a cura di Giorgio Manusakis
Musa, quell'uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poiché ebbe a terra
Gittate d'Ilion le sacre torri...
Sicuramente tutti i nostri affezionati lettori avranno riconosciuto questi versi e identificato immediatamente l’uomo dal “multiforme ingegno” in quel genio di astuzia e inganni che era Odisseo, ai latini meglio noto con il nome di Ulisse. Tutti, infatti, sanno che Ulisse è considerato la personificazione della furbizia, nonché il primo e il più grande dei bugiardi; sulle sue astuzie sono stati scritti testi di filosofia e psicologia, ma noi ci limiteremo a quanto di nostra più stretta pertinenza: il mito.
Ma quand’è che il nostro beneamato eroe, celebre per i suoi inganni, a partire dal famosissimo cavallo con cui ingannò i troiani e via via con tutte le altre astuzie grazie alle quali scampò alla morte nel suo lungo viaggio di ritorno verso Itaca, iniziò a dire le “bugie” che lo hanno poi reso il più furbo degli uomini? Sembrerebbe che abbia esordito giovanissimo, addirittura la sua stessa nascita nasconderebbe una menzogna. Infatti, sebbene tutti lo conoscano come figlio di Laerte, re di Itaca, e di Anticlea, figlia del famoso ladro Autolico, Ulisse era in realtà figlio di Sisifo e Anticlea. Il mito racconta che Autolico e Sisifo, i due ladri più furbi e famosi conosciuti a quel tempo, vivevano sul monte Parnaso. Autolico era, per così dire, “figlio d’arte” in quanto il padre era addirittura Hermes, dio protettore, tra gli altri, anche dei ladri. Un bel giorno Autolico volle dimostrare di essere più furbo di Sisifo e gli rubò alcuni capi di bestiame portandoli nelle terre di sua proprietà. Ma Sisifo, astutamente, aveva ferrato il suo bestiame in modo che lasciasse una traccia su cui era scritto: “mi ha rubato Autolico” e grazie a questa astuzia scoprì il furto. A questo punto, come spesso accade nel mito, le versioni sono due: una racconta che Autolico stesso abbia offerto la figlia Anticlea a Sisifo, in modo da unire il loro sangue “astuto” ed assicurarsi come discendenza diretta il più furbo degli uomini; l’altra invece sostiene che Autolico, per farsi perdonare il furto, ospitò Sisifo presso di lui per una notte e questi, non ancora soddisfatto, volle vendicarsi usando violenza alla figlia. Sta di fatto che Ulisse, tra i suoi antenati, può vantare un padre ed un nonno considerati tra i più furbi degli uomini e un bisnonno che era il più furbo degli dei: Hermes.
Si racconta poi che Autolico sia giunto ad Itaca poco dopo la nascita di Ulisse e che, dopo un banchetto, lo abbia poggiato sulle sue ginocchia; a questo punto, sembra che Anticlea abbia detto: “Dagli un nome, o padre” e Autolico abbia risposto: “Nel corso della mia vita mi sono messo in urto con molti principi e chiamerò dunque mio nipote Odisseo, che significa il Rabbioso, perché sarà la vittima delle mie antiche inimicizie. Tuttavia semmai salirà al monte Parnaso per rimproverarmi, gli cederò parte dei miei possedimenti e placherò la sua ira”. Ulisse effettivamente tentò, una volta raggiunta l’età matura, di far visita al nonno, ma durante una battuta di caccia fu ferito da un cinghiale e non riuscì a raggiungere Autolico; questi, comunque, si curò molto del nipote e gli diede i doni promessi, con i quali Ulisse fece ritorno a Itaca. In verità anche sull’origine del nome “Odisseo” ci sono diverse versioni, ma noi ci limitiamo a citare solo questa per tener fede alle parole di Autolico.
Ma torniamo alle bugie di Ulisse. Ce n’è una curiosa: avrete sicuramente sentito qualche volta il detto “fare il pazzo per non andare in guerra”; Ulisse fu, con ogni probabilità, il primo a metterlo in pratica o, almeno, a provarci. Un oracolo gli aveva predetto: “Se andrai a Troia, tornerai dopo vent’anni, solo e in miseria”. Se a questa nera profezia dell’oracolo aggiungiamo che gli era da poco nato il figlio Telemaco, appare ancora più comprensibile il motivo per cui Ulisse non avesse nessuna voglia di andare a combattere a Troia insieme agli altri re greci; ecco perché, quando vide arrivare a Itaca Agamennone, Menelao e Palamede, giunti lì apposta per portarlo con loro a Troia, si mise un cappello da contadino in testa e iniziò ad arare un campo mettendo insieme un bue e un asino e gettando all’indietro manciate di sale. Inoltre, per rendere ancora più credibile la sua follia, finse di non riconoscere gli amici.
Ma, sfortunatamente per lui, Palamede intuì l’inganno, strappò dalle braccia di Penelope il piccolo Telemaco e lo appoggiò a terra, proprio davanti al bue e all’asino. Ovviamente, Ulisse tirò immediatamente le redini per fermare i due animali e non uccidere il suo unico figlio, dimostrando così di non essere affatto pazzo e partendo necessariamente per Troia. Ma Ulisse non dimenticò il danno ricevuto dall’intuizione di Palamede. Inoltre, Palamede ferì per una seconda volta l’orgoglio di Ulisse durante l’assedio di Troia. Quando l'eroe di Itaca, su ordine di Agamennone, si recò in Tracia alla ricerca di provviste, ne rientrò a mani vuote e al rimprovero di Palamede rispose che lui non avrebbe fatto meglio. Palamede invece partì e rientrò con una nave carica di provviste, dando così un brutto colpo all’ amor proprio di Ulisse che si vendicò sotto le mura di Troia e proprio con un altro dei suoi famosi inganni. Passati alcuni giorni, infatti, Ulisse fece pervenire un messaggio ad Agamennone, comandante dell’intera spedizione, dicendo di aver avuto un sogno in cui gli dei avvisavano i greci che c’era un traditore tra loro e che perciò bisognava spostare l’accampamento per un giorno ed una notte; a questo punto Ulisse attese che Agamennone desse disposizioni di spostare l’accampamento e, di nascosto, seppellì un sacco d’oro dove prima c’era la tenda di Palamede; inoltre, costrinse un prigioniero frigio a falsificare una lettera come se fosse stata scritta da Priamo, re dei troiani, a Palamede; nella lettera era scritto: “l’oro che ti ho mandato è il prezzo da te richiesto per tradire i Greci.” Quindi, per completare il suo astuto piano di vendetta, ordinò al prigioniero di consegnare la lettera a Palamede, ma lo uccise al confine dell’accampamento greco, prima che questi potesse consegnarla. Il giorno dopo, quando l’accampamento greco fu riportato dov’era in precedenza, il corpo del prigioniero con la lettera fu ritrovato e il presunto traditore fu condotto davanti alla corte marziale; ovviamente, Palamede negò l’accaduto e lo fece con tanto vigore e disperazione che qualcuno iniziò a credergli. Ulisse, a questo punto, suggerì di perquisire la tenda di Palamede, dove venne ritrovato l’oro da lui stesso messo in precedenza. Palamede, viste le false prove sparse da Ulisse, venne condannato a morte per tradimento e, prima di essere lapidato, gridò forte: “O verità, io piango la tua morte che ha preceduto la mia” ed è con queste parole che è ricordato dalla storia come il primo caso celebre di “malfunzionamento” della giustizia.
Ma Ulisse era tanto bravo a “costruire” gli inganni quanto a scoprirli.
Quando la ninfa Teti nascose il figlio Achille, vestendolo da donna, tra le figlie di Licomede perché conosceva il destino di morte a cui sarebbe andato incontro se fosse partito per Troia, fu proprio Ulisse a scoprire il travestimento. Avendo ricevuto insieme ad Aiace e Nestore l’incarico di trovare Achille e portarlo a Troia, Ulisse donò alle fanciulle vesti e ornamenti tra cui nascose degli armamenti, quindi ordinò di far squillare le trombe di guerra per far sentire il suono delle armi. Achille non seppe resistere a quel richiamo di guerra, si denudò il petto, afferrò le armi poste tra i doni e si preparò alla battaglia, quindi promise di partire per Troia con i suoi temutissimi Mirmidoni.
Un altro dei suoi inganni, Ulisse lo mise a segno durante la seconda riunione in Aulide che precedette la partenza della spedizione greca. Secondo una profezia, i greci non sarebbero potuti partire per Troia se Agamennone non avesse sacrificato ad Artemide la più bella delle sue figlie, Ifigenia. Agamennone era comprensibilmente restio a offrire il sacrificio alla dea e come giustificazione addusse la certa contrarietà della moglie Clitennestra . Ma i re greci minacciarono di abbandonarlo e tornarsene a casa e quando Ulisse fece finta di arrabbiarsi moltissimo e di salpare per Itaca, intervenne Menelao. Questi propose di ingannare Clitennestra inviando Ulisse e Taltibio a prelevare Ifigenia, dicendo alla madre che dovevano condurla in Aulide per darla in sposa nientemeno che ad Achille. Ovviamente, la scelta di Ulisse come messaggero non fu casuale; chi avrebbe saputo mentire meglio di lui alla madre di Ifigenia? Achille si indignò molto nel sapere che il suo nome era stato usato, per di più a sua insaputa, per un inganno così meschino e che avrebbe significato la morte di una dolce fanciulla, ma per il resto della storia vi rimandiamo alle tragedie di Euripide Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride.
Ma facciamo un salto temporale e torniamo sotto le mura di Troia. Qui la battaglia infuriava con alterne fortune ma, dopo la morte di Achille, ai greci un po’ demoralizzati fu predetto dal “solito” oracolo che Troia non sarebbe mai caduta se, tra le altre cose, non fossero riusciti a rubare il Palladio di Atena dalla Cittadella di Troia. E qui il furbo Ulisse ne inventò un’altra delle sue: disse a Diomede di malmenarlo brutalmente e, ricoperto di sangue e stracci, chiese asilo a Troia dicendo di essere uno schiavo fuggiasco. Con questo stratagemma Ulisse riuscì ad ingannare tutti e a rubare il Palladio di Atena, almeno secondo alcuni. In realtà, in questa occasione, il nostro eroe fu anche piuttosto fortunato; il suo travestimento, infatti, non riuscì ad ingannare Elena ed Ecuba, ma entrambe giurarono di non svelare il segreto permettendo a Ulisse di tornare sano e salvo all’accampamento greco.
Sempre durante la guerra di Troia, Ulisse è protagonista di un altro inganno in cui coinvolge il figlio del celebre Achille, Neottolemo.
Ma partiamo dall'inizio.
Dopo la morte del loro campione, Achille, l'oracolo aveva predetto ai greci che non avrebbero espugnato Troia se non si fossero uniti a loro il figlio del grande Achille, Neottolemo, e Filottete con il suo arco e le sue frecce.
Per spiegare meglio l’importanza dell’arco e delle frecce di Filottete, bisogna dire che gli erano stati dati in dono nientemeno che da Eracle, il quale in tal modo lo aveva ringraziato di aver acceso la sua pira funebre. Inizialmente Filottete partì per Troia insieme agli altri re greci con sette navi, ma fu abbandonato sull’isola di Lemno su consiglio di Ulisse in quanto una sua ferita, provocata da un serpente (secondo alcuni inviato da Era per punirlo di aver acceso la pira di Eracle) emanava un odore insopportabile. Filottete era comprensibilmente adirato con i suoi compagni, che lo avevano abbandonato su un’isola deserta, e in particolare con Ulisse. Eppure a chi, se non all’astuto Ulisse, potevano rivolgersi i greci per trovare il sistema di far tornare Filottete con il suo arco a combattere con loro ed espugnare Troia? L'eroe troiano partì dunque, insieme a Neottolemo, per Lemno con un preciso piano: una volta giunti sull’isola, Neottolemo avrebbe finto di essere anche lui molto adirato con i greci, colpevoli di averlo prima convocato a Troia, sostenendo che l’oracolo reputava indispensabile la sua presenza affinché Troia cadesse, e poi di aver lasciato le armi del suo celebre padre a Ulisse anziché a lui e che quindi lui aveva abbandonato il campo di battaglia e stava tornando a casa. Neottolemo inizialmente era molto restio ad agire in un modo così meschino; così come suo padre Achille, era un eroe giusto e leale che affrontava sempre a viso aperto il nemico e ripudiava il combattimento a distanza, quindi rinfacciò a Ulisse di aver ordito un piano vile , ma questi riuscì a convincerlo con un discorso da alcuni definito una vera e propria “teoria della bugia”. Neottolemo, seguendo il piano di Ulisse, riuscì a conquistarsi la fiducia di Filottete e a farsi consegnare l’arco e le frecce di Eracle, ma la sua natura di eroe leale e onesto gli impedì di portare a conclusione il tutto e, dopo un’aspra discussione con Ulisse, peraltro da lui salvato dai propositi di vendetta di Filottete che aveva già teso il suo celebre arco per ucciderlo, rivelò a Filottete la verità e gli riconsegnò l’arco e le frecce chiedendogli di seguirlo a Troia e di espugnarla insieme a lui, così come predetto dall’oracolo. Filottete era molto combattuto finché scese Eracle dall’Olimpo per risolvere la situazione. La bellezza degli ingannevoli discorsi di Ulisse a Neottolemo e il modo in cui Eracle risolse il tutto sono splendidamente narrati da Sofocle nella tragedia Filottete.
Ma torniamo sotto le mura di Troia e veniamo al più famoso degli inganni di Ulisse: il cavallo di Troia. Tutti ne conoscono il mito e tutti sanno che, grazie a questo inganno, i greci espugnarono Troia dopo dieci lunghi anni di guerra. Ma non tutti sanno che l’ispirazione di costruire il famoso cavallo per ingannare i troiani, Atena non la diede al suo protetto Ulisse, bensì a Prilide; fu lui, infatti, secondo alcune versioni, a proporre l’idea di costruire un cavallo per oltrepassare le mura di Troia ed Epeo, figlio di Panopeo, si offrì di costruirlo sotto la direzione di Atena in persona. Ulisse poi, da furbo qual era, ne rivendicò la paternità quando fu ospite di Alcinoo, re dei Feaci, così come si racconta nell’Odissea.
Ma, sempre restando all’episodio del cavallo di Troia, Ulisse perfezionò l’inganno dando istruzioni affinché le tende fossero bruciate e le navi simulassero la partenza restando nascoste al largo di Tenedo e lasciando il solo Sinone a completare l’inganno.
Vale la pena spiegare che anche Sinone era un “valido bugiardo” di degna discendenza, essendo cugino di Ulisse e nipote di Autolico. Sapendo ciò, si può più facilmente comprendere perché Ulisse scelse proprio lui per il suo astuto piano. Sinone, infatti, si fece trovare sulla spiaggia dai troiani e raccontò loro, come suggeritogli da Ulisse, di essere a conoscenza del segreto della morte di Palamede e che perciò Ulisse aveva tentato di ucciderlo usando come pretesto una profezia di Apollo; questa profezia, infatti, diceva che il dio non li avrebbe fatti partire se non fosse stato effettuato un altro cruento sacrificio umano come quello già consumato, di Ifigenia in Aulide, al momento della partenza dalla Grecia. Sinone, quindi, disse ai troiani che Ulisse lo aveva proposto come vittima del sacrificio al fine di eliminare un testimone scomodo; quindi continuò il falso racconto suggeritogli dal cugino Ulisse, dicendo di essersi salvato grazie al vento improvvisamente propizio e alla confusione che ne era seguita per la precipitosa partenza delle navi dei suoi, ormai ex, compagni.
Priamo, a questo, punto iniziò a credere alle parole di Sinone e gli chiese ulteriori informazioni circa il cavallo costruito. Sinone spiegò, sempre seguendo l’astuto piano di Ulisse, che dopo il furto del Palladio, perpetrato proprio da Ulisse, lo stesso Palladio aveva iniziato a trasudare e per ben tre volte era andato in fiamme, quindi l’indovino Calcante, interpretando ciò come risultato della collera di Atena, aveva consigliato di tornare in Grecia lasciando un dono propiziatorio alla dea, per l’appunto il cavallo famoso. Ma le bugie che Ulisse aveva ordinato di dire a Sinone in merito al cavallo non finiscono qui; infatti Priamo, sempre più convinto da Sinone, gli chiese perché fosse stato costruito così grande e Sinone rispose che i Greci non volevano che il cavallo entrasse nelle mura di Troia, perché Calcante aveva predetto loro che se il cavallo fosse entrato nella città di Troia, essa avrebbe esteso il suo potere in Asia e in Grecia, mentre se lo avessero profanato sarebbero stati distrutti da Atena stessa. Le parole di Sinone sembravano aver completamente convinto Priamo, ma non convinsero il sacerdote troiano Laocoonte, il quale sembra si fosse accorto che in esse vi era l’astuzia di Ulisse, al punto che esclamò: “Queste sono bugie e suonano come se fossero state inventate da Odisseo”. Quindi consigliò al suo re di lasciargli sacrificare un toro a Poseidone e di bruciare il cavallo; ed è così che sarebbe andata se non fosse intervenuto Apollo, il quale inviò due serpenti dal mare; questi, dopo aver ucciso i due figli di Laocoonte e Laocoonte stesso, si posizionarono ai piedi della statua di Atena nella Cittadella troiana; questo intervento divino convinse i troiani che Sinone aveva detto il vero e l’inganno di Ulisse riuscì perfettamente, come tutti sanno.
Un’altra delle bugie di Ulisse è relativa ad un episodio meno noto del sacco di Troia. Durante il saccheggio che seguì la conquista, il “concubinaggio”, per così dire, dei greci con le donne troiane era frequente, e Aiace il Piccolo tentò di consumarlo con Cassandra, la quale, però, era riuscita a scamparla abbracciandosi alla statua di Atena. Successivamente, Agamennone volle Cassandra per sé e Ulisse lo appoggiò dicendo che Aiace aveva posseduto Cassandra nel tempio di Atena, commettendo così anche un sacrilegio. Naturalmente era una bugia che Ulisse aveva detto per compiacere il grande Agamennone, ma a quel punto Aiace fu additato di sacrilegio e Calcante chiese un sacrificio per placare la dea. Ulisse usò, quindi, la stessa scusa suggerita in precedenza a Sinone per convincere i troiani sulla bontà di quanto diceva e propose di lapidare Aiace, ma questi fuggì e si rifugiò nel tempio di Atena e lì giurò che Odisseo, come di consueto, aveva mentito e, confortato dalla testimonianza di Cassandra, evitò la morte.
Conclusa la conquista di Troia, i greci fecero rientro in patria ognuno con alterne vicende; quelle di Ulisse sono diventate celebri grazie a Omero che ce le ha narrate splendidamente. Una delle più note, tra le avventure che Ulisse ha affrontato nel suo lungo viaggio di ritorno, è quella presso l’isola dei Ciclopi. La vicenda è talmente famosa che non ci soffermeremo a ricordarla. Citeremo, solo perché attinente al tema che stiamo trattando, la celebre bugia che Ulisse disse al ciclope Polifemo. Questi, dopo aver mangiato alcuni dei compagni di Ulisse, intendeva ringraziarlo del vino datogli, divorandolo per ultimo e a tal fine gli chiese quale fosse il suo nome e, come tutti sanno, Ulisse rispose “mi chiamo Oudeis”, cioè Nessuno. In tal modo, quando Polifemo uscì dalla grotta chiedendo aiuto ai suoi fratelli e questi gli domandarono chi lo avesse accecato, lui rispose “Nessuno”, provocando l’ilarità dei fratelli che lo credevano delirante di febbre. Ulisse poi riuscì ad uscire dalla grotta di Polifemo grazie ad un altro trucco: Polifemo aveva un gregge di montoni che faceva pascolare ogni mattina; Ulisse legò ognuno dei suoi compagni sotto il ventre di uno di essi, ma lo fece con delle aste di vimini legate ad altri due montoni ai lati, in modo da distribuire il peso e fare in modo che l’uomo fosse sotto l’ariete centrale; per se stesso, invece, utilizzò il capo del gregge, un grande ariete al quale si aggrappò con le braccia e le gambe.
Con questo astuto espediente Ulisse riuscì a fuggire insieme ai suoi compagni. Ma in questa vicenda c’è anche da sottolineare che, per una volta, furono i compagni a richiamare Ulisse che, in un impeto d’orgoglio, mise da parte la sua proverbiale astuzia quando rivelò al Ciclope il vero nome di chi lo aveva accecato, provocando la reazione di Polifemo e di suo padre Poseidone, temuto dio del mare che già aveva un conto in sospeso con Ulisse.
Proseguendo nel suo lungo viaggio di ritorno, Ulisse si ritrovò sull’isola di Eolo, il Re dei venti, il quale, dopo averlo accolto regalmente, gli donò un otre contenente tutti i venti tranne quello necessario a riportarlo a casa; ma Eolo chiese a Ulisse se fosse inviso a qualche altro dio e Ulisse rispose di no; egli sapeva bene che Poseidone, padre di Polifemo ed imparentato anche con Palamede, aveva promesso vendetta, ma il suo desiderio di rientrare a Itaca era tale che lo portò a mentire anche al dio. Ulisse, però, nonostante l’inganno, non riuscì a raggiungere Itaca perché a poca distanza dalla spiaggia i suoi compagni, convinti che nascondesse dei tesori, aprirono l’otre contenente i venti, ritrovandosi così in balia di una micidiale tempesta che li riportò da Eolo, ma questi, scoperto che Ulisse gli aveva detto il falso, si rifiutò di aiutarlo nuovamente.
Infine, dopo le altre innumerevoli avventure narrate da Omero nell’Odissea, Ulisse raggiunse Itaca. Sulla spiaggia incontrò un pastorello e, memore di quanto suggeritogli da Tiresia e Agamennone durante il viaggio nel mondo dei morti (concessogli dalla maga Circe prima di farlo ripartire dalla sua dimora), non gli rivelò la sua reale identità ma, fingendo di essere un cretese in fuga, gli raccontò una lunga e falsa storia. Non poteva sapere che quel pastorello in realtà non era altri che la sua protettrice, la dea Atena, la quale, dopo aver sentito il suo falso racconto, lo accarezzò e sorridendo gli disse: “Sei davvero un meraviglioso bugiardo”, aggiungendo che era stato talmente abile nel mentire e che le sue menzogne erano così credibili, che lei stessa avrebbe creduto alle sue parole se non fosse stata a conoscenza della verità. Atena, poi, consigliò a Ulisse di non rivelare subito la sua identità e lo aiutò a travestirsi da mendicante.
Così travestito, Ulisse giunse dal suo fedele porcaro, Eumeo, al quale raccontò un’altra falsa storia; lì lo raggiunse il figlio Telemaco di ritorno da Sparta, ma anche a lui Ulisse non rivelò la verità finché non glielo consentì Atena, poi insieme a Eumeo e ad Atena, visibile solo a lui, su consiglio della dea si aggirò fra i Proci per rendersi conto di chi fossero i pretendenti al suo trono. Il principale di questi era Antinoo di Itaca al quale Ulisse, sempre sotto le spoglie di mendicante, narrò una ulteriore falsa versione della sua storia. Ulisse, quindi, continuò a presentarsi a tutti sotto le false spoglie di un mendicante, anche alla stessa Penelope; alla moglie, infatti, raccontò di aver visto Ulisse, il quale gli avrebbe detto che si stava recando a Dodona a consultare l’oracolo di Zeus per poi fare rientro a Itaca. L’unica a scoprire la sua identità, oltre al fedele cane Argo che, come tutti saprete, morì dalla gioia quando rivide il suo padrone, fu la vecchia nutrice Euriclea la quale, nel lavargli i piedi come ordinatogli da Penelope, notò la cicatrice che Ulisse aveva sulla gamba, ma questi la afferrò per la gola imponendole di non rivelare il suo segreto. L’inganno di Ulisse durò fino al giorno seguente quando, alle pressanti richieste dei pretendenti al trono, Penelope, ispirata da Atena, rispose che il successore di Ulisse sarebbe stato colui il quale fosse riuscito a scagliare una freccia, con l’arco di Ulisse, facendola passare attraverso i dodici anelli delle asce messe in fila.
Come molti di voi sicuramente sapranno, nessuno dei Proci riuscì neanche a tendere l’arco e tutti protestarono quando il “mendicante” chiese di poter provare anche lui; lo insultarono pesantemente, ma il “mendicante” non si tirò indietro e, ovviamente, riuscì nell’impresa, quindi rivelò a tutti la sua vera identità e, con l’aiuto del figlio Telemaco e dei due servi Eumeo e Filezio, si vendicò uccidendoli uno per uno.
Ultimata la sua vendetta, Ulisse si ricongiunse con la sua famiglia e, finalmente, raccontò loro la vera e avventurosa storia del suo ritorno a Itaca. Ma gli inganni di Ulisse non finiscono qui. Infatti, portata a termine la sua vendetta nei confronti dei Proci, Ulisse fece preparare una festa in modo da far credere agli abitanti di Itaca che Penelope avesse scelto il suo nuovo sposo. Il giorno dopo si recò, insieme a Telemaco, Eumeo e Filezio, dall’anziano padre, Laerte, ritiratosi nella sua casa di campagna; anche a lui Ulisse non rivelò la sua vera identità e si presentò come uno straniero che aveva ospitato Ulisse cinque anni prima. Ma la sua narrazione dei fatti disperò il vecchio Laerte al punto da farlo piangere; a ciò Ulisse non riuscì a resistere oltre e rivelò al padre la verità stringendolo in un forte abbraccio.
Come abbiamo visto, Ulisse era un maestro degli inganni; scaltro, ingegnoso, estremamente furbo, mentì a compagni, re e persino dei, come nel caso di Eolo e Atena. Usò la sua proverbiale capacità di ingannare per molteplici motivi: per vendicarsi come nel caso di Palamede, per difendersi come nel caso di Polifemo, per uno scopo individuale come nel caso di Eolo, o comune anche ai suoi compagni come nel caso del cavallo di Troia o di Filottete, o anche, come alcuni sostengono nel caso di Laerte, per il semplice piacere di mentire. Ma noi riteniamo che Ulisse sia riuscito in un ultimo, difficilissimo inganno. Il suo multiforme ingegno” e le sue “bugie” sono state narrate per millenni, giungendo a noi e a chi verrà dopo di noi, permettendogli di entrare nell’immortalità del mito e perpetrare il più grande dei suoi inganni: quello ai danni della morte.