I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO PRIMO

Poiché dal figlio di Peléo conquiso

Giacquesi il grande Ettorre, e l’ampio rogo

Le membra gli distrasse e l’ossa gli arse,

Temendo il gran valor del forte Achille

Chiusi i Trojan teneansi entro le mura

Di Priamo. Come suol l’imbelle armento

Che non osa ir incontro al leon fero,

Ma fugge a schiera timido, e fuggendo

Sè nel più folto e denso bosco inselva:

Tal dentro alla città temean l’altero

Guerrier, con la memoria ricorrendo

Le passate sue prove, a quanti i capi

Ei troncò furibondo in su le rive

Dello Scamandro idèo, quanti fugaci

Sotto l’eccelse mura ei diede a morte,

Com’egli Ettorre uccise, e le cittadi

Privò d’alta, e qual di lor fe’ scempio

Nel procelloso mar quando primiero

Portò ruina alla Trojana gente.

Ciò dunque rimembrando entro le mura

Stavan rinchiusi, e tale a loro intorno

Flebil pianto sorgea, qual se in quel punto

Fra sospirosa fiamma ardesse Troja.

Dall’ampio corso allor del Termodonte,

Bella qual Dea, Pentesiléa sen venne,

Parte di guerre lagrimose vaga,

Temendo parte ancor l’indegna fama,

E che de’ popolani alcun non versi

Gravi rampogne in lei, mercè del pianto

Ch’ella desiò quel dì che la sorella 

Ippolita con l’asta a morte spinse,

Volontaria non già, ma quando un cervo,

Ch’ella in caccia osservò, ferire intese.

Quinci dunque lasciando il patrio suolo,

A Troja gloriosa ella sen venne.

Impeto arroge alla guerriera mente

Desío pur di mundar le tristi macchie

Dell’infausto omicidio, e placar anco

Della sorella sua le furie orrende,

Che adirate vèr lei sempre importune

L’erano al fianco. Perchè sempre al piede

Queste aggiransi all’empio, e ‘ndarno cerca

L’empio involarsi alle seguaci Dee.

Seco dodici avea tutte leggiadre,

Tutte di guerra desiose e d’armi,

Donzelle a lei serventi ancorché nate

D’alto lignaggio; eppur fra tutte loro

Alto Pentesiléa sorge e sovrasta.

Qual nell’ampio del ciel la sacra luna

Squarciato il vel delle sonore nubi,

E scoperto il seren, fra le minute

Stelle splendente e luminosa appare;

Cotal costei fra le seguaci sue

Sorger altera e superar parea.

Eranvi Clonia, Polemusa e ‘nsieme

Evandra e Derione; eranvi Antandra,

La divina Bremusa ed Ippotóe,

Armótoe da’neri occhi, Alcibia ed anco

Derimàchia, Antibróte, e Termodusa

Con lor di grave lancia agitatrice.

Cotante dunque fur che la prudente

Pentesiléa nel guerreggiar seguiro.

Sì come lieta de’ corsieri illustri

L’infaticabil ciel lascia l’Aurora

Dall’Ore cinta, a cui la bella chioma

Scherza sul collo, e lor, benché leggiadre,

Benché senza alcun neo, pur di beltade

Vince e trapassa; tal Pentesiléa,

Quando sen venne alle trojane mura,

Di gran lunga passò quante ebbe seco

Amazzoni seguaci. Intorno cerchio

Frequenti a lei fèro i Trojani; ed alto

Stupor li prese in contemplar l’armata

Del fero Marte bellicosa figlia

A’ Dei celesti egual; perocché mista

Nella fronte di lei scorgeasi insieme

Con feroce rigor dolce bellezza

Se amorosa ridea, sotto le ciglia

Folgoravanle gli occhi un grato lume,

Che l’aere a raggio egual tremulo ardea.

Modestia femminil tingeale il volto

Di rossor grato, e sovra alle sue gote

Grazia sedea pur di valor vestita.

Quinci allegrarsi i popoli, cui dianzi

Gravissimo dolor l’animo offese.

Sì come il villanel qualor d’un alto

Monte sorger dal mar largo ed ondoso

L’iride mira, quando più desia

Celeste pioggia, allor che già le viti

Da Giove umor bramando, a poco a poco

Perdono il verde lor; se alfin s’adombra

Di nubi l’ampio ciclo, egli mirando

Grati segni di vento o di vicina

Piova, s’allegra, ove poc’anzi mesto

Sospirò gli arsi e desolati campi:

Tal si destò piacer ne’ mesti petti

De’ fìglj de’ Trojan quando miraro

Entro la patria lor, di pugne vaga

Pentesiléa tremenda: perchè quando

Ne’ petti altrui del ben la speme nasce,

Il doloroso mal s’annulla e perde.

Onde di Priamo l’affannosa mente,

Che di mesti sospir dianzi fu preda

E di largo dolor, quetossi alquanto.

Come colui che lungo tempo infermo

Giacque degli occhi, e desiò che ‘l lume

Lui si scoprisse o di morire almeno;

Se di medica man la saggia aita

Gli dà soccorso o qualche amico Nume,

Sì che, scosso l’orror, puote la luce

Mirar del dì sebben non come pria,

Rallegrasi però, gioisce in parte

Scarco di maggior mal, benché anco grave

Rimanga a lui della passata pena

Orma sotto le ciglia: in guisa tale

Nel contemplar Pentesiléa guerriera

Sentì piacer di Laomedonte il figlio;

Alcun piacer sentì, ma non intero,

Tanto in lui potea il duol che ancor l’ingombra

De’ figli uccisi. Entro al reale albergo

Accolse la regina egli, ed in guisa

Di figlia l’onorò che di lontano

Torna talor dopo il ventesim’anno,

Ricca mensa apprestolle, appunto quale

Apparecchian allor gl’incliti regi

Che, soggiogati i popoli, festosi

Soglion cenar della vittoria alteri.

Cari dielle, indi e preziosi doni,

E promisele più se la difesa

De’ miseri Trojani ella prendea.

Ed essa opra a lui tal promise, quale

Uomo sperar mortal mai non poteo:

Vincer Achille, il largo stuolo argivo

Struggere, e lanciar foco entro le navi.

Folle! non sapea ancor come guerriero

Fosse Achille superbo, e con qual forza

Ne’ sanguigni conflitti oprasse l’arme.

Quando promesse tai la bella figlia

D’Eezióne Andromaca sentìo,

Così dentro al suo cor disse tacendo:

Misera! a che ti vanti? a che tant’alto

Sale il superbo e folle tuo pensiero?

Forze già non hai tu da pugnar contro

L’ardito figlio di Peléo; ma tosto

Ruina insieme apporteratti e morte.

A che vaneggi, o misera, infelice?

Certo hai morte vicina e ‘l fato estremo.

Molto di te maggior nell’oprar l’arme

Era il mio Ettorre, eppur benché sì forte,

Fu vinto, ed a’ Trojan lasciò gran doglia,

Che lui solean per la città mirando

Onorar riverenti a Dio simile.

Gloria ebb’jo mentre visse, ebberla insieme

Anco i divini genitori suoi.

Ah! sì coperta avesse me la terra

Pria che la lancia a lui passando il mento

Dispogliato l’avesse, oimè, di vita!

Quale estremo dolor, mesta, provai

Quando lui vidi alla cittade intorno

Da’cavalli rapir del crudo Achille!

D’Achille, ond’io di giovanetto sposo

Vedovella rimasi, e sempre dura

L’acerbo affanno mio di giorno in giorno.

Così parlò fra sè la vaga figlia

D’Eezion, lo sposo suo membrando:

Perocché in ripensar de’ sposi estinti

Nelle femmine caste accresce il pianto.

Correndo il sol per le veloci vie

Caduto già dell’oceàn profondo

Era fra l’acque, e giunto al fine il giorno:

Onde, poiché, dal bere e dalle mense

Liete cessaro, allor l’agiate piume

Preparar le serventi alla feroce

Pentesiléa di Priamo entro la reggia.

Per dormir corcossi ella, e intanto il sonno

Dolce cadendo, i lumi a lei coperse.

Di Pallade all’impero allor dall’alte

Sfere, di sogno falso e lusinghiero

A lei, mentre dormia, scese la forza;

Cui mirando, a’ Trojani ed a sè stessa

Fosse cagion di danno, armando ed anco

Movendo insieme al guerreggiar le schiere.

Mentre questo e così già preparando

Scaltra e sagace incontro lei Tritonia,

Sovra di lei fermossi il sogno infausto

Simile al padre in vista, ed eccitolla

A mover sè contro il veloce Achille,

E venir pronta seco a tenzon d’arme.

Si riscosse ella intanto, e d’alta gioja

Sentì colmarsi il petto, e stimò certo

Poter quel dì nel periglioso assalto

Condur tant’opra al desiato fine.

Folle! che prestò fede ad infelice

Sogno, che a lei di sera apparve, quando

Nel letto posti i miseri mortali

Lusinga, e ‘n tutto è del suo dir mendace.

Così dunque costui la persuase,

E con inganni ad uscir fuor la spinse.

Onde quando apparì co’ pie di rose

L’Aurora, allor Pentesiléa ripiena

L’alma di nuovo ardir, del letto fuori

Saltò veloce, e delle ornate e belle

Arme si cinse il tergo, onde a lei dono

Fatto avea Marte: alle sue gambe intorno,

Che col vivo candor vincean l’argento,

Pose aurati schinier, che con leggiadro

Modo le s’adattaro: il ricco usbergo

Quinci vestissi, ed alle spalle appese

La grande spada baldanzosa, cui

Copr’a d’intorno ricco fodro, ornato

E d’avorio e d’argento. Indi il divino

Scudo imbracciò, simile in tutto all’orbe

Della luna, qualor fuor dell’immenso

Oceano esce, e mezzo piena in cerchio

Dispiega ambo le corna; in cotal guisa

Splendea lucente. E quinci al capo l’elmo

S’impose, cui rendea pomposo e vago

Ricchissimo cimier di coma d’oro.

Così le fatali armi ella si cinse,

A lampo egual, che l’invincibil forza

Di Giove in terra suol mandar dal cielo

Per segnar a’ mortai poter di pioggia

Strepitosa, o mostrar de’ fieri venti

Il lungo sospirar, l’alto rimbombo.

Nel lasciar frettolosa indi l’albergo

Prese due strai sotto lo scudo, ed anco

Di scure armò la destra, il cui tagliente

Ferro pungea da questa e quella parte.

Discordia a lei donolla, affinché schermo

Alto le fosse in perigliosa guerra.

In questa giubilando il piede mosse

Ratto, e lasciò le torri, e con la voce

I Trojani commove ad uscir fuori

Nell’onorato campo: onde repente

Persuasi da lei, posersi insieme

Gli Eroi, benché poc’anzi avesser fermo

Di non star contro Achille, perchè il fero

Tutti loro avea vinto. Ella superba,

Come se nulla stimi, il pie movea

Baldanzosa e festante: il dorso quinci

Di bello e rapidissimo destriero

Preme, che a lei dono ospital già diede

Orìtia (allor che in Tracia peregrina

Ella passò), veloce sì che puote

Anco le ratte Arpie vincer nel corso.

Sovra questo sedendo, a tergo lascia

Della città l’alte magion la forte

Pentesiléa, cui le funebri Parche

Forza facean perch’ella uscisse tosto

All’estrema per lei guerra e primiera.

Moveasi intanto all’infelice assalto

Con piè, cui fia poscia il tornar preciso,

Di trojani guerrier copioso stuolo;

E già seguendo la fanciulla audace

A schiera pur, come il monton lanoso

La mandra segue, il qual precede e l’orme

Del prudente pastor movendo preme.

Così seguian costei mostrando ardire

L’Amazzoni superbe e i Trojan forti.

Mostravasi ella a Pallade simile

Quando già mosse a’ fier giganti assalto,

O qual destando le battaglie all’ira

Scorre Discordia il sanguinoso campo.

Cotaldi sè fra le trojane schiere

Mostra facea Pentesiléa veloce.

Le meste allora ed infelici mani

Del ricco Laomedonte il buon figliuolo

Al figlio di Saturno alzò, converso

Là ‘ve di Giove idéo s’estolle il tempio,

Che con gli occhi indi sempre Ilio rimira;

E sì disse pregando: O Padre eterno,

Esaudiscimi, prego, e in questo giorno

Fa’ che lo stuolo acheo sotto la mano

Della marzia reina a terra caggia.

Fa’ che salva ella torni entro al mio albergo,

Ed onora il tuo figlio, il fero Marte.

Onora lei, poich’ ella sembra in vista

Alle dive celesti in tutto eguale,

E ben discesa appar della tua stirpe.

Abbi pietà di me, che tante e tante

Ho ruine sofferto, orbo de’ figli,

Che per man degli Argivi in fiera guerra

A me rapìr le dolorose Parche.

Abbi pietà, poiché del sangue illustre

Di Dardano restiam sì pochi omai:

Fa’ che sia salva la cittate; e noi

Da crudeli omiddj e dagli insulti

Pur respiriam dell’aspro Marte alfine.

Così disse pregando; ed ecco intanto

Un’aquila calar con grave suono,

E fra l’unghie ritorte ancor spirante

Stringer colomba, che a sinistra mano,

Senza riposo aver, gemea dolente.

Turbossi Priamo, e di terror la mente

Colmo, certo fra sè fece pensiero

Di non più riveder che viva indietro

Torni Pentesiléa da quella guerra:

E così preparato avean quel giorno

Di far le Parche; ond’ei dolente giacque

Povero di vigor, di speme scarco.

Dall’altra parte indi stupir gli Argivi

Quando i Trojan mirar, pari alle fere

Che ne’ monti alle greggie apportan danno,

E lei, simile a rapida fiammella

Che allo spirar de’ venti arde le selve,

Discender furiosi; e cosi disse

Alcun rivolto a tal che gli era al fianco:

Chi dopo Ettorre vinto, oggi Trojani

Raguna, che a viltà già dati in preda

Pareano, e stimavam che d’incontrarsi

Omai non fossero osi? Ecco, e pur sono,

Come possiam veder, vaghi di guerra.

Vedi un nel mezzo a lor che par che tutti

Spinga ed incuori al faticar nell’armi?

Certo all’opra che lenta un Dio rassembra.

Su dunque di valor colmianci il petto,

Memoria torni in noi del prisco ardire;

Che non senza gli Dei fia che da noi

Contro lo stuol trojano oggi si pugni.

Così disse; e vestendo armi lucenti

Dalle navi d’intorno usciro a schiere

Di guerriera virtù cinti le spalle,

E dieron sè come voraci fiere

Nel sanguigno conflitto. E quelli e questi

Avean bell’armi, acute lancie, usberghi,

Forti elmi e duri scudi, e questi e quelli

Con alterno colpir senza riposo

Feriansi co’ metalli, e si tingea

Di rosso intanto la trojana terra.

Allor Pentesiléa Persìnoo uccise,

Molon, Glisso, Antitéo, Ippalmo, il forte

Lerno, Emonìde ed Elasippo il fiero.

Derióne a Laógono diè morte,

Clonia a Menippo, che da voglia spinto

Sol di pugnar co’ valorosi Teucri

Da Filaca seguío Protesilao.

Al cader di costui grave s’accese

Ira in Podarce d’Ificléo figliuolo,

Di cui, più ch’altro, amico egli fa caro:

Onde percosse la divina Clonia

Per guisa tal che impetuosa l’asta

Le passò il ventre, e per la lancia intorno

Repente si diffuse il negro sangue,

E le viscere sparse indi seguiro:

Grave in Pentesiléa surse lo sdegno

Quando ciò vide, e con la lunga lancia

Ferendo a lui dove ha più carne il braccio,

Gli risecò le sanguinose vene.

Scorse dalla ferita il sangue oscuro,

E n’uscì zampillando, ond’egli addietro

Ritirossi gemendo; in guisa tale

Vinto l’avea della ferita il duolo.

Ritratto ch’ei si fu, grave desìo

Ebberne i Filacesi, ed egli poi

Che si scostò dalla battaglia alquanto,

In fra le man de’ cari suoi morìo.

Con l’asta Idomenéo ferì Bremusa

Nella destra mammella, e tosto l’alma

Le sciolse; ond’ella a frassino sembiante

Cadeo che il fabbro alle montagne in cima

Alto col ferro tronca; e giù cadendo

Grave insieme destò suono e rimbombo.

Così cadde gemendo, e intanto il fato

Tutti a lei delle membra i lacci sciolse,

Ed a’ venti leggier meschiossi l’alma.

Merióne ed Evandra e a Termodusa

La morte diè, mentre veloci e pronte

Ambo movean vèr l’aspra guerra il piede.

Di loro all’una il cor passò con l’asta,

All’altra con la spada il ventre punse,

Onde ratto da lor partio la vita.

Con la rigida lancia il forte figlio

D’Oiléo Derión vinse, ferendo

Lei colà dove l’osso il petto inchiova.

Ad Alcibia Tidide e a Derimàchia

Con la spada mortal levò d’un colpo

Dal busto il collo e il capo: esse cadéro

Ambe, quasi giovenche, a cui robusto

Giovane morte dà, mentre con grave

Scure del collo i nervi a lor recide.

Tale appunto cader dal braccio vinte

Del figlio di Tidéo lunge dai capi

Troncati, oimè! sovra il trojano suolo.

In un monte con lor Sténelo estinse

II gagliardo Cabiro, il qual da Sesto

Bramoso venne di pugnar co’ Greci,

Ma non tornò, meschino! al patrio suolo,

D’ira, morto costui, s’accese Pari,

Ed a Sténelo incontro offerse il colpo:

Il colpo stese sì, ma non ferillo,

Perchè ratto movendo errò lo strale,

E colà nell’errar passò volando

Ove il drizzar le immansuete Parche:

Morte diede ad Evénore d’intorno

Cinto di ferro, il qual per oprar l’arme

Incontro a’ Teucri di Dulichio venne.

Al cader di costui l’illustre figlio

Di Filleo mosse, e qual leone in greggia

Lanciossi avanti, ed eglino gran tema

Ebber del feroce uom, che Itimonéo

A morte diede ed Agelao figliuolo

D’Ippaso, che portando a’ Greci guerra,

Da Mileto venendo, il divin Naste

E ‘l magnanimo Anchémaco seguiro,

Che Micalia abitaro e di Titanio

Le bianche cime, le distese valli

Di Branco e fra le ripe alto Panormo

E del cupo Meandro il flutto ondoso,

Che di greggie abbondante il frigio suolo

Lasciando, corre con involti giri

Per lo Cario terren di viti carco.

Costui dunque pugnando uccise Mege,

E altri anco atterrò, che furibondo

Con l’asta micidial giunger poteo:

Perchè nel petto a lui Pallade infuse

Valore, ond’egli alle nimiche schiere

Apportasse ruina. Il bellicoso

Polipéte e Dreséo privò di vita

Che partorito avea Neera al saggio

Teodamante, che con lui si giacque

Colà ‘ve s’erge Sipilo nevoso,

Ove fu dagli Dei conversa in pietra

Niòbe, il pianto di cui distilla ancora

Sovra il ruido sasso, e gemon seco

Sonori e strepitosi i flutti d’Ermo

Con le cime di Sipilo sublimi,

Cui nemico a passar sopra si stende

Di tenebrosa nebbia orrido velo.

Ed essa, alto stupore alle future

Genti, donna dolente assembra involta

In mesto pianto, e smisurata copia

Di lagrime distilla. Essa verace

Donna dirai se da lontan la scorgi;

Ma se t’accosti a lei, parratti solo

Di Sipilo uno scoglio, altera pietra.

Non è però che contro sè compita

Degli Dei l’ira grave ella non plori

Ancor fra’ sassi a flebil donna eguale.

Morte così portavansi ed acerbo

Fato, Il grave Tumulto in mezzo errando

A’ popoli avvolgeasi, appresso a cui

Della Morte crudel stava il Decreto,

E con ambedue lor girando intorno,

Seco traean le micidiali Parche

Ovunque si movean misera strage.

Molte alme fur quel dì sovra la rena

D’Argivi e di Trojan disciolte. Intanto

I tumulti avanzavansi e le grida;

Perocché non avea l’invitta forza

Di Pentesiléa tregua ancora o pace.

Ma qual talor per le montane cime

Saltando fuor d’una riposta valle

Desiosa di sangue, ond’ella è vaga,

Assale i buoi la leonessa fiera;

Tale appunto lanciossi allor fra’ Greci

La guerriera donzella. Essi all’indietro

Sbigottiti fuggiro, ed ella avanti

Seguia lor sì, come del mar sonoro

L’onda seguir suol le velate navi

Qualor il vento impetuoso inarca

Le bianche vele, e fremon d’ogni ‘ntorno

Gli eccelsi promontorj, ed isgorgando,

A’ lunghi e curvi lidi il mar s’avvolge.

Tale incalzava lor, così struggea

Costei le greche squadre, e minacciando

Con baldanzoso core a lor dicea:

Ah cani! oggi, oggi voi le gravi offese

A Priamo pagherete, e non fia alcuno

Che fuggendo di voi dalla mia forza

Poni a moglie allegrezza, ai padri o ai figlj.

Rimarrete d’augelli esca e di fiere

Morendo, Né sarà chi voi ricopra

Pur di sepolcro o di terrena tomba.

Ov’è di Diomede, ov’è d’Achille,

Ov’è il valor d’ Ajace, a cui la fama

Vanto dona di forti? ah! non ardisce

Di venir meco al paragon dell’arme

Alcun di lor; ma temon ch’io non mandi

Sciolte da’ mèmbri lor l’anime vili

Nel numero de morti oggi all’inferno.

Disse, e nel dir magnanima si spinse

Contro gli Argivi, a Parca in forza eguale,

E gran popolo uccise ora adoprando

La tagliente sua scure, ora l’acuto

Dardo vibrando. E la faretra e l’arco

Tremendo le portava anco il destriero

Di macchie sparso; onde potesse a tempo

Nelle sanguigne mischie adoprar anco

Qualor uopo n’avesse e strali ed arco.

Seguian veloci le vestigia sue

D’Ettore valoroso amici e frati

Che spiravan dal petto il fero Marte.

Questi facean con le pulite lancie

Strage de’ Greci, che frequenti in guisa

Cadean al suol d’aride frondi o stille,

Ond’alto ne gemea larga la terra

Di sangue intrisa e morta gente carca.

Trapassati i corsier da strali ed aste

Spirando ancor la lor natia fierezza

Mandavan sul morir gli ultimi inniti:

E palpitando e dando il guizzo estremo

Con le mani i guerrier stringean la polve.

Quinci i trojan destrieri impetuosi

Gli erano a tergo, gli spingeano, e dove

II piè movean, col piè premean gli estinti.

Allor di maraviglia e di piacere

Altamente colmossi alcun de’ Teucri

Quando mirò Pentesiléa scagliarsi

Per le schiere nemiche, in tutto eguale

A torbida procella, che fra l’onde

S’infuria allor che del celeste capro

Movesi io compagnia del sol la forza:

E di vane speranze in tutto pieno

In questa guisa al dir la voce sciolse:

Amici, oh come è certo! oggi dal cielo

Alcun de’ Divi a noi discese a fine

Di pugnar contro a’ Greci, e per consiglio

Di Giove a darne in combattendo aita.

Forse ha memoria anco di Priamo, il forte

Che gloriasi il suo sangue esser dal cielo.

Perchè certo non è costei, che a noi

Par dimostrarsi intrepida e nell’arme

Chiusa, donna mortal, ma Palla od anco

L’inclita figlia di Latona, oppure

È la Discordia o l’animosa Ennio.

Dubbio non ha che dentro a questo giorno

A’ Greci ella non porti ultima doglia,

E col vorace foco i legni loro

Non arda, ond’essi già vennero a Troja,

Gravi danni di guerra a noi portando.

Ma non fia che tornando ai greci lidi

La patria lor rallegrino, cotale

È ‘l Dio che combattendo oggi n’aita.

Così disse alcun Teucro allegro il core.

Folle! che non vedea qual grave scempio

A sè fosse apprestato, a Troja ed anco

A Pentesiléa stessa. Ancor non era.

Giunto al conflitto orribile e sonoro

Il poderoso Ajace e ‘l fero Achille

Delle città distruggitor; ma sparsi

Eran d’intorno all’onorata tomba

Del figlio di Menezio, il caro amico

Ancor membrando, e quinci e quindi pianto

S’udia lugubre: perchè ancor tenea

Questi alcun degli Dei fuor del tumulto;

Affin che il grave duol giungesse al colmo,

Molti vinti da’ Teucri, e molti insieme

Sotto cadendo alla guerriera forte,

Che avventata fra lor, morti e ruine

Già lor tessendo, e d’ora in or prendea

Maggior forza e coraggio, e non drizzava

Indarno colpo, anzi o feria le spalle

Di chi fuggiasi, o trapassava il petto

Di qualunque a lei contro il pie movea,

Tutta di caldo sangue era stillante,

Lieve ognor più le membra, e non offesa

Da stanchezza o fatica i ferì spirti.

Invitta e non domabile crescea

Di valor e di forza, perchè mentre

Lei venia conducendo inver l’illustre

Achille la funebre e cruda Parca,

Favor porgeale, e trattala in disparte.

Dalla battaglia fuor, per sua ruina

L’eccitava alle glorie, e perchè tosto

La donzella dovea per man d’Achille

Vinta cader. Di tenebre vestita

L’accendea dolorosa, e l’adducea

Per l’estreme sue glorie a morte; ed ella

Intanto or questi or quel togliea di vita.

Come nella stagion di primavera

Di dolci paschi vaga entra giovenca

In giardin rugiadoso allor che lunge

Ènne il cultor, è in mover quinci e quindi

Le tenerelle e pur allor fiorite

Piante danneggia, e parte ne divora,

Parte col calpestar guasta col piede:

Così di Marte la guerriera figlia

Penetrando alle navi, il greco stuolo

Parte uccide col ferro, e parte fuga.

Mentre lontan le frigie donne intanto

Ammiran di costei l’opre stupende,

Di guerra alto desio prese Ippodàmia

D’Antimaco figliuola e cara insieme

Consorte a Menettólemo. Costei

Entro l’alto pensier virtù premendo,

L’altre fanciulle a lei d’etate eguali

Accendendo alla pugna, in questa guisa

Disse audace parlando, e più l’ardire

Al valoroso cor valore aggiunse;

Compagne, a che non ci poniam nel petto

Gagliardo cor, simile a quel de’nostri

Uomini, che giammai non respirando

Dal grave faticar, guerreggian sempre

Per la patria, per noi, pe’ nostri figli

Contro il nemico stuolo? Ah ! prendiam anco

Noi valor dunque, e par tentiam la guerra,

Poiché non siamo agli uomini robusti

Dispari; anzi il valor che vive in loro,

In noi vive anco, e le ginocchia e i lumi

Simili abbiamo a lor. Nulla è diverso:

Comune a tutti è ‘l giorno e l’aere vago;

Non è diverso il cibo: or che di meglio

Diede agli uomini Dio di quel che a noi

Donato s’abbia? a che temer dobbiamo

Dunque, i perigli noi della battaglia?

Or non vedete voi di quanto avanzi

Colà donna viril gli uomini in guerra?

Eppur nacque lontano, e non è sua

Questa cittade, è per un re. straniero

Animosa combatte, e il core audace

Ed invitta il pensier gli uomini sprezza.

Noi, cui mille dolor giransi al piede,

Perocché ad altre i figli, ad altre sono

D’intorno alla città morti i mariti,

Altre i padri piangiam ch’or più non sono,

Altre de’ frati e de’ parenti estinti

Il lutto abbiam, poiché non v’ha pur una

Di noi che scevra sia pel grave danno;

Noi che veder di servitute il giorno

Sempre temiam, da tanti mali stanche

Resterem dalle guerre? Ah quanto è meglio

In battaglia morir che alfin cattive,

Combusta la città, morti gli sposi,

Co’ pargoletti figli esser rapite

Con dura legge alle straniere genti!

Così diss’ella, e io quel medesmo punto

Amor di cruda guerra in lor destossi,

Onde rapidamente ornate d’armi

Dalle mura n’uscian per dare aita

Alla cittade e a’ popoli soccorso:

Tal negli animi lor virtù sorgea.

Come, passato il verno, entro le stanze

Con alto mormorio fremon le pecchie

D’uscir accinte ai paschi odiando omai

Lo star tanto rinchiuse, al volar fuori

L’una e l’altra fra lor s’incita a gara:

Tal le donne trojane alla battaglia

S’animavan fra loro, ed in disparte

Posti gli stami e le conocchie, all’armi

Perigliose e mortai porgean la mano.

E ben con gli uomin loro e con le forti

Amazzoni morian fuor delle mura,

Se frettolosa a lor con dolci detti

Non vietava l’uscir saggia Teano.

Misere! ond’ è che in voi desio di guerra

Nasce, non use alle battaglie in prima?

Dunque inesperte e senz’alcun consiglio

V’accingerete ad impossibil opra?

Non è vostro valor, credete, pari

A quel de’ Greci al guerreggiare avvezzi.

All’Amazzoni poi le ingrate pugne,

Il maneggiar corsier, l’opre virili

Piacquer da giovanette, e quinci nasce

Che bellicoso in lor l’animo sorge.

D’uomini uopo non han; sì la fatica

Lor fatto ha l’alma audace e ‘l piede forte.

Costei canta la fama esser del fero

Marte figliuola, e quinci non conviene

Ch’ogn’altra donna a lei si tenga eguale:

O chi sa che non sia qualche celeste

Quaggiù disceso al suon de’ nostri preghi?

È la stirpe mortal tutta d’un sangue;

Ma questi ad una, altri ad altr’arte attende,

E quei nell’opra sua meglio s’avanza,

Che a quel che intende più, la mano impiega.

Dunque lasciando i torbidi conflitti

Ite ne’ vostri alberghi a tesser tele;

Cura gli uomini nostri avran dell’arme.

E v’ha speme di ben, poiché vediamo

Vinti cader gli Achivi, e de’ guerrieri

Nostri crescer le forze. Or non ha luogo

Il vil timor, poiché i nemici crudi

Non stringon le mura anco, e non v’ ha tale

Dura necessità della difesa

Che le femmine insieme a guerra sforzi.

Così disse Teano, ed esse ai detti

Di lei, che d’anni era di lor più antica,

Quetarsi, ed in disparte si tiraro

A mirar la battaglia. Abbattea intanto

Pentesiléa le genti, e impauriti

Gli Achei nullo da morte aveano scampo;

Ma quali capre dall’orrende sanne

Uccisi eran del Pardo, ed omai voglia

Non più. di guerra avean, ma sol di fuga.

Dispersi in varie parli, altri gli arnesi

Dal tergo sciolti via gittava a terra,

Altri fuggía con l’anni, e senza auriga

Prendean fuga i destrieri. Eran più lieti

Degli altri i più veloci, e grave briga

Avean molti morendo, ed agli afflitti

Non era alcun rimedio; e venian meno

Tutti color che la vorace bocca

Giunger potea della battaglia orrenda.

Come allor che stridendo impetuosa

Procella si rinforza, e da radice

Svelle ed atterra le fiorite piante,

Di cui parte col tronco urta ed abbatte

D’alto, e parte di lor frange e confonde:

Tal prostrato colà sovra l’arena

Giacea gran parte dell’argivo stuolo

Per voler delle Parche e per la forza

Onde Pentesiléa vibrava l’asta.

Ma quando già le navi attendean fiamma

Dalla man de’ Trojani, il bellicoso

Ajace udendo il fremito e il tumulto,

Vôlto ad Achille in questa guisa disse:

Achille, a me gli orecchi un suon percuote

Come di grande e strepitosa guerra.

Andiamo, affin che all’improvviso i Teucri

Gli arsenali assaliti, uccisi i Greci,

Non accendino fiamma entro alle navi:

Perocché ad ambidue grave sarebbe

Vergogna; e si disdice a noi, che siamo

Scesi dal sommo Giove, a’ padri nostri,

Divina stirpe, apportar macchia indegna,

A’ padri ch’essi ancor vinser con l’arme

In compagnia del poderoso Alcide

Laomedonte e le trojane mura.

E così credo ancor che avvenir deggia

Per nostra man; e tale è in noi la forza.

Così disse; e il suo dir piacque all’ardente

Forza d’Achille, poich’egli anco udío

Co’ proprj orecchi della pugna il suono.

Corser veloci entrambi a’ tersi arnesi,

E di lor cinti, si fermaro incontro

Lo stuolo, e grave suon rendeano intorno

Lor le bell’arme, e furiava il petto

D’ambo qual Marte: tal valor avea

Donato a lor prontissimi all’impresa

Tritonia degli scudi agitatrice.

S’allegraron gli Argivi in contemplando

I due forti guerrier simili a’ figli

Dell’immane Achelóo, ch’ebber pensiero

Imponendo ad Olimpo alteri monti,

Ossa elevato e Pelio il capo eccelso,

Di tentar guerra e sollevarsi al cielo.

Tali s’opposer dunque all’aspra zuffa

D’Eaco i figli, a’ desiosi Achei

Altissimo conforto, ambedue fermi

Di strugger combattendo il vulgo avverso,

Di cui molti anco al suol mandar con l’asta.

Come trovando in frondeggiante selva

I grassi armenti due leon feroci

Di tauri domator, mentre lontani

Son gli amici pastor, senza ritegno

Di lor fan alta strage, il negro sangue

Suggono, e delle viscere fan piene

Del cupo ventre lor l’ampie caverne:

Tal facean ambidue ruina e strazio

Fra le nemiche numerose schiere.

Ivi a Deico, ad Illo il bellicoso

Diè morte Ajace, ad Eniéo divino

Ed all’amico Eurinomo dell’armi.

Achille Antandra uccise e Polemusa

Ed Antibróte ed Ippotóe leggiadra,

Ed Armótoe con queste: e il popol tutto

Struggea di Telamon col figlio altero.

Per le man di costor cadean a terra

Le più robuste e numerose squadre,

Come ne’ monti allo spirar de’ venti

Caggiono al foco le più forti selve.

Quando mirò Pentesiléa la saggia

Costor quai fere ir discorrendo il campo,

Ad ambo féssi incontro, a tigre in selva

Simil, che micidial la lunga coda

Battendo in fiera guisa, ardita assale

I cacciator, che armati e fatti arditi

Per l’aste, attendon lei, che a lor s’avventa.

Tale attendean Pentesiléa feroce

Con l’arrestate lancie, e d’ogni intorno

Girandosi i guerrier splendean nell’arme.

Lanciò primiera intanto il lungo legno

La valorosa donna, il qual percosse

Nello scudo d’Achille, e risaltando

Si franse in lui quasi festuca o vetro:

Tal del dono immortal, che l’ingegnoso

Vulcan lui diè, perfetta era la tempra.

Ed ella intanto ne venìa drizzando

L’impetuoso suo secondo strale

Incontro Ajace, e minacciando parte

L’un e l’altro di lor, così dicea:

Dianzi uscì di mia man la lancia a vuoto;

Or con questo pens’io di domar tosto

D’ambo in un punto e l’animo e la forza;

Di voi, che vi vantate esser di tutti

Gli altri Greci più forti; onde più lieve

A’ trojan cavalier fia questa guerra.

Or via, su dunque alla battaglia avanti;

E sì vedrete qual valor nel petto

All’Amazzoni sorga. Io marzio germe

Sono, e generò me non uom mortale,

Ma ben l’istesso Marte, il qual giammai

Non è di pugnar sazio, e quindi avviene

Che a me ciaschedun uom cede di forza.

Così diss’ella; ed essi a tai parole

Proruppero in gran riso. Intanto il dardo

L’argentato schinier ferì d’Ajace;

Ma non penetrò dentro, e non offese

La delicata pelle, ancor che spinto

D’entrar facesse forza; perchè il Fato

Non volea che in battaglia avverso ferro

Si meschiasse al suo sangue. Ajace nulla

Curossi dell’Amazzone, e si spinse

Fra le trojane schiere, è lasciò Achille

Sol con Pentesiléa; perchè di certo

L’animo gli dicea che con sì lieve

Fatica vinta lei, benché guerriera,

Avrebbe Achille, come falcon suole

Vincer colomba. Alto sospir dal petto

Mandò la donna quando vide indarno

Aver lanciato e inutilmente l’aste.

Indi schernendo lei così le disse

Alto parlando il figlio di Peléo:

Femmina, oh come vantatrice e folle,

Vani detti spargendo, osasti a noi

Contro venir di guerreggiar bramosa,

A noi che ci lasciam gran lunga addietro

Ogni terreno eroe, perchè da Giove

Altitonante ci gloriam la stirpe

Tragger e ‘l sangue. Anco il veloce Ettorre

Di noi tremava pur, se da lontano

Mover vedeaci al sospirato assalto,

La mia lancia l’uccise, ancor che forte

E’ fosse. Or tu certo follia nel petto

Chiudesti, e troppo osasti in minacciando

Oggi a noi morte. Or fìa che tosto arrivi

A te l’estremo giorno, e Marte istesso,

Marte il padre di te, non avrà forza

Da noi salvarti; e pagherai tu ‘l fio

Qual damma, che ne’ monti incontrar vuole

Fero leone a vincer tauri avvezzo.

Or non udisti tu di quanti a terra

Sparse dalle mie man furon le membra

Per le rive del Xanto? Or se l’udisti,

Tolto a te l’intelletto hanno e la mente

Gli Dei per far che a te le braccia intorno

Spargan le crude immansuete Parche.

Ciò detto mosse, e con la forte mano

L’asta librò de’ popoli omicida

Da Chirón fabbricata, e la prudente

Pentesiléa sopra la destra mamma

In un punto percosse, e ‘l sangue oscuro

Fuori usci dalla piaga. Ella rimase

Senza forza le membra, e dalla mano

Lasciò cader la grande scure a terra.

Notte le adombrò i lumi, e dentro all’alma

Le penetrò la doglia. Alfin riprese

Gli spirti pure, e l’avversario forte

Mirò, che lei già dal destrier veloce

Trar volea a terra. Ella fra sé pensando

Già se traendo fuor la grande spada,

D’Achille sostenesse il grave assalto,

O ratta dal corsier discesa a terra

Spargesse preghi all’uom divino, ed indi

Copia a lui di metallo offrisse e d’oro,

Che soglion de’ mortal placar le menti

Anco più fiere, se per sorte quinci

Pur s’ammollisse il gran poter d’Achille,

Od egli, per riguardo almen de’ suoi

Compagni d’età pari, a lei donasse,

Bramosa di campar, la libertade

Di fare a’ suoi ritorno. Or mentre questo

Già fra sè meditando, ad altra parte

Gli Dei la rivoltaro: onde s’accese

D’alto disdegno il figlio di Peléo

Quando mover lei vide a nuovo assalto.

E tosto sì del rapido destriero

E di lei trapassò il ventre, qual suole

Altri, talor che si prepara il cibo,

L’interiora appresso al foco ardente

Trafigger con lo spiedo, o come allora

Ch’altri ne’ monti cacciator sospinse

L’acerbo stral che trapassò veloce

Del cervo il corpo, ed indi oltre volando

D’alta quercia o di pin s’affisse al tronco.

Così Pentesiléa col bel corsiero

Per mezzo trapassò con l’asta audace

Achille, ed essa al suol ratta cadendo

Con la polve meschiossi e con la morte.

Onesta cadde a terra, e non offese

Vergogna il nobil corpo, e sopra il ventre

Distesa giacque palpitando intorno

All’asta, del destrier fattosi appoggio.

Come abete talor ch’alto e sublime

Entro profonda valle o larga selva,

Gloria a sé stessa e pregio, appresso un fonte

Nudre la terra, d’Aquilon nevoso

Cade schiantato alla terribil forza:

Tal dal ratto cavallo al suoi cadeo

Pentesiléa, benché leggiadra e bella;

E nel cader s’inlanguidiro in lei

Della beltà primiera i vaghi fiori.

I Teucri, poiché lei nella battaglia

Vidder ferita, paventati a schiera,

Tocchi d’alto dolor l’animo interno,

Inverso la città prendean la foga.

Come nell’ampio mar quando rinforza

II vento, i marinar, rotta la nave,

II periglio mortai sen van fuggendo;

A pochi sol nel pelago infelice

Dopo lungo travaglio alfin si scopre

La cittate vicina e il patrio lido,

E dal gran faticar lassati i membri

Escon dal mare, e grave duol gl’ingombra

Della nave perduta e de’ compagni

Che la crud’onda in fosca notte involse:

Così vèr la città dalla battaglia

Sen fuggian i Trojan, di Marte invitto

Lagrimando la figlia e quello stuolo

Che perì là nel sospiroso campo.

Baldanzoso indi e pien di fasto Achille

Così sopra di lei disse vantando:

Stattene or via d’augelli esca e di cani,

Misera! su la polve. Ora chi fue

Che con falso parlar ti persuase

A moverti a me incontro? eh! tu credevi

Dalla zuffa tornando, immensi doni

Portar dal vecchio Priamo, uccisi avendo

Gli Argivi: ma non han questo pensiero

Gli Dei condotto a fin, perchè noi siamo

Forti via più di tutti gli altri eroi,

Noi gran lume de’ Greci, alta ruina

De’ Teucri e di te, misera, da poi

Che te il pensiero e le inclementi Parche,

L’opere femminil lasciate addietro,

Eccitaro a venir nelle battaglie,

Che pur empion d’orror l’alme virili.

Ciò disse Achille, e ‘l frassino ritrasse

Dall’infelice donna e dal corsiero,

Ch’ambo trafitti si scotean da un’asta.

Dal capo il lucid’elmo indi le tolse

Del sole al raggio egual, di Giove al lampo;

Onde di lei, che nella polve involta

Era e nel sangue, il grazioso aspetto

Allor mostrossi e l’amorosa fronte

Nella morte ancor bella. I Greci intorno

Lei mirando stupir, poiché sembiante

Era di forme agl’immortali Numi.

Sulla terra giacca chiusa nell’arme,

Come Diana, indomita di Giove

Figlia, al sonno disciolta, allor che stanche

Le membra tien, per gli alti monti avendo

Contro i fieri leon spesi gli strali.

Perocché lei, benché da morte oppressa

Graziosa rendea l’inghirlandata

Ciprigna, moglie al valoroso Marte,

Per colmar d’alta doglia il buono Achille.

Molti chiedean tornando al patrio nido

Compagna aver ne’ lor connubj tale;

E con fero dolor struggersi l’alma

D’averla uccisa Achille, e non più tosto

Lei consorte gentil condotta seco

In Ftia ricca d’armenti; poiché grande

Ell’era e di beltà che non avea

Ove emendarsi, a’ Divi in tutto eguale.

Altissimo dolor trafisse Marte

Per la figliuola sua mesto e gemente;

E in un balen precipitò dal cielo,

A folgore simil, tonante, orrendo,

Che Giove sparge, il qual la destra invitta

Lasciando, ratto e sfavillante vola

Or per la terra, or per gl’immensi campi

Dell’acque, onde ne trema il vasto cielo.

Tal per l’aere disteso, il petto d’ira

Colmo, con l’armi sue discese Marte,

Quando della sua figlia inteso egli ebbe

L’acerbo fato: perchè mentre già

Per lo ciel spazioso il piè movendo,

Di Borea, a lui narrar l’aure, veloci

Figlie, della sua figlia il grave caso

Ed ei scendea qual turbine o procella

Dagli idèi monti, e sotto ai piè moveansi

Di lui le lunghe valli, i sassi alpestri,

I fiumi e d’Ida i numerosi piedi.

E bene a’ Mirmidón donato avrebbe

Immensa copia di sospir quel giorno,

Se non avesse lui dall’alto Olimpo

Con terribili tuoni e con orrendi

Fulmini spaventato il sommo Giove,

Che a lui frequenti a’ pie cadean volando

Per l’aere intorno orribilmente acceso.

Ed ei mirando ciò, ben riconobbe

Del padre suo; che largamente tuona,

Le minaccianti e strepitose grida:

Onde fermossi, ancor che frettoloso

II piè movesse al bellico tumulto.

Come qualor da un’elevata rupe

Da’ venti accompagnata immensa pietra

Svelle di Giove impetuosa pioggia,

Folgore insieme e pioggia; orrendo suono

Nel largo suo girar destan le valli:

Scende ella infaticabile seguendo

L’impeto che la move, ed a gran salti

Si lancia, finché giunta al piano eguale,

Benché malgrado suo, fermasi e giace:

Così di Giove il furibondo figlio

Fermossi a viva forza, ancorché ratto

Movesse e frettoloso; perchè al rege

Degli Dei cedon tutti insieme i Divi

D’Olimpo, perocch’egli è di gran lunga

Maggior di lor e d’infinita forza.

Nel cupo immaginar la mobil mente

Di lui varj pensier già rivolgendo,

Talor di Giove alteramente irato

Le minaccie temendo, irsene al ciclo,

Talor, il padre suo posto in non cale,

L’immansueta man meschiar nel sangue

D’Achille. Alfin membrando, il cor gli disse

Quanti e di Giove pur figli cadéro

Da lui vinti in battaglia, a cui soccorso

Portar nella ruina ei non poteo,

Quinci dai Greci ei se n’andò lontano.

Certo, se nol facea, di dover tosto

Co’ Titani giacer domato e vinto

Dal sospiroso fulmine cocente,

Certo dunque di ciò, contro la speme

Di Giove, ad altro il suo pensier rivolse.

I guerrier figli allor de’ forti Greci

De’ morti gìan le sanguinose spoglie

D’ogni intorno prendendo; ed altamente

Achille s’affliggea, là su la rena

Mirando l’amorosa e forte donna.

Né men fero dolor l’animo interno

Di quello a lui rodea, che provò quando

Patroclo, a lui sì caro, estinto giacque.

Onde Tersite a lui fattosi avanti

Con acerbo parlar tale il riprese:

Achille, o forsennato! a che t’offende

Il petto, amor, mercè della nocente

Amazzone che a noi cotanti danni

Già fabbricando? eppur a te, che il core

In amar donne hai furioso e folle,

Così appunto ne cal, come se casta

Moglie ti fosse verginella data

In matrimonio a te di nozze vago.

Almeno avesse te nella battaglia,

Che di femmineo amor sì ti compiaci,

Con l’asta micidial colto primiero.

Omai cura non ha la mente offesa

D’inclite opre d’onor poiché mirasti

Tal donna. Sventurato! ov’hai perduto

La forza e l’intelletto? ove il vigore

Di valoroso rege? ora non sai

Di quanto alto dolor sia stato a’ Teucri

Cagion soverchio amor di bella donna?

Certo piacer non ha l’umano stuolo

Più dannoso di quel che il letto brama;

Poiché i più saggi a folle insania adduce

Con duro faticar fama si merca,

Ed a prode uom vittoria acquista laude

Vago d’opre di morte; e sol colui

Ne’ femminili amplessi ave diletto,

Che dalle guerre paventoso fugge.

Tal con agre rampogne egli dicea,

Onde contro di lui d’ira s’accese

Del figlio di Peléo l’alma superba:

Ed alzando la man grave e robusta

Sotto l’orecchio a lui ferío la gota,

Onde tutti i suoi denti al suol cadéro;

Poscia col volto in giù ricadde egli anco.

In copia dalla bocca il sangue uscìo;

Quinci dell’uom vilissimo ed indegno

Dalle membra fuggì l’anima imbelle,

Allegrossi al suo caso il popol greco,

Perchè ognor lo mordea con modi acerbi,

Benché per sè d’ogni difetto colmo

E’ fosse, e gran vergogna al greco stuolo.

Allor vi fu de’ bellicosi Argivi

Tal, che dell’ira l’impeto seguendo,

Chiaro ed aperto ragionando disse:

Ah come è giusto! ed ecco ei paga il fio

Della sfacciata lingua, che mai sempre

Dolor sovra dolor porta a’ mortali.

Così disse alcun Greco: indi fremendo

Nel superbo pensier l’altero Achille

Tali inverso di lui drizzò parole:

Or nella polve giaci: delle tue

Follie ti scorda, poiché non conviene

Che a più forte di sè vil uom s’agguagli.

Già tu d’Ulisse il sofferente petto

Stranamente irritasti, in lui versando

Copia di detti ingiuriosi, audaci.

Tale a te non sembrò di Peleo il figlio,

Poich’io l’alma ti sciolsi, eppur con lieve

Man percotendo, e te l’acerbo fato

Oppresse, e per viltà di vita uscisti.

Or via da’ Greci, e giù fra morti vanne

A rampognar altrui col dir mordace.

Così del figlio d’Èaco parlando

Il figlio disse valoroso e forte:

Sol, Tersite percosso, in fra gli Argivi

Contro Achille Tidide in ira salse,

Perocché di suo sangue ei lo tenea;

E con ragion, perchè di Tideo illustre

Questi era forte figlio, e quei del divo

Agrio, d’Agrio che fu del buon Enéo

Frate: Enéo generò fra’ Greci il prode

Tidéo, di cui fu poscia il poderoso

Diomede figliuolo: e quinci d’ira,

Tersite ucciso, egli s’accese ed arse.

E contro Achille ben movea la mano,

Se nol vietavan lui de’ Greci i primi,

Che con soavi detti or quinci or quindi

Gian lui placando, e d’altra parte insieme

Ritraevan Achille, e certo allora

Dal perverso poter vinti dell’ira,

Erano per pugnar co’ ferri ignudi

De’ Greci i più guerrier; ma pure alfine

De’ compagni acquetarsi a’ saggi detti.

Mossi intanto, a pietà gli atridi regi

Di Pentesiléa illustre, essi ancor pieni

D’alto stupor concessero a’ Trojani

Il portar lei con l’arme entro le mura

D’Ilo famoso, perchè già i messaggi

Veduto avean di Priamo, che di voglia

Ardea di por la vergine robusta

Col cavallo e con l’arme entro la tomba

Del ricco Laomedonte alta e capace.

Dinanzi alla cittade eresse pira

Sublime ed ampia, e sovra lei ripose

La donna, e gran tesor locovvi seco,

Tesor qual convenia d’arder nel foco

In compagnia di gran reina uccisa.

Lei dunque divorò l’ardente fiamma,

Gran forza di Vulcano; e d’ogni intorno

I popoli frequenti il rogo acceso

Tosto ammorzar con odoroso vino.

Quinci l’ossa raccolte e larga copia

Versato in lor di prezioso unguento,

Nel ventre le locar d’urna capace.

Poscia coperser lor di grasso opimo

Di vacca la più bella che pascesse

De’ monti idei fra i numerosi armenti.

Lei piangean i Trojan qual cara figlia,

E sì dolente a lei sepolcro diero

Sovra le belle mura in torre eccelsa

Ove giacean di Laomedonte l’ossa,

Gloria portando a Marte ed alla figlia

Di lui Pentesiléa. Poscia vicino

A lei locar l’Amazzoni, che lei

Seguìto avean in guerra, e pure in guerra

Erano dagli Achei rimase estinte,

Né lor negaro il lagrimoso ufficio

Gli Atridi; anzi lasciar che i bellicosi

Teucri traesser lor con altri morti

Dal mucchio de’ cadaveri e dell’arme:

Perchè contro gli estinti ira non s’ave,

Ma sì pietà; Né più nemici sono

Poich’è disciolta omai da lor la vita.

I Greci d’altra parte anch’essi al foco

Molte d’Eroi cadavera donaro,

Che far con quelle insieme uccisi e vinti

Per la trojana man nella battaglia.

Tutti piangean gli estinti; ma più grande

Era la doglia lor pel buon Podarce

Che ne’ conflitti già più non chiedea

Seco il buon frate suo Protesilao;

Perché Protesilao prima giacea

Da Ettorre ucciso; e dalla lancia questi

Di Pentesiléa offeso, have gran pianto

Agli Argivi lasciato; e quinci lunge

Lui seppellir dalla minuta plebe,

Ed a lui sol, poiché valore egli ebbe,

Famosa alzaro e faticosa tomba.

Poscia in disparte di Tersite vile

Seppelliro il cadavere infelice:

D’Achille indi le lodi alzando al cielo

Ritorno fero alle rostrate navi.

Il dì lucente intanto discendea

All’oceano in grembo, e la profonda

Notte d’intorno ricopria la terra,

Onde a cenar ne’ padiglion s’accolse

D’Agamennone ricco il forte Achille,

E in compagnia de’ più potenti Greci

Delle mense godea, finché di nuovo

Con la luce immortal l’aurora apparve.