I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO TREDICESIMO

Essi per la cittade a mensa assisi

Cenavan tutti, e si sentian fra loro

Altamente suonar zampogne, e flauti;

Per tutto s’udian canti a’ balli misti,

Ed un confuso strepito sorgea

Fra’ convivanti, qual girarsi suole

Fra le vivande, e il vino. E tal prendendo

Con ambedue le man tazza ben piena

Bevea senza pensiero, onde la mente

Erane entro gravata, e fuori i lumi

Gli s’avvolgeano in giro, e l’uno all’altro

Dicea motti, ed iscede (beffa, facezia, scherzo), e spargea fuori

Parole sconcie. E nell’albergo intanto

Parean loro aggirarsi i vasi, ed anco

L’albergo stesso e lor sembravan tutte

Girne della città le cose in giro:

Di caligine densa avean coperti

I lumi; perché agli occhi il vigor toglie,

Ed alla mente il vin, qualor soverchio

Altri il petto sen empie, e lo tracanna.

Allora alcun gravato il capo, ed ebro

Sì disse. Oh! come indarno hanno gli Argivi

Sì grande armata, poverelli, accolto:

Né potuto hanno il lor pensiero al fine

Poscia condurre, e dalle nostre mura

Fuggiti son quasi fanciulli, o femmine.

In cotal guisa ragionò, dal vino

Impedita la mente, alcun Trojano.

Misero! e non vedea, che sulla soglia

Stava allor preparato omai l’eccidio:

Perocché allor, che di bevanda , e d’esca

Soverchiamente pieni, or questo or quello

Sen gìa per la città legando il sonno,

Inalzando Sinon la face (fiaccola, torcia) ardente,

Agli Argivi scoprio del fuoco il lume;

Gravemente però fra se temendo,

Che i forti Teucri non vedesser lui,

Onde cadesse poscia il tutto invano.

Ma dormian essi fra le piume involti

L’ultimo sonno, da soverchio vino

Oppressi. E quei da Tenedo mirando

Apparecchiaro al navigar le navi.

Accostossi al cavallo indi Sinone

Sommesso alzò il grido, affinché i Teucri

Non intendesser lui, ma sol gli eroi

Greci, da cui tutti al pugnare intenti

Lunge partendo era volato il sonno.

Essi dentro l’udiro, e quinci attento

Ne fero Ulisse, ed egli esortò loro

A scender quietamente. Essi ubbidiro

Lui, che loro incitava alla battaglia;

E già chiedean, giù dal cavallo a terra

Scesi venire all’arme: ed esso ad arte

Gli andava trattenendo: con la mano

Veloce già pian pian questo, e quel lato

Del gran caval di legno aprendo, come

Gli avea mostrato il valoroso Epeo.

Quinci spingendo il capo fuori alquanto,

Ispiava dall’alto, se vedesse

Alcun de’ Teucri, che vegghiasse ancora.

Come dall’aspra fame oppressa il lupo

Da’ monti sceso vago d’esca intorno

Girando a stalla, ove rinchiusa è greggia,

Dagli uomini s’asconde, e sta guardingo

Da’ cani alla custodia intorno attenti,

E con tacito piè saltando varca

Di là dal cerchio, onde la mandra è chiusa;

Così giù dal cavallo a terra scese

Ulisse, e dietro a lui seguiron tutti

I forti eroi di Grecia, il piè movendo

Con ordin per le scale, che a quei forti

Con grand’ingegno avea adattato Epeo

Per montar nel cavallo, e scender anco

Onde da questa, e quella parte tutti

Giù si calaro audaci, a vespe eguali,

Cui talor turba il tagliator de’ boschi,

Che folte uscendo, ed adirate intorno

Volano al tronco, al rimbombar de’ colpi.

Tal questi discendean con gran prontezza

Giù dal cavai nella cittade ornata

De’ Teucri, e il cor si scotea lor nel petto.

Diersi indi questi a far degli avversarj

Strage; e quegli altri il mar venian battendo

Co’ remi, e si moveao per l’ampio flutto

Le navi; perché lor drizzava il corso

Teti, il vento spingendo a lor secondo:

Quinci lieti gli Achei giunser veloci

Dell’Ellespoplo a’ lidi, ove di nuovo

Locaro i legni, e diligenti seco

Que’ corredi recar, che soglion sempre

Seguir le navi, ed indi in un baleno

Smontando ad Ilio fur senz’aver tema

Di nulla, come pur di nulla tema

Soglion le gregge aver, mentre ritorno

Da’ verdi boschi fanno al loro ovile

Colà nel tempo dell’autunno a sera:

Tal con silenzio alla città de’ Teucri

Sen venner pronti, ad ajutar gli eroi.

Ed essi in guisa d’affamati lupi,

Che siano in alto monte, ovvero in bosco

(Mentre stanco il pastor dormendo giace)

Entrati a forza, ove la mandra alloggia,

I quai notturni entro al rotondo giro

Svenano questa, e quella agnella; strage

Facean de’ Teucri, ed ogni cosa piena

Di sangue era, e di morti, e in ogni parte

Con modo miserabile crescea

L’orribile macello, essendo fuori

La maggior parte degli Achei pur anco.

Ma quando giunger tutti all’alte mura,

E impetuosi, e incrudeliti dentro

Alla città di Priamo si diffusero

Spirando feri il gran furor di Marte,

Ritrovar tutta la città ripiena

Di pugna, e di cadaveri, e i dolenti

Alberghi in ogni parte essere in preda

Miseramente alla vorace fiamma.

Molto di ciò si rallegraro, ed indi

Essi anco mal disposti inverso i Teucri

Gli assalir furiosi. Imperversava

Nel mezzo Marte, e la crudel Bellona:

In rivi discorrea l’oscuro sangue,

E da’ Teucri scannati, e dalle genti,

Ch’eran venute in lor soccorso, uccise

Bagnata era la terra. Alcun di questi

Dall’aspra morte rilegali, e vinti

Giacean per la città nel sangue immersi:

Sovra lor cadean altri, ancor la rabbia

Loro spirando: ed altri per le case

Con infelice modo errando, seco

Le diffuse sue viscere portava

Ad ambe mani: ed altri i piè recisi

Brancolava su i morti alto piangendo,

A molti, che pugnar sebben caduti

Ardian par dalla terra, eran le mani

Troncate, e i capi: ad altri, che fuggia

Co’ frassini pungenti eran le spalle

Trafitte, e gìan le punte oltra le poppe:

Giungeano ad altri ai lombi, trapassando

Di sopra le vergogne, ove più acerba

Altrui suol impiagar l’asta di Marte.

Per tutta la città s’udian lugubri

Urlar di cani, e gemiti infelici

Delle ferite genti, e per le case

Alto mesceasi, e formidabil suono.

Delle donne il compianto udiasi ancora

Sospirose, è dolenti, a grui simili,

Quando sovra di lor calar dall’alto

L’aquila veggion ruinosa, e nullo

Rinchiudendo entro al petto ardire, e forza,

Prendendo fuga sol dal sacro augello,

Empion d’acute, e lunghe strida il cielo;

Tal le Trojane alto piangean disperse

In ogni parte, altre dal letto surte,

Altre in terra distese; altre infelici

Obliavan la zona, altre vagando

Sen gìan senza consiglio, i membri appena

Di camicia vestiti: altre neppure

Eransi ricordate, il velo, e il lungo

Manto cingersi intorno, anzi temendo

Il sopraggiunger de’ nemici, prive

In tutto di consiglio, e il cor tremanti,

Sol con la presta man gìano meschine

Le vergogne coprendo: altre dal capo

Si divellean miseramente i crini,

E percotendo con le palme i petti

Piangean senza ritegno: altre vi furo

Che osaro opposte agli avversarj, incontro

Sostener la battaglia, ed obliando

La tema, ajutar pronte i lor mariti,

Che già periano, e i figliuoletti, poscia

Che grande ardir necessità comparte.

Fugava il lutto a’ fanciullin da’ lumi

Il dolce sonno, semplicetti, il cui

Animo ancor non ha provato affanno.

L’un peria sovra l’altro, e tal la morte

In un vedea co’ sogni, essendo, ucciso.

E mentre in guisa tal morian le genti

Fieramente godean l’orride Parche

Tal si facea de’ Teucri allor macello,

Qual de’ ricchi signori entro l’albergo

Fassi de’ porci, allor, ch’essi fra loro

Soglion chiamarsi a splendido convito.

A mille a mille erano uccisi, e il vino,

Che nelle tazze si restò pur dianzi,

Si confondea con l’infelice sangue.

Non v’era così vil nel Greco stuolo,

Il qual portasse il ferro micidiale

Non omicida, e venian meno i Teucri:

Come da’ lupi sono, e da’ cervieri

Mal menate le greggie, ardendo il sole

Sul mezzo giorno, allorch’essendo lunge

Il pastor, congregate in loco ombroso

Fra loro insieme tutte al rezzo (soffio d’aria fresca) stanno

Ferme, attendendo lui, ch’alla magione

Sen gìo portando il latte: ed essi empiendo

L’ampie caverne del lor ventre ingordo

Suggono il negro sangue, e l’ovil tutto

Dispergendo di lui, che a venir tarda,

Preparano al pastor misera cena:

Tal di Priamo facean nella cittade

Gli Argivi strage, l’uno all’altro addosso

Pronti uccidendo in quell’estrema guerra.

Non v’era alcun Trojan, che di ferite

Libero fosse, anzi di molto sangue

Avean tutti le membra immonde, e lorde.

Ma non però n’andaro in quella zuffa

I Greci ancor dalle percosse esenti;

Perocché altri feriti eran da coppe

Lanciate, altri da mense, altri percossi

Sotto i cammin con gli stizzoni ardenti,

Altri da spiedi si morian trafitti,

Ne’ quali erano ancor de porci infisse

Le calde interiora, che cuocendo

Dell’ardente Vulcan venìa la fiamma.

Altri da scuri, e da bipenni incisi

Guizzavan dentro al sangue, e ad altri sopra

La spada delle man tronche le dita

Eran, mentre impugnar chiedeanla, e in questa

Guisa campar dalle crudeli Parche.

Tale ancor fu, che al proprio suo compagno

Selce nella tenzon lanciando, l’ossa

Del capo franse, e le cervella sparse.

I Greci combattean di fere in guisa,

Che dal pastor percosse entro alle stalle

In perigliosa notte, imperversando

Vanno, eccitata in lor la cruda rabbia.

Ma soprattutto di combatter vaghi

Di Priamo intorno alla magion cacciando

Ne gìano questo, ed ora quel con l’arme.

Molti Greci di ferro ivi percossi

Morir, perocché i Teucri entro gli alberghi

Ciò, che alle man lor presentava il caso

Rapiano, o spada fosse, o lunga lancia,

Ed uccidean gli avversi, ancorché oppresso

Avessero dal vin l’animo, e i sensi.

Risplendea la città di larga luce,

Perché molti de’ Greci aveano in mano

Fiaccole ardenti, acciocché nella mischia

Potesser ravvisar, qual fosse loro

Od amico, o nemico. Allora il figlio

Di Tideo nel conflitto al generoso

Corebo figlio di Migdon con l’asta

Lo stomaco passò concavo, dove

Corron veloci, e la bevanda, e l’esca:

Oppresse costui dunque il negro Fato,

E morì palpitando intorno all’asta:

Cadeo nel tetro sangue in mezzo al mucchio

Degli altri morti, folle! e non godeo

Le desiate nozze, onde pure ieri

Venuto a Priamo, avea promesso a lui

Liberar Ilio, e discacciar gli Argivi:

Ma questo suo pensier non fecer vero

Gli Dei, perché la morte a lui le Parche

Mandaro. Con costui tolse di vita

Euridamante ancor, ch’ivi incontrollo.

Genero questi fu del valoroso

Antenore, e fra’ Teucri ebbe la mente

Di saver molto, e di prudenza ornata.

Trovò poco lunge indi Ilioneo

Per l’età venerando, e sovra lui

Spinse la fera spada. Al vecchio tutte

L’improvviso timor sciolse le membra:

Pur così tremolante, ambe le mani

Distese egli, e con l’una il crudo ferro

Prese, e con l’altra le ginocchia cinse

Dell’eroe micidiale, ed ei sebbene

S’affrettava alla pugna, ovver che in lui

Cessasse un poco l’ira, od a tal fatto

Lo sospingesse Dio, sospese alquanto

Dal vecchio il ferro, acciocché dir potesse

Qualche parola, e supplicar precando

L’uom rapido, e feroce. Egli pure anco

Lunge da se con miserabil atto,

Con quanta forza avea, tenea la spada

Di terribil paura in tutto carco:

Deh! qual tu sia, dicea, de’ forti Argivi,

Per la vergogna almen non por le mani

In uom già vecchio, e in te l’orgoglio acerbo

Raffrena alquanto. Onore altri s’acquista

Grande, uccidendo uom giovane,e gagliardo:

Or se tu vecchio ancidi, e qual di gloria

Per cagion di valor farai guadagno?

Lascia me dunque: a’ giovani rivolgi

La mano: e in questa guisa anco tu spera

Veder vecchiezza a questa mia sembiante.

Poiché si tacque, a lui rispose il figlio

Acerbo di Tideo: Vecchio, io mi spero

Pur di veder buona vecchiezza anch’io;

Ma finchè in suo vigore è in me la forza,

Lasciar non voglio al capo mio nemico

Alcun vivente, ma senza riguardo

Tutti mandare a Pluto: è quei valente,

Che ogni nemico a più poter gastiga.

Ciò detto, per la gola a lui sospinse

L’orrido ferro, il crudel uomo, e il colpo

Drizzò colà ‘ve più veloce Morte

Dell’anima, e del sangue apre le vie:

E in cotal guisa l’infelice Fato

Per le man di Tidide al fin lo spinse,

Che uccidendo gli eroi per la cittade

Portato dal furor correa feroce.

Atterrò insieme Abante, e con la lunga

Lancia ferì di Perimnesto il figlio

Euricoonte. Ajace a morte diede

Amfimedonte. Agamennone uccise

Damastoride, Idomeneo Mimante,

E fu da Mege Dejopete estinto,

D’Achille indi il figliuol con la soverchia

Lancia Pammone il divo uccise, ed anco

Polite ivi ferì, che in lui s’avvenne

Tisifono con questi anco in un monte

Mandò, di Priamo tutti illustri figli:

Agenore il divino ammazzò insieme,

Che incontro nella mischia a lui si feo:

Molti, e molti altri eroi di vita spinse

Egli anco, e in ogni parte apparia scura

Degli uccisi la strage. Ed ei vestito

Del paterno valor facea macello

Di quanti egli giungeva. E intanto in lui,

Che feroci pensier volgea nel petto,

Scontrossi il re della nemica gente

Appresso all’ara di Mercurio, ed egli

D’Achille il figlio rimirando, tosto

Conobbe lui, né sbigottì, disposto

Avendo nel pensier di voler ivi

Morto giacer sopra gli estinti figli.

Onde di morte in tutto avido, a lui

Disse in tal guisa. O poderoso figlio

Dell’armigero Achille, uccidi, prego,

Me sfortunato, e non m’aver pietate:

Perocché dopo tante cose, e tali

Da me sofferte omai più non desio

Del sol mirar, che tutto vede, il lume:

Questo sol chieggio, di morir compagno

A’ miei figliuoli, ed una volta alfine

Obliar gli aspri affanni, e i turbolenti

Tumulti. Ed oh! m’avesse dato morte

Il padre tuo, pria ch’Ilion combusto

Veduto avessi! allor che il prezzo a lui

D’Ettorre mio figliuol, ch’egli m uccise,

Portai: ma sì filato avean le Parche.

Tu dunque di mia morte omai fa’ sazia

Cotesta tua gran lancia, affinch’io prenda

Per la tua man de’ miei travagli oblio.

Ed egli: O vecchio, me corrente, e ch’altro

Nulla desiro più, co’ detti accendi:

Perché già non voglio io te, che nemico

Mi sei, lasciar fra’ vivi, essendo cara

Sovra d’ogni altro ben la vita, altrui.

Poich’ebbe così detto, al vecchio bianco

Recise il capo facilmente, come

Uom troncherebbe nell’estivo tempo

Della matura messe arida spica.

Ed esso gravemente mormorando

Rotò più volte per l’arena, lunge

Dall’altre membra, onde composto è l’uomo.

E così ne giacea nel sangue tetro

Involto là fra la vulgare strage

Chi poco avanti per lignaggio, ed oro

Fu sì beato, e per cotanti figli:

Perché troppo non dura umana gloria,

Ma lei repente la miseria assale.

Così dunque a costui diè morte il fato,

E infiniti travagli in Lete immerse.

Dall’altra parte da sublime torre

Precipitaro Astianatte i Greci,

E distrussero in lui la dolce vita,

Avendolo di sen rapito a forza

Alla sua madre, per cagion d’Ettorre

Esacerbati, che vivendo, a loro

Molti portati avea danni, e ruine.

Quinci odiar la sua stirpe; e il suo figliuolo

Semplicetto, ed infante, e non esperto

Dell’opre ancor della milizia, giuso

Lanciar dall’alto muro, in quella guisa,

Che astutamente desiosi i lupi

Di cibo, fan cader da un’alta pietra

Di monte vitelletta, che dal latte

Della madre rapiro, e dalle poppe.

La qual mentre cercando in ogni lato

Mesta, corre, la figlia, e di muggiti

Empie le valli, in maggior male incontra,

Perché altri cercando i leon fieri,

Abbattendosi in lei, di lei fan preda:

In guisa tal per lo figliuol dolente,

Fra la turba menar delle cattive

Del buon Eezion la figlia i Greci

Grave gemente, ed essa rimembrando

Del figlio, del marito, e de’ parenti

Desiava la morte: perché a’ regi

Viemigliore è morir, che servitude

Soffrir di genti al grado lor dispari.

Di miseri ululati il cielo empìa

Da fierissima doglia offesa il core:

Greci, dicea, deh queste membra mie

Gittate giù dall’infelice muro,

O da qualche alta rupe, o date al fuoco,

Perché troppo s’avanza il mio tormento.

Il mio buon genitor di Peleo il figlio

Uccise in Tebe sacra; al glorioso

Marito poi, ch’era il mio bene, e quanto

Bramar potea vivendo in Troja, diede

La morte, ed ei nella magion lasciommi

Il tenero bambino, ond’io prendea

Piacere immenso, e gloria, e in lui fondava

Tutta mia speme; e quinci ancor delusa

Hammi la fera, e invidiosa Parca.

Dunque senza tardar me sì dolente

Private omai dell’affannosa vita,

Né vogliate condurmi a’ vostri alberghi

Fra l’altre prigioniere, avendo in odio

Lo star più fra le genti or che fortuna

Quelli, ond’io mi reggea, tolti ha di vita.

Sempre vivrò infelice, abbandonata

Da’ Teucri essendo in sì pungenti affanni:

Sempre mai bramerò di gir sotterra,

Perché a colui non ben convien fra’ vivi

Lo star, la cui gran gloria obbrobrio offende,

Ed è troppo nojoso ad uom ben nato

Il vedersi dispetto, e vilipeso.

Così dicea; e pur traeanla a forza

Essi a provar di servitude il giogo.

E molti, e molti entro gli alberghi uccisi

Rimaneansi degli uomini, e s’udia

Di pianti misto un lamentevol suono.

Ne’ tetti sol d’Antenore tal grida

Non si sentian, perché membrando i Greci

I dolci modi, ond’egli amico avea

Già dentro la città dato ricetto,

E in un salute a Menelao divino,

Ed ad Ulisse a lui compagno insieme,

Per esser lui del beneficio grati,

E conoscenti i valorosi Achei

Lasciar lui vivo, e gli donaro insieme

Quant’egli possedea, Temi onorando

Che il tutto scorge, e l’uomo a lor sì amico.

Allor del saggio Anchise il buon figliuolo

Per la città di Priamo avendo molto

E col valore oprato, e con la lancia,

E molti, e molti de’ nemici estinti,

Vedendo lei già dalla mano ostile

Ardere incensa, e il popol tutto insieme

Di lei conquiso, e i suoi ricchi tesori

Predati, e dalle case esser le donne

Co’ pargoletti in servitù rapite,

Si disperò di riveder più mai

La patria sua già sì felice, in piede:

E seco ripensò come potesse

Liberar se dalla crudel ruina:

Come allorché fra l’onde uom, che il governo

D’alcun legno marin prudente regge,

Se avvien, che il vento, e la tempesta fiera

S’avanzi sì, mentre è più crudo il verno,

Ch’egli stanco la man, stanco l’ingegno,

Veggia la nave gir perduta in fondo,

Il timone abbandona, ed in disparte

Lasciando lei, che si sommerge, in breve

Palischermo (imbarcazione) s’accoglie, e della nave

Che le merci have in sen, nulla omai cura;

Tal del prudente Anchise il pio figliuolo

La gran città, che in molta fiamma ardea,

Lasciando agli avversarj, il figlio, e il padre

Seco rapiti via portonne, l’uno

Già dall’aspra vecchiezza afflitto, e stanco

Con le robuste man sull’ampie spalle

Postosi, e l’altro con la destra seco

Guidando fanciullin (che non temea

Nel camminar della nocente guerra

L’opre crudei) fuor della pugna fiera

Condusse, e intanto il tenero bambino,

Quasi per forza seguitasse lui,

Che lo tenea per man, giù per le gote

Molle versava, e lacrimoso pianto.

Ed ei con presto piè molti premea

Cadaveri giacenti, e dalla fosca

Notte impedito molti ne calcava

Contro sua voglia, e duce al suo viaggio

Era Ciprigna, che il nepote, e il figlio,

E il suo marito dal periglio pronta

Fuor conducea della crudel ruina.

Per tutto ove movea veloce, e ratto,

Cadea il fuoco a’ suoi piedi, e dell’ardente

Vulcan per lui si dividea la fiamma.

Tutte l’aste lanciate, e tutte l’arme

Incontro a lui nel lacrimoso assalto

Da’ Greci, in terra giù cadeano a vuoto.

Onde Calcante con gran voce allora

Così dicendo, il popolo ritrasse:

Astenete la man dal valoroso

Capo d’Enea, né gli avventate contro

Sospirose aste, e lancie micidiali;

Perché prefisso have il divin decreto,

Ch’esso il Xanto lasciando, in riva al Tebro

Alzi sacra città, gran maraviglia

A color, che verranno; e ch’ei governi

Diverse genti; e che il suo seme poscia

Stenda l’impero suo dal sol, che nasce

Fin là, ‘ve scende a ritrovar l’occaso:

Anzi, ed a lui fia dato essere accolto

Fra gl’immortali Dei, poich’esso figlio

È d’Afrodite dalla bella chioma.

E quando non per altro, almen per questo

Dovressimo temprar da lui la mano,

Che altr’uomo ei salverebbe, il qual fuggisse

Portando seco ampie ricchezze, ed oro

In peregrina terra: ed or salute

A lui non darem noi, che a tutte l’altre

Cose ha preposto il genitore, e il figlio?

Che più? la notte a noi scoperto ha, quanto

Ei sia pietoso al vecchio padre figlio,

E quanto al figlio imcomparabil padre.

Così diss’egli: ubbidir essi intanto

Tutti mirando lui di Nume in guisa.

Traversava ei la sua città veloce,

Ove i piè conduceanlo; essendo i Greci

A ruinar l’ampia cittade intenti.

Uccise allor Deifobo col brando

Spietato, Menelao, trovato avendo

Lui gravato dal vin giacer meschino

D’Elena dentro al letto: essa fuggendo

S’era nascosta entro al palagio, ed egli

Lieto del sangue sparso, e della morte

Data al nemico in questa guisa disse:

Cane, ecco pur t’ho giunto, e in questo giorno

Ucciso crudelmente: omai l’Aurora

Fra’ Teucri te non rivedrà, sì altero

D’esser genero a Giove altitonante.

Gravissima ruina a te la nostra

Moglie ha portato, entro al suo letto anciso

Miseramente. Ah! così pur di vita

Sciolto avess’io l’empio Alessandro, mentre

Ei m’incontrò nella battaglia, ch’indi

Fora più lieve a me sembrato il duolo:

Ma gito è pure egli anco all’aspra notte,

D’ogni misfatto suo pagando il fio.

Né a te dovea giovar la nostra moglie:

Perché da Temi inviolata mai

Non campano i profani, anzi ella osserva

Lor giorno, e notte, e d’ogni intorno vola

Aerea fra le genti, e fa vendetta

Contro coloro, in compagnia di Giove,

Che sono esecutor d’opre nefande.

Detto così, destò crudel ruina

Fra gli avversarj, furiando in lui

La rabbia, che fremea nel cor geloso.

Pensando già fra se diversi snodi,

Onde a’ Trojan nuocesse; e tutti al fine

Condusse la Giustizia antica Dea:

Perché nel fatto d’Elena primieri

Essi fero opre scellerate, ed essi

Primieri i patti violaro, stolti,

Che con la mente traviata, e folle

Non rimembraro il negro sangue, ed anco

I sacrificj agl’immortali offerti.

Onde preparar lor poscia l’Erinni

Doglie all’estremo, e sol perciò periro

Di loro alcuni avanti al muro, ed altri

Per la città, mentr’eran lieti a mensa,

E si godean con le leggiadre spose.

Tardi alfin Menelao trovò la moglie,

Che per timor dell’adirato sposo

S’era, tremando, ne’ più cupi seni

Del palagio nascosta: il qual vedendo

Lei, volea, mosso da gelosa voglia

Ucciderla repente: e l’avria fatto,

Se il furor non frangea della sua forza

L’amorosa Ciprigna; perocch’ella

Dall’adirata man gli scosse il ferro,

L’impeto represse, e in un dal petto

L’orrida gelosia cacciogli, e in lui

Dolce desio nell’animo, e ne’ lumi

Diffuse; talch’inaspettato, e nuovo

Stupor l’assalse, e non osò, mirando

La preclara beltà, col ferro avverso

Di lei ferir la gola, anzi fermossi,

Come in selvoso monte antico legno

Saldo si sta, né vien per l’aere scosso

Dalle procelle d’Aquilone, o Noto:

Tal vinto da stupor buon pezzo fermo

Stette, e nel contemplar la sua consorte

Di vigor restò privo; e in un momento

Tutte le ingiurie sue dette all’oblio,

E tutti i torti, ond’ella offeso avea

Il letto maritale: e lui suo sposo

Il tutto obliar fé Venere, il cui

Poter dà legge agli uomini, agli Dei.

Con tutto ciò dal suol l’acuta spada

Raccolta, a lei lanciossi, e pur nel petto

Altro volgea pensiero, e con quest’arte

Già lusingando, ed ingannando i Greci.

Allora impedì lui, che ciò bramava,

Con soavi parole, e detti accorti

Placandolo, il fratello, il qual temea,

Che ciò rendesse ogni fatica vana:

Da’ luogo, dicea lui, da’ luogo all’ira,

Menelao, che non lice il donar morte

A questa moglie, per cagion di cui

Cotanto abbiam sofferto, e tanti mali

A Priamo fatto. In Elena non deve

Recarsi la ‘cagion, come tu pensi,

Ma bene in Pari sì, che nulla stima

Fé di Giove ospitale, e di tua mensa.

Ma sovra lui gran dolor versando

Fatto vendetta ha la Giustizia omai.

Ciò disse; e tosto egli acquetossi. E intanto

Cinti gli Dei di tenebrose nubi

Troja piangeano illustre, eccetto solo

La ben comata Pallade, e Giunone,

Ch’alta gioja sentian vedendo al basso

Ruinata cader la città illustre

Del divin Priamo. Ma né in tutto senza

Lacrime la passò Pallade saggia,

Perché nel tempio suo l’impetuoso

Figlio d’Oileo, la mente cieco, e l’alma,

Cassandra violò, cagion, che poscia

Gravi ruine in lui versò la Dea

L’uom gastigando scellerato, ed empio.

Rivolse all’atto bieco i lumi orrendi

Essa all’alto delubro*, e la divina

Imago diè muggito, e tremò sotto

Del tempio il pavimento; e pur né quindi

Cessò dall’empio fatto, avendo a lui

Offeso in tutto Citerea la mente.

Intanto d’ogni lato a terra sparsi

Cadean gli alberghi, e col rimbombo orrendo

Negra polve sorgea mista col fumo.

D’Antimaco ardean già tutte le case:

Le cime ardean dell’elevata rocca

Di Pergamo, sì bella; ardeva il tempio

Delúbro, tempietto, altare dei sacrifici, edicola o anche stanza interna di un tempio, più propriamente detta cella.

D’Apollo, e di Minerva il gran delubro;

E in un di Giove Erceo l’altare ardea.

Al fuoco in preda gìan l’ornate stanze

De’ nepoti di Priamo, e Troja tutta

Fin dall’imo cadea nel fuoco immersa.

De’ Teucri altri morian per man de’ Greci;

Altri eran dalle fiamme ardenti, ed altri

Da’ proprj alberghi uccisi, ed ove nati

Erano, per voler dell’empia Parca,

Ivi anco avean la tomba; altri vedendo

Giunti sul limitar nemici, e fuoco,

Si trafiggean col ferro lor la gola.

Altri le mogli estinte avendo, e i figli,

Cadean, dopo d’aver condotto al fine

Da necessità spinti orribile opra.

Altri pensando da’ nemici lunge

Trovarsi, e che Vulcan l’incendio avesse

Desto, l’urna prendea con man veloce

Per pugnar con la fiamma, e intanto lui

Prevenia qualche Greco, e lo feria

Con l’asta, e l’alma gli solvea gravata

Da troppo vino; ond’ei cadea nel mezzo

L’ostello, e vuota cadea seco l’urna.

Per l’atrio del palagio altri fuggendo

S’abbattè nel vestibolo, che ardea,

Ed ivi cadde in viemaggior ruina.

Molte femmine fur, che da soverchia

Paura spinte, diersi a presta fuga:

Poscia membrando i pargoletti infanti,

Che io casa avean lasciati entro alle piume,

Con prontissimo piè tornando addietro,

Precipitando sovra lor gli alberghi

Morian co’ figli insieme. Ispaventati,

E in fuga posti dal furor del fuoco

Per la città correan cavalli, e cani

Calpestando co’ piedi i morti, e danno

Facendo a’ vivi, non cessando intanto

Di ringhiare, e nitrir; talché per tutta

La città si sentia rimbombo, e suono.

Fuor della fiamma altri correa gridando,

Altri uccideavi dentro il crudo Fato;

E varie eran le vie, per cui le genti

Varcavan ivi all’infelice occaso.

Sormontavan le fiamme all’aere in alto,

E spargean d’ogni intorno immensa luce,

Onde commosse le vicine genti

Facean concorso, alcun sull’alte cime

De’ monti d’Ida, della Tracia Samo,

Ed altri ancor di Tenedo marina.

Ed alcun fu, che il cupo mar solcando,

Queste disse parole entro alla nave:

Condotto a fine han gli animosi Argivi

La grande impresa, avendo per la vaga

Elena sostenuto aspre fatiche:

Or Troja tutta sì felice dianzi

Involta è nelle fiamme, e non v’ha Dio,

Che invocato da lei, l’abbia soccorsa:

Perocché de’ mortai tutte rimira

L’opre mai sempre l’immutabil Fato;

E l’oscure, ed ignobili famose

Rende, ed illustri; e le superbe umili.

Dal ben sovente il suo contrario nasce,

Dal mal talora il bene, e in questa guisa

L’umana vita misera s’aggira.

Così disse qualcun, l’immensa luce

Da lontan rimirando. E intanto oppressa

Troja giacea da misera ruina.

Fremean per la città gli Argivi, in guisa

D’impetuosi venti, ond’è commosso

Il larghissimo flutto, allorché sorge

Nello stellato limitar del cielo

L’altar, che mira il fosco Noto incontro

Al tempestoso Arturo, al nascer cui

Destansi i venti, onde sommerse in fondo

Van molte navi: in cotal guisa i Greci

Struggean l’alto Ilìon, che d’ogni parte

In molta fiamma, in cenere cadea:

Come se cinto di ben folta selva

Fieramente arde allo spirar de’ venti,

Sorgendo in lui la fiamma aereo monte,

Sì che fremono al suon gli alteri poggi,

Miseramente le selvagge fiere,

Che in lui vivean girando entro la selva,

Dal furor di Vulcan son vinte, e dome;

Tale i Trojan nella cittade estinti

Rimanean tutti, ed alcun Dio non v’era,

Che si movesse ad ajutarli, avendo

Disposto in guisa tal le lunghe fila

Le Parche intorno, dal cui giro invano

Uom tentò di campar nato mortale.

Allor per la città scontrossi a caso,

Benché il bramasse pur, del gran Teseo

La madre in Demofoonte, e nel guerriero

Acamante suo frate: ed alcun Dio

Guidolla avanti a loro: ella sen già

Vaga, dal fuoco, e dal furor fuggendo

Detta battaglia. Ed essi allo splendore,

Che d’intorno a Vulcan spargea la fiamma,

L’auguste membra della donna, e il corpo

Mirando, giudicar, ch’ella del divo

Priamo si fosse l’onorata moglie:

Onde con gran prestezza a lei le mani

Posero addosso, desiando lei

Condurre a’ Greci. Ed essa in questa guisa

Con profondi sospir ragionò loro:

Deh non vogliate me, famosi figli

Degli armigeri Achei, come nemica

Condur cattiva entro le vostre navi;

Perché la stirpe mia non è Trojana,

Ma da’ Greci discende il nobil sangue,

Ed altamente illustre, ond’io son nata;

Perché in Trezene me Pitteo produsse,

E fecemi sua sposa il divo Egeo,

E di me Teseo nacque inclito figlio.

Dunque per il gran Giove, e per gli amati

Parenti, prego, s’è pur ver che a questa

Guerra venuti sian di Teseo i figli

Insieme con gli Atridi, a lor mostrate

Nell’esercito me, che forse voglia

Han di vedermi; i quai pens’io, ch’eguali

A voi sian d’anni, e di fattezze: e fia,

Che respiri il mio cor, se avvien, che vivi

Ambo gli veggia, e fatti prodi in arme.

Diss’ella: e rimembrando eglino, quanto

Per Elena avea fatto il padre loro,

E come i figli del tonante Giove

Avean distrutto Afìdna, ove in disparte

Lor pargoletti ancora in quella guerra

Ascoser le nutrici: e ripetendo

Con la memoria, quanto avea patito

Prigioniera di guerra Etra preclara

Suocera insieme d’Elena, e servente,

Di stupor venian meno, ed era in loro

La meraviglia in un col gaudio mista.

Il buon Demofoonte allora a lei,

Che risposta attendea, così rispose:

Il tuo dolce desio gli Dei pur ora

Condotto hanno ad effetto, essendo noi,

Che miri innanzi a te, figli del chiaro

Tuo figlio: e noi te con le care mani

Di peso alzando, porteremo allegri

Verso le navi, e condurremti poscia

Al sacro Attico suolo, ove regnavi.

Lui, che dicea così, la madre strinse

Del suo gran padre, e con le braccia intorno

Teneramente circondollo, e quinci

Gli baciò l’ampie spalle, il capo, il petto,

E di piuma viril le guance adorne:

Tali anco ad Acamante impresse bacj.

Poscia dolce piangendo a tutti loro

Lacrime distillar dalle palpebre:

Come talor, se alcun mentre si trova

In peregrin paese, infra le genti

Parlasi di sua morte: e i figli alfine

Veggion lui far ritorno al proprio albergo,

Piangon teneramente, ed esso ancora

Ghiaiosi de’ figli in sulle spalle

Piange con loro, e per la casa intanto

Dolce de’ cari pianti aggira il suono;

Tal mentre piangean questi, al pianto loro

Un mormorio sorgea basso, e soave.

Allor, com’altri narra, a’ Divi eterni

Celesti Laodice una figliuola

Del ricco Priamo ambe le palme alzando

Pregò, che pria la s’inghiottisse dentro

Il ventre suo la terra, che sforzata

Fosse di por la mano a servili opre.

Ed alcun degli Dei le sue preghiere

Accolse; e tosto infin dall’imo fondo

La terra aperse, e per voler divino

La giovanetta entro al profondo abisso

(Già distrutto Ilion) repente chiuse.

Per la stessa cagion dicono insieme,

Ch’Elettra ancor di portamento altera

Di tenebre il suo corpo, e d’atre nubi

Coperse, e mesto contristò dell’altre

Plejadi il drappelletto a lei sorelle.

Ma l’altre pur de’ miseri mortali

Mostransi a’ lumi, e insieme accolte al cielo

Saglion surgendo: e costei sola ascosa

Giacesi eternamente, e non appare,

Poscia che del buon Dardano suo figlio

La città sacra in cenere cadeo,

Né il sommo Giove stesso a lei dall’etra

Dar soccorso poteo, perché del grande

Giove la forza ancor cede alle Parche.

Ma ciò de’ Divi o buono, o reo pensiero

Si cagionasse, i Greci incontro a’ Teucri

Non ben sfogata ancor proseguian l’ira.