Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον
LIBRO TERZO
Poiché apparìo della dorata Aurora
La luce, i Guerrier Pilii il corpo estinto Di Antiloco portar verso le navi, Sospirando altamente il duce loro, E della piaggia là dell’Ellesponto Gravemente gemendo il seppelliro. Piangean dintorno a lui gli alteri figli De’ Greci, perché tutti acerbo affanno Lor per cagion di Nestore premea. Ed egli pure all’angosciosa doglia Non cedea punto indomito di core; Perché d’uomo prudente è con audace Animo sopportar l’intero affanno, Nè darsi in preda alle querele, al duolo. Achille intanto di grand’ira acceso Per lo compagno Antiloco fremendo Orribil contro a’ Teucri all’arme corse. Nè men anco i Troian daIl’altra parte L’arme vestirsi, ancorché avesser tema Del forte Achille; e dalle mura pronti Schierati usciro, perché a lor nel petto Compartita l’audacia avean le Parche; Di cui molti dovean per man d’Achille Alle stanze calar di Pluto, donde Alma giammai non riede; ed ei non meno Perir dovea colà sotto le mura Della città di Priamo. In un baleno Concorsero in un luogo; e quinci e quindi Il folto stuol de’ Teucri, e forti Argivi, Pronti ardendo la guerra, e servir Marte. Fra questi il figlio di Peleo disperse Grande stuol d’avversarj e la feconda Terra correa di sangue, e in un di morti Era di Xanto e Simoenta il letto. Ed ei seguendo lor di lor fea scempio Insino alla città, perché le genti Gravissima paura oppresse avea, E tutti certo allor distrutti avrebbe, E da’ cardini svelte a terra stese Le porte, o quelle obliquamente urtando Fracassati i serragli il varco aperto Delle mura di Priamo ai Greci, ed anco L’abbondante città posta in ruina, Se del severo Apollo, il qual vedea Tanta estinta cader copia di eroi, Non si fosse di sdegno accesa l’alma. Repente dunque giù calò dal cielo A fera simigliante, appesa avendo La gran faretra agli omeri, e gli strali, L’aspre piaghe di cui sanar non lice, E d’Eaco al nipote avanti fermo Stette, e gran suono a lui destaro al tergo E la faretra e l’arco; uscian dagli occhi Scintille a lui di fuoco, e sotto a’ piedi Crollavasi la terra, un grido orrendo Il gran Dio mandò fuor per far che Achille Lasciasse sbigottito alla gran voce La guerra, e in guisa tal salvasse i Teucri. Scosiati da’ Troian, scostati, o figlio Di Peleo, che non lice omai le mani Stender cruidei sopra i nemici a fine Che dal cielo alcun Dio te non offenda. Così diss’egli; e dell’immortal voce Del Dio null’ebbe quei timore o cura, Perocché già d’intorno a lui volando Sen gían le Parche immansuete; e quinci Avvenne ch’gli il Nume ebbe in dispregio, E sì con esso lui disse gridando: Febo, onde avvien che me che pur ricuso Di pugnar con gli Dei, mentre difendi I superbi Troiani, a pugna inciti? Altra fiata già qui desti a me briga, Me rimovendo dalla zuffa allora Che pria tu dalla morte Ettor salvasti, Ettorre onde i Troian dalla cittade Sen giano alteri. Or via dunque ti parti Quinci e con gli altri Dei vattene in cielo, Se te, benché immortal, non vuoi ch’io fera. Così detto, in disparte il Dio lasciando, Contro si messe a’ Teucri, i quai fuggendo In verso la città prendeano il corso. Così lor cacciava egli, onde di sdegno Febo l’animo colmo in questa guisa Fra se medesmo ragionando disse: Ahi come di costui la mente ognora Vien furiando! omai nè Giove stesso Possa soffrirlo, nè altri in cotal guisa Agli Dei resistente e furibondo. Così diss’egli, e fra le nubi misto Invisibile fessi e d’aere cimo, Doloroso avventogli acerbo strale, Che nel tallon ferillo. Il duol repente Nell’alma gli s’immerse, ed ei cadeo A torre egual, cui di Tifon la forza Con sotterraneo turbine fracassa Mentre dall’imo suo la terra scote. Tal d’Achille il gran corpo al suol cadeo, Che prostrato così girando intorno Gli occhi, alzò grido minaccioso orrendo. Qual fu che in me drizzò l’acerbo strale Celatamente or di venire avanti Ardisca, e discoperto a me si mostri, Perché l’oscuro sangue e tutte insieme Le viscere di lui diffuse a terra Siano dalla mia lancia, ed ei discenda Al lacrimoso inferno. Ah! ben son certo Che non mi avria appressando unqua potuto Con la lancia domar terreno eroe, Non se invitto nel sen chiudesse il core. Invitto il core e di metallo ei fosse. Sempre ai più valorosi i più codardi Tenere occulte insidie hanno in costume. Dunque traggasi avanti, ancorché un Dio Esser si vanti in ver gli Argivi irato, Perché mi dice il cor che Apollo ei sia Di misera caligine coperto; Perché già mi narrò mia cara madre, Che perire io dovea presso alle porte Scee dall’aspre di lui quadrella estinto. Ed ecco vani i detti suoi non furo. Disse; e lo stral mortifero fuor trasse Con le mani implacabili e crudeli Dall’insanabil piaga, onde da quella Inasprita uscì sangue, e il cor gli oppresse Doglia mortale. Indi affannato lunge Da se lanciò lo stral; cui tosto i venti Presero, ed ad Apollo il riportaro, Che al sacro pian salìa di Giove al cielo; Perché non convenia, che immortal cosa E che uscita era pur d’immortal mano Rimanesse perduta. Onde ripreso Lo stral salìo veloce all’alto cielo Degli alti Dei nell’adunanze, dove Concorrean tutti a rimirare intenti Degli uomini le guerre e di loro altri Accrescer d’ Troian chiedean la gloria, Altri de’ Greci, e sì fra lor divisi Gli uccisi e gli uccisor vedean nel piano. Poiché di Giove la consorte saggia Di lui si avvide, subitana corse A rampognarlo con parole acerbe: Febo, e qual grave errore oggi hai commesso! Nulla membrando che da noi celesti Del divino Peleo le nozze furo Solennemente celebrale, dove Tu medesmo cenando agli altri in mezzo Cantavi, come Teti argentea il piede L’ampio flutto del mar lasciando a tergo Da Peleo condutta a se consorte, E te citareggiando in un concorso Per torme innumerabili di fiere Di augei di monti discoscesi ed alti Né men di fiumi, e d’ogni ombrosa selva. Ciò nol membrasti, ed esecrabil opra Facesti all’uom divin donando morte, Che tu con gli altri Dei nettar libando Pregavi che di Teti a Peleo il figlio Nascesse, e del tuo prego oblìo ti prese; Mentre del forte Laomedonte onore Tu procuri alle genti, appresso a cui Già tu pascesti armenti; e perché Dio Tu fosti, ed ei mortal, noia a te diede; E tu di mente forsennata e folle, Quanto soffristi allor posto in oblio, E tutte le tue forze, i Teucri onori. Misero, e non discerne il tuo pensiero Sinistro qualsiasi, empio, e doglia merti Patire, e qual d’onore a noi sia degno. Certo benigno erane Achille e nato Da nostra stirpe; nè io già non mi credo, Perché egli estinto sia, che la fatica Esser deggia a’ Troian quinci più lieve. Tal da Sciro verrà di lui figliuolo Bentosto all’aspra guerra a dar soccorso A’ Greci, al padre in suo valore eguale, Ed a più di un nemico addurrà oltraggio. Tanta avei de’ Troian dunque tu cura! No, ma d’Achille alla virtude invidia Portasti sol, perché in valor vincea Ogni altro uomo terreno. Ahi folle or come, Come con gli occhi tuoi mirar potrai La figlia di Nereo, mentre verranne Fra gl’immortali alla magion di Giove? La figlia di Nereo, che te solea Onorare ed accor qual dolce figlio? Così grave garrìa Giunone oppressa Dal duol col figlio del potente Giove; Ed ei nulla in risposta a lei parola Dicea, tal riveria del suo gran padre La moglie; e non soffrio di starle avanti Agli occhi; e dagli Dei tratto in disparte Mesto si assise. Gravemente irati Erano incontro lui gli Dei, che aita Porgeano a’ Greci, e d’altra parte quelli Che i Troian favorian, facean pur forza Di dargli onore, e l’onor avean certo Godendo entro di se, ma sì, che punto Di ciò Giunon non si accorgesse, poscia Che alla presenza sua tutti i celesti La riverian mirando lei dolente. D’Achille intanto men non venia l’ira, Tal per le membra indomite di lui Bollia, di pugnar vago, il fosco sangue, Ned alma de’ Troian così ferito Osava di appressarlo, anzi lontani Se ne stavan da lui, come ne’ boschi Paventando il leon, che il cacciatore Ferìo, stanno i villan; che perché sia Trapassato di stral non prende ancora Oblio di sua fierezza; ma girando I torvi lumi intorno orribilmente Con l’aspra bocca sua digrigna, e rugge Dall’ira insieme; e la mortifer’asta Nel figlio di Peleo movea la rabbia, Ma togliea forza a lui del Dio lo strale. E pur così lanciossi, e fra nemici La poderosa lancia entrò vibrando. Ivi il divino Oritaone uccise Buon d’Ettore compagno, avendo colto Lui nella tempia, e non potèo la lunga Lancia impedir, benché il bramasse, l’elmo, Ma per lui penetrando oltra, e per l’ossa Recise del cervello i nervi, ed indi Il florido vigore in lui disciolse, Ipponoo vinse ancor, ferendo lui Sotto le ciglia, ove la sede han gli occhi, Onde cadeo dalle palpebre a terra La papilla divisa, e l’alma scese Ratta all’inferno. Ad Alcitoo passando La guancia, troncò lui la lingua integra, Ed ei spirando giù casconne al suolo, E per l’orecchio fuor la punta apparve. Questi atterrì che lui moveano incontro Il divin uomo, e di molti altri sciolse L’alma, fugaci, perché ancor fumante Nel petto il sangue avea, ma poiché in lui Raffreddarsi le membra, e si moria, Fermossi, e sopra la frassinea lancia Riposossi appoggiato, e quegli intanto Portati dal timor fuggian volando. Ah! paurosi e Dardani e Troiani, Nè voi di me, che vo correndo a morte, Dall’asta micidiale avete scampo, Ma tutti insieme pagherete il fio Con grave danno all’aspre Erinni vostre. Diss’egli; ed essi udendo ebber gran tema. Come treman ne’ monti udito il suono Del fier leon, che alteramente rugge, I piccoli cervetti imbelli, e vili, Temendo la gran fera, in guisa tale I Troiani guerrieri, e i peregrini Ammirator temevano all’estremo Grido di Achille, e si credean che ancora Ferito ei fosse; ed ei l’audace core Dal fato oppresso, e le robuste membra Simile ad alto monte, infra gli uccisi Cadeo prostrato; e nel cader rimbombo Diede la terra, e gran rumor fer l’armi, Ed essi col pensiero anco mirando II fier nemico, avean terrore immenso; Siccome allor che la sanguigna belva Da cacciator presso alle balze uccisa Miran le pecorelle, e ferit’anco Non osan di appressarla, e benché morta Sia paventan di lei, quasi vivente; Tale ancora i Troian temeano Achille, Che più non era; e pur fra gli altri colmo Pari di gioia il sen con le parole Dea gran conforto a’ popoli stimando Che, morto Achille, omai cessar gli Argivi Devesser pur dall’ostinata guerra, Poiché egli sol de’ Greci era la forza. Amici, egli dicea, se valorosi A me darete prontamente aita, Oggi o morrem qui dagli Argivi uccisi, O co’ destrier di Ettorre in Ilio salvi Il corpo rapirem di Achille estinto, Con quei destrier, che mio fratello ucciso Nella battaglia il lor signor tremando Ne portan mesti, onde Achille estinto Con questi rapirem, supremo onore Porgeremo a’ destrieri, ed al medesmo Ettore, se pur v’ha giù nell’inferno O senso o legge, così mal costui Fé de’ Teucri governo. E ben avranno Di altissimo piacer colma la mente Le femmine Troiane a lui d’intorno Per la città diffuse, è quasi fere Tigri per li figliuol colme di rabbia, O leonesse pur contro colui Che faticoso in dare caccie è dotto; Tal le Troiane dell’ucciso Achille Al cadavere intorno in copia sparte Insulteran soverchiamente irate, Altre iraconde per cagion de’ padri, De’ mariti altre, ed altre ancor de’ figli, Tai per cagion de’ prossimi onorati. Ma più lieti ne sian mio padre, e quanti Vecchi malgrado lor nella cittate Grave ritien della vecchiezza il peso. Noi se costui nella città portiamo Agli augelli del ciel daremlo in preda. Disse; ed intanto al morto corpo intorno Del forte figlio di Peleo fer cerchio Audacemente quei che dianzi tema Aver solean di lui. Glauco ed Enea Col valoroso Agenore, ed altri Ne’ dannosi conflitti a mischie esperti, Tentando a più possa di condur lui Pur d’ilion nella città sacrata. Ma non fu pigro a Dei simile Ajace, Anzi presto il coperse, e con la lunga Lancia tutti dal morto ir fè lontano. Non cessavan però dalla battaglia Quelli, ma intorno a lui sempre più folto Inforzossi l’assalto, in guisa d’api Di lunghe labbra, che volando intorno A’ lor alberghi numerose fanno Oltraggio all’uom, che lor si appressa, ed egli Nulla di lor volar cura prendendo Togliene i dolci favi, ed elle offese Dal fumo essendo e dall’umana destra Movongli assalti, e punto ei non le stima. In guisa tal nulla curava Ajace Di lor che feano insulto; anzi primiero Colto sovra la poppa a morte diede Agelao di Meonio, indi il divino Testore, ed in un punto Arcitoo uccise, Agestrato, Aganippo, e Zoro e Nisso, E l’inclito Erimante, il qual di Licia Sotto Glauco il magnanimo sen venne: N’abitò questi Melanippo eccelso Delubro di Minerva, incontro posto Di Massicito al promontorio appresso Di Chelidon, cui là nel mar tremanti Mirano i marinar, qualor d’intorno Van costeggiando alle taglienti pietre. Al morir di costui l’inclito figlio D’Ippoloco gran duol sentì nell’alma, Imperocché di lui compagno egli era, E senza dimorar lo scudo cinto Di molte cuoia insieme urtò di Ajace, Ma la carne di lui già non offese Perché il salvar de’ buoi le doppie terga E la corazza, che alle invitte membra Adattata egli avea sono lo scudo. Ma nè però dalla crudel tenzone Desistea Glauco, di atterrir pur fermo Ajace, e altri così con mente folle Alto egli prese a minacciar vantando: Ajace, perché te — dicon le genti Fra tutti gli altri Argivi esser più forte, E di te stima fanno appunto, come Facean del saggio Achille; il dover chiede, Che oggi ancor tu col tuo parente insieme, Pur com’egli morìo, morendo caggia. Ciò disse, i detti suoi spargendo invano, Perocché non sapea contro qual uomo Di se molto miglior movesse l’asta. Quinci rivolto a lui con torvo sguardo Così gli disse il bellicoso Ajace: Misero, e non sai tu quant’era Ettorre Di te più forte e più feroce in guerra, E pur di noi fuggia l’impeto e l’asta, E ciò perché era in un prudente e forte. Ma tu la mente hai nella notte involta, Che incontro a me, che di gran lunga sono Di te miglior, venir nel campo osasti. Ospite me già non dirai paterno, Né con doni placando mi farai Ch’io lasci di pugnar, siccome, festi Pur di Tideo del generoso figlio; Che se tu di colui l’ira fuggisti, Io non permetterò, che con la vita Dalla battaglia i tuoi faccian ritorno. Forse tu di color nella tenzone Ti fidi, che sembianti a mosche vili Teco d’Achille irreprensibil vanno Movendo assalto intorno al corpo estinto. Ma questi anch’io castigherò donando A loro audaci e morte: e Parche acerbe. Detto così, verso i Troian si mosse, Come leone in cupa valle o bosco Verso i can della caccia; e molti uccise, Che fare acquisto là credean di gloria, Troiani insieme e Licii: onde la gente Così temea, come nel mare i pesci Al comparir della balena orrenda, O del delfin, cui grande il flutto pasce; Di Telamon così temean del figlio La forza i Teucri, che ognor più feroce Moveansi combattendo, e pur non anco Cessavan dalla pugna, e quinci e quindi Infiniti di Achille al corpo intorno, Immersi nella polvere, quai porci Al Lione d’intorno erano uccisi; E crudele in fra lor surgea contrasto. D’Ippoloco ivi al buon figliuol diè morte Il valoroso Ajace, il qual cadèo All’indietro così sovra d’Achille, Come talor de’ monti a cader viene Sovra la dura quercia alcun virgulto; Così giacque costui dall’asta ucciso Sovra d’Achille estinto al corpo esangue. Intorno a cui di Anchise il forte figlio In compagnia de’ valorosi amici Con molto faticar movendo l’arme Trasselo a’ Teucri, ed a’ compagni il diede, Acciocché pien d’alta mestizia il core D’Ilio portasse lui nel sacro giro. Ed egli intanto combattea dintorno Achille, e nel pugnar l’altero Aiace Con l’asta lo ferì sopra la polpa Del destro braccio; e ratto ei ritirossi Dalla cocente zuffa. E il ferro dentro Fino all’osso era giunto; onde gl’industri Medici intorno a lui prendean fatica: Questi sorbir dalla ferita il sangue, E quelle cose fero, ond’altri suole De’ feriti alleggiar l’acerba doglia. Pugnava Aiace a folgore sembiante, Questi uccidendo e quei, sì l’affliggea Fero dolor del suo parente ucciso. Del prudente Laerte il buon figliuolo Combattea co’ nemici a lui vicino, Di cui grave timore avean le genti. Il veloce Pisandro a morte spinse Giovane e guerrier Menalo insieme, Che nell’inclito suol visse di Alcide. Quinci Atinnio il divin di vita sciolse, Che già la Ninfa Pegasea le chiome Vaga al robusto Emalion del fiume Grinico al corso partono vicino. Oresbio appresso a lui di Proteo figlio Uccise che abitò d’Ida sublime Sotto le incolte valli, e non l’accolse La nobil madre Panacea tornando; Ma per le man di Ulisse estinto giacque, Che di molti altri ancor l’anima sciolse Con l’asta impetuosa, a tutti morte Color donando, che cogliea d’intorno L’estinto. Ma con l’asta lui percosse Del divino Megacle Alcon figliuolo. Presso al destro ginocchio, e per il terso Schinier zampilla fuor l’oscuro sangue. Pur non prezzò la piaga; anzi ruina Apportò al feritor, però che a lui Di battaglia bramoso il ferro spinse Dell’asta per lo scudo, e con gran forza E con gagliarda man supino a terra Cacciollo, e risonar di lui cadente Là per la polve l’arme, e la corazza A’ membri intorno, di sanguigno umore Venia coperta; ed ei l’asta nocente Fuor dal corpo gli trasse e dallo scudo, E con l’asta partì, che fuori uscia Lo spirto dalle membra, e lasciò lui L’alma immortale. Indi avventossi indietro Benché ferito, a’ suoi compagni Ulisse, Né si fermò dalla, campagna cruda. Non altrimenti intorno al grande Achille Confusamente tutti gli altri Greci Pronti e volenterosi opravan l’arme, E presti con le man l’aste pulite Sonando strage fean di largo stuolo. Siccome i venti impetuosi urtando Nelle selve frondose a terra sparte Caggion le foglie lievi, allor che l’anno Principio prende, e termina l’autunno. Tal con le lance dispergean costoro I valorosi Greci, perché tutti Fiso avean nella mente Achille ucciso. Ma sovra tutti il saggio Aiace; e quinci A cruda Parca egual, larga facea Strage de’ Teucri. Intanto l’arco tese Inver lui Pari, ond’ei che se ne accorse Con sasso il capo a lui percosse, e franse Il comato elmo la nocente pietra, Onde notte il surprese, e nella polve Cadèo. Né lui giovar benché bramoso Di servirsi di lor gli acuti strali, Che sparsi nella rena e quinci e quindi Furo, e vota con lor la faretra anco. Dalla man fuggì l’arco. E i cari amici Trattolo dal periglio e posto lui Sovra i corsier di Ettorre alla cittade Di Troia il riportar respirando egli Alquanto pure e misero gemendo. Né lasciar già dal lor signor lontane L’arme, anzi le portar dal pian raccolte Col rege loro, a cui mentre gemea Con alto suon gridando Aiace disse: Ah! com’oggi hai ben tu la grave forza Della morte schivata, ancor ch’io stimi Che sia per arrivarti il giorno estremo Per man di qualche Argivo, e di me forse. Or ad altr’opra l’animo rivolgo, Come ritolto alla crudele strage Il cadaver di Achille ai Greci io renda. Detto così, contro i nemici stese Le man feroci, che d’intorno ancora Pugnavano di Achille al corpo esangue. Ed essi poi che dalla forte destra Di lui molti privar vidder di spirto, Sbigottirono, e col rifletter Pari A timidi avoltoi, ch’empio di tema L’aquila degli augei reina, mentre Ne’ monti a lacerar badan la greggia, Che col dente rapace il lupo ancise; Così dispergea loro in questa e quella Parte l’ardito Aiace, or con volanti Pietre, ed ora col brando, ora con l’urto. Ed essi paurosi ivano a schiera Dalla pugna fuggendo, a sturni eguali, Che uccidendo il falcon persegue, e ratto Per involarsi alla crudele strage Fuggon veloci or quinci or quindi in torme. In guisa tal costor dalla battaglia Partendo gìan di Priamo alla cittade Miseri e pien di vergognosa tema, Del grande Aiace paventando il grido, Che lor seguia di umano sangue asperse Le mani, E ben uccisi egli in un mentre Tutti gli avria, se non si fosser chiusi Della città nelle potenti porte; Ove ripreser pur gli spirti alquanto, Perocché era passata al cor la doglia. Poiché nella città rinchiusi gli ebbe, Come la varia greggia il pastor chiude, Ritornò al pian, nè già premea co’ piedi Egli il terren ma calpestando già E l’arme e il sangue e degli uccisi i corpi, Perché gran turba di guerrieri estinti Dall’immensa città fino alle rive Dell’Ellesponto il pian patente e largo Premea, cui vinti avea la fatal forza. Come l’arida messe allor che folta A’ piè del mietitor recisa cade, E molti ivi giacer di spiche onusti Veggonsi brevi, fasci, e chi non miete Rallegrasi dell’opra, e gode insieme Di aver sì lieto e sì ferace campo. Tal d’ambedue le parti e questi e quelli Preso oggimai della lugubre mischia Oblìo giacean per la campagna stesi. Né già de’ Greci i valorosi figli I Troiani spogliar, che là fra il sangue Uccisi eran prostrati, e fra la polve, Prima che il figlio di Peleo, che schermo Era lor nelle guerre, alto fremendo Non avesser donato al foco in preda. Onde traendo lui gli Argivi regi Il grandioso cadavere portaro Fuor della mischia; e sì, portando, lui Ne’ padiglion locar presso alle navi: E gravemente a lui dintorno accolti Fin dall’imo del cor gemean dolenti, Perché esso degli Argivi era la forza; E pur allor giacea dentro la tenda Del sonoro Ellesponto appresso al lido Scordato a pien della virtù dell’arme; Come altro ruinò Tizio superbo Quando al venire in Pitia egli ebbe ardire Di violar Latona, onde adirato Lui benché si robusto, in un baleno Con l’alale saette Apollo uccise, Ond’ei nel sangue orribilmente involto Giaceasi, molte misure occupando Sull’ampia terra, e spaziosa madre Di lui, che il figlio sospirò cadente Odioso a’ divi, e ne godeo Latona. Tal ruinò nella nemica terra Di Peleo il figlio, ed apportò cadendo Letizia a’ Teucri, inconsolabil pianto Al popolo de’ Greci: al cui lamento Fremendo rimbombò del mare il fondo. A tutti allor nel petto il cor si affranse Certo stimando di dovere omai Da’ Troian nella guerra esser dispersi. Onde membrando là presso alle navi De’ cari genitor che negli alberghi Lasciaro, e in un delle novelle spose Che si struggan ne’ voti letti in pianto Co’ dolci pargoletti i lor mariti Desiose attendendo, in lor prendea Viè maggior forza il sospirar dolente. Onde caduto in lor desìo di pianto Sovra gettati alle profonde arene Presto al gran figlio di Peleo, destaro Inconsolabil lutto, e da radice Ingiuriosi a se medesmi i crini Svellendo i capi lor bruttar di polve. Qual saliti i nemici entro le mura Nasce un pianto allor che impetuosi Incendon la città, svenan le genti Insieme, e fan delle ricchezze preda. Tal sorgea degli Achèi presso alle navi Alto rumor di lacrimoso pianto, Perché il lor difensor, di Peleo il figlio Presso ai legni giacca dalle celesti Saette anciso, a Marte in tutto eguale, Quando l’altera Dea di padre nata Potente, in lui colà nel Troian campo Gravemente sonante avventò pietra. I Mirmidon senza riposo Achille Sospiravan dolenti in cerchio sparti Del morto rege al nobil corpo intorno, Del rege lor, che placido solea Mostrarsi a tutti i suoi compagni eguale, Perocché non superbo era ed altero Egli verso d’altrui, ma tutte l’opre Sue con forza e prudenza iva temprando. Aiace a tutti avanti alto gemendo Piangea del zio paterno e de’ diletti Parenti il figlio da divino strale Percosso perché già non potea quegli Da qualsiasi mortale essere ucciso Di quei cui dà l’immensa terra albergo. Lui piangea dunque l’onorato Aiace, Or di lui morto a’ padiglioni intorno Girando, ed or del mar sovra la terra Steso il gran corpo, e sì dicea gemendo: Achille, ahimè! de’ bellicosi Argivi Gran forza tu lontan da’ larghi campi Di Ftia moristi a Troia; e non ti uccise Uom da vicin, ma da remota parte Stral non antiveduto e doloroso; Qual soglion ne’ conflitti i più codardi Lanciar frequenti. Perché già nessuno Uom, che maneggiar puote il grande scudo O chi di Marte ha nelle scuole appreso Ben d’intorno alle tempie attarsi l’elmo, E la lancia, brandir sa con la mano, E combattendo alli nemici petti Tagliare il ferro, e lacerarlo intorno, Con le quadrella guerreggiò da lunge. Perocché, se colui, che te ferio, Fosse aperto comparso a te davanti, Fuggito non avria senza ferita Dell’asta tua l’impetuosa forza. Ma Giove strugger tutti have in pensiero, E far cader nostra fatica invano. E certo omai contro gli Argivi ei pende A dar vittoria a’ Teucri; e non v’ha dubbio, Tale avendo agli Achèi tolta difesa. Ahi ahi! come rinchiuso entro l’ostello Il vecchio Peleo gemerà dolente, Essendo occorso a lui caso sì grave Nell’ingrata vecchiezza, e bene ucciso Con la novella ei rimarrà dal duolo, E lui fora miglior, poiché la morte Così darebbe il mal tolto all’oblio. Ma se pure egli avvien, che non uccida Lui per cagione di suo figlio il fato; Misero, in grave angoscia consumando Andrà la sua vecchiezza, e intorno al foco Verrà col duol la vita sua godendo, Peleo, che a’ Dii celesti era sì caro. Ma non donano, ahimè! tutte le cose Sempre i celesti a’ miseri mortali. Così questi piangea di doglia pieno Di Peleo il figlio, e d’altra parte il vecchio Fenice con le braccia avendo cinto Il corpo onde ebbe Achille audace forza Mesto versava inconsolabil lutto, E gli ululati alzando il saggio core Di angoscia colmo in questa guisa disse: Moristi ahi! dolce figlio, ed a me pianto Giammai non evitabile lasciasti. Oh! me coperto avesse pur la terra Pria ch’io vedessi il tuo destino acerbo; Perocché a me non penetrò nell’alma Giammai doglia maggior da quando il suolo Lasciai paterno, e i genitori illustri Fuggendo per la Grecia a Peleo giunsi, Il qual mi accolse, e mi diè doni insieme, De’ Dolopi signore esser mi feo, Te che, per casa allor portato in braccio Eri, a me pose in collo, e commandommi Con gran pensier, che te pargoletto anco Quasi dolce allevassi e proprio figlio. Accettai volentieri; e tu ridendo Mi ti accostasti al petto, e con le labbra Ischerzando sovente ivi formando Voci indistinte, e spesso il petto e i panni Con fanciulleschi vezzi a me rigavi. In man ti portav’io tutto festoso, Perché speme concetta avea nell’alma Di nutrir curator della mia vita E gran consolator di mia vecchiezza. Ma questo mio sperar durato ha poco. Forse or tu scendi in ver la notte stigia, E il petto mio terribilmente s’ange, Poiché fero è il dolor che il cor mi offende Ah! così me gemente almen di vita Dispogli, pria che il buon Peleo l’intenda, Di cui ben conosco io, che alla novella Farà diritto e disperato il pianto. Miserabil il duol d’ambo noi fia Di tuo padre e di me per tua cagione, Di noi che al tuo morir di angoscia pieni Tosto contro il decreto alto di Giove N’andrem sotto la terra, e così fia Molto miglior, che rimanendo in vita Dal suo conservator viver lontano. Così disse, entro l’alma estrema doglia Chiudendo il vecchio. Indi di Atreo il nipote Lacrime appresso lui spargea piangendo; Quinci tal voce alzò dolente, il core Avendo in sen di grave doglia ardente: Moristi oh! degli Argivi il più perfetto, Moristi, e degli Achei le larghe schiere Sulla sponda lasciasti, onde omai lieve Agli avversarj fia te giunto a morte Il superarne, e tu cadendo hai dato Letizia a’ Teucri, che temean te dianzi, Come il leon suol la minuta greggia. Ed or volenterosi operan l’arme Pugnando appresso alle veloci navi. O padre Giove, e tu con false voci Gli uomini alletti, poiché mi accennasti, Ch’io del re Priamo desolar dovea Le mura, e la promessa or tu mi attendi, Ma gravemente il mio pensier travagli, Perché certo stimo io che alcun rimedio Non si trovi alla guerra, estinto Achille Così disse egli mesto. Indi le turbe Dal profondo del cor destando il lutto Piangean dintorno al valoroso Achille, E piangean sì che ne surgea rimbombo Dalle propinque navi, e il grave suono Si ergea confuso al ciel che unqua non posa. Siccome allor che de’ venti alla forza S’inalzan l’onde, e van correndo al lido Frangendo senza posa il mar dintorno, Rendon le sponde e i sassi orrendo suono; Tal de’ dolenti Achei disciolti in pianto Al corpo intorno dell’ardito Achille Fremean per l’aria i gemiti e i singulti, E ben a lor sommersi in tristo lutto Sovraggiunta sarìa la notte oscura, Se non avesse il figlio di Neleo Nestore, che nel cuor chiudea gran duolo, Antiloco mostrando amato figlio, Così parlato al successor di Atreo: Potente imperator, che in man lo scettro, Agamennone invitto; hai degli Argivi, Cessiamo omai dal lacrimoso pianto Oggi, e poscia non fìa chi vieti a’ Greci Di lacrime saziarsi, e molti giorni Ir prolungando a voglia loro il duolo. Ma dell’ardito figlio di Peléo Dalle membra lavato il sangue immondo, Poniamlo entro al feretro; perché certo E non convien, che troppo lungo tempo Stiansi disonorati i corpi estinti, Mentre ch’uomo di lor cura si prende. Così dunque ordinando allora disse Di Neleo il saggio figlio; e il rege intanto. Diligente commise a’ suoi scudieri, Che posta al fuoco e riscaldata l’onda, Del feroce leon lavasser poscia L’estinte membra, e delle ornate vesti Il coprisser che a lui diletto figlio Purpuree diè la madre, allor che a Troia Sen venne. Essi obbediro il duce loro, E con gran cura alfin condotte l’opre Imposte, nobilmente entro le tende Il corpo collocar di Achille estinto. Cui mirando a pietà mossa la saggia Minerva, a lui di ambrosia il capo asperse, La cui virtù, come altrui dice, ha forza Di conservar color vivaci un tempo Nelle membra di quei che il fato uccise. Ciò dunque il rese e vivido e succoso, E in vista appunto ad uom che spiri eguale. Severissima in lui formò la fronte Qual ebbe allor che per Patroclo ucciso Diletto a lui compagno, irato apparve. Di corpo indi più augusto e più guerriero Sembrar lo fece, e sì ammirar gli Argivi Tutti in vedendo lui quasi vivente. Perché disteso là sopra il feretro Grande, e membruto altrui dormir parea. D’intorno a lui le vergini cattive Meste che depredò quand’ei distrusse, La sacra Lenno, e la città, sublime Di Ezion nel Cilico paese. Le belle membra si offeodean gemendo, E percotendo ad ambe mani il petto Sospiravan profondo il saggio Achille, Perch’ei riverìa lor benché di stirpe Nemica nate, e sovra l’altre tutte Acerbo duol nel cuore racchiudea Briseida sua moglie, e circondando Il cadavere suo con l’una e l’altra Man là sulla persona lacerando Ululava dolente, e di sanguigno Livor segni sorgean per le percosse Nel suo tenero petto: e pure in lei, Benché mesta così, splendea qual lampo Graziosa beltà, che d’ogni parte La nobil forma sua grata rendea. Quinci miseramente lacrimando Proruppe in questi detti: Ahi! non v’e alcuno, Cui più che a me sia l’aspro caso grave; Perocché certo altro doler giammai Altronde a me non giunse, e non de’ frati Non della patria mia grande e potente A questo egual, che di tua morte provo. Tu m’eri il giorno, tu del sol la luce, Tu dolce vita, del mio ben la speme, E gran soccorso a me ne’ miei tormenti; Tu assai più caro a me che la bellezza E più che i genitor, poiché tu solo Eri a me il tutto ancor ch’io fossi ancella, Perché tu me consorte tua facesti Rimovendo da me l’opre servili: Or alcun altro delle Greche navi Fia che in Sparta ferace me conduca In Argo pien di sete, ove meschina Scompagnata da te servendo altrui Sosterrò gravi affanni. Oh ! me la terra Coperta avesse pria sopra me sparsa, Che della morte tua vedessi il caso. Così piangea costei l’ucciso Achille Con le serve infelici e i mesti Achei, Lagrimando in un punto e rege e sposo; Né mai le triste lagrime dal volto Asciugava costei, che fino al suolo Scorrean dalle palpebre, appunto come Suol da petrosa fonte oscura l’onda Stillar, cui sovra immensa neve e ghiaccio Consperso fu nella scoscesa rupe, E d’intorno la brina in un si strugge E dall’Euro e dal battere del sole. Il suono allor dell’eccitalo pianto Le figlie tutte di Nereo sentiro, Che del mar nel gran fondo hanno l’albergo. A tutte acerbo duol cadéo nell’alma, E dei dolenti lor sospiri intorno Il suon rendea dell’Ellesponto il lido. Coperte il nudo corpo in negro manto Queste de’ Greci all’arsenal sen giro Movendo il piede in un drappello avvolte Per lo canuto flutto; e mentre il sommo Salian del mare, a lor cedendo luogo, Con stridulo rumor sen venian queste Pari alle preste gru, che di lontano Veggion grave tempesta; e intorno a loro Mentre piangean, con miserabil modo Sospirando gemean foche e balene. Giunser elle veloci ove rivolto Era il viaggio lor, dirottamente Piangendo intanto il valoroso figlio Della sorella. Indi spedite e pronte D’incomparabil doglia il petto carco Venner le Muse di Elicona i poggi Lasciando per dar gloria alla figliuola Di Nereo vaga d’occhi. E Giove allora Grande e intrepida ardir nel cuore infuse De’ Greci, affinché non temesser punto La bella schiera delle Dèe mirando Manifesta nel campo. Esse di Achille Gemean benché immortali al corpo intorno Concordi tutte, e ne fremeano i lidi Dell’Ellesponto; era di pianto aspersa Tutta intorno al cadavere la terra, E l’ampio mar ne diffondea sospiri. Del lacrimar de’ popoli dolenti, Perché ognor più crescea l’immenso lutto, Molli eran navi e padiglioni ed armi. Quinci la madre sua gittata sopra Baciollo in bocca, e sì parlò gemendo: Goda cinta di rose in ciel l’Aurora, Goda scacciando omai dal petto l’ira ASSIO corrente per cagion del figlio Asteropeo concetta, e goda insieme Di Priamo anco la stirpe. Io n’andrò al cielo, E lagrimando avvolgerommi intorno Di Giove ai piedi, e mi dorrò poich’egli Contro mio grado ad uom mortal mi giunse, Ad uom, cui tosto la crudel vecchiezza Assalse, ed alle Parche appresso omai Che portan seco della vita il fine. Ma non tanto di lui cura mi prende Quanto di Achille, ohimé! lui perché a schivo Letto umano io prendea Giove promise Fare immortal di Peleo entro la reggia. Ora mi fea impetuoso vento, Or di acqua forma presi, ora di augello, Or sembianza pigliai, di ardente sole; Né sarebbe uom mortal mai giunto meco Mentre in tutte le cose io mi cangiava, Che rinchiudono in sen la terra e il cielo, Se pria non prometteami il re di Olimpo Far mio figlio divin, guerriero e grande. E parte pur mi diè, poiché maggiore Ei fu di ogni mortal; ma troppo breve Diegli ohimé! vita, e me colmò di doglia. Perciò dunque andrò al cielo, e negli alberghi Di Giove il figlio mio piangerò mesta, E ricorderò lui quanto per lui E per li figli suoi, che gravemente Erano travagliati, a soffrir ebbi, Perché nel petto suo pietà si desti. Così parlò con disperato pianto Teti marina; onde rivolta a lei Calliope intesa ad alleggiar la doglia, Che le premea la mente, in guisa tale Sciolse la lingua, e disse: il pianto affrena Divina Teti, e non volere indarno Per cagion del tuo figlio avere in ira Degli uomini il Signore, e degli Dei. Or non sai tu, che dell’istesso Giove Altitonante i figli anco periro Dal poter vinti delle crude Parche? Ed a me non morìo, che pur mortale Non sono, Orfeo mio figlio, il cui soave Canto de’ fiumi l’onde, e de’ gagliardi Venti seguian le selve e i sassi alpestri, De fiumi l’acque, de’gagliardi venti Gl’impetuosi spirti, e in un gli augelli, Che con piume leggier si alzano a volo? E pur soffersi il duol, perché non lice Ad alcun degli Dei struggersi in doglia, E donar l’alma a disperato pianto. Dunque da te che per cagion del buono Tuo figlio mesta sei parta lo sdegno; Poiché per lo mio impero e delle mie Pieridi sorelle alle terrene Genti i poeti canteran mai sempre Di lui le glorie, e la robusta forza. Non voler tu qual femminella suole In negro lutto consumarti l’alma. Or non udisti tu, che intorno a quanti Uomini abitator son della terra Senza aver degli Dei cura o pensiero (Tale ha sommo poter sortito solo) Crudo si aggira inesorabil fato? Questi or di Priamo, che sì d’oro abbonda Struggerà la cittate, ed a sua voglia Guasterà i Greci e la Troiana gente; Ned alcun degli Dei fia che gliel vieti. Così disse Calliope, entro la mente Saggi volgendo ed ottimi pensieri. Cadea già il Sol dell’Ocean nell’onde, E ver l’immenso ciel sorgea l’oscura Notte, che ai mesti e miseri mortali Portar suol dolce e placido conforto. E là si dier sovra la rena al sonno De’ Greci i figli in schiere al corpo estinto Intorno, di alto affanno oppressi e carchi. Ma già non prese la veloce Teti Il sonno anzi vicina al suo figliuolo Con le Nereidi sue, dive immortali Si assise e intorno a lei, che dal profondo Gemea stando le Muse, or questa or quella Di lor la consolava, affinché oblio Lei prendesse del duol. Ma quando poscia Ridente per lo ciel l’Aurora venne Chiara luce portando a Priamo, a’ Teucri; Piansero molti giorni i Greci mesti Achille, onde gemean del mar le lunghe Sponde, e lacrimav’anche il grande Nereo Per onorar la sua Nereide figlia; Seco piangean gli altri marini Dei Achille estinto. Indi donar gli Argivi Del gran figlio di Peleo il corpo al fuoco, Di legna ragunata eccelsa mole, Che addotta i Greci avean dal monte Ideo, Ove tutti sudar, perocché a loro Imposto fu che congegnasser tosto Di selvosa materia immensa copia, Acciocché prestamente indi n’ardesse Di Achille ucciso il corpo. Al rogo intorno Quindi gran copia d’arme anco adunaro Tolte a’ guerrieri ancisi, e sopra a loro Isvenando de’ Teucri i più bei figli Gettaro ancora insiem pecore e porci Colmi su lui locar di grasso opimi. Indi le vesti anco portar dall’arche Le suore alto plorando; e il tutto sovra Alla pira gittaro accumulando Oro ed elettra; ed’i lor crin recisi Copriro i Mirmidon del duce il corpo. Briseide lagrimosa anch’essa intorno All’estinto le treccie a se troncando Fecene al suo signor l’ultimo dono. Molte anfore versar sovra la pira Di ontuoso liquore, e molte piene Di mele e vin soave sì che eguale All’odorato nettare parea, Poservi intorno. Ed altre cose insieme Di prezioso odor, su lui gittaro A’ mortai meraviglia, e tutti i beni Che la terra produce e il sacro mare. Poscia che d’arme cinti ebber la pira Pedoni e cavalieri ornata appieno L’arser di nuovo, e replicaro il pianto. Indi Giove dal ciel di ambrosia stille Del figlio di Peleo sopra l’esangue Corpo diffuse, e procurando onore Alla diva Nereide, nunzio ad Eolo Mandò Mercurio affinché convocasse De’ presti venti la sacrata forza; Poiché dovea di Achille ardere il colpo. Volonne indi veloce, e non fe niego Eolo, ma tosto a se chiamato il grave Borea e Zeffiro in un gagliardamente Mandolli a Troia furiosi, e cinti Di rapida procella. Essi repente Con terribil soffiar varcaro il mare Sovra, e nel trapassar con tanta forza Altissimo rumor sorger si udìa Per la terra e per l’onde. Adunar poscia In un quante sen van per l’aere immense Nubi volando; e per voler di Giove In un balen concordemente, uniti Si lanciar nella pira, a cui nel mezzo Giaceasi Achille ucciso; ed eccitossi Colà ove la sede avea Vulcano Alto rumor d’impetuosa fiamma; E in quel punto medesmo alzaro al cielo I Mirmidoni suoi dirotto pianto. I venti in compagnia della procella Al ministero intenti, il giorno integro E la notte opportuni anco spirando Abbruciaro il cadavere. S’inalza Gran copia intanto al ciel di oscuro fumo, E iscoppiando la materia immensa Vinta tutta riman dal fuoco, e resta In tenebroso cenere conversa. Poiché ebber la grand’ opra al fin condotta I venti infaticabili tornaro Ciaschedun con le nubi in sua caverna. I Mirmidon, poiché il vorace fuoco Il vasto rege lor consumato ebbe; Dopo i cavalli e i giovinetti uccisi E tutti quei tesor che lacrimando Poser gli Achei d’intorno al nobil corpo, Spenser col vino il rogo, e di lui l’ossa Ben si riconoscean, perocché all’altre Non erano simil, ma pari a quelle Di un terribil gigante, nè commiste Eran l’altre con lor, perocché i buoi Ed i corsier con gli scannati figli De’ Teucri, e l’altri uccisi in un confusi Posti alquanto dal corpo eran lontano Dal poter di Vulcano egli consunto Giacea nel mezzo e separato e solo. Tutte dunque di lui raccolser l’ossa Sospirando i compagni, e dentro un’urna Di argento le locar capace e grave, Da tutte parti di or lucente ornata. Di ambrosia poscia di Nereo le figlie E di copiosi ungenti le rigaro Per crescere indi gloria al grande Achille. Alfin grasso di buoi mischiato insieme Con mel soave e molle, in una massa Congiuntamente accolte le copriro. La madre a lor diè l’urna, che già Bacco A lei donata avea, dell’ingegnoso Vulcano illustre e riguardevol’opra. In questa dunque collocaron l’ossa Del magnanimo Achille; indi gli Argivi Sovra altissimo sasso in riva al flutto Dell’Ellesponto fabbricar la tomba, E vi appesero intorno ampio trofeo, L’ardito re de’ Mirmidon piangendo. Né sì di Achille intrepido restaro I destrieri immortal presso alle navi Senza lacrimar lui, perocché anco Pianto versar per lor signore ucciso; Né volean questi da gravosa doglia Oppressi omai con l’angosciose genti Rimescolarsi o coi destrieri argivi; Ma tornar là dell’Oceano all’onde Entro gli antri di Teti, in tutto lunge Dal commercio degli uomini infelici Là ‘ve lor prima generati avea Al risonante Zeffiro congiunta La divina Podarge ambo veloci. E ben certo eseguian questo pensiero, Se non avesse lor fatto divieto Il voler degli Dei, purché il veloce Figlio di Achille da lor fosse accolto, Quando da Sciro ei ne venisse al campo, Perocché a lor mirabilmente nati Benché immortal prefisso avean le Parche Figlie del sacro Abisso il dover prima Esser domati da Nettuno, ed indi Portar l’ardito Peleo, e poscia Achille Invitto alle fatiche, e quarto al fine Neottolemo il magnanimo, cui dopo Per l’impero di Giove a’ campi Elisii Portar dovean là de’ beati al suolo. Questa fu dunque la cagion, che appresso Le navi, benché il cuor tocco dal duolo, Riedessero, mercè de’ duci loro, Di cui piangevan l’uno, e l’altro ancora, Pur attendean di veder lui bramosi. Lasciando allor del pelago sonante Nettuno il vasto flutto al lido venne Agli uomini celato, ed accostossi Allo stuol delle Dee di Nereo figlie, Ed a Teti parlò, che ancor piangea Achille in questa guisa: il grave lutto Affrena omai che per tuo figlio versi; Perché non coi mortali ei tratterrassi, Ma ben co’ divi, come Bacco ed anco Ercole il poderoso, e non mai sempre Sia che ritengan lui Plutone e il Fato Nella notte sommerso: poiché tosto Egli alla luce tornerà di Giove; Ed io donerò lui nel mare Eussino Isola dilettosa, ove il tuo figlio Un Dio sarà mai sempre; e le vicine Genti l’onoreran co’ sacrifìzj Grati, a me pari. Or via dunque omai lascia Di lacrimar sì forte, e non ti voglia L’alma gravar col tormentoso affanno. Poich’ebbe così detto, e consolata Con le parole sue Teti dolente, Simile ad aura al mar fece ritorno. Essa nel petto suo respirò alquanto, E le cose promesse il Dio le attese. De’ Greci poi dolenti ognun tornossi Ove le navi avea che seco addusse Dall’Argivo paese. Indi le Muse Tornaro in Elicona, e le figliuole Di Nereo in mar tuffarsi, e pianser ivi E sospirar dolenti il prode Achille.