I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO QUARTO

Né del guerriero Ippoloco lasciare

I Teucri illacrimato il forte figlio,

Miseri ! ma locar sovra la pira

Essi anco incontro alla Dardania porta

Il famoso baron, cui tosto Apollo

Stesso involando alla vorace fiamma

Diello a’ rapidi venti, acciocché lui

Portasser là presso la Licia terra.

Essi portarlo in un momento, e sotto

Una valle il posaro, ov’era un antro

In dilettoso luogo, e lo copriro

Con infrangibil pietra; ed indi seco

Le Ninfe intorno a lui gorgogliar l’onda

Sacra di eterno fiume, il quale ancora

Soglion nomar le paesane genti

Glauco dal nobil corso. Or questo onore

Fecero gl’immortali al Licio eroe.

Intanto al prode Achille i Greci il lutto

Faceano appresso alle veloci navi,

Perocché a tutti il tormentoso affanno

Trafiggea l’alma, e il duol mentre cercando

Lui gìan qual proprio figlio, e senza pianto

Pur un nel largo esercito non era.

D’altra parte i Troian sentian gran gioia

Color mirando dalla doglia oppressi,

E costui dalla fiamma arso e distrutto;

E tal vi fu, che ad alcun altro disse,

In guisa tal vantando: ecco dal cielo,

Quando altri men sperava, ha dato Giove

Grande allegria a noi, che desiosi

Eravam di veder, che in Troia alfine

Vinto, cadesse Achille; e fia per certo

Che rimosso costui respirar pure

Dal crudo sangue e da’ mortali assalti

Deggiano de’ Troian le genti illustri.

Altro mai non volgeva il furioso

Pensier di lui che l’asta micidiale

Vibrar di sangue lorda, e non potea

Alcun di noi, se a lui faceasi incontro,

Più riveder l’aurora. E non ho dubbio

Omai che ucciso Achille, i poderosi

Figli de’ Greci non si diano in fuga

Con le rostrate navi. Ed oh! pur fosse

Salva di Ettorre ancor la forza, a fine

Che ne’ medesmi alloggiamenti loro

Tutte struggesse in un le genti Argive.

Così d’animo lieto alcun Troiano

Disse; ed altri vi fu, che viepiù saggio

In guisa tal soggiunse: in tue parole

Dicevi tu, che degli Argivi il crudo

Esercito fuggendo, entro le navi

Saria per l’ampio mar tornato addietro.

Ma non cred’io, che di pugnar bramosi

Aggiano alcun timor: tai son fra loro

Altri guerrieri ancor robusti e forti.

Evvi di Teseo il figlio, evvi anco Ajace,

Di Atrèo vi sono i due nepoti alteri,

Di cui forza è ch’io tema, ancor che giaccia

Estinto Achille. Ed oh! li uccida Apollo

Che argenteo tende l’arco; perchè allora

Fia che pregando noi vediamo il giorno,

In cui cessin le guerre e l’empie morti.

Sì disse. E su nel ciel quanti immortali

A’ valorosi Achéi davano aita

Versar sospiri, e in mezzo al cor piangendo

Di folte nubi il capo si velaro.

Ma quei fra lor ch’eran de’ Teucri amici

Godean fra se con gran desir chiedendo

Di dare a’ Teucri il dolce fin bramato.

Allora in guisa tal l’inclita Giuno

Al figlio di Saturno a parlar ebbe:

Giove fulminator, padre, onde nasce,

Che alle Troiane genti aita dai?

Posto in oblìo la graziosa figlia,

Che al divino Peleo diletta moglie

Già desti là di Pelio entro le valli,

E preparasti a lei nozze immortali,

Ove tutti eravam quel dì cenando

Noi divi, e lor donammo illustri doni.

Di ciò non ti ricordi? Anzi alla Greca

Gente vai preparando immenso lutto,

Così diss’ella; e non rispose a lei

L’infaticabil Giove, il qual sedendo

Stava dolente in cor volgendo seco

Varii pensier; poiché dovean gli Argivi

Di Priamo la città porre in ruina,

Gli Argivi, a cui pensava egli gran danno

Far nella guerra dolorosa, ed anco

Nel pelago sonoro. E di tai cose

Parte eseguì come pensava, e parte

In altro tempo egli condusse al fine.

Omai dell’Oceán nel cupo flutto

Scendea l’Aurora, ed all’incontro immensa

Notte coprìa la tenebrosa terra;

Onde quando posar dalle fatiche

I miseri mortal sogliono alquanto,

Gli Argivi entro alle navi, ancorché mesti,

Preser cenando il consueto cibo;

Perocché discacciar dal ventre ingordo

Non lice ad uom l’insaziabil fame,

Qualora avvien che gli altri petti assaglia;

Ma pigre fansi le veloci membra,

Né vi ha rimedio alcun se altri non empie

E di cibi satolla il ventre ingordo.

Perciò dunque cenar, benché di Achille

Fosser dolenti, perchè a tutti loro

Dura necessità forza facea.

Quinci lor, poiché preso ebbero cibo,

Dolce sovraggiungendo il sonno assalse,

Che dalle membra discacciando il duolo

Destò di nuovo in lor l’usata forza.

Quando rotando già ver l’Oriente

Avean l’orse celesti il capo volto

Attendendo del sol la presta luce,

Risvegliossi l’Aurora, e con l’Aurora

De’ Greci il forte stuol destossi, morte

A’ Teucri meditando, e fera Parca

Moveali: il moto suo sembrava il moto

Del vasto Icario flutto, o della folta

Arida messe, allor che la gran forza

Del nebuloso zeffiro la fìede.

Così moveasi il popolo schierato

Per le rive colà dell’Ellesponto.

Allor di Tideo il figlio a quei bramosi

Di guerreggiar sì ragionando disse:

Amici, se è pur ver che bellicosi

Noi siam, ben è dover che maggiormente

Contro il fiero nemico adopriam l’arme;

Acciocché non vi essendo oggi più Achille,

Ei non diventi audace. Or via su dunque

E con l’arme e co’ carri e co’ cavalli

Stringiam pugnando la città d’intorno,

E il faticar ne sia cagion di gloria.

Così disse fra’ Greci, e gli rispose

In questa guisa il valoroso Aiace:

Tidide ben tu parli, e non son vane

Le parole che dici in eccitando

Gli Achei, che per se stessi anco n’han voglia

A guerreggiar co’ bellicosi Teucri.

Ma duopo fe pestar dentro le navi

Io fin che Teti a noi dal mar sen venga;

Perocché gran desio chiude nel petto

Di propor nell’essequie di suo figlio

Oltra modo leggiadri e pugne e premj.

Ier così mi dicea quando trovommi

Lontan da’ Greci, mentre ella del mare

Giasene a fondo, e già spero che sia

Affrettando ella il passo a noi vicina.

I Troian poi, benché sia morto il figlio

Di Peleo non saran soverchio audaci,

Mentre io son vivo e tu, mentre anco ha vita

Di Atreo l’incomparabile nipote.

Di Telamon così parlò il buon figlio;

E non sapea qual misera ruina

Gli preparasse in questi giochi il fato

Perverso. In cotal guisa indi soggiunse

Di Tideo il figlio: amico, se è pur vero

Che’sia per venir Teti in questo giorno

A propor giochi illustri, è ben ragione

Che noi restiam qui nelle navi, ed anco

Riteniam gli altri, e neghiam lor l’andata;

Poiché il dar fede a’ Dei beati è giusto.

Anzi noi stessi, ancor che ciò non chieda

Alcun celeste, onoriam pure Achille.

Così del saggio figlio di Tidéo

Disse parlando, il generoso core.

Intanto fuor del mar venne la moglie

Di Peleo, ad aura matutina eguale,

E in un balen si ritrovò fra’. Greci,

Nel loco là ‘ve l’altendean bramosi,

Altri lottando nell’aperto agone,

E di lor altri i lottator mirando

Colmavan di piacer la mente e l’alma.

Teti, cui stringe il crin ceruleo nastro,

Trattasi in mezzo all’adunanza loro,

I premj ivi posò che addutti avea,

E gli Argivi esortò, che senza indugio

Dar volesser principio a’ suoi certami.

Obbedir essi all’immortale Dea.

E fra gli altri primiero in mezzo surse

Il figlio di Neléo, non già bramoso

Di provarsi co’ cesti o nella dura

Lotta, perocché il tergo aveagli e tutti

Gravato i membri la vecchiezza stanca,

Ma pur nel petto, saldo ei riteneva

E l’animo e la mente, e fra gli Argivi

Non vi era alcun che gareggiar con lui

Osasse là u’ d’eloquenza fosse,

E di ornato parlar tenzone, e pugna;

Anzi e pur di Laerte il chiaro figlio

Nel parlare in arringo a lui cedea;

Nè men concedea lui le prime parti

Agamennone il forte, il qual fra’ Greci

Maggior di tutti e viepiù nobil era.

Quindi nel mezzo assiso a lodar prese

La saggia figlia di Neréo, dicendo,

Come sol essa le marine Ninfe

Per prudenza e beltà tutte vincea.

Il che mentr’essa udia sentissi il petto

Colmar di gioia. Indi spiegò le amate

Nozze di Peleo, che i beati numi

Gli preparar colà d’intorno al giogo

Di Pelio, e come ivi anco immortal cena

Nelle nozze gustaro, che con mano

Celeste in aurei cesti l’Ore dee

Portando ministrar divini cibi,

Ove Temi festosa argentee stende

Presta le mense; ove eccitò la fiamma

Purissima Vulcano, e in coppe d’oro

Porser le Ninfe ambrosia, e con leggiadri

Modi mossero il piè le Grazie al ballo,

Cantar le Muse, e di dolcezza immensa

Tutti si empiro e monti e fere e fiumi,

L’aere immortal piacer sentinne, ed anco

Di Chiron gli antri ornati, e i numi stessi.

Tutto ciò di Neléo dicea il buon figlio

A’ Greci, al parlar suo bramosi intenti,

A’ Greci che godean mentre nel mezzo

Dell’adunanza ei ne venia cantando

L’opre immortai del valoroso Achille.

Intanto il largo popolo d’intorno

Plauso facea, mentre s’udia, festoso;

Ed ei colà con ben composte note

Alto lodando il glorioso eroe

Narrava, come dodici fra le onde

Cittadi egli distrusse, ed undici altre

Nell’ampia terra, com’egli conquise

Telefo e sì d’Eezione illustre

Ne’ pian di Tebe ei superò la forza,

Come con l’asta di Nettuno il figlio

Cigno egli uccise, il divo Polidoro,

Troilo, maraviglioso, e Steropeo

Uom senza alcun difetto; indi seguio

Come di sangue tinse il fiume Xanto,

E ricoprìo di lui l’onda sonora

Con infinito numero di uccisi;

Quando ei privò di Licaon le membra

D’alma vicino al risonante fiume,

Come egli Ettorre vinse, e come a morte

Diede Pentesilea, quinci com’egli

Dell’alma Aurora il divin figlio uccise.

Queste cose agli Achei egli cantava,

Che pur ben le sapeano, e soggiungea

Come egli era membruto, e come alcuno

Resister contro lui non potea in guerra,

Né colà dove i giovani robusti

Prova lottando fan della lor forza,

E dove i più veloci a gara fanno

Qual più rapido mova al corso il piede;

Che nell’arringo, e in maneggiar corsieri

Non avea pari, e nel trattar la spada,

Che tutti i Greci di beltà vincea,

E che là ove di Marte era più folta

La zuffa, il suo valor non avea meta:

Aggiungea al più, che agli immortai sembiante 

Era il figlio di lui, che venir tosto

Se ne dovea dall’inondata Sciro.

Con lieta voce secondar gli Argivi

Le sue parole, e Teti argentea il piede.

Essa a lui donò, premio del canto,

Que’ veloci destrier, che al prode Achille

Telefo diede in riva del Caico,

Quando egli lui per la ferita infermo

Risanò con la lancia, ond’egli stesso

Nella coscia pugnando a piagar l’ebbe.

Questi a’ compagni suoi Nestore porse,

Che altamente lodando il rege loro

Gli menaro alle navi. Indi nel mezzo

Teti del campo dieci vacche pose

Premio del corso, e tutte dieci aveano

Alle poppe i vitelli ancor lattanti.

Queste d’Ida predò nella gran lancia

Fidato il forte non mai lasso Achille.

Per queste si levar di pugna vaghi

Teucro primier di Telamon figliuolo,

E quindi Ajace, Ajace il qual signore

Era de’ Locri in saettar maestri.

Cinsersi questi alle celate parti

Ratto le vesti intorno, e ricopriro

Quel che velar convien, rispetto avendo

Del forte Peleo alla mogliera, ed anco

All’altre figlie di Neréo marine,

Che per mirar de’ Greci i forti giochi

Ivi con la sorella eran venute.

Del corso velocissimo prefisse

La meta a questi il successor di Atréo,

Che tenea degli Argivi il sommo impero.

Gara immortal loro incitava il corso;

Ed essi dalle mosse indi veloci

Quasi falcon veniano, ed era incerto

Qual vincesse nel corso. I Greci intanto

D’ogni parte mirando, or questo or quello

Inanimar col grido; e quando omai

Eran per arrivar pronti alla meta,

Allor di Teucro gl’immortai legaro

E la forza e le membra, perchè alcuno

Degli Dei lo condusse, o sorte avversa

Ove stendeansi dolorosi rami

Di radicato ramarino in cui

Urtato cadde a terra, e stranamente

La cima si slocò del manco piede;

Sursero intorno, e si gonfiar le vene.

E i Greci nell’agone alzar le grida.

Precorse Aiace lieto, e fer concorso

A lui d’intorno i suoi seguaci Locri,

Cui subito piacer l’animo prese,

E le vacche drizzar verso le navi,

Perchè indi a ritrovar gissero i paschi.

Teucro dall’altra parte i suoi compagni

Diligenti di lui presa la cura

Conducean zoppicante. Il sangue tosto

Dal piè sciugaro i medici, e di sopra

Lana vi collocar di unguento aspersa;

Quinci con molta cura a lui d’intorno

Benda legaro, e mitigar la doglia.

Altri due d’altra parte eroi robusti

Della superba lotta ebber pensiero,

Il figlio l’un del cavalier Tidéo,

L’altero Aiace l’altro, i quai nel mezzo

Si presentaro, e stupido rimase

In contemplando lor l’Argivo stuolo,

Poiché ambo a’ Dii celesti eran sembianti.

Venner questi all’assalto, a fere eguali,

Che d’esca desiose a’ monti in cima

Combatton per un cervo, ed è la forza

D’ambo librata, e pari, e non v’è alcuna

Di lor, tal sono e pertinaci ed aspre,

Che all’avversaria sua ceda d’un punto.

Cotal era in quei due del tutto eguale

L’impetuosa forza. Alfine Ajace

Con le robuste man per trarlo a terra

Afferrò Diomede; ed ei con l’arte

E con la forza in un piegando il fianco

E l’omero appuntando insieme al braccio

Di lui, là ov’ha più carne, in un baleno

Da terra sollevollo, indi col piede

L’altra gamba di lui percossa a tempo

Il gagliardo baron distese al suolo,

Quindi vicino a lui si assise. Alzaro

Gli spettator le grida, e si ebbe scorno

Il prode Aiace. Indi al secondo mosse

Crudele assalto, e in un le mani orrende

Di polve si coperse, e fulminando

Il figlio di Tidéo con alta voce

Chiamò nel mezzo, ed ei nulla temendo

Alzò d’incontro il grido. Alto sorgea

Mossa da’ piedi lor copiosa polve,

Ed essi e quinci e quindi a tauri pari

Intrepidi incontrarsi, i quai ne’ monti

Per prova far di loro audace forza

Vanno insieme a trovarsi, alto spargendo

Col piè la rena, e fanno a’ lor muggiti

Sonar le valli, indi ostinati e crudi

Si urtan co’ duri capi, e tutto insieme

L’animoso furor spiegansi incontro,

E per lo faticar grave anelando

Combatton crudi, e dalle bocche intanto

Di lor copiosa spuma a terra cade.

Così costor con le feroci mani

Senza riposo alcun gìan faticando,

E d’ambedue sonar si udiano appresso

Forti e robuste le cervici e il tergo.

Come ne’ monti gli alberi intrecciando

Vanno tra loro i frondeggianti rami,

Spesso legò con le robuste braccia

Il figlio di Tidéo di sotto al fianco

Il grande Ajace, e pur non ebbe forza

Di atterrar lui, che ben fondato stava

Su le robuste piante. Aiace lui

Curvo alla terra inver la terrà spinse

Presto premendo a lui d’alto le spalle;

E in questa guisa or d’ira or d’altro modo

Moveansi con le man pugnando all’alto,

E le genti d’intorno, e quinci e quindi

Spargean lor contemplando alte le grida,

Altri incorando l’inclito Tidide,

Altri il gagliardo Aiace, il qual scotendo

Al feroce avversario ambo le spalle,

Quinci stendendo a lui là sotto al ventre

La mano, in un baten gittollo a terra

Col robusto poter, di pietra in guisa.

E lui cadendo la Troiana terra

Destò grave rimbombo, e il popol tutto

Alzonne il grido; ed ei già non quietossi

Perciò, ma surse di pugnar bramoso

Col vasto Aiace anco nel terzo assalto.

Ma Nestore fra lor trattosi in mezzo

Così ragionò dolce: illustri figli

Cessate omai dalla superba lotta;

Perocché, ben sappiam quanto voi siate,

Or che non è più vivo il grande Achille,

Di tutti gli altri Achei maggior di forza.

Così diss’egli, e lasciaro essi ai detti

Di lui l’impresa zuffa; e con la mano

Asciugato il sudor, che dalla fronte

Lor scendea in copia, si baciaro insieme,

E in amicizia ne cangiar la guerra.

Quinci ad ambedue lor la diva Teti

Diè quattro ancelle, cui mirando i forti

Ed intrepidi eroi stupiansi, poscia

Che di gran lunga superavan tutte

L’altre cattive e di prudenza e d’opre,

Fuorché Briseide dalle belle chiome.

Queste da Lesbo già condotte avea

Achille prigioniere, e di lor molto

Si compiacea. Fra queste una ven’era

Mastra di preparar vivande e cibi,

Il dolce vino a’ convivami l’altra

Mescer sapea, la terza avea maniera

Di dar l’onda alle mani anzi la cena,

Solea la quarta del convito al fine

Sempre levar le mense. Or queste quattro

Compartendo fra lor di Tideo il forte

Figlio e il superbo Aiace, le mandaro

Alle rostrate navi. Indi levossi

In piè bramoso di pugnar co’ cesti

Idomeneo gagliardo; in piè levossi

Perocché in tutti i giuochi egli era esperto,

Né uom vi fu che d’irgli incontro ardisse,

Poiché sendo oggimai di molta etade,

Cedeangli tutti e gli rendeano onore.

A costui Teti diè nel mezzo stando

A tutti il carro e i rapidi destrieri,

Che già del gran Patroclo avea la forza

A’ Teucri tolti e poi condutti al campo,

Quando al divin Sarpedone diè morte.

Al suo scudiero Idomeneo gli diede,

Perchè guidasse lor verso le navi,

Ed ei restò nel glorioso agone.

Quindi Fenice a’ valorosi Greci

Così disse parlando: ecco hanno i Divi

Dato ad Idomeneo perfetto dono;

Così senza oprar forza o spalle o mani,

E senza sparger sangue onore a lui

Portando, che è baron di antica etate.

Ma tutti, o voi, che gioventù godete,

Preparatevi a’ giuochi; e l’un movendo

Contro l’altro la man de’ cesti esperta,

Diletto date all’anima di Achille.

Così diss’egli, ed essi udendo lui

Miravansi l’un l’altro, e stavan tutti

Fermi di non oprarsi io quel contrasto,

Se di Neleo non ragionava loro

Con dolci e chiari detti il figlio illustre:

Amici, e’ non convien che gente dotta

Delle battaglie ricusando schivi

De’ cesti il nobil giuoco, onde diletto

Prende la gioventude, e seco apporta

Gloria con le fatiche. Ed oh! foss’anco

In queste membra mie quella fortezza,

Che v’era allor che le funebri, pompe

Del divin Pelia celebrammo noi,

Acasto ed io, parenti, i quai ci andammo

Compagni allor che ben non apparìa

Se fra il divo Polluce e me vantaggio

Fosse nell’oprar cesti, e ne portai

Premio al suo non dispare, e nella lotta

Ammirommi e tremo l’istesso Anceo,

Di tutt’altri il più forte, e cor non ebbe

D’incontrar me per la vittoria, poscia

Che prima là fra’ bellicosi Epei

Lui vinto avea benché feroce e grande,

Feci io, che cadde, e impolverò le spalle

Del morto Amarinceo presso alla tomba.

Onde per tal cagion tutti ammiraro

Il mio molto valor, la mia gran forza.

Quindi per fermo non avrìa colui,

Benché feroce sì, mossa a me incontro

La mano, e senza polve il premio avuto

Avrei. Ma vecchiezza e i gravi affanni

Mi sono addosso; e quinci avvien che esorto

Voi, cui sta bene al guadagnar de’ premi,

Perchè a giovane il premio acquista laude,

Che suol portar dal faticoso agone.

Così dicendo il vecchio, in piede surse

L’animoso baron, che figlio fue

Di Panopeo magnanimo e divino,

Il baron che all’estremo a formar ebbe

Di Priamo alla città alta ruina,

Il gran cavallo. Or a costui non era

Chi nel giuoco de’ cesti osasse incontro

Di presentarsi, ancor ch’ei nelle crude

Guerre, allor che di Marte il furor ferve

Non fosse appieno esperto. Il ricco premio

Era per portar dunque il buon Epeo

Senza sudor, verso le greche navi,

Se a lui non si fea innanzi il guerrier figlio

Acamante di Teseo, illustre eroe.

Questi nutrendo alto valor nell’alma

Si trasse avanti le veloci mani

Di arido cuoio ed aspro intorno avvolte

Che con gran diligenza avea lui cinto

Alle palme Agelào di Evenor figlio,

Aggiungendo coraggio al suo signore;

E si feano compagni anco incorando

Epeo del rege Panopeo figliuolo.

Ed ei quasi leon nel mezzo corse

Cinto le man di ben ucciso bue

Con le rigide pelli, e in questa e in quella

Parte insieme legati alzar le voci,

Di costor robustissimi la forza

Tutti eccitando, ed a mischiar col sangue

Le fere mani, e desiosi quelli

Per se stessi anco, si fermar nel giro

Della rinchiusa lizza, ed ambo prova

Delle man fero, e ritentar se come

Dianzi fosser leggiere ed atte al moto,

Né si gravasser lor nella battaglia.

Quindi senza tardar, le mani incontro,

Mirando se con iterati sguardi,

Si alzar di piè sopra le somme cime

Breve movendo il passo e le ginocchia

Fra lor di sito ad or ad or mutando

Si schivar lungo tempo e in se guardinghi

Declinando fra lor di lor la forza.

Quindi assalirsi a ratte nubi eguali

Che da’ venti sospinte in un cozzando

Scuotono i lampi onde il gran ciel si turba,

Da lor così commosse, ad ogni intorno

Destano le procelle orribil tuono.

Tal di costor dall’aspre cuoia offese

Si udian le gote risonar da lunge,

Piovea copioso il sangue, e dalle fronti

Cadea sudor sanguigno, il qual vermiglie

Rendea di lor le vigorose gote;

E quei senza riposo audaci e pronti

Gìan combattendo; e non cessava Epéo,

Ma più e più robusto iva fremendo.

Quindi prudente in quei certami il figlio

Di Teseo fea così, che spesso i colpi

Dell’aspra man di lui gissero a vuoto

E in dubbia parte, Indi la destra scassa

Con arte industre, e in un prendendo il salto

Fra le ciglia ferillo in guisa tale

Che all’osso il colpo giunse, il sangue uscìo

Dall’occhio fuori. Eppur così non stette

Epeo, ma con la man grave e robusta

Acamante cogliendo, in una tempia

Colpillo, e le sue membra a terra sparse.

Tosto egli surse, ed al gagliardo eroe

Si spinse addosso, e gli percosse il capo.

Egli, quando di nuovo ei l’assalìa

Declinò alquanto e gli colpì la fronte

Con la sinistra mano, e con la destra

Fransegli il naso a lui saltando incontro,

E così indarno questi ancor la mano

Non stendea, nè a caso. Allor gli Achei

Costor, cui di pugnar crescea la voglia

Per lo desìo della vittoria amica,

Fra lor partiro, e tosto i servi accorsi

Dalle robuste man disciolser loro

Le sanguinose pelli, ed essi alquanto

Dalla fatica respiraro. Ed indi

Con le forate e lievi spugne il sangue

Si asciugar dalla fronte, il che fornito

E gli amici e i compagni a consolargli

E placargli si diero, e gli menaro

L’un verso l’altro, affinché l’ira acerba

Dimenticasser presto, e che di nuovo

Diventassero amici; ed essi tosto

Ai detti si acquietar de’ lor compagni,

Perchè sempre è benigno uom valoroso,

E si baciaro insieme, e dalla mente

La memoria partì del crudo assalto.

Teti cui cinge il crin cerulea benda,

A lor che l’attendean con gran desìo

Di argento diè due tazze, che già offerse

Eveno di Giason robusto figlio

Nella cinta dal mar terra di Lenno,

Per ricovrarne Licaón gagliardo,

Al divo Achille, e fece lor Vulcano

Per presentarle all’onorato Bacco,

Quand’ei condusse al ciel divina moglie

La nobil figlia di Minos, che Teseo

Lasciata avea nell’isoletta Dia

Contro suo grado. Avea queste medesme

Poscia donate il generoso Bacco

Di nettar piene al suo di via figliuolo

Toante, che ad Isifile le diede

Con molte altre ricchezze; essa al buon figlio

Lasciolle, che ad Achille indi le offerse

Per ricomprarne Licaón cattivo.

Toccò di queste l’una al nobil figlio

Di Teseo, l’altra Epeo mandò alle navi

Allegro. Indi le piaghe e le percosse

Tutte con molta diligenza a loro

Medicò Podalirio, il qual primiero

N’emerse il sangue con la dotta mano,

Poscia cucille, e que’ rimedj sopra

Lor collocò, che a lui lasciati avea

Esculapio suo padre, il cui valore

Grande era sì, che immedicabil piaga

Potea risanar tosto, e in un sol giorno

Sollevar l’egro, e discacciar la doglia.

Per questi dunque posti a lor sul viso

E sopra il capo di bei crini adorno

Guarir le piaghe, e mitigossi il duolo.

Poscia per far nel saettar la prova

Si offerser Teucro, e d’Oileo il figliuolo,

Che dianzi gareggiato avea nel corso.

A costor da lontan segno propose

Agamennone il prode, un elmo ornato

Di chiome di cavalli, e disse loro:

Di voi miglior fia di gran lunga quegli

Che il crin reciderà col ferro acuto.

Primiero Aiace il suo quadrello spinse

E ferì l’elmo e risonò il metallo

Acutamente. Indi con gran pensiero

Diresse Teucro dopo lui lo strale,

Che in un balen troncò la chioma, e tutti

Gli spettator mandaro al ciel le voci,

Lodando lui, che, perchè fosse il presto

Piè per la fresca piaga ancor dolente,

Non meno avesse ben drizzato al segno

Con la man con offesa il ratto strale.

La moglie di Peléo diede a costui

L’arme del divin Troilo, il qual migliore

Di tutti gli altri giovanotti avea

Ecuba partorito in Troia sacra;

Ma di lui così degno ahi non godeo,

Sì tosto lui dello spietato Achille

E la lancia e il poter di vita sciolse;

Come allor che in giardin florido e molle

O papavero o spica in riva all’acque

D’umido rio cresciuto, e non maturo

Con l’arrotata falce alcun recide,

Né giunger lascia al natural confine.

Né da recare il consueto frutto

Voto mietendo quel che devea seme

Altro portar, che indi nutrisse in grembo

La rugiadosa e dolce primavera.

Tal di Priamo il figliuol, che di bellezza

Era sembiante a’ divi anzi il suo tempo

Anzi che sposa avesse, e mentre egli anco

Scherzar solea co’ pargoletti insieme,

Uccise Achille; e ciò perchè la Parca

Condusse lui nel micidial conflitto

Sul primo e dolce fior di giovinezza,

Quand’è più l’uomo audace, e non have anco

Di prudenza viril dotato il core.

Molti poscia tentaro il grande e grave

Disco lanciar con la veloce mano,

Ma non potea gittarlo alcuno Argivo

Per lo gran peso suo. Solo il guerriero

Aiace lo spingea con la robusta

Man, quasi e’ fosse di selvaggia guercia

Ramo seccato alla stagion del caldo,

Che face in terra inaridir le biade.

L’ammirar tutti, in guisa tal volava

Ferro dalla sua destra, che a gran pena

Due con la man levato avrian dal suolo.

Questo primier solea d’Anteo la forza

Lieve lanciar, del suo valore in prova

Anzi che fosse dalle man robuste

Vinto di Alcide. Il buon Alcide il tolse

Con altre varie prede, e in premio il tenne

Della sua forte e infaticabil destra.

D’Eaco alfin donollo al nobil figlio

Quando compagno a lui pose in ruina

Il famoso Ilion di forti cinto.

Egli al figlio lo diè che nelle preste

Navi sue portollo, a fin che essendo

Memoria a lui del genitor, più pronto

Co’ Troian combattesse, e faticando

Con quel di suo valor facesse prova.

Questo dunque lanciò molte fiate

Con la man poderosa il forte Aiace,

Onde la figlia di Nereo donogli

Di Memnone divin l’armi famose,

Cui riguardando l’ammirar gli Argivi

In guisa elle eran tutte e lunghe e grandi,

Perciocché solo all’ampie membra sue

Adattavansi quelle al vasto corpo

Di lui poste d’intorno. Indi il gran disco

Insieme sollevò per poter quinci

Prender diletto, se talor desio

Venisse a lui di esercitar la forza.

Molti sorsero poscia al gioco pronti

Del salto, e superò di tutti il segno

Agapenore il forte, onde al gran salto

Di lui lunghe le genti alzar le grida.

I ricchi arnesi a lui Teti divina

Donò, che furon già di Cigno il grande,

Lui perchè molti egli privò di vita

Quando morto restò Protesilao,

Di tutti gli altri eroi primiero uccise

Di Peleo il figlio, e i Teucri oppresse il duolo.

Quindi color che nel lanciar del dardo

Avean contrasto di gran lunga tutti

Eurialo vinse, onde gridar le genti

Non esser uom, che superar costui

Potesse nell’oprar l’alato dardo.

Perciò la madre lui del prode Achille

Capace urna di argento in dono offerse,

Che già il figlio acquistò quando con l’asta

Minete egli ferì, mentre Lirneso

Struggea città della Troiana terra.

Aiace il forte ancor di pugna ansioso

Surgendo là nel mezzo a prima voce

Isfidando venia qual altro fosse

Fra gli eroi più gagliardo, a provar seco

La mano il piede; ed essi ciò mirando

Stupiansi d’uom sì valoroso e forte;

Ned alma fu, che presentar si osasse

A lui davanti, in guisa tale avea

Franto in tutti il valor la tema vile,

Perchè entro a se temean che con la mano

Fieri imprimendo e poderosi colpi

Non spezzasse le fronti, ed a qualcuno

Fosse cagion di misera ruina.

Alfin concorser tutti al bellicoso

Eurialo, come a quei che sovra tutti

Era ne’ cesti esperto; ed egli in mezzo

Di tutti paventando il guerrier fiero

Cotai parole apertamente disse:

Amici, altri non v’ha, sia qual vi piaccia

Infra gli Achei, che d’incontrar ricusi;

Ma temo il grande Aiace, ed è ben giusto,

Così mi avanza, in guisa tal che s’egli 

Nel ricalzarmi si accendesse d’ira,

Di me farebbe scempio, ed ho per certo,

Che da sì feroce uom non sarà dato

A me di ritornar salvo alle navi.

Ciò dettò, riser tutti, e nel pensiero

Alto piacer ne prese il forte Aiace.

Due di lucido argento allora Teti

Talenti prese, e dielli a lui che vinto

Avea senza fatica, e nel mirarlo

Si rimembrò del suo figliuolo amato,

E le cadea nel cor desio di pianto.

Altri che al corso de’ cavalli intenti

Erano col pensier tosto levarsi

In piè, poiché del gioco era omai tempo.

Menelao primier fu, cui seguir poscia

Euripilo animoso, Eumelo, ed indi

Toante insieme, e Polipete illustre.

Questi intorno a’ destrier poser gli arnesi

Lor sopponendo al carro, e frettoloso

Ciò tea ciascun della vittoria vago.

Quindi su i carri ascesi in un momento

Convennero in un luogo, in luogo dove

Molta sabbia era sparsa: e si fermaro

Tutti alle mosse, ed alle forti mani

Tosto avvolser le briglie. Indi i cavalli

Servendo a’ carri lor ben si avanzaro

Per prevenirsi, e saltar fuor primieri;

Ferian co’ piedi il suolo, ergean gli orecchi

In alto, ed aspergean di spuma il morso

Ciascuno auriga intanto all’opra destro

I veloci destrier ferìa di sferza,

Ed essi in un balen premendo il giogo

Pronti mossero al corso, in tutto eguali

All’Arpie rapidissime e leggiere.

Lievi i carri traean, che dalla terra

Si ergean volando in alto, e nella sabbia

Non apparìa di rote ombra o di piede,

Tal era de’ destrier veloce il corso.

Molta e minuta polve, all’aere salse

Dal piano, a fumo somigliante o nebbia,

Che di Ponente o d’Austro intorno sparge

La forza a’ promontorj allor che sorge

Il verno, quando i monti irriga pioggia.

Percorrean tutti, e più leggier moveansi

I corsieri di Eumelo, e seguian dopo

Quei del divo Toante, e si udia il suono

Degli agitati carri, ed essi lievi

Si distendean per lo potente campo

(*).................................

Di cui gran tema han le guerriere genti

Di Elide sacra, perchè ei fe grand’opra

Saltando il presto carro dell’astuto

Enomao, che dannosi a’ giovanetti

Fabbricò inganni, i quai chiedean le nozze

Della figlia di lui saggia Ippodamia,

Ma nè questi però benché gran cura

(*) Qui manca il testo greco. — II Traduttore.

Avesse di nutrir destrieri illustri,

Tali ebbe e sì veloci, anzi di questi

Fur di gran lunga i suoi corsier più tardi.

Disse altamente del destrier la forza

Lodando insieme il successor di Atréo,

Che quinci nel pensier grande avea gioia

A loro indi anelanti il servil giogo

Sciolsero, così gli altri i lor destrieri

Disciolser tutti, che avean fatto prova

Dianzi di se correndo entro l’agone.

Poscia al divin Toante, al valoroso

Eurialo tosto Podalirio tutte

Curò le piaghe, onde percossi furo,

Quando precipitar dal carro al suolo.

Menelao senza lui della vittoria

Riportata da lui lieto godea,

Cui Teti ornata il crin, vaga una coppa

D’or presentò d’Eezìon divino

Già caro arnese, mentre in piede stava

L’illustre Tebe, che disfece Achille.

Altri dall’altra parte i buon destrieri

Preparavano al corso, e nelle mani

Prendean bovine sferze, indi montando

Si assiser tutti a’ lor destrier sul dorso.

Essi mordeano, ed aspergean di spuma

Il freno, e percotean col piè la terra

Desiosi del segno. Ed ecco il corso

Comincia; ed essi in un momento fuori

Van dalle mosse, di provarsi vaghi;

Quasi di Borea, allor, che grave spira,

Turbini, e d’Austro pur, quando sonante

Il largo mar co’ procellosi colpi

Commove, mentre sorge il tempestoso

Altar, che seco a’ naviganti suole

Portare acerbo e lacrimoso affanno.

Così moveansi, e co’ veloci piedi

Alzar facean dal pian copiosa polve.

Ciascun di quelli intanto, i quai sedendo

Sul dorso a lor gli gìan cacciando al corso,

Parte di sferza gli battean sonante.

Prendean forza i destrieri, e fra le genti

Si udian alte le grida, ed essi lievi

Per l’aperta campagna ivan volando.

E ben tosto veloce avrìa l’Argivo

Corsier vittoria avuta, a cui sedea

Stenelo sopra, se del corso fuori

Non l’avesse rapito: e fosse molte

Fiate per lo piano ito vagando;

Né con la forza della man poteo

Il buon figliuol di Capaneo piegarla,

Perocché giovan anco era il destriero

E de’ corsi inesperto, e pur di razza

Era non rea, ma di Arïon veloce

Nobilmente disceso, che al sonoro.

Zeffiro Arpia produsse, il qual di molto

Tutti gli altri corsier vincea, poiché egli

Col prestissimo piè, co’ ratti spirti

Venir potea del genitore a prova.

Ebbe lui da que’ divi Adrasto in dono

Onde traea la stirpe................

................................................

Cui donò poscia il figlio di Tidéo

In Troia sacra al suo compagno, ed egli

Incontrò ne’ suoi piè perchè veloce

Egli era, de’ corsieri entro l’arringo

L’addusse, certa speme in se chiudendo

Di acquistar fra’ primier nel corso il pregio.

Ma non gli disse il cor, che per Achille

Ei sudava nel gioco, il che sapendo

Conosciuto anco avria che giunto fora

Secondo al segno. Intanto Atride lui

Con la destrezza trapassò, bench’egli

Così fosse veloce. Il vulgo intanto

Dea lode ad Agamennone, ed insieme

Dell’animoso Stenelo al destriero,

Poiché secondo fu, benché più volte

Egli uscisse di arringo, e gisse dove

Il gran furor lo conducea del piede.

Allora ad Agamennone gioioso

Teti in premio concesse argenteo usbergo:

Onde, stirpe divina, armò le membra

Già Polidoro; a Stenelo il potente

Ferreo elmo donò di Asteropeo,

E con due lancie insieme un forte cinto.

A tutti gli altri cavalier died’anco

Premj, che avean quel dì pugnato intorno

Alla tomba di Achille. I quai dolenti

Mercè del figlio di Laerte il saggio

Eran, poiché bramando egli far prova

Del suo valor, l’aspra ferita avea

Lui dalle pugne escluso, onde ferillo

Il valoroso Alcon, mentre d’intorno

Al corpo combattea di Achille estinto.