I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO OTTAVO

Quando del Sol, che di colà ne ascende,

Ov’ha lo speco suo la bionda Aurora,

Il lucido splendor la terra sparge,

Allora i Teucri, e i valorosi figli

De’ Greci, armarsi alla battaglia pronti.

Questi incorava il buon figliuol d’Achille

Ad affrontar senza timore i Teucri.

Quelli accendea di Telefo il robusto

Figlio, sperando pur di dover certo

Atterrar l’alte mura, in preda al fuoco

Donar le navi, e dissipar le genti.

Ma vana era sua speme in guisa d’aura;

E intanto ivi le Parche a lui vicine

Alto ridean del suo sperare a vuoto.

Allor d’Achille intrepido il figliuolo

Alla fatica i Mirmidon destando,

Queste piene d’ardir parole disse:

Udite, o miei seguaci; il cor nel petto

Rinchiudete guerriero, affinché siamo

Nell’aspra pugna giovamento a’ Greci,

A’ nemici ruina. E non fia alcuno

Di voi, che si spaventi, perché suole

Crescer l’ardire all’uom valore, e forza;

Ma d’altra parte la paura vile

Fa, che altri perda in un consiglio, e possa.

Su dunque tutti all’opere di Marte

Siatevi pronti, affinché non respiri

L’esercito nemico, anzi si creda,

Che vivo ancor sia fra gli Argivi Achille.

Poich’ebbe così detto, armossi il tergo

Degli arnesi del padre, onde gran lume

Balenava d’intorno, e godea Teti

Dal mar guardando il prode suo nepote,

Veloce quindi uscio dall’alto muro

Di sopra asceso agl’immortai destrieri

Del padre. Come il sol nell’oriente

Dall’Oceano ascende, e raggi vibra

Sovra la terra di mirabil fuoco,

D’ardente fuoco, allor che a’ suoi corsieri

Ed al carro compagna è Sirio Stella,

Che a’ mortai gravi morbi apportar suole;

Tal contro l’oste se ne già Trojana

Il poderoso eroe d’Achille nato.

Quei destrieri immortai portavan lui,

Che gli diè Automedon di loro auriga,

Quando lui vidde discacciar bramoso

Lunge da’ legni l’avversaria gente.

Rallegrarsi i cavalli in conducendo

Il lor signor simile in tutto al padre;

Perché speravan pur, che questi punto

Non dovesse men forte esser di lui

Ed altamente di letizia colmi

Intorno a Neottolemo gagliardo.

Vaghi di guerra s’adunar gli Argivi,

Alle vespe sembianti, che volando

Dall’antro fuor con mormorio confuso

Braman con l’ago lor pungere altrui,

Ed aggirando allo spiraglio intorno

Portan gran noja ad uom, che là trapassa:

Tal questi dalle navi, e dal riparo

Volenterosi si spargean di Marte,

Sì che angusto parea l’aperto campo:

Tutto di lampi fiammeggiava il piano,

D’alto co’raggi illuminando il sole,

Che nell’aere splendea lucide l’arme.

Come per l’ampio ciel muovon le nubi

Dal gran soffiar dell’Aquilon sospinte,

Quando il tempo è nevoso, e la stagione

Del crudo verno, sì che d’ogni intorno

Cinto l’aer n’appar d’oscuro velo;

In guisa tal si ricopria la terra

Di gente, che traea da questa, e quella

Parte, e si raccogliea presso alle navi:

Volando al ciel si diffondea la polve,

E delle genti risuonavan l’arme:

Udiasi il suon de’ numerosi carri;

E de’ cavalli alla battaglia pronti

D’ogni intorno s’udian vari i nitriti;

Ciascun venia dal proprio suo coraggio,

Avvalorato alla tenzon crudele.

Siccome allor, che due feroci venti

Alto fremendo in mezzo all’ampio mare,

Urtano l’onde impetuose, e vaste.

Quando l’orrido verno infin dall’imo

Il flutto furiando agita, e scuote,

E frangon le procelle insieme urtando,

Tal che fra l’onde orribili, e sonore

Geme Anfitrite spaziosa, e grande,

Ed esse non costanti or quinci or quindi

Muovono ad alti monti in vista eguali,

E nel corrersi incontro, e nell’urtarsi

Nel pelago si desta orribil suono;

Cotal dall’una, e l’altra parte questi

Sen gíano impetuosi ad affrontarsi

Con terribil furor nel grave assalto.

Né meno intanto al lor furor giungea

Furor la Dea della discordia, ed essi

Quasi folgori, e tuon correansi a fronte

Che destano nell’aere alto rimbombo,

Quando han fra lor contrasto i fieri venti,

Che con aspro soffiare impetuosi

Spezzan le nubi allor che d’ira grave

Contro gli uomini avvampa il sommo Giove,

Che opran contrario, ingiusti, all’alma Temi;

Tal s’azzuffaron questi, ed incontrossi

Lancia a lancia, uomo ad uomo, e scudo a scudo

Prima il forte figliuol del prode Achille

Diede al buon Melaneo morte, ed uccise

L’illustre Alcidamante, ambedue figli

Del saggio Alessinomio, il quale avea

Il patrio albergo nella bassa Cauno

Presso al lucido stagno, alle pendici

D’Imbro non lungi di Tarbelo al piede.

Minete estinse ancor di piè veloce

Di Cassandro figliuol, cui partorio

La divina Creusa in sulle rive

Del vago fiume Lindo, ov’è il confine

De’ cari bellicosi, e Licj illustri.

Tolse Mori il guerriero, anco di vita,

Che di Frigia sen venne, e presso a questi

Polino, e insieme Ippomedonte uccise,

L’un percosso nel cor, l’altro ferito

Nella chiave del petto; e in questa guisa

Ora a questo, or a quel togliea la vita:

Di Trojani cadaveri gemea

Carca la terra, ed essi al vincitore

Così cedean, come all’ardente fiamma

Cedon gli aridi sterpi, allor che suole

L’autunnale Aquilon soffiar più fiero.

Tale all’impeto suo cadeano a terra

L’avversarie falangi. Enea diè morte

Al guerriero Aristoloco, percosso

Il capo a lui con dura pietra, in guisa

Che l’elmo in un sol punto, e l’ossa franse,

E dall’ossa partio l’alma repente.

Tidide uccise Eumeo veloce al corso,

Il quale abitò già Cardano eccelso

Luogo in cui son quelle spelonche dove

Citerea nelle braccia Anchise accolse.

Agamennone a Strato ivi diè morte

Il generoso, onde non fe ritorno

In Tracia dalla guerra, anzi lontano

Dal patrio amato suol lasciò la vita.

Merion poi Clemo uccise, il qual figliuolo

Di Pisenore, fu caro, e fedele

Del divin Glauco amico, il qual la stanza

Vicino alle foci ebbe di Limiro;

Costui Glauco già ucciso, e non regnante

Di rege in luogo avean tutti coloro,

Che in Fenicia han la sede, e nell’eccelso

Giogo di Massicito, e sovra il colle

Della Chimera. L’un l’altro uccidea

Intanto nella pugna. E fra costoro

Molli degli avversarj alle crudeli

Parche diè in preda Euripilo. E primiero

Eurito il bellicoso a morte spinse,

Quinci Menezio, ch’avea cinto il fianco

Di zona militar vaga, ed ornata,

Del divino Elefenore compagni;

E quelli, e questi, e intorno a lor di vita

Arpalo sciolse, il qual d’Ulisse il saggio

Era compagno, che lontano allora

Altrove avea fatica, e non poteo

Dare al cadente amico alcun soccorso.

Ben s’adirò nel mirar là giacente

Il caro suo compagno Antifo ardito,

E per vendetta farne il colpo offerse

Ad Euripilo incontro, e non ferillo,

Perché la lancia poderosa alquanto

Da lui si torse, e ritrovò l’accorto

Menalion, cui partorito avea

La madre Clite dalle belle guance

Ad Eurialo congiunta, in sulle rive,

Che bagnan l’onde chiare di Caico.

Per l’ucciso compagno in ira salse

Euripilo, e veloce il passo incontro

Ad Antifo distese, ed egli tosto

Col rapido suo piè rivolto in fuga

Fra’ compagni mischiossi, e non l’uccise

Del figlio allor di Telefo guerriero

L’asta, perché devea poscia crudele

Morte soffrir dal sanguinoso, e fero

Ciclope, avendo in guisa tal prefisso

E risoluto la tremenda Parca.

Ad altra parte Euripilo si volse,

Ed all’impeto suo, che ognor crescea,

Cadde alla terra numeroso stuolo,

Siccome l’alte piante il piè recise

Dalla forza del ferro, ove selvose

Son le montagne, giù cadute a terra

Ingombrano le valli, e in varie guise

L’una sull’altra sovra il suol si giace;

Così giacean gli Achèi dall’asta uccisi

D’Euripilo possente, infin che a lui,

Magnanimi pensier nel sen chiudendo,

Fecesi incontro il gran figliuol d’Achille.

Ambo librar con la guerriera mano

Le lunghe lance all’assalirsi pronti.

Quinci primiero Euripilo chiedendo

In questa guisa all’avversario disse:

Chi sei? dimmi, onde vieni a pugnar meco?

Certo porteran te l’orrende Parche

Tosto all’inferno, perché nullo ancora

Campato è da mia man nell’aspra guerra,

Anzi a tutti color, che per provarsi

Meco nella tenzon son tratti avanti,

Data ho crudele, e dolorosa morte,

E di tutti or di Xanto in sulle rive

Le carni, e l’ossa han divorato i cani.

Ma tu dimmi, chi sei, di chi sono anco

Cotesti tuoi destrieri, onde ti glorj?

Poiché ebbe così detto, a lui rispose

D’Achille in questa guisa il figlio altero:

Perché tu a me, che per pugnar qui vengo,

Tu che sei mio nemico, amici mostri

D’aver pensieri, e di mia stirpe chiedi,

Che per se stessa a molte genti è nota?

Figlio son io del coraggioso Achille,

Che già con la gran lancia il padre tuo

Percosse, e cacciò in fuga, e ben le Parche

Mortifere, di lui fatta avrian preda,

Se tosto ei non guaria l’acerba piaga.

Questi destrier che a me portar tu vedi,

Fur del mio divo Padre, e partorío

Loro Arpia madre a’ Zeffiri congiunta,

Rapidi sì, che per lo mar correndo

Presto qual vento, van radendo appena

Con l’estremo dell’unghia il flutto ondoso.

Or poiché de’ destrieri, e di me stesso

T’ho spiegata la stirpe, è giusto ancora,

Che della lancia mia possente invitta

Tu conosca il principio, indi lei provi.

Nacque dell’alto Pelio ella sul giogo,

Ov’anco lasciò il trono, e il seggio antico.

Disse, e giù da’ destrier gittossi a terra

Il campion generoso il lungo legno

Vibrando; e d’altra parte il suo nemico

Con le robuste man soverchio sasso

Preso, di Neottolemo lanciollo

Incontro l’aureo scudo, e non l’offese

Con la sua furia punto, e non lo scosse,

Anzi restò simile a grande scoglio

D’altero monte, cui ben saldo il piede

Forza d’alpestre fiume unqua non muove.

Tale immobile, e saldo il prode figlio

D’Achille si rimase, e non pertanto

D’Euripilo temè l’audace forza,

Perché le Parche, il valor proprio e l’ira

Gli dean coraggio, e l’accendeano a guerra.

Bollia di rabbia, ad ambedue nel petto

Il core e gran rumor destavan l’arme;

Siccome due leon di petto dansi

Orrendi, che ne’ monti han guerra insieme,

Quando dall’aspra e cruda fame oppressi

Fan per un cervo, o per un bue battaglia,

Muovonsi impetuosi, e fanno al suono

Del grave assalto lor suonar le valli;

Tal questi due incontrarsi combattendo

Spietatamente. E intorno a loro intanto

Grave contrasto avean d’ambe le parti

(Avanzandosi ognor la cruda mischia)

De’ popoli guerrier l’ampie falangi.

Essi quai venti rapidi pugnando

Si percotean co’ frassini pungenti

Con avido desio di trarsi il sangue,

Né d’istigargli ognor cessava un punto

Standosi appresso a lor la fera Enio.

Non aveano essi tregua, e parte i colpi

Ricevean sugli scudi, or gli schinieri

Si percoteano, ed or comati ed alti

Gíansi picchiando intorno al capo gli elmi.

Alcun di loro all’altro anco la pelle

Toccato avea. Così fra i valorosi

Eroi grave, ed orrendo era l’assalto.

Nell’inferno godea lor contemplando

La Dea delle discordie; ed essi fiumi

Di sudor diffondean dalle lor membra;

E pure ognor gían guadagnando forza.

Perocché ambedue nati eran di sangue

Celeste; onde gli Dei dell’alto cielo

Parte favorian pronti il forte figlio

D’Achille, e parte Euripilo divino.

Combattean essi, e non cedean pugnando,

Se non come fra lor cedonsi immoti

Gli alti scogli de’ monti, e il suono intorno

Grave spargean da’ frassini percossi

Gli scudi. Alfin con gran fatica il mento

D’Euripilo passò Pelia grand’asta,

E fuor n’uscì sgorgando il sangue oscuro.

Fuggì da’ membri per la piaga l’alma,

E gli gravò funesta notte i lumi.

Precipitò chiuso nell’arme a terra,

Come cader suol frondeggiante, ed alto

Abeto, o pin, che la terribil forza

Dell’aquilon dalle radici sterpe.

Cotanto, e tal d’Euripilo il gran corpo

Cadendo ingombrò il suolo; e d’ogn’intorno

Rimbombò il campo, e la Trojana terra.

Di livido pallor tutto si tinse

Il cadavere allora, e da lui sparve

Bello, e vivace il suo rossor primiero.

Quinci insultando lui con dir superbo

In queste voci il forte eroe favella:

Or non sei tu, che dissipar le navi

Degli Argivi credesti, e far di loro,

Euripilo, e di noi ruina, e scempio?

Ma non han tratto il tuo pensiero al fine

Gli Dei, poiché te indomito, e feroce,

Adoprata da me, domato ha pure

La gran paterna lancia, il cui furore,

Fattosi incontro a noi fuggir non puote

Alcun mortal, non se di ferro ei fosse.

Disse, e nel dir la smisurata lancia

Dal cadavere trasse; e da lontano

L’uom terribil mirando, paurosi

Tremaro i Teucri. Ed esso a lui togliendo

L’arme, a’ presti compagni in man le diede,

Perché portasser quelle a’ Greci legni.

Poscia sul carro suo veloce asceso,

E su i destrieri alle fatiche invitti

Ratto sen già: come per l’aere immenso

Da Giove infaticabile sen vola

Accompagnato il folgore da’ lampi,

Di cui cadendo furioso han tema

Tutti gli altri immortai, trattone Giove;

Ed esso velocissimo alla terra

Giunto, spezza le piante, e i monti alpestri;

Tal rapido movea questi, portando

Alta ruina a’ Teucri, or questo, or quello

Recidendo di lor, che gl’immortali

Destrier giunger potean disciolti al corso.

Era di morti la campagna ingombra,

E rosso tutto, e sanguinoso il piano.

Come da’ monti ne’ più bassi luoghi

Caggiono innumerabili le foglie

Aride, e copron sparse intorno il suolo,

Cotal da Neottolemo, e da’ forti

Argivi uccisa un’infinita turba

Giacea de’ Teucri sulla terra stesa.

Stillavan lor le man di molto sangue,

E da lor giù scorreva, e da’ destrieri

Gran copia di sudore; erano i cerchi

Alle ruote de’ carri e quinci e quindi

Tutti di sangue nel girar cospersi.

Ed eran già per ritirarsi i Teucri

Entro alle porte, quai giovenche, a cui

Porga il leon spavento, o quai cignali,

Che teman di gran pioggia, se l’orrendo

Marte bramoso di portare aita

A’ guerrieri Trojan sceso non fosse,

Celato agli altri Dei, dall’alto Olimpo.

Portavan lui nella battaglia i suoi

Corsier, Flogio, ed Eton, Conabo, e Fobo

Fiamme spiranti, che la tetra Erinni

Di Borea strepitoso a produrre ebbe.

Gemea, movendo questi al fero assalto

L’aere d’intorno; ed essi in un baleno

Giunsero a Troja, e sotto a’ gravi piedi

Orribilmente risuonò la terra.

Quindi fattosi appresso alla battaglia

Impugnò la grand’asta, e con orrendo

Grido incorò i Trojani a farsi incontro

Agli avversarj in guerra, ed essi udendo

Il grave suon della terribil voce

Tutti stupir, non rimirando il corpo

Immortal di quel Dio, né i suoi corsieri

D’aere intorno coperti. Il suon divino,

Che feria de’ Trojan gli orecchi, intese

Del Divo Eleno sol la saggia mente,

E tutto fra se lieto, io questa guisa

Alto al popol gridò, che già movea.

Timidi, e qual paura, e che fuggite

Dal figlio audace del guerriero Achille?

Or non è forse questi anco mortale?

Già non è pare il suo valore a quello

Di Marte, che n’aita, e con gran voce

Comanda a noi, che nella zuffa pronti

Combattiam contro i Greci. Or via, compagni

Siate d’animo intrepido, e nel petto

Accogliete valor; che già non stimo,

Che nella guerra ajutator più forte

Venir ne possa. Perché qual migliore

Ne’ conflitti è di Marte, allor che suole

Dare all’armate genti in guerra aita?

Ed ecco in favor nostro egli è presente;

Siavi a cor la battaglia, e via da voi

Lunge sbandite la paura vile.

Così diss’egli; ed essi a’ Greci a fronte

Fermarsi, come cani entro la selva

Incontro a’ lupi, cui fuggian poc’anzi,

Che del pastore a’ detti, il qual frequente

Gl’istiga, tornan fieri alla battaglia;

In guisa tal nella tenzon crudele

Combatteano i Troian senza paura;

Audacemente l’un faceasi incontro

All’altro, e rendean suon percosse l’arme

Dalle lance, da’ dardi, e dalle spade.

Ferian le punte i corpi, e s’aspergea

Di molto sangue il furibondo Marte.

Molti cadean l’un sopra l’altro in guerra

Quinci, e quindi pugnando, e la battaglia

Con giusta lancia era librata, e pari:

Come allor, che nel campo aperto, e largo

Di pampinosi tralci in lunghe file

Stesi i vendemmiator col ferro adunco

L’uve troncando vanno, e se fra loro

Frettolosi nell’opra a gara fanno,

E d’etade e di forze essendo eguali,

Egual ne sorge anco il lavoro, e l’opra;

Tal di costor dall’una, e l’altra parte

Della cruda battaglia eran le lance

Fra loro eguali. I Teucri in sen chiudendo

Il cor superbo, nel furor di Marte

Intrepido fidati, incontro a’ Greci

Resistean pertinaci, e i Greci posta

La speme nel figliuol del forte Achille

Non cedean punto, e s’uccidean pugnando.

Nel mezzo errando gìa Bellona fera

Di tetro sangue, e doloroso aspersa,

E gli omeri, e le mani, e dalle membra

Di sudor le scorrea terribil copia.

Nulla parte ajutava, e godea seco,

Che se ne stesse la battaglia pari,

Onorando in un Teti, e il divo Marte.

Ivi allor Neottolemo diè morte

Al glorioso Perimede ch’ebbe

La stanza appresso alla Sminteja selva:

Cestro a lato a costui pugnando estinse

Falero il bellicoso, e Perilao

Il forte, e il buon guerriero anco Menalca,

Che Ifianassa partorìo non lunge

A’ piè di Cilla sacra, all’ingegnoso

Medonte di molt’arti esperto, e mastro;

Il qual rimaso nella patria terra

Amata, del figliuol poi non godeo;

Onde l’opre sue tutte, e le fatiche

Dopo la morte sua partir fra loro

I successor di lui stranieri eredi.

Licone, e Menettolemo in un punto

Deifobo ammazzò, poco di sopra

Percossi all’anguinaglia, e gl’intestini

D’intorno sparsi alla grand’asta usciro,

E il ventre tutto si diffuse a terra.

Enea Damante uccise, il qual primiero

In Aulide abitò, poscia seguace

Si fé d’Arcesilao venendo a Troja;

Ma caro, ahi! non rivide il patrio suolo.

Eurialo nel lanciar d’un mortal dardo

Astreo percosse, e la dannosa punta

Trapassò per lo petto oltra volando,

E di morte ministra, a lui precise

Dello stomaco il passo, e si mischiaro

Dentro insieme fra loro e l’esca, e ‘l sangue.

Il magnanimo Agenore vicino

Ippomene a costui di vita sciolse

Del saggio Teucro caro amico, lui

Percosso, ove la chiave in un congiunge

L’omero alla cervice, e in un col sangue

Partío l’alma da’membri, e dura notte

Il ricoperse, onde gran doglia assalse

Teucro mirando il suo compagno estinto.

Quinci veloce stral prese, e drizzollo

Ad Agenore incontro, e non lo colse,

Perch’ei declinò, mosso, il colpo alquanto,

Onde il quadrello a lui vicin percosse

L’occhio sinistro a Deifonte il forte,

E per lo destro orecchio indi n’uscío,

La pupilla forò, perché le Parche

Drizzar come a lor parve il fero strale.

Mentr’ei fermo sul piè si già scotendo

Vinto da doglia, ecco il secondo strale

Che ronzando, la gola a trovar venne,

Ed avanti passando, i nervi franse

A lui del collo, e della cruda Parca

Poscia divenne preda; in questa guisa

Eransi infra di lor fabri di morte.

Godean le Parche, e il Fato, indi la cruda

Pazza Discordia alzò tremendo il grido,

Ed all’incontro a lei rispose Marte

Con voce orrenda, e gran valor nel petto

Ispirò a’ Teucri, e negli Argivi tema,

E le falangi in un momento scosse;

Ma non spaventò già d’Achille il figlio,

Che saldo combattea d’ardir ripieno,

Ed or questi ed or quei donava a morte.

Come talor le mosche al latte intorno

Volando, con la man fanciul percuote,

Che vicine fra lor versan lo spirto,

E il fanciullin fra se dell’opra gode:

Così del fero Achille il figlio illustre

Degli uccisi godea, nè facea stima

Di Marte, che a’ Trojan porgeva aita,

Castigando de’ Teucri or questo or quello,

Che infestava pugnando il greco stuolo:

E lor si sostenea, come sostiene

Di ventosa procella il fero assalto

Di grande ed ampio monte altero giogo;

Tal resisteva intrepido, ed immoto

All’impeto nemico, onde s’accese

Marte contro di lui d’ira, e già movea,

Rotta la sacra nube, ond’era cinto

Per venir seco alla tenzon dell’arme;

Onde Palla dal ciel sopra discese

L’ombroso Ida d’un salto, e tremò intorno

La terra, e ne temè l’onda sonora

Del Xanto, e venner di paura meno

Le Ninfe alla città temendo oltraggio;

Perché vedean ben, che nella figlia

Di Giove, del gran padre apparea l’ira:

Cinti i celesti arnesi avea d’intorno

Di folgori, e di lampi, e i draghi orrendi

Nello scudo infrangibile spirando

Gìano incessabil fiamma, e l’alte nubi

Toccava l’elmo smisurato, e vasto.

Già col rapido Marte ell’era accinta

A provarsi in battaglia, ed ambo incontro

Pugnato avrian, se la prudente cura

Di Giove lor non riempìa di tema

Dal sommo ciel con gran rumor tonando.

Si ritirò dalla battaglia Marte,

E in Tracia se ne gìo nevosa, ed aspra,

Non più membrando entro al pensier superbo

De’ Teucri. Né restò Pallade saggia

Là nel campo Trojan, ma se ne gìo

Nel sacro pian d’Atene; e dalla mente

Sbandiro ogni pensier di pugna acerba.

Allor mancò virtute a’ Teucri figli,

E gran desìo di guerra ebber gli Argivi,

Onde per l’orme i fuggitivi dietro

Gìano incalzando, e perseguendo, come

Sogliono perseguir veloce nave,

Che fenda il mar con piene vele, i venti:

Come il furor del foco i secchi sterpi

Segue, ed incende, o come i can veloci

E bramosi di preda a’ monti in cima

Cacciando vanno le paurose damme.

In cotal guisa agl’inimici il tergo

Premeano i Greci perché a lor coraggio

Dava il figlio d’Achille, il qual di vita

Sciogliea, quanti potea nella gran calca

Giunger con l’asta smisurata, e grave.

Fuggiro essi cedendo, e ricovrarsi

Nella città d’eccelse porte cinta,

Posarsi allor dalla battaglia alquanto

I Greci, poiché i Teucri ebber rinchiuso

Nella città di Priamo, in guisa d’agni

Che nelle stalle il pastorel racchiude:

Siccome allor, che con fatica immensa

Peso condotto in parte alpestre, ed erta

Sotto il giogo anelando, alcun riposo

Trovano alfin dalla stanchezza i buoi,

In guisa tal gli Achei lassi nell’arme

Pur respiraro alquanto. Indi bramosi

Di guerreggiar d’intorno alle alle torri

Cinsero la cittate. Ed essi chiuse

Co’ serrami le porte attendean cinti

D’arme il furor dell’incitato stuolo.

Come i pastor dentro l’ovil rinchiusi,

Allorché in giorno tempestoso, ed aspro

Gravato il ciel di folte nubi sparge

Con terribil rumor fulmini, e pioggia,

Attendon pur, che il tenebroso turbo

Trapassi, e benché grande aggian desìo

D’uscire a’ paschi, non si muovon punto,

Finché non si disgombri il crudo verno,

E cessin colmi e risuonanti i fiumi:

Tal fra le mura se ne stan temendo

L’impeto avverso; e d’altra parte i Greci

Si stendon presti alla cittate intorno.

Come gli alati sturni, e le cornici

Di cibo vaghi in torme a gittar vansi

Sovra il bel frutto, onde un olivo è carco,

Cui tenta indarno spaventar col grido

E cacciare il cultor, priachè pascendo

Saziata aggian l’ingorda avida fame;

In cotal guisa poderosi i Greci

Di Priamo alla città diffusi intorno

Le porte combattean, bramosi in tutto

Di ruinar da’ fondamenti l’opra

Immensa di Nettuno, il Dio feroce.

Ma non però, benché da tenia vinti

Presero i Teucri della pugna oblìo;

Anzi sovra le torri in alto ascesi

Pugnavan pertinaci, e con le mani

Gìan faticose, or giù lanciando pietre

Insieme, or dardi sull’avverse squadre.

Tale infondeva io lor fortezza audace

Febo, che sempre i bellicosi Teucri

(Anco Ettore già morto) ajutar volle.

Merione avventando allor crudele

Dardo, ferì Filodamante amico

Del gagliardo Polite, alquanto sotto

La gola, e nelle fauci entrò lo strale;

Cadd’ei quasi avvoltor, che in alla pietra

Con l’acuto quadrello arciero ancide,

Così precipitò dalla gran torre,

E dalle membra sue, cui fero intorno

L’arme grave rumor, l’alma fuggìo.

Vantando sopra lui del forte Melo

Il figlio, un altro dardo a spinger ebbe

Bramoso di ferir dell’infelice

Priamo il figlio Polite, ed egli il colpo

Schivò, ratto piegando il corpo alquanto,

Sì che lo stral la bella sua persona

Non toccò in nulla parte, e non l’offese.

Come nel mar, quando secondo il vento

Il legno spinge, il marinar vedendo

Sotto l’onde mostrarsi orrida pietra,

Torce la nave di fuggir bramoso

Il presente periglio, e con la mano

Mosso il timon, là v’egli vuol la volge,

E con piccol poter gran danno fugge;

Tal questi prevedendo il fero strale

Campò da morte. In cotal guisa quivi

Combattean senza posa, onde di sangue

Tingevansi le mura, e l’alte torri

Con le merlate cime, ove i Trojani

Dalle quadrella rimaneano uccisi

De’ Greci che non senza, essi anco, grave

Travaglio combattean: ma di lor molti

Di vermiglio color tingean la terra.

Sorgea grave ruina ai spessi colpi,

Che sparsi uscian da questa, e quella parte;

Onde godea fra se la dolorosa

Bellona, e della guerra iva incitando

La Discordia sorella, e senza fallo

Fracassavan gli Argivi e mura, e porte,

Tal era il lor valor grande, ed immenso,

Se non gridava Ganimede illustre

Da gran timor per la sua patria vinto

Sovra lei riguardando infin dal cielo:

Giove padre, s’è ver, ch’io sia tua stirpe,

E la famosa patria mia lasciato

Abbia per tuo volere, e qui conversi

Fra gli Immortal, godendo eterna vita,

Esaudisci me, prego, or sì dolente.

Perché non soffrirò di veder mai

La mia città combusta, e il mio lignaggio

Distrutto in aspra, ed infelice guerra.

Del che dolor non v’ha, che sia più grave;

Ed avverrà, se con quest’occhio il veggio;

Perché ogni duolo, ogni miseria avanza

Il contemplar sotto nemica mano

Desolata la patria al suol cadente.

Disse in tal guisa il nobil Ganimede

Con profondi sospiri. Onde allor Giove

D’immense nubi l’inclita cittade

Di Priamo ricoperse, ed oscurossi

La battaglia mortale, e non potea

Alcun veder di quei, che sulle mura

Stavansi, ove si fosse; in guisa cinto

Era di folta, e densa nebbia intorno.

Quinci folgori, e tuon rompean dal cielo;

Talché udendo gli Argivi il gran rimbombo

Isbigottiano; e in guisa tal fra loro

Disse gridando il figlio di Neleo:

O duci degli Argivi, al certo ferme

Non rimarranno a noi le nostre membra,

Poscia che Giove i forti Teucri aita,

E grave mal sovra di noi s’avvolge.

Su torniam dunque tutti a’nostri legni:

Cessiam dalle fatiche, e dalla dura

Battaglia, affinché tutti egli non n’arda.

Crediamo a tai portenti. E ben conviene

Di creder lor; poiché più forte è Giove

Degli uomin frali, e degli Dei gagliardi;

Perch’egli irato co’ Titan superbi

Fiamma sovra di lor versò dal cielo;

Onde fin dal suo centro ardea la terra

D’intorno, e dal profondo il flutto ondoso

Bollìa dell’Ocean fino all’estremo:

S’inaridiano i fiumi, il cui principio

Vien da remote parti: e venian meno

Quanti animanti l’alma terra nutre,

Quanti ne pasce il vasto mare, e quanti

Vivon fra l’acque de’ perpetui fiumi.

Di cener si coperse, e di faville

Dell’aere il largo spazio, ed alla fiamma

Si liquefè la terra. Ond’è ch’io temo

Troppo altamente oggi il furor di Giove.

Dunque alle navi andiam: che in questo giorno

A’ Teucri aita porge; altra fiata

A noi darà favor, poich’esser suole

Ora secondo il giorno, ed ora avverso.

Ned è fatale ancor, che noi struggiamo

Questa nobil città, se pure è vero

Il ragionar, che a noi facea Calcante,

Quando de’ Greci nel comun consiglio

Dicea, che si devea nel decim’anno

Di Priamo la città spargere al suolo.

Così diss’egli. Ed essi l’alte mura

Lasciaro, e si partir dalla battaglia

Grave temendo il minacciar di Giove:

Parte credendo ad uom che valea molto

Nel raccontar sentenze, e detti antichi.

Non lasciaro però giacer negletti

Quei, che perduto in guerra avean la vita:

Ma tratti lor dalla battaglia fuori

Gli dier sepolcro; perché non coprìa

La nebbia lor, ma sol l’eccelse mura,

E la città sublime, a cui d’intorno

Molti fur Greci, e Teucri in pugna uccisi.

Giunti alle navi de’ guerrieri arnesi

Spogliarsi, e del sudore, e della polve

Lavaron poscia e l’immondizia, e il sangue

Dell’Ellesponto entro l’ondoso flutto.

Già gl’invitti corsier drizzava il sole

Verso l’oscuro, e per la terra sparsa

Togliea la notte ogni mortal dall’opre.

E del guerriero Achille il figlio ardito

Onoravan gli Argivi al padre eguale.

Ed esso tutto lieto entro le tende

Sedea de’ Re cenando, e non sentìa

Che gli gravasse il faticar del giorno

Le membra, perché Teti avea da lui

Tolto ogni duol, che la stanchezza adduce,

E fatto lui sembiante ad uomo in vista,

Che ognor più forte il faticar non curi.

Poiché il forte signor di cibo sazio

Sentissi, andonne al padiglion paterno,

Ove il sonno abbracciollo. E i Greci intanto

Dormian presso alle navi ognor mutando

Le sentinelle, perché avean gran tema,

Che lo stuol de’ Trojani, e de’ stranieri,

Che pugnavan per lor guerrieri, e forti

Non ardesse le navi, e del ritorno

Fosse a tutti precisa indi la speme.

Non altramente il popolo Trojano

Nella città di Priamo il sonno intanto

Alternando prendean presso alle porte,

Ed alle mura, de’ feroci Argivi

Grave temendo e repentino assalto.