I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO SETTIMO

Poscia che il ciel le stelle sue coperse,

E dell’Aurora splendida, e lucente

Diè luogo al chiaro il fosco della notte,

AIlor de’ forti Greci i guerrier figli

Altri incontro le navi apparecchiarsi

Alla cruda battaglia, in tutto fermi

E risoluti di star saldi contro

Euripilo; altri d’altra parte intesi

Eran presso le navi alle funebri

Pompe di Macaone, e di Niréo,

Che di bellezza, e grazia a’ Divi eterni

Essendo egual, nulla valea di forza:

Perché insieme non dan tutte le cose

Agli uomini gli Dei: ma per un certo

Fatal decreto al bene il mal s’accoppia.

Quinci nel re Nireo vedeansi giunte

Grazia amorosa in un con debolezza. 

Ma non pertanto lo lasciar negletto

I Greci, anzi sepolcro a lui donaro:

E non men pianser lui sovra la tomba,

Che Macaon divin, cui pari ai Numi

Celesti in pregio avean, perocché ognora

Pronti rimedj, ed opportuni avea.

E quinci ambedue lor cinsero in giro

Di sepolcri sembianti, e in tutto eguali.

Mentr’eran essi a cotal opra intorno,

Fremea nel campo il furibondo Marte,

Da questa, e quella parte al ciel salìo

Alto rumore, e suon, che dagli scudi

Dall’aste uscio spezzati, e dalle pietre.

Così combattean questi intenti all’opre

Nel guerreggiar del faticoso Marte.

E intanto disprezzando ogni ristoro

Di cibo, Podalirio entro la polve

Ostinato giacea, grave gemendo;

Nè lasciavalo ancor fisso nell’alma

Del morto frate il duolo, anzi in sé stesso

Sovente proponea senza pietade

D’uccider se con la sua propria destra:

Onde or la man porgea verso la spada,

Or già cercando alcun venen mortale.

Riteneanlo i compagni, e varie cose

Dicean per consolarlo: eppure in lui

Non si disacerbava in parte il duolo.

E certo di sua man si fora ucciso

Del suo buon frate in sulla nuova tomba,

Se non giungea di caso tal la voce

Al figlio di Neleo, che non sprezzando

Il fieramente addolorato amico,

Eragli intorno, e lo prendea talora

Sovra prostrato al lacrimoso marino,

Talor mentr’ei sovra il suo capo in alto

Mesce tutte le cose insieme, il fato,

Ed altra v’ha di lor, cui mai non mira

Alcun degl’immortai, ma non veduta

Stassi in profonde tenebre sommersa.

Queste così confuse, alcuna sorte

Senza riguardo alcun prese con mano

In terra sparge, ed esse e quinci e quindi

Sen van volando a instabil vento eguali;

E spesso ad uom, che è di bontade amico

Grave sciagura accade, e talor anco,

Don per elezion, che di ciò s’abbia,

Felicitade ad uom malvagio è incontro;

E quinci poscia avvien, che la mortale

Vita perpetuo il suo tenor non serba.

Quinci salda non muove, anzi con piede

Vacillante, ed infermo una sovente;

Cangia in ben mille guise il vario aspetto,

Spesso di grave mal faccia prendendo,

Talor di bene. Ed uom non ha che sia

D’ogni parte beato anzi il suo fine,

Perocché ad altri altro disturbo avviene.

Onde non è ragion, che picciol tempo

Vivendo, i brevi dì passiam con doglia.

Sempre sperisi il meglio, e non si prenda

Pensier del male. E pur fra noi si dice,

Che il buono ascende al ciel saldo, ed eterno,

E l’empio scende alla profonda notte.

Or per doppia cagion tuo frate al cielo

Salito fia, perché benigno sempre

Ei fu verso i mortali, e parte ancora

Perché d’immortal padre al mondo nacque.

Onde dubbio non è, ch’egli non sia

Per la paterna cura asceso al cielo,

Detto così, lui ricusante a forza

Sollevò dalla terra e ragionando

Lo consolò co’detti suoi, perch’egli

Fieramente gemendo, era dal grave

Affanno di se fuor tratto sovente.

Sen gir poscia alle navi; e intanto gli altri

Greci, e Trojan fiera, e crudel fatica

Avean, desta fra lor nuova battaglia;

Ove l’invitto eroe simile a Marte

Con la veloce infaticabil destra,

E con la lancia penetrante audace

Euripilo struggea le squadre avverse:

Tutta di morti era la terra carca

Quinci e quindi caduti, ed ei calcando

Gli uccisi, combattea con gran coraggio,

Le mani, e i piè di tetro sangue aspersi:

Null’avea posa in quel crudel tumulto;

Onde allor Peneleo d’invitto core,

Che nell’aspra battaglia a lui si offerse,

Con la lancia trafisse, e intorno a lui

Molt’altri insieme uccise, e non pertanto

Levò le man dalla tenzon, ma d’ira

Colmo si diede a perseguir gli Achei,

Siccome già i Centauri il forte Alcide

Fidato in suo valor grave fremendo,

Di Foloe in cima agli alti capi assalse,

E lor tutti atterrò, benché veloci

Fossero, e forti, e di battaglia mastri.

Tal questi impetuoso iva uccidendo

De’ bellicosi Achei le folte schiere,

E intorno a lui da questa, e quella parte

Cadeano a monti in sulla sabbia stesi:

Come forza prendendo altero fiume

Da mille parti, ove arenoso è il luogo,

Frangonsi a lui d’intorno argini, e sponde

Ed ei nel moto suo gonfio, e superbo

Drizza bollendo al mar l’ondoso corso;

E mentre il flutto orribilmente freme

Cadendo ruinose in lui frequenti

Le discoscese ripe, egli gonfiando

Ogni difesa, ogni riparo atterra:

Così cadean de’ forti Greci i figli

Frequenti nella polve, ovunque loro

Nella battaglia sanguinosa, e fera

D’Euripilo cogliea l’impeto, e l’urto;

Talché solo involossi alla ruina

Chi con la furia si salvò del piede.

Trasser però, benché sì forte oppressi,

Dal confuso tumulto, ed alle navi

Il corpo riportar di Peneleo.

Sebben per evitar l’acerbo fato,

E le severe Parche a lor fu d’uopo.

D’usar fuggendo a tutto corso il piede.

Gittarsi tutti insieme entro le navi

Fugaci, ed ogni ardir persero allora

Di pugnar contro Euripilo, cotale

Infelice timor nell’alma infuso

Ercole avea lor per far che gloria

Indi asseguisse il fier nipote integra:

Stavano essi appiattati entro i ripari

Timidi, come sotto ad alta rupe

Le caprette si stanno, i fieri colpi

Del vento paventando, il qual gelato

Molta neve soffiando porta seco,

E terribil tempesta, e benché vaghe

Siansi di pasturar, non però vanno

Ad incontrare i colpi, e fuor dal sasso

Non si discopron punto; anzi coverte

Si difendon dal vento, e per le valli

Raccolte in torme pascolando vanno

Sotto ombrosi virgulti, infin che cessi

L’impetuoso vento, e la procella.

Tal sotto le lor torri ascosi i Greci

Di Telefo il figliuol temean che fiero

Lor movea contro impetuoso asfalto,

Ed era già per abbruciar le preste

Navi, e mandare i popoli in ruina,

Se ne’ petti de’ Greci, ancorché tardi,

Novello ardir non infondea Minerva.

Quinci dunque non pigri aspre quadrella

Dall’alte mura saettando morti

Cader facean molti avversarj a terra:

Onde di tetro sangue eran d’intorno

Sparsi i ripari, e si sentian sospiri

Di feriti, e languenti; e in questa guisa

E giorno, e notte combattean mai sempre

Teucri, e Cetei co’ bellicosi Argivi,

Talor presso alle navi, e talor anco

(Poiché posa fra lor non avean l’arme)

D’intorno al cerchio dell’eccelse mura.

Par tal fra loro incrudeliti, e fieri

Due dì cessar pero dall’aspra zuffa.

Perché a trovare Euripilo n’andaro

I Greci araldi, in dimandando posa

Al travagliar, finché da lor sul rogo

Fosser combusti i già caduti in guerra.

Condiscese egli pronto alla richiesta;

Onde lasciata la nocente pugna

Da questa, e quella parte a dar sepolcro

Diersi a color, che per la sabbia stesi

Giaceano estinti. E sovra tutti i Greci

Piansero Peneleo; quinci di tomba

Alta, ed ampia il copriro, affinché sempre

Nelle future etadi ei fosse illustre.

Ma l’altra turba dei guerrieri uccisi

Seppeliro in disparte, e lacrimosi

Comun fecero a tutti e rogo e tomba.

Similmente i Teucri a’ morti loro

Dieder sepolcro. Indi svegliossi fiera

Di nuovo anco la guerra, perché il forte

Euripilo incitava a muover l’arme

Contro i nemici, e non lasciava punto

Le navi, ma fermato a’ Greci giva

Con la pugna apprestando aspra ruina.

Giunsero intanto con la negra nave

Que’ due volando all’isola di Sciro,

Ed ivi ritrovar d’Achille il figlio

Dinanzi a sua magione, esercitarsi

Con le lande talor, talor con l’aste,

Or maneggiando i rapidi corsieri.

S’allegraro essi in contemplando lui

Trattare allor dell’aspra guerra l’opre

Con tutto che dolente avesse il core

Per la paterna morte, che saputa

Egli avea molto prima. Avanti dunque

Fersi ver lui di maraviglia colmi

In veder come al coraggioso Achille

Nella beltà del corpo egli era eguale:

Lor prevenn’ egli, e in questa guisa disse:

Peregrin, che venite oggi al mio albergo,

Il ciel sempre vi arrida. Ora mi dite,

Qual è la patria vostra, e voi chi sete?

O qual necessitade oggi vi sforza

A chieder me, sì largo mar solcando?

Così parlò chiedendo, ed a’ suoi detti

Cotal diede risposta il divo Ulisse:

Noi fummo già del forte Achille amici,

Di cui te dicon nato, e della saggia

Deidamia, benché da noi vediamo

Ciò, perché tutto a lui ti rassomigli,

Ed esso a’forti Divi era sembiante.

D’Itaca io sono, e questi nacque in Argo

Di cavalli abbondante, e puoi di noi

Qualche contezza aver, se mai del figlio

Di Tidéo giunse alle lue orecchie il nome,

O di Ulisse l’astuto; il qual vicino

Or sono a te, dalle risposte sacre

Sforzato a venir qua per ritrovarti.

Dunque a pietà ti muovi, e i Greci aita

Venendo a Troja; che in tal guisa il fine

Pure una volta avrà sì lunga guerra.

Se tu verrai, con infiniti doni

T’onoreran gli Argivi, ed io darotti

Del divin padre tuo gli arnesi stessi,

Cui tu portando sentirai gran gioja;

Né già rassembran queste arme mortali,

Ma dell’istesso Marte agguaglian l’arme:

Inserto intorno a lor con nobil arte

Di varie cose sculto havvi molt’oro.

Sono insomma elle tai, che il fabro stesso

Vulcan nel fabricarle avea diletto,

E ne godea con gl’Immortali in cielo.

E ben parranno a te gran maraviglia

Nel veder lor. Perché nell’ampio giro

Ha dello scudo il mar, la terra, il cielo,

E v’han figure effigiate in guisa,

Che sembrano aver moto, e gli Dei stessi

Muovonsi, lor mirando, a maraviglia.

Uom mai non fu, che altre vedesse tali,

O se ne armasse, eccetto il tuo gran padre

Cui riverian gli Achèi di Nume in guisa,

Ed io, ch’ogni suo ben desiai sempre,

Teneramente sovra ogni altro amai;

Io fui che allor ch’egli rimase estinto,

Il cadavere suo meco portai

Verso le navi e cruda morte diedi

A molti de’ nemici. Onde la Diva

Teti diemmi di lui gl’incliti arnesi;

Questi benché sianmi oltre modo cari

Volentier ti darò, se vieni a Troja.

Aggiungi a ciò, che Menelao promette,

Poiché, di Priamo al suol le mura sparte,

Tornerem navigando al Greco suolo,

Farti genero suo, quando ti piaccia

In guiderdon de’ beneficj tuoi,

E con la bella figlia sua, donarti

Infinite ricchezze, e copia d’oro,

Quanta re puote dar ricco, e possente.

Poich’ebbe così detto, a lui rispose

D’Achille in questa guisa il figlio altero:

Se chiaman me per vaticinj sacri

Gli Argivi, senza fallo andrem dimani

Del vasto mar solcando il flutto ondoso,

Se forse a lor, che sì d’avermi han voglia,

Portiam con la presenza qualche luce.

Ora andiamo all’albergo, ed alla mensa

Ospital, che di quello, onde mi parli

Di nozze avran gli Dei poscia pensiero.

Ciò detto, guida fessi; e lo seguìro

Di letizia ripieni. E poiché giunti

Furo all’alta magion nella superba

Sala, trovar Deidamia dolente,

Che lacrimando si struggea, qual neve

In alto colle agli Euri, e al Sol cocente.

Tal venia men membrando ognor la morte

Dell’illustre marito. Onde a lei presso

Fatti gl’incliti re la consolaro

Con placide parole, e il figlio a lei

Fatto vicin, di ciaschedun di loro

Pienamente spiegò la stirpe, e il nome,

La cagion però tacque, onde venuti

Erano a ritrovarlo, infin che aprisse

L’Aurora il dì seguente, acciocché vinta

Dall’acerbo dolor, non l’uccidesse

Il lacrimoso affanno, o lui che voglia

Pure avea di partir, tenesse a forza

Con gli efficaci, ed iterati preghi.

Dato fine al cenar consolò tutti

Gli abitator della marina Sciro,

(Cui d’ogni intorno mormorando freme

Alle spiaggie frangendo il flutto Egèo)

Il grave Sonno, ma l’amico, e dolce

Suo poter Deidamia già non oppresse,

Mentre per la memoria a lei volgeansi

Del divo Diomede, e dell’astuto

Ulisse i nomi, poiché entrambi, lei

Vedova fer del valoroso Achille,

Persuadendo la feroce mente

Di lui co’ detti loro a ritrovarsi

Nella nemica guerra, ove incontrollo

Atropo fera Parca, e gli precluse,

Del ritorno le strade, e d’infinito

Pianto cagion fa poscia a Peleo il padre,

Ed anco a se Deidamia medesma,

Quinci grave timor chiadea nell’alma,

Che andando il figlio a quella cruda guerra

Acerbo a duol le s’aggiungesse duolo.

Intanto all’ampio ciel l’Aurora ascese,

Ed essi presti abbandonar le piume,

Onde Deidamia, che già se n’accorse,

Con le braccia stringendo il largo petto

Di lui, sparse le voci, e il pianto al cielo.

Come ne’ monti suol vacca dolente

Senza posa mugghiar cercando il figlio

Per ogni valle, onde alle voci sue

Rendon fremendo il suon l’eccelse cime,

Tal fin dall’ime parti al costei pianto

Rimbombava d’intorno il gran palagio,

Ed essa vinta dalla doglia acerba

Tali spargea parole: O figlio, e dove

Volato è sì dalla tua mente il saggio,

Che ad Ilio doloroso or tu con questi

Peregrin passar voglia, ove cotanti

Nella guerra crudel lascian la vita,

Benché siano usi all’aspre zuffe, e all’armi?

Or tu giovane sei, né di quell’arti

Guerriere esperto ancor, che nelle pugne

Soglion guardar da’perigliosi casi.

Deh! fa’ dunque a mio senno, in tuo ricetto

Restati, affinché un dì fiera novella

Non mi giunga agli orecchi, e te racconti

Ucciso in guerra. Perché certo io temo,

Che addietro dalla pugna unqua non torni,

Poiché nemmeno il padre tuo potéo

Fuggir l’orrido fato, anzi m battaglia

Morto restò, benché di te cotanto

Più forte ei fosse, e di quale altro eroe

Si voglia, e di Dea madre al mondo nato,

E ciò per gli argomenti, e per le frodi

Pur di costor, che te vanno istigando

A seguir lor nella battaglia fera.

Onde grave timor l’alma m’ingombra,

E temo io ripensar, che se morissi,

Figlio, e me lasciassi orba, io sosterrei

Ben mille ingiurie, e mille offese indegne,

Poiché doglia maggior donna non preme

Di quella, ond’essa vedova rimasa,

Perde dopo il marito i figli ancora

Lasciando la magion, morte crudele;

Perché allora ingiuriosi i campi

Usurpansi i vicini, e guastan tutto

Senza mirar ciò, che ragion si voglia,

Talché di donna in vedovile stato

Cosa più inferma, e misera non have.

Così parlò disciolta in grave pianto:

Indi a lei tal risposta il figlio diede:

Confortati, mia madre, e scaccia lunge

Quest’infelici augurii, essendo certa,

Che nullo mai da Marte è in guerra ucciso

Contro quel, che disposto aggia la sorte:

O se pure è fatal, che morto io resti,

Per gli Achèi sarò morto, e quel sofferto

E fatto avrò, che al sangue mio conviensi.

Poich’ebbe in guisa tal risposto, a lui

Vicin si fece Licomede antico,

E vedendolo pur di pugnar vago

A lui rivolto in queste voci disse:

O generoso figlio, il qual non meno

Sei tu del padre forte, io ben comprendo,

Quanto simil tu sia, quanto gagliardo;

Pur benché ciò sia ver due cose temo,

L’ aspra guerra, e del mar l’onda crudele,

Perocché, se nol sai, molto vicini

Si trovan sempre i naviganti a morte.

Guardati dunque, figlio, o fia che torni

Alfin da Troja, o come accade altronde

Di navigar allor che il Sol si gira

Col tenebroso Capro, e lascia addietro

Il Sagittario di quadrella, e d’arco

Armato, quando turbini e procelle

Adduce seco il tempestoso verno.

Guardati ancor, quando sull’ampio flutto

Dell’Ocean, mentre s’annera il cielo,

Dal cadente Orion giran le stelle.

Temi anco nel tuo cor l’aspro Equinozio,

la cui dall’imo fondo il mar commosso,

Fremon per l’onde sue venti, e procelle;

Né men, quando a trovar sen van l’occaso

Le Pleiadi, od allor che in mar si attuffa

Anco la Capra furiosa, ed altre

Stelle, che o tramontando, o fuor dell’acque

Del mare uscendo, a’ miseri mortali

Sogliono alto spavento apportar seco.

Detto così, baciollo, e non fe’ lui

Divieto alcun di gire all’aspra guerra,

Ond’era desioso, ed egli un riso

Balenando amoroso, alla veloce

Nave affrettava il passo, e pure ancora

Lui che il piè movea pronto entro l’albergo

A forza ritenean dell’angosciosa

Madre i ragionamenti al pianto misti.

Qual se destrier veloce il cavalier

Allor ritien, ch’ha più desìo del corso,

Mord’egli il fren, che ciò gli vieta, e sparto

Di bianche spume il petto, alto annitrisce,

Né ponno i piè bramosi pur del moto

Star fermi; onde colà s’egli sovente

I pie batte leggier, suona la terra.

Scherzangli i crin sull’agitato collo,

E sublime elevando il capo altero

Soffia frequente, e il suo signor ne gode;

Tal del guerriero Achille il figlio illustre

Dall’una parte ritenea la madre,

Dall’altra rapìa seco al moto il piede,

Ed ella godea pur benché dolente

Fosse, in mirar così leggiadro il figlio:

Mille volte abbracciollo, egli baciolla;

Quindi partito, lei lasciò soletta

Entro al paterno albergo in preda al pianto.

Come altamente mesta a’ covi intorno

I figli suoi la rondinella plora,

Che addolorando lei pietosa madre

Striduli divorò serpente crudo;

Orba rimasa or si raggira intorno

Al nido, or vola per le logge ornate,

E i pargoletti suoi misera piange;

Non altramente allora Deidamia

Lacrimava dolente, ed or del figlio,

Dando alte voci, si stendea sul letto,

Ora piangea su i limitari e in seno

Tutto ciò si ponea, che nell’albergo

Ella potea veder, che stato fosse,

Mentr’egli era anco pargoletto infante,

Al grande animo suo trastullo, e scherzo:

Né men se le s’offria lasciato dardo

Gl’imprimea cento bacj, e lacrimando

Così facea con tutte quelle cose,

Che del saggio suo figlio ella vedea,

Ed egli omai di lei, che senza fine

Gemea, più non udìa le grida, e il pianto;

Ma volto ad altra parte inver la presta

Nave moveasi, e le veloci membra

Destro portavan lui simile in tutto

A rilucente stella, e seguian lui

Il saggio Ulisse, e il figlio di Tidéo:

Altre venti persone il seguian anco

Di matura prudenza ornati il petto,

Cui bene avvezzi avea, nobil famiglia,

Deidamia nella sua corte; questi

Col figlio suo mandò, perché ministri

Fosser pronti, e svegliati a’ cenni suoi.

Questi dunque seguendo il figlio ardito

D’Achille, mentre il piè dalla cittade

Alla nave movea, servianlo intorno.

Egli nel mezzo a lor già baldanzoso,

E gajo sì, che con la suora Teti

Ne godean liete di Nereo le figlie:

Anzi, e Nettuno ancor, ceruleo il crine

Piacer sentìa, del valoroso Achille

Mirando il prode figlio, il qual di guerre

Lacrimose era vago ancor fanciullo,

Non di piuma vestite ancor le gote.

Ma l’interno valor, l’interna forza

L’eccitava a grand’opre: egli sen già

Della sua patria fuor simile in vista

A Marte allor, che nel sanguigno assalto

Sen va contro i nemici acceso d’ira,

Furibondo la mente, orrendo il ciglio,

Folgoran gli occhi a lui di fiamma in guisa,

E nel furor dell’incitato corso

Con venusta beltà nelle sue gote

Il tremendo terror s’accoglie, ond’anco

Gli stessi Dei del timore offende,

Tal di se facea mostra il generoso

Figlio d’Achille. E tutti quelli intanto,

Che passar lo vedean per la cittade

Pregavan gl’Immortai, che il rege loro

Volesser ricondur dall’aspra guerra

Salvo al paterno albergo; ed essi a’ preghi

Piegar gli orecchi. Intanto egli sen gía

Tutti color d’altezza superando,

Ch’egli avea intorno. E poiché giunti al lido

Fur del mar risonante, ivi trovaro

I marinar della spalmata nave

Tender le vele, e spinger lui nell’onda.

Tosto egli entrovvi dentro, e sciolser essi

Ed ancore, e ritorte, che sempre hanno

Seco (robusta forza) in mar le navi.

Quindi felice a lor concesse il corso,

Pronto lo sposo d’Anfitrite, a cui

Nel pensier si volgea, quanto gli Argivi

Dal magnanimo Euripilo, e da’ Teucri

Fossero oppressi. Indi sedendo intorno

D’Achille al figlio i suoi compagni, a lui

Con dolce ragionar porgean diletto,

Tutte del padre suo narrando l’opre,

Quelle, ch’ei fe’ nell’ampio mare, e quelle,

Che di Telefo altier fece ne’ campi,

Quanto a’ Trojani incontro egli oprò in guerra,

Le città depredando, e quanti doni

Ei riportò dai successor d’Atréo.

Godeva ei fra se stesso in ascoltando

I detti, e desiava il padre invitto

Nel valor pareggiare, e nella gloria.

Dall’altra parte per cagion del figlio

Mesta Deidamia, dentro alle stanze

Spargea copiose lacrime, e sospiri,

E per l’acerbo duol le venìa meno

Il cuor nel petto, come il molle piombo

Fra gli ardenti carbon struggesi, o come

Cera si liqueface; e non fea tregua

Col pianto contemplando il flutto ondoso;

Neppur cessava allor, che a prender cibo

Sedeasi a mensa. Intanto a poco a poco

Fatta la nave in guisa era lontana,

Che già sparían le vele all’aere in vista

Fatte sembianti, ed essa il giorno integro

Sospirò lagrimando. Al legno il vento

Aspirava così che parea appena

Toccar nel suo volar l’ondoso flutto.

Cerulea mormorava a’ fianchi intorno

L’onda, ed essa veloce il mar fendea.

Della notte l’oscuro indi l’assalse,

Né meno ella correa l’umide vie

Dal vento governata, e dal nocchiero.

Saliane al cielo già la diva Aurora.

Quando allor si scoprir l’altere cime

Degl’Idei monti, Crisa, e il gran delubro

Di Smintio, il promontorio alto Sigeo,

E del guerriero Achille indi la tomba.

Additar questa il figlio di Laerte

Astuto a Neottolemo non volle

Per non destargli entro la mente il duolo.

Oltrepassaro all’isole Calidne

E si rimase a lor Tenedo a tergo.

Di Pteleunte indi apparve il tempio, dove

Giace il sepolcro di Protesilao,

Per gli alti olmi ond’è cinto, in vista ombroso,

Olmi, onde nel mirare il Sol surgente

Soglionsi tosto inaridir le frondi.

La nave intanto i remi, e l’aure appresso

Portaro a Troja là, ‘ve gli altri legni

Approdati de’ Greci erano al lido,

Che allor miseramente al vallo intorno

Combattean, cui già fero, affinché schermo

In guerra fosse agli uomini, e alle navi.

Questo era già per ruinare a terra

Sotto la man d’Euripilo, se tosto

Non s’accorgea delle percosse mura

Del forte Tideo il figlio, il qual saltando

Fuor della ratta nave, ardito spinse

Quanto potea maggior dal petto il grido:

Amici, ah! quanto grave oggi si volge 

Danno sovra gli Argivi: or via corriamo

Veloci, e vestiam l’arme, andiamne tutti

Volando, ove la zuffa è più crudele.

Perché alle nostre torri intorno accolti

Pugnando stanno i bellicosi Teucri:

E gran periglio v’ha, che sotto il muro

Non ardan crudelmente anco le navi,

Onde il ritorno a noi, che sì il bramiamo,

In tutto sia preciso; e contro quello,

Che prescritto have il fato in Troja estinti,

E moglie, e figli rimarran lontano.

Così diss’egli, ed essi in un baleno

Tutti da’ legni fuori insieme usciro;

Perocché tutti appresso avean gran tema

Al grido del guerrier, trattone solo

Neottolemo il forte, il qual d’ardire

Era al padre simile, in cui si accese

Allor nel petto alto desìo di guerra.

Onde repente al padiglion n’andaro

D’Ulisse, che più presso era alla nave

Di ceruleo color tinta la prora,

Ove giaceano alternamente poste

L’arme d’Ulisse accorto, e de’ compagni,

Cui tolte aveano agli avversarj estinti.

Ivi l’arme più belle i più guerrieri

Vestirsi, e le peggior si cinser quelli,

Che più timido avean nel petto il core.

Armossi Ulisse, egl’Itacesi seco.

Quinci diè l’arme al figlio di Tidéo,

Che sovra modo belle egli avea prima

Tolte al robusto Soco. Il figlio poscia

D’Achille si vestío l’armi del padre,

E in quelle chiuso a lui simile apparve.

Queste, opra di Vulcan, lievi alle membra

S’adattaron di lui, benché soverchie

Altrui fosser di peso. A lui leggieri

Tutti parean gli arnesi, ed alla fronte

Grave non era l’elmo, anzi con mano

Lievemente l’alzava, ancorché in alto

Sorgesse; l’elmo, che di sangue ancora

Avido si mostrava, I Greci tutti,

Che lo vedean, ben d’appressarsi a lui

Avean desìo, ma gli tenea lontani,

E travagliava all’alte mura intorno

Dell’aspra guerra l’orrido tumulto.

Come nel mezzo al vasto mar rinchiusi

I naviganti in solitaria, e in tutto

Dalle genti divisa isola stanno,

Cui lungo tempo il navigar contende

Il vento, che contrario a lor si muove,

S’aggiran pensierosi entro la nave,

Miseramente lor mancando ogni esca;

Alfin, quando più sono afflitti, e mesti,

Vento si desta al lor desìo secondo;

Tal l’Argolico stuol prima dolente

Si rallegrò, quando sen venne a lui

Neottolemo il forte, indi sperando

Pur respirar dal lacrimoso affanno.

Uscian da’ lumi suoi faville ardenti,

Come dagli occhi di Leon feroce,

Che agitato dal duol l’animo altero,

Cala da’ monti a’ cacciatori incontro,

Che pongon già nella caverna il piede

Per involargli i pargoletti figli

Solitarj rimasi, e da’ parenti

Lontani, in valle ombrosa; e se n’avvede

Egli mirando lor da qualche giogo

Sublime, ed alto, onde lor move incontro

Precipitoso, e con ruggiti orrendi

Mesce il rumor delle arrotate zanne;

Tal si commosse il coraggioso petto

Del figlio illustre dell’invitto Achille

Contro i guerrieri Teucri, onde là corse

Primiero, ove maggiore era tumulto,

Là corse, ove più lieve agl’inimici

Impetuosi era il gittare a terra

Lo schermo degli Achei, poiché men forte

Del vallo in quella parte era il riparo.

Altri anco seco andar vaghi di guerra,

E ritrovaro Euripilo animoso,

Ch’era co’ suoi compagni in cima asceso

Ad una torre, e s’avea posto in core

Di abbatter l’alto muro, e far di tutti

Gli Achei ruina; ma cotal pensiero

Lui non donar gli Dei condurre al fine,

Perocché Ulisse, Diomede il forte,

Il divin Neottolemo, ed il divo

Leonteo, lor con infiniti dardi

Spinser lontan dall’assalito muro:

Come scacciano i cani, e i faticosi

Pastor con la fortezza, con la voce

I gagliardi leon dal chiuso giro,

Lor da questa assalendo, e quella parte,

Ed essi con ardenti, e torvi sguardi

S’aggiran quinci e quindi, e benché grande

Brama aggian di squarciar con l’unghie fere

I giovenchi, e le madri, pur cedendo

Sen van cacciati da’ feroci cani,

E da’ pastor, che muovon loro assalto;

Tale all’impeto lor cedero i Teucri,

E ritirarsi; ma però soltanto

Quant’uom gittar potrà una lieve pietra;

......................................................

Perocché loro abbandonar le navi

Non concedea Euripilo, ma forza

Fea di tenergli all’inimico a fronte,

Finché i legni dispersi avesse, e morte

Dato a tutti gli Achei, poiché infinito

Infondea Giove in lui valore, e possa.

Onde tagliente presa, e dura pietra

Contro le mura l’avventò di forza;

Orrendo allor destaro, e gran rimbombo

Le fondamenta dell’eccelso giro,

Onde non men si spaventare i Greci,

Che se caduto al suol già fosse il muro.

Non lasciaron però la dura zuffa,

Ma si fermar come cervieri o lupi

Feri, ed arditi predator di gregge,

Quando ne’ monti, e cacciatori e cani

Per donar morte a’ figliuoletti loro

Gli scaccian con furor dalla caverna,

Ed essi non cedendo a chi gl’incalza

Fermansi, e difendendo i cari pegni

Sprezzan fatti animosi, e strali, ed aste;

Tal per le genti questi, e per le navi

Pugnando resistean nella battaglia.

Così con alta voce minacciando

Disse agli Argivi Euripilo guerriero:

O vili, e voi che imbelle avete in petto

Il cor, già me non fareste ir lontano

Da’ legni per timor, se il vostro muro

L’impeto mio non reprimesse in parte;

Ma voi siccome can, che nella selva

Paventano il leon, da chiuso loco

Meco pugnate per campar da morte.

Ma se avverrà, ch’io vi ritrovi un giorno

Com’ altre volte già nel pian di Troja

Parati al guerreggiar, dall’aspra morte

Nullo avrete riparo, anzi in un monte

Da me cadrete in sulla polve uccisi.

Così diss’egli, fuor mandando i detti

D’effetto vuoti, perché ascoso a lui

Era qual s’avvolgesse a lai d’intorno

Poco lontana omai grave ruina

Per man di Neottolemo feroce,

Che in breve lui dovea con l’asta audace

Privar di vita. E pure allor non stava

Anco senza adoprar l’invitta forza,

Ma dal giro pugnando uccidea i Teucri.

Temevano essi alle percosse d’alto,

E da necessità cacciati addietro

E dal fero timor, che gli avea vinti,

Raccoglieansi ad Euripilo d’intorno;

Siccome i pargoletti alle ginocchia

Corron del padre lor temendo il tuono,

Che dal gran Giove è desto, allorché rotte

Le nubi geme orribilmente il cielo;

Tal de’ Trojani i figli avean ricorso,

Fra il Ceteo stuolo al rege lor possente,

Temendo tutto ciò, che con la mano

Sovra di lor Nettolemo spargea;

Perocché dritta agl’inimici capi

Facea volar la dolorosa strage.

A’ Teucri intanto da stupore il petto

Oppressi, di veder certo parea

Vivo con l’armi stesse Achille orrendo,

Ma celavan però l’indegno affetto

In mezzo al cor, perché paura quindi

Ne’ Cetei non surgesse, e nel re loro.

Così terribilmente essi temendo

E quinci e quindi eran nel mezzo stretti

Fra l’aspro male, e l’orrida paura,

Perché forza a lor fean congiunti insieme

L’orribile spavento, e la vergogna.

Come color, che per l’alpestre via

Muovono il piè, se giù cader dal monte

Veggion torrente rapido onde freme

Percossa incontro la scoscesa pietra,

Non hanno ardir nel risonante flutto

Di spingersi oltre, al piè la morte appresso

Mirando, e non del lor viaggio han cura;

In tal guisa i Trojan, benché bramosi

Di fuga, stavan saldi a pugnar sotto

L’Argolico riparo, perché sempre

Euripilo divin gli spingea avanti

Alla battaglia, certa speme avendo,

Che dovessero pur dell’uomo altero,

Nel pugnar contro tanti, alfin stancarsi

E le mani, e la forza; e pure intanto

Punto col guerreggiar non facea tregua.

Minerva poi, che la crudel tenzone

Ebbe a mirar dall’odorato cielo,

Lasciò gli eccelsi alberghi, e scese sopra

L’alte cime de’ monti, e così lieve

Movea, che né col piè radea la terra.

Lei più, che il vento mobile, e leggiera

Portava l’aere sacro a nube eguale.

E tosto giunse a Troja, e il piede pose

Del ventoso Sigeo sull’alta cima:

Onde mirando ella vedea il conflitto

Delle guerriere genti, e favor porse

Grande agli Argivi. E pur fra tutti avea

Maggior d’Achille il figlio ardire, e forza,

Che se ambi in un sol uom giungonsi insieme

Fabri son d’alta gloria: e pure ornato

Egli era d’ambedue, sì perché sceso

Dal sangue era di Giove, e parte ancora

Perché al caro suo padre era sembiante.

Quinci d’animo intrepido, e virile

Molti spingea sotto le torri morti.

Come di preda il pescator bramoso

Tessendo a’ pesci in mar ruina, seco

La forza di Vulcan dentro la nave

Conduce, che commossa all’aure lievi

Sfavilla e sparge il lume al legno intorno,

Ed essi fuor del tenebroso flutto

Bramosi di veder l’ultima luce

Guizzano a schiere, ond’egli con l’acuto

Tridente all’apparir, che fan dall’acque

Gli uccide, e di sua pesca entro a se gode,

Così del fiero Achille in nobil figlio

Presso al petroso muro iva uccidendo

Le schiere de’ nemici, che più pronte

Traeano avanti. Alla fatica presti

Eran tutti gli Argivi, altri ad un merlo

Altri ad un altro alla difesa intenti;

Onde ne rimbombava il largo lido,

Ne suonavan le navi, e l’alto muro

Ne gemea percosso; ed omai vinto

Dell’una e l’altra parte avea le forze

L’infinita fatica, e de’ soldati

La robustezza in un sciolto, e le membra.

Ma non pertanto del guerriero Achille

Il divin figlio ancora oppresso avea,

Perché nel petto il generoso core

Affatto infatigabile chiudea;

Nullo strano accidente in combattendo

Toccollo. Egli fremea simile a fiume

Di corso eterno, cui giammai non face

Timor di fiamma assalto, ancorché il vento

Fieramente spirando avanti spinga

Dell’ardente Vulcan la sacra forza,

Perocché giunta in sull’estremo lembo

Illanguidisce, e pur toccar non vale

Col vorace poter l’umido invitto:

Così mai non toccò stanchezza grave

Del saggio Achille il buon figliuol, né tema

Gli legò le ginocchia, anzi ognor saldo

Alla battaglia i suoi compagni accese.

Colpo mai non gli offese il nobil corpo,

Benché lanciati in lui ne fosser molti;

Anzi, come colpir grandine suole

Alpestre pietra, iva su lui cadendo

In tutto van della percossa il tuono;

Perocché tutto rispingean lontano

robustissimo l’elmo, e il largo scudo

Del già divino fabro inclito dono.

In questo giubbilando il forte figlio

D’Achille se ne già con alte voci

D’intorno al muro, e confortava tutti

Gli Argivi a muover pronti alla battaglia,

Perdi’egli era di tutti il più guerriero,

Né il cor di crude pugne avea mai sazio;

E sempre nel pensier fisso tenea

L’acerba morte vendicar del padre.

Godeano i Mirmidon del duce loro,

E intorno al muro incrudelía la guerra.

Ivi due figli di Megete uccise

D’oro abbondante, e di Dimante nato:

Questi due figli avea nobili, e mastri

D’avventar dardi, d’agitar destrieri

In guerra, e dotti d’avventar gran lancia.

Ambo Peribea in un sol parto espose

In riva di Sangario, e chiamò l’uno

Celto, e l’altro Eubeo disse, e non godero

Questi lunga stagion l’ampie ricchezze,

Perché breve dier vita a lor le Parche,

E come in un sol dì vidder la luce,

Tale in un dì morir sotto la mano

Del forte Nettolemo, che all’uno

Trafisse il cor col dardo, all’altro crudo

Sasso gittò sul capo, il qual sull’elmo

Spezzossi, e l’elmo franse, e le cervella,

Rotte del capo l’ossa, a terra sparse.

Intorno a lor fu poscia una gran turba

D’altri nemici estinta, e già crescendo

L’opra di Marte, infin che sopraggiunse

La notte, e venne giù l’eterna Aurora.

Onde lo stuol d’Euripilo animoso

Lunge da’ legni ritirossi alquanto.

Né men preser gli Achèi breve riposo

Presso alle torri, e le Trojane genti

Requie trovar dall’orrido conflitto,

Perché oltre modo grave era la zuffa

Stata d’intorno all’inimico muro;

E tutti certo con le navi loro

Distrutti allor si rimanean gli Argivi,

Se quel dì non scacciava il pro’ figliuolo

D’Achille il largo stuol degl’inimici,

Ed Euripilo stesso. Allor vicino

Il buon vecchio Fenice a lui si feo,

E fiso contemplandolo, ammirollo,

Tal rassembrava al figlio di Peleo.

Quinci in un punto gran piacer sentissi

Correr nell’alma ed infinito duolo,

Duol per memoria del veloce Achille,

Piacer di lui vedendo il forte figlio.

Teneramente pianse, perché mai

Gl’infelici mortal non vivon senza

Pianto, benché piacer s’abbian talora.

Strettamente abbracciollo, in quella guisa

Che il figlio con le braccia il padre stringe,

Quando gran tempo per voler del cielo

Molti affanni sofferti alfin ritorna,

Alta gioja al buon padre, al caro albergo:

Tal questi Neottolemo stringendo

Fronte, e petto baciogli, e queste a lui

D’amor piene, e d’onor disse parole:

Sii lieto sempre, o buon figliuol d’Achille,

Cui già bambino io nutricai portando

Lui volentieri in collo, ed egli intanto

Per benigno voler de’ sacri Numi

Lieto crescea, qual verdeggiante ramo;

Ed io godea la sua beltà mirando,

E il ragionar sì dolce, ond’io traeva

Alto conforto: e quasi unico figlio

Io tenea caro, ed ei di padre in guisa

M’onorava all’incontro. Era io di lui

Padre, ed egli a me figlio, e così detto

Mirando avresti, poiché noi d’un sangue

Facea l’amore, e la concorde voglia.

Sol questo ne partía, che di virtude

Me vincea molto, poiché di bellezza

E di valore a’ Divi egli era eguale.

Or tu l’assembri in tutto, ed a me pare,

Che vivo ei sia tornato infra gli Achei;

E pur grave dolor sempre mi apporta

Del suo morir la rimembranza, e in questa

Dura vecchiezza il cor mi affligge il duolo.

Ed oh! perché non mi coprío la terra

Avanti alla sua morte, e quel favore

Non ebbi, che aver suol, chi vien sepolto

Per man di suo signor benigno, e grato!

Certo, o mio figlio, per cagion di lui

Mai non sia nel mio cor sopito il duolo.

Ma non ti affligger tu l’alma col pianto;

Piuttosto i Mirmidoni, e i bellicosi

Argivi oppressi col valor difendi,

E per cagion del tuo buon padre sfoga

Contro il nemico stuol l’impeto, e l’ira;

E grande onor ti sia vincer pugnando

Euripilo feroce, il qual di guerra

Sazio mai non si trova. E il farai certo,

Poiché di lui tu sei migliore ed anco

Sarai, quanto miglior sempre il tuo padre

Del genitor di lui misero, fue.

Poich’ebbe cosi detto, in guisa tale

Del biondo Achille il figlio a lui rispose:

Vecchio, il nostro valer giudice in guerra

Avrà la forte Parca, e Marte altero.

Detto così, gran voglia entro lui nacque

D’uscir lo stesso dì chiuso nell’armi

Paterne fuor del muro in campo aperto;

Ma fé la notte al suo pensier divieto,

Che uscía dall’Oceán di fosco manto

Cinta le membra, ed apportava seco

Delle fatiche agli uomini il riposo.

Intanto lui non men d’Achille il forte

Là per le navi riveriano allegri

Gli Argivi, poiché lor fece coraggio

Nel comparir sì baldanzoso in guerra.

Quinci onoravan lui con premj illustri

Dandogli doni immensi a quelli eguali,

Che rendon care le ricchezze altrui.

Questi oro presentargli, e quelli argento,

Altri femmine diede, altri infinito

Rame, altri ferro, alcun di rosso vino

Vasi gli offerse, altri destrier veloci,

Alcuno armi guerriere, altri pregiate

Vesti d’industri donne opre gentili.

Onde sommo piacer quindi sentìa

Nell’alma Neottolemo. Ed intanto

Gli altri ne’ padiglion cenando al figlio

Divin d’Achille davan gloria pare

A quella de’ celesti eterni Numi.

Agamennone allor tutto festoso

In questa guisa a lui rivolto disse:

Veramente sei tu del forte Achille

Nato, o figliuol, poiché simile in tutto

A lui sei tu di generosa forza,

Di beltà, di grandezza, d’ardimento,

E come lui sei nell’interno saggio:

Ond’è, che gran piacer dentro a me sento

Sperando, che la lancia, e la tua mano

Sia per dar morte, e per portar ruina

Agl’inimici, alle Trojane mura,

Perocché in tutto al padre tuo rassembri.

Mentre contemplo te, veder lui parmi

Presso alle navi, come allor che irato

Per l’ucciso Patroclo ei facea strage

De’ Teucri. Ma nel cielo ei si ritrova

Con gl’Immortali, e da’ Beati stessi

Mandato ha te, perché all’afflitte cose

Tu porti degli Argivi oggi soccorso.

Poich’ebbe così detto, a lui rispose

D’Achille in questa guisa il pro’ figliuolo:

Dio volesse, Agamennone, che vivo

Fosse mio padre, acciocché me suo figlio

Caro, vedesse non portar vergogna

Al paterno valore, e così spero

Io, che deggia avvenir, se fia che sano

Lascin beati me gli Dei del cielo:

Così parlò d’alta prudenza ornato,

E le genti, che intorno erano a lui

Ammirar l’uom divino. E quando sazj

Fur della cena, il generoso figlio

Del forte Achille dalle mense in piedi

Levato andonne al padiglion del padre,

Ove molte giacean d’uccisi eroi

Armi d’intorno, e in questa, e in quella parte

Le vedove cattive al ministero,

Come vivendo il lor Signor, deano opra,

Ed egli in contemplando i Teucri arnesi,

E le cattive, sospirò profondo,

Tale il prese desìo del padre estinto.

Siccome in folto bosco, o cupa valle

Il feroce leon da’ cacciatori

Ucciso già, se dentro all’antro ombroso

Il leoncel s’accoglie, e con frequenti

Guardi va rimirando il caro speco,

Vede raccolti là gran monti d’ossa

Di molti, preda sua, cavalli e buoi

Della paterna morte entro a se geme;

In guisa tal del coraggioso Achille

Al figlio in mezzo al cor si strinse il duolo.

L’ammiravan l’ancelle, e sovra tutte

Briseide nel mirar d’Achille il figlio;

Talor nel cor sentìa piacer, talora

D’Achille rimembrando avea gran doglia.

Dubbiava ella fra se, come se vivo

Veramente foss’anco il prode Achille.

Dall’altra parte anco i Trojani allegri

Davan gloria ad Euripilo, e lui pari

Diceano al divo Ettorre, allor che i Greci

Struggea, la città sua con le ricchezze

Tutte guardando. Alfin giunta quell’ora,

In cui dolce le genti il sonno assale,

I Teucri tutti, e i bellicosi Achèi

Vinti dal suo poter dormiro, eccetto

Le guardie sol, che non dier posa ai lutti.