I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO TERZO

Poiché apparìo della dorata Aurora

La luce, i Guerrier Pilii il corpo estinto

Di Antiloco portar verso le navi,

Sospirando altamente il duce loro,

E della piaggia là dell’Ellesponto

Gravemente gemendo il seppelliro.

Piangean dintorno a lui gli alteri figli

De’ Greci, perché tutti acerbo affanno

Lor per cagion di Nestore premea.

Ed egli pure all’angosciosa doglia

Non cedea punto indomito di core;

Perché d’uomo prudente è con audace

Animo sopportar l’intero affanno,

Nè darsi in preda alle querele, al duolo.

Achille intanto di grand’ira acceso

Per lo compagno Antiloco fremendo

Orribil contro a’ Teucri all’arme corse.

Nè men anco i Troian daIl’altra parte

L’arme vestirsi, ancorché avesser tema

Del forte Achille; e dalle mura pronti

Schierati usciro, perché a lor nel petto

Compartita l’audacia avean le Parche;

Di cui molti dovean per man d’Achille

Alle stanze calar di Pluto, donde

Alma giammai non riede; ed ei non meno

Perir dovea colà sotto le mura

Della città di Priamo. In un baleno

Concorsero in un luogo; e quinci e quindi

Il folto stuol de’ Teucri, e forti Argivi,

Pronti ardendo la guerra, e servir Marte.

Fra questi il figlio di Peleo disperse

Grande stuol d’avversarj e la feconda

Terra correa di sangue, e in un di morti

Era di Xanto e Simoenta il letto.

Ed ei seguendo lor di lor fea scempio

Insino alla città, perché le genti 

Gravissima paura oppresse avea,

E tutti certo allor distrutti avrebbe,

E da’ cardini svelte a terra stese

Le porte, o quelle obliquamente urtando

Fracassati i serragli il varco aperto

Delle mura di Priamo ai Greci, ed anco

L’abbondante città posta in ruina,

Se del severo Apollo, il qual vedea

Tanta estinta cader copia di eroi,

Non si fosse di sdegno accesa l’alma.

Repente dunque giù calò dal cielo

A fera simigliante, appesa avendo

La gran faretra agli omeri, e gli strali,

L’aspre piaghe di cui sanar non lice,

E d’Eaco al nipote avanti fermo

Stette, e gran suono a lui destaro al tergo

E la faretra e l’arco; uscian dagli occhi

Scintille a lui di fuoco, e sotto a’ piedi

Crollavasi la terra, un grido orrendo

Il gran Dio mandò fuor per far che Achille

Lasciasse sbigottito alla gran voce

La guerra, e in guisa tal salvasse i Teucri.

Scosiati da’ Troian, scostati, o figlio

Di Peleo, che non lice omai le mani

Stender cruidei sopra i nemici a fine

Che dal cielo alcun Dio te non offenda.

Così diss’egli; e dell’immortal voce 

Del Dio null’ebbe quei timore o cura,

Perocché già d’intorno a lui volando

Sen gían le Parche immansuete; e quinci

Avvenne ch’gli il Nume ebbe in dispregio,

E sì con esso lui disse gridando:

Febo, onde avvien che me che pur ricuso

Di pugnar con gli Dei, mentre difendi

I superbi Troiani, a pugna inciti?

Altra fiata già qui desti a me briga,

Me rimovendo dalla zuffa allora

Che pria tu dalla morte Ettor salvasti,

Ettorre onde i Troian dalla cittade

Sen giano alteri. Or via dunque ti parti

Quinci e con gli altri Dei vattene in cielo,

Se te, benché immortal, non vuoi ch’io fera.

Così detto, in disparte il Dio lasciando,

Contro si messe a’ Teucri, i quai fuggendo

In verso la città prendeano il corso.

Così lor cacciava egli, onde di sdegno

Febo l’animo colmo in questa guisa

Fra se medesmo ragionando disse:

Ahi come di costui la mente ognora

Vien furiando! omai nè Giove stesso

Possa soffrirlo, nè altri in cotal guisa

Agli Dei resistente e furibondo.

Così diss’egli, e fra le nubi misto

Invisibile fessi e d’aere cimo,

Doloroso avventogli acerbo strale,

Che nel tallon ferillo. Il duol repente

Nell’alma gli s’immerse, ed ei cadeo

A torre egual, cui di Tifon la forza

Con sotterraneo turbine fracassa

Mentre dall’imo suo la terra scote.

Tal d’Achille il gran corpo al suol cadeo,

Che prostrato così girando intorno

Gli occhi, alzò grido minaccioso orrendo.

Qual fu che in me drizzò l’acerbo strale

Celatamente or di venire avanti

Ardisca, e discoperto a me si mostri,

Perché l’oscuro sangue e tutte insieme

Le viscere di lui diffuse a terra

Siano dalla mia lancia, ed ei discenda

Al lacrimoso inferno. Ah! ben son certo

Che non mi avria appressando unqua potuto

Con la lancia domar terreno eroe,

Non se invitto nel sen chiudesse il core.

Invitto il core e di metallo ei fosse.

Sempre ai più valorosi i più codardi

Tenere occulte insidie hanno in costume.

Dunque traggasi avanti, ancorché un Dio

Esser si vanti in ver gli Argivi irato,

Perché mi dice il cor che Apollo ei sia

Di misera caligine coperto;

Perché già mi narrò mia cara madre,

Che perire io dovea presso alle porte

Scee dall’aspre di lui quadrella estinto.

Ed ecco vani i detti suoi non furo.

Disse; e lo stral mortifero fuor trasse

Con le mani implacabili e crudeli

Dall’insanabil piaga, onde da quella

Inasprita uscì sangue, e il cor gli oppresse

Doglia mortale. Indi affannato lunge

Da se lanciò lo stral; cui tosto i venti

Presero, ed ad Apollo il riportaro,

Che al sacro pian salìa di Giove al cielo;

Perché non convenia, che immortal cosa

E che uscita era pur d’immortal mano

Rimanesse perduta. Onde ripreso

Lo stral salìo veloce all’alto cielo

Degli alti Dei nell’adunanze, dove

Concorrean tutti a rimirare intenti

Degli uomini le guerre e di loro altri

Accrescer d’ Troian chiedean la gloria,

Altri de’ Greci, e sì fra lor divisi

Gli uccisi e gli uccisor vedean nel piano.

Poiché di Giove la consorte saggia

Di lui si avvide, subitana corse

A rampognarlo con parole acerbe:

Febo, e qual grave errore oggi hai commesso!

Nulla membrando che da noi celesti

Del divino Peleo le nozze furo

Solennemente celebrale, dove

Tu medesmo cenando agli altri in mezzo

Cantavi, come Teti argentea il piede

L’ampio flutto del mar lasciando a tergo

Da Peleo condutta a se consorte,

E te citareggiando in un concorso

Per torme innumerabili di fiere

Di augei di monti discoscesi ed alti

Né men di fiumi, e d’ogni ombrosa selva.

Ciò nol membrasti, ed esecrabil opra

Facesti all’uom divin donando morte,

Che tu con gli altri Dei nettar libando

Pregavi che di Teti a Peleo il figlio

Nascesse, e del tuo prego oblìo ti prese;

Mentre del forte Laomedonte onore

Tu procuri alle genti, appresso a cui

Già tu pascesti armenti; e perché Dio

Tu fosti, ed ei mortal, noia a te diede;

E tu di mente forsennata e folle,

Quanto soffristi allor posto in oblio,

E tutte le tue forze, i Teucri onori.

Misero, e non discerne il tuo pensiero

Sinistro qualsiasi, empio, e doglia merti

Patire, e qual d’onore a noi sia degno.

Certo benigno erane Achille e nato

Da nostra stirpe; nè io già non mi credo,

Perché egli estinto sia, che la fatica

Esser deggia a’ Troian quinci più lieve.

Tal da Sciro verrà di lui figliuolo

Bentosto all’aspra guerra a dar soccorso

A’ Greci, al padre in suo valore eguale,

Ed a più di un nemico addurrà oltraggio.

Tanta avei de’ Troian dunque tu cura!

No, ma d’Achille alla virtude invidia

Portasti sol, perché in valor vincea

Ogni altro uomo terreno. Ahi folle or come,

Come con gli occhi tuoi mirar potrai

La figlia di Nereo, mentre verranne

Fra gl’immortali alla magion di Giove?

La figlia di Nereo, che te solea

Onorare ed accor qual dolce figlio?

Così grave garrìa Giunone oppressa

Dal duol col figlio del potente Giove;

Ed ei nulla in risposta a lei parola

Dicea, tal riveria del suo gran padre

La moglie; e non soffrio di starle avanti

Agli occhi; e dagli Dei tratto in disparte

Mesto si assise. Gravemente irati

Erano incontro lui gli Dei, che aita

Porgeano a’ Greci, e d’altra parte quelli

Che i Troian favorian, facean pur forza

Di dargli onore, e l’onor avean certo

Godendo entro di se, ma sì, che punto

Di ciò Giunon non si accorgesse, poscia

Che alla presenza sua tutti i celesti

La riverian mirando lei dolente.

D’Achille intanto men non venia l’ira,

Tal per le membra indomite di lui

Bollia, di pugnar vago, il fosco sangue,

Ned alma de’ Troian così ferito

Osava di appressarlo, anzi lontani

Se ne stavan da lui, come ne’ boschi

Paventando il leon, che il cacciatore

Ferìo, stanno i villan; che perché sia

Trapassato di stral non prende ancora

Oblio di sua fierezza; ma girando

I torvi lumi intorno orribilmente

Con l’aspra bocca sua digrigna, e rugge

Dall’ira insieme; e la mortifer’asta

Nel figlio di Peleo movea la rabbia,

Ma togliea forza a lui del Dio lo strale.

E pur così lanciossi, e fra nemici

La poderosa lancia entrò vibrando.

Ivi il divino Oritaone uccise

Buon d’Ettore compagno, avendo colto

Lui nella tempia, e non potèo la lunga

Lancia impedir, benché il bramasse, l’elmo,

Ma per lui penetrando oltra, e per l’ossa

Recise del cervello i nervi, ed indi

Il florido vigore in lui disciolse,

Ipponoo vinse ancor, ferendo lui

Sotto le ciglia, ove la sede han gli occhi,

Onde cadeo dalle palpebre a terra

La papilla divisa, e l’alma scese

Ratta all’inferno. Ad Alcitoo passando

La guancia, troncò lui la lingua integra,

Ed ei spirando giù casconne al suolo,

E per l’orecchio fuor la punta apparve.

Questi atterrì che lui moveano incontro

Il divin uomo, e di molti altri sciolse

L’alma, fugaci, perché ancor fumante

Nel petto il sangue avea, ma poiché in lui

Raffreddarsi le membra, e si moria,

Fermossi, e sopra la frassinea lancia

Riposossi appoggiato, e quegli intanto

Portati dal timor fuggian volando.

Ah! paurosi e Dardani e Troiani,

Nè voi di me, che vo correndo a morte,

Dall’asta micidiale avete scampo,

Ma tutti insieme pagherete il fio

Con grave danno all’aspre Erinni vostre.

Diss’egli; ed essi udendo ebber gran tema.

Come treman ne’ monti udito il suono

Del fier leon, che alteramente rugge,

I piccoli cervetti imbelli, e vili,

Temendo la gran fera, in guisa tale

I Troiani guerrieri, e i peregrini

Ammirator temevano all’estremo

Grido di Achille, e si credean che ancora

Ferito ei fosse; ed ei l’audace core

Dal fato oppresso, e le robuste membra

Simile ad alto monte, infra gli uccisi

Cadeo prostrato; e nel cader rimbombo

Diede la terra, e gran rumor fer l’armi,

Ed essi col pensiero anco mirando

II fier nemico, avean terrore immenso;

Siccome allor che la sanguigna belva

Da cacciator presso alle balze uccisa

Miran le pecorelle, e ferit’anco

Non osan di appressarla, e benché morta

Sia paventan di lei, quasi vivente;

Tale ancora i Troian temeano Achille,

Che più non era; e pur fra gli altri colmo

Pari di gioia il sen con le parole

Dea gran conforto a’ popoli stimando

Che, morto Achille, omai cessar gli Argivi

Devesser pur dall’ostinata guerra,

Poiché egli sol de’ Greci era la forza.

Amici, egli dicea, se valorosi

A me darete prontamente aita,

Oggi o morrem qui dagli Argivi uccisi,

O co’ destrier di Ettorre in Ilio salvi

Il corpo rapirem di Achille estinto,

Con quei destrier, che mio fratello ucciso

Nella battaglia il lor signor tremando

Ne portan mesti, onde Achille estinto

Con questi rapirem, supremo onore

Porgeremo a’ destrieri, ed al medesmo

Ettore, se pur v’ha giù nell’inferno

O senso o legge, così mal costui

Fé de’ Teucri governo. E ben avranno

Di altissimo piacer colma la mente

Le femmine Troiane a lui d’intorno

Per la città diffuse, è quasi fere

Tigri per li figliuol colme di rabbia,

O leonesse pur contro colui

Che faticoso in dare caccie è dotto;

Tal le Troiane dell’ucciso Achille

Al cadavere intorno in copia sparte

Insulteran soverchiamente irate,

Altre iraconde per cagion de’ padri,

De’ mariti altre, ed altre ancor de’ figli,

Tai per cagion de’ prossimi onorati.

Ma più lieti ne sian mio padre, e quanti

Vecchi malgrado lor nella cittate

Grave ritien della vecchiezza il peso.

Noi se costui nella città portiamo

Agli augelli del ciel daremlo in preda.

Disse; ed intanto al morto corpo intorno

Del forte figlio di Peleo fer cerchio

Audacemente quei che dianzi tema

Aver solean di lui. Glauco ed Enea

Col valoroso Agenore, ed altri

Ne’ dannosi conflitti a mischie esperti,

Tentando a più possa di condur lui

Pur d’ilion nella città sacrata.

Ma non fu pigro a Dei simile Ajace,

Anzi presto il coperse, e con la lunga

Lancia tutti dal morto ir fè lontano.

Non cessavan però dalla battaglia

Quelli, ma intorno a lui sempre più folto

Inforzossi l’assalto, in guisa d’api

Di lunghe labbra, che volando intorno

A’ lor alberghi numerose fanno

Oltraggio all’uom, che lor si appressa, ed egli

Nulla di lor volar cura prendendo

Togliene i dolci favi, ed elle offese

Dal fumo essendo e dall’umana destra

Movongli assalti, e punto ei non le stima.

In guisa tal nulla curava Ajace

Di lor che feano insulto; anzi primiero

Colto sovra la poppa a morte diede

Agelao di Meonio, indi il divino

Testore, ed in un punto Arcitoo uccise,

Agestrato, Aganippo, e Zoro e Nisso,

E l’inclito Erimante, il qual di Licia

Sotto Glauco il magnanimo sen venne:

N’abitò questi Melanippo eccelso

Delubro di Minerva, incontro posto

Di Massicito al promontorio appresso

Di Chelidon, cui là nel mar tremanti

Mirano i marinar, qualor d’intorno

Van costeggiando alle taglienti pietre.

Al morir di costui l’inclito figlio

D’Ippoloco gran duol sentì nell’alma,

Imperocché di lui compagno egli era,

E senza dimorar lo scudo cinto

Di molte cuoia insieme urtò di Ajace,

Ma la carne di lui già non offese

Perché il salvar de’ buoi le doppie terga

E la corazza, che alle invitte membra

Adattata egli avea sono lo scudo.

Ma nè però dalla crudel tenzone

Desistea Glauco, di atterrir pur fermo

Ajace, e altri così con mente folle

Alto egli prese a minacciar vantando:

Ajace, perché te — dicon le genti

Fra tutti gli altri Argivi esser più forte,

E di te stima fanno appunto, come

Facean del saggio Achille; il dover chiede,

Che oggi ancor tu col tuo parente insieme,

Pur com’egli morìo, morendo caggia.

Ciò disse, i detti suoi spargendo invano,

Perocché non sapea contro qual uomo

Di se molto miglior movesse l’asta.

Quinci rivolto a lui con torvo sguardo

Così gli disse il bellicoso Ajace:

Misero, e non sai tu quant’era Ettorre

Di te più forte e più feroce in guerra,

E pur di noi fuggia l’impeto e l’asta,

E ciò perché era in un prudente e forte.

Ma tu la mente hai nella notte involta,

Che incontro a me, che di gran lunga sono

Di te miglior, venir nel campo osasti.

Ospite me già non dirai paterno,

Né con doni placando mi farai

Ch’io lasci di pugnar, siccome, festi

Pur di Tideo del generoso figlio;

Che se tu di colui l’ira fuggisti,

Io non permetterò, che con la vita

Dalla battaglia i tuoi faccian ritorno.

Forse tu di color nella tenzone

Ti fidi, che sembianti a mosche vili

Teco d’Achille irreprensibil vanno

Movendo assalto intorno al corpo estinto.

Ma questi anch’io castigherò donando

A loro audaci e morte: e Parche acerbe.

Detto così, verso i Troian si mosse,

Come leone in cupa valle o bosco

Verso i can della caccia; e molti uccise,

Che fare acquisto là credean di gloria,

Troiani insieme e Licii: onde la gente

Così temea, come nel mare i pesci

Al comparir della balena orrenda,

O del delfin, cui grande il flutto pasce;

Di Telamon così temean del figlio

La forza i Teucri, che ognor più feroce

Moveansi combattendo, e pur non anco

Cessavan dalla pugna, e quinci e quindi

Infiniti di Achille al corpo intorno,

Immersi nella polvere, quai porci

Al Lione d’intorno erano uccisi;

E crudele in fra lor surgea contrasto.

D’Ippoloco ivi al buon figliuol diè morte

Il valoroso Ajace, il qual cadèo

All’indietro così sovra d’Achille,

Come talor de’ monti a cader viene

Sovra la dura quercia alcun virgulto;

Così giacque costui dall’asta ucciso

Sovra d’Achille estinto al corpo esangue.

Intorno a cui di Anchise il forte figlio

In compagnia de’ valorosi amici

Con molto faticar movendo l’arme

Trasselo a’ Teucri, ed a’ compagni il diede,

Acciocché pien d’alta mestizia il core

D’Ilio portasse lui nel sacro giro.

Ed egli intanto combattea dintorno

Achille, e nel pugnar l’altero Aiace

Con l’asta lo ferì sopra la polpa

Del destro braccio; e ratto ei ritirossi

Dalla cocente zuffa. E il ferro dentro

Fino all’osso era giunto; onde gl’industri

Medici intorno a lui prendean fatica:

Questi sorbir dalla ferita il sangue,

E quelle cose fero, ond’altri suole

De’ feriti alleggiar l’acerba doglia.

Pugnava Aiace a folgore sembiante,

Questi uccidendo e quei, sì l’affliggea

Fero dolor del suo parente ucciso.

Del prudente Laerte il buon figliuolo

Combattea co’ nemici a lui vicino,

Di cui grave timore avean le genti.

Il veloce Pisandro a morte spinse

Giovane e guerrier Menalo insieme,

Che nell’inclito suol visse di Alcide.

Quinci Atinnio il divin di vita sciolse,

Che già la Ninfa Pegasea le chiome

Vaga al robusto Emalion del fiume

Grinico al corso partono vicino.

Oresbio appresso a lui di Proteo figlio

Uccise che abitò d’Ida sublime

Sotto le incolte valli, e non l’accolse

La nobil madre Panacea tornando;

Ma per le man di Ulisse estinto giacque,

Che di molti altri ancor l’anima sciolse

Con l’asta impetuosa, a tutti morte

Color donando, che cogliea d’intorno

L’estinto. Ma con l’asta lui percosse

Del divino Megacle Alcon figliuolo.

Presso al destro ginocchio, e per il terso

Schinier zampilla fuor l’oscuro sangue.

Pur non prezzò la piaga; anzi ruina

Apportò al feritor, però che a lui

Di battaglia bramoso il ferro spinse

Dell’asta per lo scudo, e con gran forza

E con gagliarda man supino a terra

Cacciollo, e risonar di lui cadente

Là per la polve l’arme, e la corazza

A’ membri intorno, di sanguigno umore

Venia coperta; ed ei l’asta nocente

Fuor dal corpo gli trasse e dallo scudo,

E con l’asta partì, che fuori uscia

Lo spirto dalle membra, e lasciò lui

L’alma immortale. Indi avventossi indietro

Benché ferito, a’ suoi compagni Ulisse,

Né si fermò dalla, campagna cruda.

Non altrimenti intorno al grande Achille

Confusamente tutti gli altri Greci

Pronti e volenterosi opravan l’arme,

E presti con le man l’aste pulite

Sonando strage fean di largo stuolo.

Siccome i venti impetuosi urtando

Nelle selve frondose a terra sparte

Caggion le foglie lievi, allor che l’anno

Principio prende, e termina l’autunno.

Tal con le lance dispergean costoro

I valorosi Greci, perché tutti

Fiso avean nella mente Achille ucciso.

Ma sovra tutti il saggio Aiace; e quinci

A cruda Parca egual, larga facea

Strage de’ Teucri. Intanto l’arco tese

Inver lui Pari, ond’ei che se ne accorse

Con sasso il capo a lui percosse, e franse

Il comato elmo la nocente pietra,

Onde notte il surprese, e nella polve

Cadèo. Né lui giovar benché bramoso

Di servirsi di lor gli acuti strali,

Che sparsi nella rena e quinci e quindi

Furo, e vota con lor la faretra anco.

Dalla man fuggì l’arco. E i cari amici

Trattolo dal periglio e posto lui

Sovra i corsier di Ettorre alla cittade

Di Troia il riportar respirando egli

Alquanto pure e misero gemendo.

Né lasciar già dal lor signor lontane

L’arme, anzi le portar dal pian raccolte

Col rege loro, a cui mentre gemea

Con alto suon gridando Aiace disse:

Ah! com’oggi hai ben tu la grave forza

Della morte schivata, ancor ch’io stimi

Che sia per arrivarti il giorno estremo

Per man di qualche Argivo, e di me forse.

Or ad altr’opra l’animo rivolgo,

Come ritolto alla crudele strage

Il cadaver di Achille ai Greci io renda.

Detto così, contro i nemici stese

Le man feroci, che d’intorno ancora

Pugnavano di Achille al corpo esangue.

Ed essi poi che dalla forte destra

Di lui molti privar vidder di spirto,

Sbigottirono, e col rifletter Pari

A timidi avoltoi, ch’empio di tema

L’aquila degli augei reina, mentre

Ne’ monti a lacerar badan la greggia,

Che col dente rapace il lupo ancise;

Così dispergea loro in questa e quella

Parte l’ardito Aiace, or con volanti

Pietre, ed ora col brando, ora con l’urto.

Ed essi paurosi ivano a schiera

Dalla pugna fuggendo, a sturni eguali,

Che uccidendo il falcon persegue, e ratto

Per involarsi alla crudele strage

Fuggon veloci or quinci or quindi in torme.

In guisa tal costor dalla battaglia

Partendo gìan di Priamo alla cittade

Miseri e pien di vergognosa tema,

Del grande Aiace paventando il grido,

Che lor seguia di umano sangue asperse

Le mani, E ben uccisi egli in un mentre

Tutti gli avria, se non si fosser chiusi

Della città nelle potenti porte;

Ove ripreser pur gli spirti alquanto,

Perocché era passata al cor la doglia.

Poiché nella città rinchiusi gli ebbe,

Come la varia greggia il pastor chiude,

Ritornò al pian, nè già premea co’ piedi

Egli il terren ma calpestando già

E l’arme e il sangue e degli uccisi i corpi,

Perché gran turba di guerrieri estinti

Dall’immensa città fino alle rive

Dell’Ellesponto il pian patente e largo

Premea, cui vinti avea la fatal forza.

Come l’arida messe allor che folta

A’ piè del mietitor recisa cade,

E molti ivi giacer di spiche onusti

Veggonsi brevi, fasci, e chi non miete

Rallegrasi dell’opra, e gode insieme

Di aver sì lieto e sì ferace campo.

Tal d’ambedue le parti e questi e quelli

Preso oggimai della lugubre mischia

Oblìo giacean per la campagna stesi.

Né già de’ Greci i valorosi figli

I Troiani spogliar, che là fra il sangue

Uccisi eran prostrati, e fra la polve,

Prima che il figlio di Peleo, che schermo

Era lor nelle guerre, alto fremendo

Non avesser donato al foco in preda.

Onde traendo lui gli Argivi regi

Il grandioso cadavere portaro

Fuor della mischia; e sì, portando, lui

Ne’ padiglion locar presso alle navi:

E gravemente a lui dintorno accolti

Fin dall’imo del cor gemean dolenti,

Perché esso degli Argivi era la forza;

E pur allor giacea dentro la tenda

Del sonoro Ellesponto appresso al lido

Scordato a pien della virtù dell’arme;

Come altro ruinò Tizio superbo

Quando al venire in Pitia egli ebbe ardire

Di violar Latona, onde adirato

Lui benché si robusto, in un baleno

Con l’alale saette Apollo uccise,

Ond’ei nel sangue orribilmente involto

Giaceasi, molte misure occupando

Sull’ampia terra, e spaziosa madre

Di lui, che il figlio sospirò cadente

Odioso a’ divi, e ne godeo Latona.

Tal ruinò nella nemica terra

Di Peleo il figlio, ed apportò cadendo

Letizia a’ Teucri, inconsolabil pianto

Al popolo de’ Greci: al cui lamento

Fremendo rimbombò del mare il fondo.

A tutti allor nel petto il cor si affranse

Certo stimando di dovere omai

Da’ Troian nella guerra esser dispersi.

Onde membrando là presso alle navi

De’ cari genitor che negli alberghi

Lasciaro, e in un delle novelle spose

Che si struggan ne’ voti letti in pianto

Co’ dolci pargoletti i lor mariti

Desiose attendendo, in lor prendea

Viè maggior forza il sospirar dolente.

Onde caduto in lor desìo di pianto

Sovra gettati alle profonde arene

Presto al gran figlio di Peleo, destaro

Inconsolabil lutto, e da radice

Ingiuriosi a se medesmi i crini

Svellendo i capi lor bruttar di polve.

Qual saliti i nemici entro le mura

Nasce un pianto allor che impetuosi

Incendon la città, svenan le genti

Insieme, e fan delle ricchezze preda.

Tal sorgea degli Achèi presso alle navi

Alto rumor di lacrimoso pianto,

Perché il lor difensor, di Peleo il figlio

Presso ai legni giacca dalle celesti

Saette anciso, a Marte in tutto eguale,

Quando l’altera Dea di padre nata

Potente, in lui colà nel Troian campo

Gravemente sonante avventò pietra.

I Mirmidon senza riposo Achille

Sospiravan dolenti in cerchio sparti

Del morto rege al nobil corpo intorno,

Del rege lor, che placido solea

Mostrarsi a tutti i suoi compagni eguale,

Perocché non superbo era ed altero

Egli verso d’altrui, ma tutte l’opre

Sue con forza e prudenza iva temprando.

Aiace a tutti avanti alto gemendo

Piangea del zio paterno e de’ diletti

Parenti il figlio da divino strale

Percosso perché già non potea quegli

Da qualsiasi mortale essere ucciso

Di quei cui dà l’immensa terra albergo.

Lui piangea dunque l’onorato Aiace,

Or di lui morto a’ padiglioni intorno

Girando, ed or del mar sovra la terra

Steso il gran corpo, e sì dicea gemendo:

Achille, ahimè! de’ bellicosi Argivi

Gran forza tu lontan da’ larghi campi

Di Ftia moristi a Troia; e non ti uccise

Uom da vicin, ma da remota parte

Stral non antiveduto e doloroso;

Qual soglion ne’ conflitti i più codardi

Lanciar frequenti. Perché già nessuno

Uom, che maneggiar puote il grande scudo

O chi di Marte ha nelle scuole appreso

Ben d’intorno alle tempie attarsi l’elmo,

E la lancia, brandir sa con la mano,

E combattendo alli nemici petti

Tagliare il ferro, e lacerarlo intorno,

Con le quadrella guerreggiò da lunge.

Perocché, se colui, che te ferio,

Fosse aperto comparso a te davanti,

Fuggito non avria senza ferita

Dell’asta tua l’impetuosa forza.

Ma Giove strugger tutti have in pensiero,

E far cader nostra fatica invano.

E certo omai contro gli Argivi ei pende

A dar vittoria a’ Teucri; e non v’ha dubbio,

Tale avendo agli Achèi tolta difesa.

Ahi ahi! come rinchiuso entro l’ostello

Il vecchio Peleo gemerà dolente,

Essendo occorso a lui caso sì grave

Nell’ingrata vecchiezza, e bene ucciso

Con la novella ei rimarrà dal duolo,

E lui fora miglior, poiché la morte

Così darebbe il mal tolto all’oblio.

Ma se pure egli avvien, che non uccida

Lui per cagione di suo figlio il fato;

Misero, in grave angoscia consumando

Andrà la sua vecchiezza, e intorno al foco

Verrà col duol la vita sua godendo,

Peleo, che a’ Dii celesti era sì caro.

Ma non donano, ahimè! tutte le cose

Sempre i celesti a’ miseri mortali.

Così questi piangea di doglia pieno

Di Peleo il figlio, e d’altra parte il vecchio

Fenice con le braccia avendo cinto

Il corpo onde ebbe Achille audace forza

Mesto versava inconsolabil lutto,

E gli ululati alzando il saggio core

Di angoscia colmo in questa guisa disse:

Moristi ahi! dolce figlio, ed a me pianto

Giammai non evitabile lasciasti.

Oh! me coperto avesse pur la terra

Pria ch’io vedessi il tuo destino acerbo;

Perocché a me non penetrò nell’alma

Giammai doglia maggior da quando il suolo

Lasciai paterno, e i genitori illustri

Fuggendo per la Grecia a Peleo giunsi,

Il qual mi accolse, e mi diè doni insieme,

De’ Dolopi signore esser mi feo,

Te che, per casa allor portato in braccio

Eri, a me pose in collo, e commandommi

Con gran pensier, che te pargoletto anco

Quasi dolce allevassi e proprio figlio.

Accettai volentieri; e tu ridendo

Mi ti accostasti al petto, e con le labbra

Ischerzando sovente ivi formando

Voci indistinte, e spesso il petto e i panni

Con fanciulleschi vezzi a me rigavi.

In man ti portav’io tutto festoso,

Perché speme concetta avea nell’alma

Di nutrir curator della mia vita

E gran consolator di mia vecchiezza.

Ma questo mio sperar durato ha poco.

Forse or tu scendi in ver la notte stigia,

E il petto mio terribilmente s’ange,

Poiché fero è il dolor che il cor mi offende

Ah! così me gemente almen di vita

Dispogli, pria che il buon Peleo l’intenda,

Di cui ben conosco io, che alla novella

Farà diritto e disperato il pianto.

Miserabil il duol d’ambo noi fia

Di tuo padre e di me per tua cagione,

Di noi che al tuo morir di angoscia pieni

Tosto contro il decreto alto di Giove

N’andrem sotto la terra, e così fia

Molto miglior, che rimanendo in vita

Dal suo conservator viver lontano.

Così disse, entro l’alma estrema doglia

Chiudendo il vecchio. Indi di Atreo il nipote

Lacrime appresso lui spargea piangendo;

Quinci tal voce alzò dolente, il core

Avendo in sen di grave doglia ardente:

Moristi oh! degli Argivi il più perfetto,

Moristi, e degli Achei le larghe schiere

Sulla sponda lasciasti, onde omai lieve

Agli avversarj fia te giunto a morte

Il superarne, e tu cadendo hai dato

Letizia a’ Teucri, che temean te dianzi,

Come il leon suol la minuta greggia.

Ed or volenterosi operan l’arme

Pugnando appresso alle veloci navi.

O padre Giove, e tu con false voci

Gli uomini alletti, poiché mi accennasti,

Ch’io del re Priamo desolar dovea

Le mura, e la promessa or tu mi attendi,

Ma gravemente il mio pensier travagli,

Perché certo stimo io che alcun rimedio

Non si trovi alla guerra, estinto Achille

Così disse egli mesto. Indi le turbe

Dal profondo del cor destando il lutto

Piangean dintorno al valoroso Achille,

E piangean sì che ne surgea rimbombo

Dalle propinque navi, e il grave suono

Si ergea confuso al ciel che unqua non posa.

Siccome allor che de’ venti alla forza

S’inalzan l’onde, e van correndo al lido

Frangendo senza posa il mar dintorno,

Rendon le sponde e i sassi orrendo suono;

Tal de’ dolenti Achei disciolti in pianto

Al corpo intorno dell’ardito Achille

Fremean per l’aria i gemiti e i singulti,

E ben a lor sommersi in tristo lutto

Sovraggiunta sarìa la notte oscura,

Se non avesse il figlio di Neleo

Nestore, che nel cuor chiudea gran duolo,

Antiloco mostrando amato figlio,

Così parlato al successor di Atreo:

Potente imperator, che in man lo scettro,

Agamennone invitto; hai degli Argivi,

Cessiamo omai dal lacrimoso pianto

Oggi, e poscia non fìa chi vieti a’ Greci

Di lacrime saziarsi, e molti giorni

Ir prolungando a voglia loro il duolo.

Ma dell’ardito figlio di Peléo

Dalle membra lavato il sangue immondo,

Poniamlo entro al feretro; perché certo

E non convien, che troppo lungo tempo

Stiansi disonorati i corpi estinti,

Mentre ch’uomo di lor cura si prende.

Così dunque ordinando allora disse

Di Neleo il saggio figlio; e il rege intanto.

Diligente commise a’ suoi scudieri,

Che posta al fuoco e riscaldata l’onda,

Del feroce leon lavasser poscia

L’estinte membra, e delle ornate vesti

Il coprisser che a lui diletto figlio

Purpuree diè la madre, allor che a Troia

Sen venne. Essi obbediro il duce loro,

E con gran cura alfin condotte l’opre

Imposte, nobilmente entro le tende

Il corpo collocar di Achille estinto.

Cui mirando a pietà mossa la saggia

Minerva, a lui di ambrosia il capo asperse,

La cui virtù, come altrui dice, ha forza

Di conservar color vivaci un tempo

Nelle membra di quei che il fato uccise.

Ciò dunque il rese e vivido e succoso,

E in vista appunto ad uom che spiri eguale.

Severissima in lui formò la fronte

Qual ebbe allor che per Patroclo ucciso

Diletto a lui compagno, irato apparve.

Di corpo indi più augusto e più guerriero

Sembrar lo fece, e sì ammirar gli Argivi

Tutti in vedendo lui quasi vivente.

Perché disteso là sopra il feretro

Grande, e membruto altrui dormir parea.

D’intorno a lui le vergini cattive

Meste che depredò quand’ei distrusse,

La sacra Lenno, e la città, sublime

Di Ezion nel Cilico paese.

Le belle membra si offeodean gemendo,

E percotendo ad ambe mani il petto

Sospiravan profondo il saggio Achille,

Perch’ei riverìa lor benché di stirpe

Nemica nate, e sovra l’altre tutte

Acerbo duol nel cuore racchiudea

Briseida sua moglie, e circondando

Il cadavere suo con l’una e l’altra

Man là sulla persona lacerando

Ululava dolente, e di sanguigno

Livor segni sorgean per le percosse

Nel suo tenero petto: e pure in lei,

Benché mesta così, splendea qual lampo

Graziosa beltà, che d’ogni parte

La nobil forma sua grata rendea.

Quinci miseramente lacrimando

Proruppe in questi detti: Ahi! non v’e alcuno,

Cui più che a me sia l’aspro caso grave;

Perocché certo altro doler giammai

Altronde a me non giunse, e non de’ frati

Non della patria mia grande e potente

A questo egual, che di tua morte provo.

Tu m’eri il giorno, tu del sol la luce,

Tu dolce vita, del mio ben la speme,

E gran soccorso a me ne’ miei tormenti;

Tu assai più caro a me che la bellezza

E più che i genitor, poiché tu solo

Eri a me il tutto ancor ch’io fossi ancella,

Perché tu me consorte tua facesti

Rimovendo da me l’opre servili:

Or alcun altro delle Greche navi

Fia che in Sparta ferace me conduca

In Argo pien di sete, ove meschina

Scompagnata da te servendo altrui

Sosterrò gravi affanni. Oh ! me la terra

Coperta avesse pria sopra me sparsa,

Che della morte tua vedessi il caso.

Così piangea costei l’ucciso Achille

Con le serve infelici e i mesti Achei,

Lagrimando in un punto e rege e sposo;

Né mai le triste lagrime dal volto

Asciugava costei, che fino al suolo

Scorrean dalle palpebre, appunto come

Suol da petrosa fonte oscura l’onda

Stillar, cui sovra immensa neve e ghiaccio

Consperso fu nella scoscesa rupe,

E d’intorno la brina in un si strugge

E dall’Euro e dal battere del sole.

Il suono allor dell’eccitalo pianto

Le figlie tutte di Nereo sentiro,

Che del mar nel gran fondo hanno l’albergo.

A tutte acerbo duol cadéo nell’alma,

E dei dolenti lor sospiri intorno

Il suon rendea dell’Ellesponto il lido.

Coperte il nudo corpo in negro manto

Queste de’ Greci all’arsenal sen giro

Movendo il piede in un drappello avvolte

Per lo canuto flutto; e mentre il sommo

Salian del mare, a lor cedendo luogo,

Con stridulo rumor sen venian queste

Pari alle preste gru, che di lontano

Veggion grave tempesta; e intorno a loro

Mentre piangean, con miserabil modo

Sospirando gemean foche e balene.

Giunser elle veloci ove rivolto

Era il viaggio lor, dirottamente

Piangendo intanto il valoroso figlio

Della sorella. Indi spedite e pronte

D’incomparabil doglia il petto carco

Venner le Muse di Elicona i poggi

Lasciando per dar gloria alla figliuola

Di Nereo vaga d’occhi. E Giove allora

Grande e intrepida ardir nel cuore infuse

De’ Greci, affinché non temesser punto

La bella schiera delle Dèe mirando

Manifesta nel campo. Esse di Achille

Gemean benché immortali al corpo intorno

Concordi tutte, e ne fremeano i lidi

Dell’Ellesponto; era di pianto aspersa

Tutta intorno al cadavere la terra,

E l’ampio mar ne diffondea sospiri.

Del lacrimar de’ popoli dolenti,

Perché ognor più crescea l’immenso lutto,

Molli eran navi e padiglioni ed armi.

Quinci la madre sua gittata sopra

Baciollo in bocca, e sì parlò gemendo:

Goda cinta di rose in ciel l’Aurora,

Goda scacciando omai dal petto l’ira

ASSIO corrente per cagion del figlio

Asteropeo concetta, e goda insieme

Di Priamo anco la stirpe. Io n’andrò al cielo,

E lagrimando avvolgerommi intorno

Di Giove ai piedi, e mi dorrò poich’egli

Contro mio grado ad uom mortal mi giunse,

Ad uom, cui tosto la crudel vecchiezza

Assalse, ed alle Parche appresso omai

Che portan seco della vita il fine.

Ma non tanto di lui cura mi prende

Quanto di Achille, ohimé! lui perché a schivo

Letto umano io prendea Giove promise

Fare immortal di Peleo entro la reggia.

Ora mi fea impetuoso vento,

Or di acqua forma presi, ora di augello,

Or sembianza pigliai, di ardente sole;

Né sarebbe uom mortal mai giunto meco

Mentre in tutte le cose io mi cangiava,

Che rinchiudono in sen la terra e il cielo,

Se pria non prometteami il re di Olimpo

Far mio figlio divin, guerriero e grande.

E parte pur mi diè, poiché maggiore

Ei fu di ogni mortal; ma troppo breve

Diegli ohimé! vita, e me colmò di doglia.

Perciò dunque andrò al cielo, e negli alberghi

Di Giove il figlio mio piangerò mesta,

E ricorderò lui quanto per lui

E per li figli suoi, che gravemente

Erano travagliati, a soffrir ebbi,

Perché nel petto suo pietà si desti.

Così parlò con disperato pianto

Teti marina; onde rivolta a lei

Calliope intesa ad alleggiar la doglia,

Che le premea la mente, in guisa tale

Sciolse la lingua, e disse: il pianto affrena

Divina Teti, e non volere indarno

Per cagion del tuo figlio avere in ira

Degli uomini il Signore, e degli Dei.

Or non sai tu, che dell’istesso Giove

Altitonante i figli anco periro

Dal poter vinti delle crude Parche?

Ed a me non morìo, che pur mortale

Non sono, Orfeo mio figlio, il cui soave

Canto de’ fiumi l’onde, e de’ gagliardi

Venti seguian le selve e i sassi alpestri,

De fiumi l’acque, de’gagliardi venti

Gl’impetuosi spirti, e in un gli augelli,

Che con piume leggier si alzano a volo?

E pur soffersi il duol, perché non lice

Ad alcun degli Dei struggersi in doglia,

E donar l’alma a disperato pianto.

Dunque da te che per cagion del buono

Tuo figlio mesta sei parta lo sdegno;

Poiché per lo mio impero e delle mie

Pieridi sorelle alle terrene

Genti i poeti canteran mai sempre

Di lui le glorie, e la robusta forza.

Non voler tu qual femminella suole

In negro lutto consumarti l’alma.

Or non udisti tu, che intorno a quanti

Uomini abitator son della terra

Senza aver degli Dei cura o pensiero

(Tale ha sommo poter sortito solo)

Crudo si aggira inesorabil fato?

Questi or di Priamo, che sì d’oro abbonda

Struggerà la cittate, ed a sua voglia

Guasterà i Greci e la Troiana gente;

Ned alcun degli Dei fia che gliel vieti.

Così disse Calliope, entro la mente

Saggi volgendo ed ottimi pensieri.

Cadea già il Sol dell’Ocean nell’onde,

E ver l’immenso ciel sorgea l’oscura

Notte, che ai mesti e miseri mortali

Portar suol dolce e placido conforto.

E là si dier sovra la rena al sonno

De’ Greci i figli in schiere al corpo estinto

Intorno, di alto affanno oppressi e carchi.

Ma già non prese la veloce Teti

Il sonno anzi vicina al suo figliuolo

Con le Nereidi sue, dive immortali

Si assise e intorno a lei, che dal profondo

Gemea stando le Muse, or questa or quella

Di lor la consolava, affinché oblio

Lei prendesse del duol. Ma quando poscia

Ridente per lo ciel l’Aurora venne

Chiara luce portando a Priamo, a’ Teucri;

Piansero molti giorni i Greci mesti

Achille, onde gemean del mar le lunghe

Sponde, e lacrimav’anche il grande Nereo

Per onorar la sua Nereide figlia;

Seco piangean gli altri marini Dei

Achille estinto. Indi donar gli Argivi

Del gran figlio di Peleo il corpo al fuoco,

Di legna ragunata eccelsa mole,

Che addotta i Greci avean dal monte Ideo,

Ove tutti sudar, perocché a loro

Imposto fu che congegnasser tosto

Di selvosa materia immensa copia,

Acciocché prestamente indi n’ardesse

Di Achille ucciso il corpo. Al rogo intorno

Quindi gran copia d’arme anco adunaro

Tolte a’ guerrieri ancisi, e sopra a loro

Isvenando de’ Teucri i più bei figli

Gettaro ancora insiem pecore e porci

Colmi su lui locar di grasso opimi.

Indi le vesti anco portar dall’arche

Le suore alto plorando; e il tutto sovra

Alla pira gittaro accumulando

Oro ed elettra; ed’i lor crin recisi

Copriro i Mirmidon del duce il corpo.

Briseide lagrimosa anch’essa intorno

All’estinto le treccie a se troncando

Fecene al suo signor l’ultimo dono.

Molte anfore versar sovra la pira

Di ontuoso liquore, e molte piene

Di mele e vin soave sì che eguale

All’odorato nettare parea,

Poservi intorno. Ed altre cose insieme

Di prezioso odor, su lui gittaro

A’ mortai meraviglia, e tutti i beni

Che la terra produce e il sacro mare.

Poscia che d’arme cinti ebber la pira

Pedoni e cavalieri ornata appieno

L’arser di nuovo, e replicaro il pianto.

Indi Giove dal ciel di ambrosia stille

Del figlio di Peleo sopra l’esangue

Corpo diffuse, e procurando onore

Alla diva Nereide, nunzio ad Eolo

Mandò Mercurio affinché convocasse

De’ presti venti la sacrata forza;

Poiché dovea di Achille ardere il colpo.

Volonne indi veloce, e non fe niego

Eolo, ma tosto a se chiamato il grave

Borea e Zeffiro in un gagliardamente

Mandolli a Troia furiosi, e cinti

Di rapida procella. Essi repente

Con terribil soffiar varcaro il mare

Sovra, e nel trapassar con tanta forza

Altissimo rumor sorger si udìa

Per la terra e per l’onde. Adunar poscia

In un quante sen van per l’aere immense

Nubi volando; e per voler di Giove

In un balen concordemente, uniti

Si lanciar nella pira, a cui nel mezzo

Giaceasi Achille ucciso; ed eccitossi

Colà ove la sede avea Vulcano

Alto rumor d’impetuosa fiamma;

E in quel punto medesmo alzaro al cielo

I Mirmidoni suoi dirotto pianto.

I venti in compagnia della procella

Al ministero intenti, il giorno integro

E la notte opportuni anco spirando

Abbruciaro il cadavere. S’inalza

Gran copia intanto al ciel di oscuro fumo,

E iscoppiando la materia immensa

Vinta tutta riman dal fuoco, e resta

In tenebroso cenere conversa.

Poiché ebber la grand’ opra al fin condotta

I venti infaticabili tornaro

Ciaschedun con le nubi in sua caverna.

I Mirmidon, poiché il vorace fuoco

Il vasto rege lor consumato ebbe;

Dopo i cavalli e i giovinetti uccisi

E tutti quei tesor che lacrimando

Poser gli Achei d’intorno al nobil corpo,

Spenser col vino il rogo, e di lui l’ossa

Ben si riconoscean, perocché all’altre

Non erano simil, ma pari a quelle

Di un terribil gigante, nè commiste

Eran l’altre con lor, perocché i buoi

Ed i corsier con gli scannati figli

De’ Teucri, e l’altri uccisi in un confusi

Posti alquanto dal corpo eran lontano

Dal poter di Vulcano egli consunto

Giacea nel mezzo e separato e solo.

Tutte dunque di lui raccolser l’ossa

Sospirando i compagni, e dentro un’urna

Di argento le locar capace e grave,

Da tutte parti di or lucente ornata.

Di ambrosia poscia di Nereo le figlie

E di copiosi ungenti le rigaro

Per crescere indi gloria al grande Achille.

Alfin grasso di buoi mischiato insieme

Con mel soave e molle, in una massa

Congiuntamente accolte le copriro.

La madre a lor diè l’urna, che già Bacco

A lei donata avea, dell’ingegnoso

Vulcano illustre e riguardevol’opra.

In questa dunque collocaron l’ossa

Del magnanimo Achille; indi gli Argivi

Sovra altissimo sasso in riva al flutto

Dell’Ellesponto fabbricar la tomba,

E vi appesero intorno ampio trofeo,

L’ardito re de’ Mirmidon piangendo.

Né sì di Achille intrepido restaro

I destrieri immortal presso alle navi

Senza lacrimar lui, perocché anco

Pianto versar per lor signore ucciso;

Né volean questi da gravosa doglia

Oppressi omai con l’angosciose genti

Rimescolarsi o coi destrieri argivi;

Ma tornar là dell’Oceano all’onde

Entro gli antri di Teti, in tutto lunge

Dal commercio degli uomini infelici

Là ‘ve lor prima generati avea

Al risonante Zeffiro congiunta

La divina Podarge ambo veloci.

E ben certo eseguian questo pensiero,

Se non avesse lor fatto divieto

Il voler degli Dei, purché il veloce

Figlio di Achille da lor fosse accolto,

Quando da Sciro ei ne venisse al campo,

Perocché a lor mirabilmente nati

Benché immortal prefisso avean le Parche

Figlie del sacro Abisso il dover prima

Esser domati da Nettuno, ed indi

Portar l’ardito Peleo, e poscia Achille

Invitto alle fatiche, e quarto al fine

Neottolemo il magnanimo, cui dopo

Per l’impero di Giove a’ campi Elisii

Portar dovean là de’ beati al suolo.

Questa fu dunque la cagion, che appresso

Le navi, benché il cuor tocco dal duolo,

Riedessero, mercè de’ duci loro,

Di cui piangevan l’uno, e l’altro ancora,

Pur attendean di veder lui bramosi.

Lasciando allor del pelago sonante

Nettuno il vasto flutto al lido venne

Agli uomini celato, ed accostossi

Allo stuol delle Dee di Nereo figlie,

Ed a Teti parlò, che ancor piangea

Achille in questa guisa: il grave lutto

Affrena omai che per tuo figlio versi;

Perché non coi mortali ei tratterrassi,

Ma ben co’ divi, come Bacco ed anco

Ercole il poderoso, e non mai sempre

Sia che ritengan lui Plutone e il Fato

Nella notte sommerso: poiché tosto

Egli alla luce tornerà di Giove;

Ed io donerò lui nel mare Eussino

Isola dilettosa, ove il tuo figlio

Un Dio sarà mai sempre; e le vicine

Genti l’onoreran co’ sacrifìzj

Grati, a me pari. Or via dunque omai lascia

Di lacrimar sì forte, e non ti voglia

L’alma gravar col tormentoso affanno.

Poich’ebbe così detto, e consolata

Con le parole sue Teti dolente,

Simile ad aura al mar fece ritorno.

Essa nel petto suo respirò alquanto,

E le cose promesse il Dio le attese.

De’ Greci poi dolenti ognun tornossi

Ove le navi avea che seco addusse

Dall’Argivo paese. Indi le Muse

Tornaro in Elicona, e le figliuole

Di Nereo in mar tuffarsi, e pianser ivi

E sospirar dolenti il prode Achille.