, tornando a lei. Dirottamente lui pianser le Ninfe Per la memoria rivolgendo ancora, Siccome egli con lor fanciullette anco Nelle dolci adunanze iva scherzando: Pianser con quelle insieme anco i pastori Presti di bovi, afflitti, e sospiraro Le valli. E intanto alla infelice moglie Di Priamo sfortunato un buon bifolco D’Alessandro narrò l’acerbo caso. Tutta ella nell’udir tremò nell’alma, Dalle membra il vigor fuggille, ed indi Queste voci versò compagne al pianto: Sei morto, ahi! dolce figlio, e duolo a duolo M’hai lasciato immortal, poiché il più forte Eri de’ figli miei, trattone Ettorre: Onde te mesta piangerò mai sempre, Finché movrassi entro al mio petto il core. Non senza, certo, la divina voglia Tante cose soffriamo; un certo fiero Destino avvien, che tanto mal ne apporte, Cui ned, oh! pur sol col pensier veduto Avessi in prima, anzi di vita fuori Uscita fossi, ha già gran tempo, quando In pace mi sedea lieta, e felice. Or altre cose, e viepeggiori io temo, Di veder anco i cari figli estinti, E data insieme la città distrutta Dagli animosi Greci a fuoco, e fiamma; Veder le nuore mie, veder le figlie Con l’altre donne Teucre esser rapite Co’ pargoletti figli, e per severa Legge di guerra in servitù condutte. Così disse piangendo: e non intese Queste cose il marito, perché sopra Il sepolcro ei sedea del figlio Ettorre, Lacrime sovra quel versando, poscia Ch’egli era valoroso, e con la lancia Difendea la sua patria. Il core asperso Dunque d’amaro duol, l’aspra novella Di quest’altro suo figlio ei non intese. Elena senza lui piangea dolente, Altro dicendo a’ Teucri, altro nel core Tacita rivolgendo, e dentro all’alma: Marito mio, dicea, grave ruina Di me, de’ Teucri, e di te stesso insieme, Crudelmente sei morto, e me infelice Hai tu lasciata in dolorosi affanni Con tema ancor di viemaggior cordoglio. Oh! data al precipizio allor l’Arpie Avesser me poc’anzi, ch’io seguissi Te per la forza del maligno fato. Or dato hanno il gastigo a te gli Dei Ed a me sventurata; ogni uom m’aborre, Tutti mi han per nemica, e non so dove Ritrovi scampo, perché s’io men fuggo Nell’oste Greca, ahimè! crudele scempio Portando: al corso lei ratte le membra. Come ne’ monti la giovenca suole D’ardeatissimo amor del tauro accesa Correr con piè veloce, ove la porta L’interna voglia, che di brama ardendo Più non cura il pastor, ma la trasporta Lo sfrenato furor là, v’ella spera Di trovar forse il tauro in qualche bosco: Così costèi lievissima correndo Facea lungo viaggio; e ricercava Come col piede in sul funereo rogo Salir potesse; e non sentia stanchezza Nelle ginocchia, ma più lieve ognora La trasportavan, cotal l’era al fianco Citerea sprone, e l’infelice Parca. Nulla temea, sì timida poc’anzi Nell’atra notte, delle irsute fiere: Piana ogni roccia di selvoso monte Erale, ed: ascendea, senza ritegno Qual siasi scoglio alpestre, od erta rupe. Allor dall’alto ,ciel la diva Luna Lei contemplando, e rimembrando insieme Il bello Endimion, mossa a pietade Di lei, piangea dolente, e d’alto il lume Mostrando, le scopria le lunghe vie. Giuns’ella intanto, i monti oltre varcando, Ov’eran le altre Ninfe insieme accolte Lungo facendo ad Alessandro il pianto, Cui già vorace intorno il fuoco ardea. Perché adunati insieme, e quinci e quindi Consegnaron da’ monti immensa copia Di materia i pastori, onde pietoso Ufficio, e pianto al lor compagno e rege Rendesser mesti lacrimando intorno. Ed essa quando lui nel loco vide, Benché nel sen le si struggesse il core, Non pianse però fuor, ma ricoperta D’un velo il vago aspetto, entro la fiamma Saltò veloce, e sollevò gran pianto. Ardea col suo marito, e d’ogni intorno Le Ninfe s’ammirar, quando caduta Videro lei col suo consorte insieme; Ed alcuna vi fu, che il cor dal duolo Tocca, parlando in questa guisa disse: Veramente fu Pari empio, e perverso, Poiché poteo tant’onorata sposa Lasciando, condur seco infame donna, Donna, che a’ Teucri, alla cittade, a lui Stata è cagion di misera ruina: Folle! né alcun pensier prendea dell’ira Della sua moglie, e dell’affanno, ond’ella Si venìa distruggendo, e lui, che punto Non la prezzava, e l’aborrìa nemico, Più che del sol la chiara luce amava. Così fra se di quelle Ninfe alcuna Tacita disse, ed essi al rogo in mezzo Ardean, data all’oblio la vita, e il giorno. Così stupiansi i pastorelli in giro, Come già i Greci s’ammirar, vedendo Di Capaneo la moglie Evadne sparsa Di strali appresso al suo marito, cui Di Giove ancise il folgore tremendo. Quando poscia ambedue divorato ebbe L’impeto della fiamma, Enone e Pari, E divenner combusti in cener solo, Spenser l’ardente pira essi col vino, E d’ambi in aurea coppa avvolser l’ossa Quinci con molta cura a lor sepolcro Diero, e due statue sovra lui locaro Ad altre parti, e non fra lor converse.