I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO NONO

Poscia che giunta al fin l’oscura notte

Dall’altra parte si destò l’Aurora,

E di luce adornossi il vasto cielo,

Allor miraro i numerosi figli

De’forti Greci il piano, e vider senza

Nubi, e serene di Ilion le cime,

E meraviglia del prodigio ancora

Avean, che lor sofferse il giorno avanti.

Nè più voleano i Teucri uscire in guerra

Dinanzi all’alte mura, in guisa tale

Tutti avean di timor l’animo carco.

Or fra costoro Antenore porgendo

Preghi al re degli Dei così dicea:

Giove, che in Ida, e nel lucente cielo

Regni, ascolta i miei preghi, e l’uom feroce,

Che volge nel pensiero a noi ruina,

Dalla nostra città manda lontano,

O siasi questi Achille, il qual ritorno

Fatto abbia dall’inferno, o qualsivoglia

De’ Greci, che a quell’uom così rassembri.

Molti già son della città consunti

Di Priamo, che dal ciel tragge la stirpe;

Ned anco il male ha tregua, anzi la strage

Cresce, e l’uccision di giorno in giorno.

O padre Giove, ah! tu di noi non curi

Sì da’ Greci conquisi, e in tutto oblìo

Preso del figlio tuo Dardano il divo,

Gli Argivi aiti. Or se tu chiudi in seno

Questo pensier, che misero de’ Teucri

Facciano i Greci scempio, al fin l’adduci

Tosto, né duri il duol sì lungo tempo.

Sì disse alto pregando; ed esaudillo

Giove dal cielo, e del suo prego parte

Condusse al fin, parte condur non volle.

In questo l’esaudì che molti insieme

Teucri morir co’ figli, e ciò contese

A lui, che far lontan dalla cittade

D’Achille il forte figlio allor non volle ,

Anzi più l’incitò perché il pensiero

Lo persuase a dar favore, e gloria

Alla prudente figlia di Nereo.

Or mentre ciò fra se venia pensando

Il Dio, che di tutt’altri ha maggior forza,

Nel mezzo alla cittate, e là nel largo

Campo dell’Ellesponto, e Teucri, e Greci

Co’ destrieri incendean color, che dianzi

Fur nella guerra uccisi, e dalle morti

Requie avea la battaglia, perché allora

Mandato ad Agamennone, ed agli altri

Greci avea Priamo il messaggier Menete

Pregando lor, che non negasser tempo

D’ardere i morti, ed essi alcun divieto

Non fer, da pietà mossi inver gli uccisi;

Poiché dopo la morte ira non segue.

Mentre spesse agli estinti ergean le pire,

Volsero i Greci inver le tende il piede;

Di Priamo i Teucri entro il dorato albergo

Sen gir, piangendo Euripilo caduto

Nella battaglia, cui solean non meno

Riverir, che di Priamo i figli stessi,

Onde a lui dier sepolcro, e lo posaro

Lunge da tutti gli altri anzi la porta

Dardania, dove con girevole onde

Xanto s’avvolge, allor che dalla pioggia

Gonfiato vien di Giove. Il figlio quinci

Dell’intrepido Achille anch’egli il piede

Volse del padre inver la cava tomba.

E lacrime spargendo impresse bacj

Nell’ornata colonna, onde coperto

Era l’estinto padre, e sospirando

In questa guisa al dir la voce sciolse:

Salve, mio padre, anche laggiù nell’ima

Parte sotto la terra, perché mai

Non sarà, che di te, che sei disceso

Nella magion di Pluto, io prenda oblìo,

Così vivente avessi te fra gli altri

Argivi ritrovato! perché forse

Di scambievole amor l’animo lieti,

Ilio sacra espugnando, avremmo acquisto

Fatto senz’alcun fin d’oro, e di gloria.

Or tu veduto me non hai tuo figlio,

Ned io te vivo, e pur lo bramai sempre.

Ma te lontan, perocché sei fra’ morti,

Della tua lancia, e del tuo figlio orrore

Immenso han gli avversarj, e gioja i Greci,

Vedendo me, che a te mi rassomiglio

Di corpo in tutto, e di natura, e d’opre.

Detto così le lacrime asciugossi,

Che dalle guancie gli cadean cocenti.

Quinci alle navi andò del padre altiero

Solo non già, perché seguiron lui

Dodici Mirmidon, presso a cui seco

Era il vecchio Fenice, il qual dolente

Per la memoria del famoso Achille

Dal profondo del cor spargea sospiri.

La notte ombrò la terra, e si mostraro

In ciel le stelle; ed essi dalla cena

Levati dier le membra in preda al sonno.

Surse l’Aurora, e si vestiron l’arme

Gli Argivi allora, sì che lunge i raggi

Da lor gìan balenando inverso il cielo.

Poscia velocemente insieme usciro

Fuor delle porte tutti a neve eguali,

Che suol fioccar dalle adunate nubi,

Quando gelata è la stagion del verno.

Tal questi si spargean d’avanti al muro,

Onde rumor sorgea grave, ed orrendo:

Alto gemea la terra al moto loro;

E i Teucri nell’udir l’orrendo suono,

E nel mirar così copiosa gente

S’empian di meraviglia, e si affrangea

A tutti il cor nel petto, immaginando

L’imminente ruina, perché eguale

Sembrava a nebbia il popolo nemico:

Facean strepito l’arme all’agitarsi

Degli armati guerrieri, e senza posa

Sollevata da’ piè sorgea la polve.

Allora, o fosse degli Dei qualcuno,

Che novello nell’alma ardire infuse

A Deifobo, e intrepido lo rese,

O fosse pur, che il suo medesmo spirto

L’accendesse a battaglia, onde struggendo

Con l’asta il fero stuol degl’inimici

Cacciasse lor dalla sua patria lunge;

Queste dunque altamente a’ Teucri in mezzo

Colme di molto ardir parole disse:

Amici, or via nel petto il cor guerriero

Chiudete e col pensiero ite mirando

Quanti dolori a’ miseri cattivi

Soglia apportar dell’aspra guerra il fine.

Perocché non abbiam per Alessandro,

E per Elena solo omai la guerra,

Ma per la patria, per noi stessi, ed anco

Per le mogliere, pe’ diletti figli,

Pe’ riverendi genitori, insieme

Per l’onore, e l’avere, e per la dolce

Terra, la qual piuttosto me ricopra

Morto in battaglia, che la patria cura

Soggetta io veggia all’inimica lancia.

Perché già non cred’io, che peggior caso

Avvenir possa agli uomini infelici.

Dunque scacciando l’orrida paura

Accostatevi a me, prendete tutti

Alto coraggio alla battaglia cruda.

Già vivo contra noi non sia, che pugni

Achille, cui consunse ardente fiamma.

Né già dobbiam temer quell’altro Greco,

Che in tutto a lui simil, le genti aduna,

Ned altro qual si sia, mentre contrasto

S’ha per la patria. Non temiam la mischia

Dunque di Marte, ancorché per l’addietro

Molti, e gravi disagj abbiam sofferto.

Or non sapete voi, che la fatica

Porta agli egri mortal tesoro, e gioja?

E che dopo gran venti, aspre tempeste

Giove alle genti il dì sereno adduce?

Che dopo i gravi morbi altri la forza

Racquista, e dal pugnar la pace nasce?

E che tutte le cose il tempo volve?

Cosi diss’egli: ed essi a guerra desti

Si preparar repente, onde s’udia

Per tutta la città strepito, e suono

Di color, che vestian per la crudele

Battaglia, l’arme. Allor di timor piena

La moglie a lui, che richiedea gli arnesi

Lacrimosa apprestogli, e i figliuoletti

Semplici intorno a lui gli porgean tutte

L’arme, portando pronti, ed ei con loro

Or si dolea dolenti, ed or ridendo

Godea di lor festoso, e crescea in lui

Volontà di pugnar pe’ dolci figli

E per se stesso. Or con maestra mano

Gìasi adattando a’ membri i forti arnesi

Schermo de’ mali in guerra, ed esortava

I figli intanto a non aver d’alcuno

Paura ne’ conflitti, e parte a loro

Additando venia le cicatrici,

Che nel petto egli avea, segni frequenti

Delle scorse da lui battaglie antiche.

Quando poi tutti ebber vestito l’arme,

Dalla cittade uscir. dell’aspra guerra

Vogliosi, e co’ destrier veloci, e presti

Incominciaro i cavalier l’assalto:

Quinci anco de’ pedon s’urtar le schiere:

Co’ carri i carri s’affrontaro, e grave

Suon nel muoversi loro alla battaglia

Destò la terra. Indi ciascun de’ duci

Con alta voce a’ suoi fece coraggio,

S’incontrar poscia impetuosi, e quinci

E quindi gran rumor mosse dall’arme,

E il diviso tumulto un ne divenne.

Molti volar da questa, e quella parte

Vedeansi dardi, e strepito confuso

Dagli scudi salìa, cui ferian l’aste.

Altri con lance, altri con spade, e molti

Si percotean con rapide bipenni,

E si tingean di sangue intorno l’arme.

Le Teucre donne dalle mura lunge

Stavan mirando la battaglia fera,

Ed a tutte il timor scotea le membra,

Mentr’esse ora pe’ figli, or pe’ mariti,

Or pe’ fratelli al ciel porgeano i preghi.

Con loro ivi anco per l’età canuti

Sedeansi i vecchi, e per cagion de’ figli

Venir sentiansi men nel petto l’alma.

Stava sol nelle stanze Elena chiusa

Con le donzelle sue, perché in disparte

Lei ritenea celata alta vergogna,

Senza riposo, e tregua avanti al muro.

Combattean quelli, e ne godean le Parche.

Allor l’empia Discordia e questi, e quelli

Con alta voce avvalorò gridando:

Talché del sangue, che spargean gli uccisi,

Vermiglia era la polve, e nel tumulto

Al suol cadendo or questo or quel moria.

Euclero uccise allor d’Ippaso auriga

Deifobo, il qual giù dall’alto carro

Precipitò fra’ morti, e grave doglia

Il suo signore assalse, il qual temea,

Che bisognando a lui le briglie alquanto

Regger così impedito, il forte figlio

Di Priamo ucciso lui non avess’anco.

Ma non fu negligente al suo soccorso

Melanzio,il qual balzò presto d’un salto

Sul cocchio, e scosse ai corridor le briglie,

Gli animò con la voce, e gli spingea

L’asta in ferirgli: ei non avea flagello.

Questi lasciò di Prianio il figlio, e giunto

Fra le turbe improvviso, a molti addusse

Il dì funesto; che a feral procella

Simile ei muove, e con perpetuo ardire

Fra i nemici imperversa: un’infinita

Turba cadea sotto il suo ferro, e il campo

Era alle stragi angusto. E qual dai monti

Di balza in balza rapido discende

Il fenditor di querce, e al suolo atterra

Le giovinette piante, onde l’appresa

Fiamma in carbon le muti, allorché ascose

Le abbia la terra: or quà or là cadute

Coprono i gioghi intanto, e l’util opra

Allo stanco villan porge diletto:

Così l’uno sull’altro i vinti Achivi

Per lui che al ferro ebbe le man sì pronte,

Cadeano a torme, e chi resiste ai Frigj,

Chi all’ampio Xanto corre, e dentro l’onda

Colla strage Deifobo gli unisce,

E mai non cessa. Come presso all’acque

Del pescoso Ellesponto esercitati

Dall’assidua fatica un’ampia rete

Traggono i pescatori al curvo lido,

E la preda nel mare ancor nascosa

Il più giovine assale, e tal con l’asta

Percote i feri abitator dell’onde,

Cui dà la spada il nome, e ogni altro pesce

Che si faccia dinanzi al suo furore,

Che tutto intorno il mar spuma, e rosseggia;

Così quel Frigio eroe sanguigno il Xanto

Fa con la strage, che gli tarda i flutti.

Ma non meno affatica i suoi Trojani

La sanguinosa pugna: il violento

Figlio d’Achille in altra parte uccide

Falangi intiere, A rimirar da lungi

Stava Teti il nipote, e al cor scendea

Un gaudio eguale a quei materni affanni,

Che pel figlio sentì. L’asta di Pirro

Doma genti infinite, e nella polve

Va col cavallo il cavalier; lo segue,

E ne fa strage del Pelide il figlio.

Ivi Anide atterrò nella confusa

Mischia, che del destrier premendo il tergo

Gli si fe incontro a caso, e non godeo

Lungo tempo il meschin della dolce arte

Del maneggiar corsier; perocché lui

Sotto il ventre ferì con la lucente

Asta, e giunse alla spina il ferro acuto:

Onde uscir gl’intestini, ed ei cadendo

Del veloce destrier repente a’ piedi

Rapito fu dalla severa Parca.

Ad Ascanio, e anco ad Enope diè morte

Trafitto l’un con l’asta, ove la bocca

Dello stomaco s’apre, e l’altro sotto

La gola, onde più lieve ha morte il varco.

Quanti giunger poteo, tanti n’uccise

Feroce. Or qual saria, che dire appieno

Potesse quanti fur quei, che moriro

Per man di Neottolemo? e pure egli

Non avea per fatica i membri lassi.

Come s’un villanel ne’ verdi campi

Con la robusta mano un giorno integro

Scotendo a terra con la verga il frutto

Copioso degli ulivi, il suoi ne copre;

Tal dalla destra di costui cadea

Copia di morti, e ricopria la terra.

Tidide d’altra parte, e il valoroso

Agamennone seco, e gli altri duci

Argivi di buon cor nell’aspra zuffa

Opravan l’arme; né però timore

Ne’ Teucri capitan quinci cadea,

Ma con pronto valor pugnando essi anco

I soldati impedian dall’arretrarsi.

Sebben molti di lor nulla curando

I duci per timor del furor Greco,

Prendendo gían dalla battaglia fuga.

Tardi s’accorse alfin d’Achille il forte

Figlio, che l’un sull’altro eran gli Argivi

Dello Scamandro in sulle rive uccisi.

Onde lasciò quei di ferir, che sparsi

Inverso la città prendean la fuga,

Ed ad Automedonte impose, ch’egli

Colà drizzasse il carro ove più folte

Uccider si vedean le Greche schiere.

Egli tosto obbedillo, e con la sferza

I corsieri immortai nella gran calca

Spinse, ed essi leggier volando sopra

I morti, il lor signor traean possente.

Qual su i cavalli asceso in guerra appare

Marte omicida, cui movendo trema

La terra, e suonan lui d’intorno al petto

L’arme divine a fiamma egual lucenti;

Tal del robusto Achille il figlio incontro

Il buon guerrier Deifobo movea,

Salendo intanto molta polve in alto

Infra piè de’ cavalli. Indi mirando

Lui nel conflitto Automedon gagliardo,

Tosto avvisò, chi egli era, e in questa guisa

Il famoso baron mostrando a dito

Rivolto al rege suo parlò dicendo:

Signore, è di Deifobo la gente,

Che miri, e quegli esso è, che già solea

Del suo padre tremare, ed ora ardire

La sorte, od alcun Dio gli ha posto in core.

Sì disse, ed egli a lui nulla rispose,

Ma comandogli, che affrettasse al corso

Maggiormente i cavalli, affinché tosto

Egli potesse dagli afflitti Greci

Mandar lontano il miserabil fato.

Quinci poiché vicin già furo insieme,

Deifobo, sebben tutto era intento

Alla battaglia, pur fermossi alquanto;

Siccome suol vorace fiamma, allora

Che già tocca è dall’onda, ed ammirossi,

Quando del forte Achille il corsier vide,

E il figlio riguardevole, non meno

Grande che ‘l padre; onde pensieri incerti

Volgea nel petto or di gettarsi in fuga,

Or d’aspettar di quel guerrier l’assalto.

Come il cinghial ne’ monti, il qual da’ figli

I cervieri ha scacciato, e d’altra parte

Mira il leon, che verso lui sen viene,

Nell’impeto è dubbioso, e non bene anco

Risolve s’egli assalti, oppure addietro

Si tiri, e intanto sotto le mascelle

Spumose arruota le tremende zanne,

Tal di Priamo il figliuol saldo col carro

Fermossi, e co’ destrieri, e in se dubbioso

La lancia con le man venìa trattando.

Allora in questa guisa a lui del crudo

Achille il figlio disse: A che sì fiero,

Figlio di Priamo, nella debil plebe

Incrudelisci, che al tuo grido solo

Si sparge in fuga? tu pensavi forse

D’esser grand’uom di lor facendo strazio?

Ma se tu pur valor nel petto chiudi,

Fa’ dell’impeto mio prova in battaglia.

Detto così, sul carro, e su i cavalli

Del padre fermo, di leone in guisa

Contro il cervo avventossi, ed avria lui

Insieme con l’auriga in un baleno

Con la lancia trafitto, se d’oscura

Nube dal ciel non lo copria repente

Apollo, il qual dal periglioso assalto

Rapillo, e lui nella città ripose,

Ov’eran gli altri fuggitivi Teucri.

Quindi con l’asta percuotendo a vuoto

L’aere, così parlò d’Achille il figlio:

Ah can, dal mio furor campato sei,

Né, perché ciò bramasti, avuto ardire

Hai di star meco a fronte: hammi coperto

Gli occhi alcun degli Dei, spargendo notte

Sopra me fosca, e ha te involato a morte,

...........................................................

Quando poscia la nube Apollo sparse,

E fu disciolta nell’aperto cielo

Il piano apparve, e la vicina terra

D’intorno tutta. Ond’ei vide i Trojani

Presso alle porte Scee già da se lunge

Fatti esser molto, onde simile al padre

Incontro a lor si spinse, ed essi fuga

Da lui preser temendo il suo appressarsi:

Siccome i marinar l’onda crudele

Temon commossa, mentre altera, e vasta

La sospingono i venti, allor che il mare

Fra le procelle furiando ferve:

Tal nel farsi vicin, misera tema

I Teucri assalse, ed egli i suoi compagni

Avvalorando in questa guisa disse:

Udite, amici, e dentro il petto ardire

Chiudete invitto, e tal, qual si conviene

A guerrier valorosi, e che desio

Han d’acquistar con la robusta mano

Dall’aspra guerra in un vittoria, e laude.

Siam coraggiosi, e più di quel che possa

Anco la nostra forza, or qui facciamo,

Fintantoché da noi questa famosa

Città sia desolata, e il desir nostro

Conseguire abbia il fin; perché vergogna

È, che da noi sì lungo tempo senza

Far nulla qui si stia timidi in guisa

Di femminette, ed io prima vorrei

Di vita uscir, ch’esser nomato imbelle.

Così diss’egli; onde più pronti all’opre

Quei si mosser di Marte, e si gittaro

Sovra i Trojan correndo, i quai non meno

Arditi combattean talor d’intorno

E fuor della cittate, or dalle mura.

Né cessava frattanto il crudo Marte,

Mentre che i Teucri il grave stuolo avverso

Volean cacciar lontano, e i forti Greci

Distrugger la cittade, e questi e quelli

Mortale intanto travagliava affanno.

Cupido allor di dar soccorso a’ Teucri

Cinto di nubi giù dal ciel discese

Il figlio di Latona, e lui d’aurate

Arme coperto i turbini veloci

Ratto per l’aere adduceano, e i lunghi

Sentier per cui movea scendendo a terra

Vedeansi fiammeggiar chiari, qual lampo;

Rumor feo la faretra; il cielo immenso

E la terra sonaro, allor che pose

Del Xanto il forte piè sopra le rive.

Quinci gridò tremendo, e ne’ Trojani

Ardire infuse, e negli Argivi tema

Di più durar nel sanguinoso assalto.

Non fu questo celato al poderoso

Scotitor della terra, il qual valore

Ispirò negli Achei già rotti, e stanchi.

Onde per lo voler d’ambo gli Dei

Cruda destossi, e disperata guerra,

Ove di combattenti e quinci e quindi

Un infinito numero perìa.

E già contro gli Achivi acceso d’ira

S’accingea Febo a saettar l’audace

Figlio di Achille là, ‘ve dianzi Achille

Medesmo avea percosso, e benché a lui

Avesser già, perché lasciasse l’ira,

Gli augei garrito alla sinistra mano,

E fosser lui molti altri segni apparsi.

Non lasciava però l’ira concetta

Che credesse a’ prodigj, e se ne avvide

Rinchiuso in densa nube il Dio Nettuno

Ceruleo il crine, al moto del cui piede

Tremando si scotea la negra terra,

E disse a, lui così per distornarlo

Dall’impresso pensiero: Eh figlio, cessa,

Né voler tu d’Achille il gran figliuolo

Ancider, priego, che né Giove stesso

Celeste, morto lui, sarebbe allegro,

Ed anco a me grave cagion di doglia

Fora, ed a quanti Numi alberga l’onda,

Come fu dianzi nel morir d’Achille.

Né m’incitare ad ira; che se il fai

Dell’ampia terra il baratro rompendo

Manderò sotto alla profonda notte

Ilio con le sue mura in un momento,

E ciò fia gran dolore a te medesmo.

Tacquesi, ed ei da riverenza mosso

Del gran fratel del padre, e parte avendo

Timor, che alla cittade, ed alle genti

Quinci non accadesse alta ruina,

Ridrossi repente al largo cielo,

Nettuno al mar tornossi. E combattendo

Le genti intanto si struggean fra loro,

E la Discordia del pugnar godea:

Finché all’impero di Calcante i Greci

Tornaro a’ legni, ed obliar la guerra.

Perocché era fatal, che non potesse

Espugnarsi Ilion, priachè nel campo

Compagno non venisse agli altri Achei

Dell’aspre guerre Filottete mastro.

E questo, od osservò co’ sacri augurj,

Od imparò le viscere mirando;

Perché d’indovinar non era indotto,

E il tutto quasi come un Dio sapea.

Credendo dunque a lui lasciar gli Atridi

La sospirosa zuffa, e mandar tosto

A Lenno d’edificii isola illustre

Di Tideo il prode figlio, e il forte Ulisse

Entro veloce nave, ed essi in breve

Giunser varcando il largo flutto Egéo

A Lenno di Vulcan cittade, e ricca;

Di viti, in cui già grave avean le donne

Portato morte a’ giovanetti sposi

Orribilmente irate, perché quelli,

Negletto loro, avean mischiato i sonni

Con le Tracie cattive, ond’essi acquisto

Col valore avean fatto, e con la lancia

Espugnando guerrieri il Tracio suolo.

Queste da gelosia, che il core assalse,

Tumide i feri spirti, entro l’amate

Stanze, di propria man fere, e spietate

I mariti ammazzar, benché sposi anco.

Perocché delle mogli, e de’ mariti

Allor s’odiano i cor, che loro apprende

Di gelosia l’infermità, sì forte

Loro agita il dolor, che quinci nasce.

Fabricar dunque in una sola notte

Queste a’ mariti lor grave ruina,

Ed intrepide il cor, l’animo forti,

Tutta in un punto la cittade orbaro.

Or poiché giunti alla sacrata Lenno

Furono questi, ed al sassoso speco,

Ove il figlio giacea del gran Peante,

S’empier di maraviglia, allor che il guardo

A lui drizzar, che per la doglia acerba

Sovra il ruvido suol giacea gemendo;

Avea di sotto a se di letto invece

Molte piume d’augelli, ed altre schermo

Al corpo avea contro il furor del gelo.

Perocché allor che la noiosa fame

Lo spingea, saettando, ove il pensiero

A lui dicea, l’inevitabil dardo,

I volanti uccidea, quinci di loro

Parte cibo prendea, parte ponendo

Sull’aspra piaga le facea rimedio

Contro la grave, e tenebrosa doglia.

Squallide intorno al capo avea le chiome,

Come la crudel fera, a cui dannoso,

In vagando notturna, abbia del laccio

Preso l’ascoso inganno il presto piede,

Ed essa per scampar, dura seguendo

Necessitade, a se con gli aspri denti

Del piede tronchi il sommo, indi fuggendo

Nell’antro suo ricovri, ed ivi giaccia

Dalle cure trafitta, e dalla fame;

Così vinto dal duol sedea costui

Nell’ampio sen della caverna, il corpo

Miseramente magro, intorno all’ossa

La pelle avendo solo, eran le guance

Di lui d’atro pallor cosperse, e brutte;

E per il grave duol, che l’affliggea,

Profondi avea sotto le ciglia, e cupi

Gli occhi, e gli sguardi, né giammai da lui

Il pianto si partía, perché la tetra

Piaga giunt’era all’ossa, e tutta al sommo

Corrotta, il trafiggea con doglia acerba.

Come talor nell’ondeggiante mare

Di qualche alpestre scoglio orrida pietra

Dal salso vien dell’infinito flutto,

Benché ella dura sia tenace, e salda,

Domata, e rosa, ed a’ perpetui colpi

E de’ venti e dell’onde tempestose

Cavansi dentro a lei fori, e caverne;

Tale a costui sotto il corrotto piede

Per l’orrido velen crescea la piaga,

Che vipera crudel versò col dente,

Che uom dice immedicabile, ed acerbo

Esser più allor, che per la calda terra

Strisciando, secca lei del Sol la forza.

Quindi affliggea senza rimedio alcuno

Con acuto dolor l’eroe possente;

E dalla piaga ognora al suol cadea

Putrido sangue, onde cosperso, e lordo

Sempre apparea del grande speco il piano;

Talch’esser ciò potea gran meraviglia

Anco a’ mortai delle future etadi.

Non molto lunge al letto suo giacea

L’ampia faretra di saette piena,

Di cui parte servir soleano al fine

Del saettar gli augelli, e parte all’uso

Del ferir gl’inimici, e queste intorno

Tingea l’aspro velen dell’idra infausta,

Incontro a lui, ma pur lontano alquanto

Il grand’arco giacea di curve corna

Armato, cui le mani avean gagliarde

Composto già del valoroso Alcide.

Quand’egli vidde entrar nell’ampio speco

L’uno, e l’altro di lor, mosse di grave

Disdegno acceso, e saettar gli volle

Con le mortal quadrella, ancor membrando,

Ch’essi fur quei, che sospirando lui

Sulla spiaggia del mar lasciar soletto

In luogo in tutto abbandonato, ed ermo.

E ben fatto egli avría quel che l’audace

Animo gli dicea, se l’ira acerba,

In contemplando i suoi compagni eguali,

Dal petto suo non dispergea Minerva.

Fecersi dunque appresso, e dieder segui

Di mestizia nel volto; e quinci, e quindi

Assisi a lui vicin l’interrogaro

Dell’acerbe sue doglie, ed esso a loro

Le venìa raccontando, e quelli intanto

Donavan lui conforto, e fean coraggio,

E promettean di risanar la cruda

Piaga, e sopir l’acerbo affanno, e il duolo,

S’egli sen gía con lor nel campo Greco,

Ch’essi dicean presso alle navi afflitto

Star gravemente con gli Atridi stessi;

E che del male ond’egli avea tormento

Incolpar non devea de’ Greci alcuno,

Ma le infelici Parche, a cui lontano

Uom non v’ha, che si muova in sulla terra,

Anzi elle non vedute or quinci or quindi

Giransi intorno a’ miseri mortali

Eternamente. Esse con voglia fera

Portano or danno, or giovamento altrui,

Perocché in lor voler riposto è in tutto

Il fabricar altrui sospiri, e gioje.

A questo ragionar d’Ulisse ed anco

Del divo Diomede, in lui placossi

Facilmente lo sdegno, e cessò l’ira,

Che per le cose già da lui sofferte

Erasi in lui terribilmente accesa.

Ed essi colmi di letizia tosto

Alla nave il guidaro, ed alla spiaggia

Rotta dall’onde strepitose, e seco

Portar le sue quadrella. Indi le membra

Intorno gli fregaro, e con forata

Spugna nettar l’immansueta piaga,

Lavar lei poscia con molt’acqua, ed egli

Respirò alquanto, ed essi diligenti

A lui, che desioso era di cibo,

Apprestaro la mensa, e in un con lui

Cenaro entro la nave, e sovraggiunse

La diva Notte, e loro il sonno assalse.

Si fermaro approdati essi alla spiaggia

Di Lenno dal mar cinta, infinché apparve

L’Aurora; di cui tosto a’ primi raggi

Salparo i curvi ferri, e diligenti

S’allargaron dal lido. E intanto Palla

Vento mandò, che la rostrata nave

Da poppa spinse, prospero, e secondo.

Or con orza, or con poggia essi le vele

Spiegando, il legno di bei seggj adorno

Drizzaro al corso, ed esso mormorando

Solcava il largo flutto; intorno a lui

Gemean l’onde frangendo oscure in vista,

E candide bollian l’umide spume.

Ivan d’intorno a lui nuotando a schiera

E fendeano i delfin l’onde canute.

Giunsero poi dell’Ellesponto al lido,

Che di pesci è copioso, e con la prora

Là si fermar dov’eran l’altre navi.

S’allegraron gli Achei, quando miraro

Color nel campo, ond’essi avean desio,

Ed essi con piacer fuor della nave

Usciro; e di Peante il figlio ardito

Quinci, e quindi porgea le mani stanche

All’uno, e l’altro suo compagno, ed essi

Lui sostenean, che zoppicando appena

Potea fermar sopra la terra il piede,

Anzi tutto di se reggere il peso

D’ambo lasciava alle robuste mani.

Come ne’ boschi infin al mezzo inciso

Dal poter di colui, che i legni tronca,

Faggio, o succosa teda, appena in piede

Si regge, poiché sol tanto lasciogli

Quei che tagliò, quanto bastasse a starvi,

Perché da’ rami suoi stillasse a terra

Untuoso liquor per farne pece:

Onde addivien, che se gagliardo vento

L’aggrava, le sue cime al basso piega;

In guisa tal da intollerabil doglia

Oppresso, e giù cadente ivan portando

Quell’infermo campion gli arditi eroi

Nel bellicoso esercito de’ Greci.

Si mosser tutti a miserabil pieta,

Il buon saettator da sì crudele

Piaga mirando in cotal guisa afflitto.

Ma tosto rese lui sano, e gagliardo,

Al tumido velen tolta la forza,

Eguale in tutto a’ cittadin del cielo

Podalirio, ponendo in sulla piaga

Più d’un medicamento, il nome spesso

Del suo padre invocando. A cui seconde

Voci spargean gli Achei lodi porgendo

Tutti concordi d’Esculapio al figlio.

Il lavar poscia, e d’olio indi le membra

Gli unsero diligenti. Ed ecco il grave

Affanno, e il duol, così gli Dei volendo,

Svaniro, ed essi gran piacer fra loro

Sentian ciò contemplando. Ed egli alfine

Pur respirò dalla crudele angoscia;

Onde il pallore in lui rossor divenne,

E la molle stanchezza in salda forza

Cangiossi, e tulle invigorir le membra.

Siccome allor che di feraci spiche

Ricca langue la messe, a cui ruina

Inondando portò soverchia pioggia,

Se vien dall’aure ristorata, dolce

Ridente appar nel faticoso campo;

Cotal di Filottete il corpo tutto

Dianzi languente rifiorir si vide,

Ed egli quei pensier, che poco avanti

La mente gli affliggean, tutti rivolse

A confortar pascendo il ventre esausto.

Gli Atridi intanto in contemplar costui,

Che di nuovo venìa da morte a vita,

Stupian fra se dicendo esser tant’opra

Non d’umana virtù, ma di celeste.

E verace era in tutto il lor pensiero,

Perché grandezza, e venustade in lui

Minerva infuse, e lo mostrò qual, prima

Che tormentasse lui la fera piaga

Apparere ei solea fra gli altri Argivi.

Quinci guidaro i principi de’ Greci

D’Agamennone ricco entro le tende

Il figlio di Peante, e lui pregiando

Fecergli onor di sontuose cene.

Quando poi sazj fur di cibo, e d’esca,

Agamennone il forte a lui si disse:

Amico, poi che d’intelletto privi

(Così piacendo alla divina voglia,

Onde non è che incontro noi t’adiri)

Lasciammo te nella marina Lenno,

Per certo noi ciò non facemmo senza

Il voler degli Dei, com’io dicea,

Ma piacque agl’Immortal, per far che in noi

Si versasse gran mal da te lontani,

Da te, che esperto sei con le quadrella (freccia)

Morte dare a color, che pugna han teco.

Per voler delle Parche oscure vie

Son per la terra tutta, e per l’immenso

Pelago, che partite in mille guise

Son varie, sparse, e quà, e là converse;

Onde per lor, cosi piacendo al fato,

Alle foglie simil, che il vento aggira,

Muovon le genti, e spesso infausta via

L’uom prende buono, e il reo cammin felice.

Né queste schivar puote, od a sua voglia

Eleggere uom, che quaggiù vive in terra

Onde restavi sol, che il saggio, e il forte,

Cui per rea strada il turbine conduce,

Con intrepido cor vinca l’affanno.

Or poi che abbiam peccato, e in te gran fallo

Commesso, fia ragion, che il compensiamo

Con larghi premj, se una volta pure

Vincerem de’ Trojan la gran cittate.

Intanto d’arra (somma di denaro) invece eccoti in dono

Sette donne serventi, e in un con loro

Venti destrier vittoriosi in corso:

Questi dodici tripodi prendi anco,

Onde tu ricrear sempre potrai

L’animo dolcemente: a questo aggiungi,

Che ognor per l’avvenir nelle mie tende

Cenerai da me accolto ad uso regio.

Ciò detto, i ricchi, e preziosi doni

All’eroe diede, e in questa guisa a lui

Rispose allor del gran Peante il figlio:

Amico, non più teco oggi mi adiro,

Né con alcuno ancor degli altri Greci,

Bench’egli a me siasi mostrato avverso.

E ben so, che mutabile è la mente,

Dell’uom, ch’è buono, e che non lice altrui

Esser mai sempre disdegnoso, ed aspro,

Ma terribil talor, talor benigno.

Or giamne al letto, perché ad uom, che deve

Pugnar, meglio è dormir, che starsi a mensa.

Detto così, levossi, ed alle tende

Sen gìo de’ suoi compagni, ed essi tosto

Lieti, e festosi, al bellicoso rege

Apparecchiaro il letto, ov’ei si giacque

Soavemente, infinché il giorno apparve.

Fuggìa la diva Notte, e fea vermiglie

Del Sol la luce l’elevate cime

De’ monti, e s’accingean gli uomini all’opre;

Quando gli Argivi della fera pugna

Bramosi, altri le lance, altri gli strali,

Altri aguzzavan dardi; e in su l’aurora

A se pararo, ed a’ corsieri il pasto,

Poscia tutti cibarsi. Or fra costoro

Del perfetto Peante il prode figlio

Così parlò per eccitargli all’arme:

Or tutto il pensier nostro alla battaglia

Volgiam, né sia di noi ch’inver le navi

Ritorni, pria che desolata abbiamo

Di Troja torreggiata i muri illustri,

E le contrade sue date alle fiamme.

Così diss’egli, e il suo parlare allegri

Gli rese, ed animosi, e vestir l’arme,

E gli scudi imbracciaro, e tutti insieme

Fuor delle navi uscir, de’ loro arnesi

Coverti, come sono elmi comati,

E da pelli di buoi difese targhe.

Spingevansi l’un l’altro in file accolti

Marciando, ed eran sì calcati, e spessi,

E sì congiunti, che né breve spazio

Di vuoto pur si discernea fra loro.