I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO QUINTO

Poiché finiti i molti giuochi furo,

Del magnanimo Achille in mezzo pose

La Diva Teti l’armi. I raggi intorno

Spargean le varie cose, onde lo scudo

Adorno reso avea d’Achille audace

La forza di Vulcano. Avea dunque egli

Col divino poter, con l’arte industre

Queste cose in lui chiuso. Eravi il cielo,

Eravi l’aere, in un la terra, e il mare

Eranvi, e nubi, e venti, e luna, e Sole

Distintamente sparsi, e tutti i segni,

Che volubili intorno aggira il cielo.

Sotto i quali aere immenso era diffuso,

In cui volar rostrati augei vedeansi

Simili al ver così che detto avresti

Lor vivi ir per lo ciel co’ venti a volo;

Teti cingealo intorno al vasto flutto

Dell’Oceano, onde sgorgavan fuori

In molta copia i perigliosi fiumi,

Che con girevol moto or quinci, or quindi

S’avvolgean per la terra. Altrove il fabro

Fatto su gli alti monti avea leoni

Orrendi, ardite linci, ed orsi fieri,

Pardi, e insieme cignai, che impetuosi

Con grave suon parean fra le tremende

Mascelle gir le strepitose, e crude

Zanne arrotando; e cacciator che dietro

Istigavano a lor de’ can la forza.

Altri in lor sassi, altri veloci dardi

Lanciando contro lor, prendean fatica,

Qual nelle vere caccie uom prender suole:

Le micidiali guerre ivi eran anco,

E con le guerre i perigliosi assalti,

Ove uccider vedeansi i guerrier misti

Co’ cavalli in un monte, e tutto il campo

Nello scudo immortal sembrava asperso

Di molto sangue: ivi l’orror, la tema

Eranvi, e in un la sospirosa Enio

Di tetro sangue in ogni parte immonda.

Eravi la Discordia anco nuocente

In compagnia delle feroci Erinni:

Colei spingendo gli uomini a cacciarsi

In furibonde mischie: e costor fiamme

Spirando, e fuoco orribile, e nuocente.

Ivi scorrean le immansuete Parche,

Ed errava fra lor dell’infelice

Morte la forza, a cui dintorno cerchio

Facean le Dive, e piovea lor da tutte

Le membra largo al suol, sudore, e sangue.

Le dispettose Gorgoni scolpite

V’erano: intorno alle lor treccie involti

Orribili serpenti, i quai lambendo

Ratte movean le spaventose lingue.

Di strana maraviglia eran cagione

Quell’opre varie, ed apportavan seco

A chi le contemplava orrore e tema.

Perocch’ivi tutto a quelle eran simili,

Che han vita, e moto, e così tutte quivi

Della guerra le forme il fabro espresse.

L’opre in disparte della bella pace.

Vedeansi ivi anco, ove infinite schiere

Di faticosi e miseri mortali

Vaghe città gìan fabbricando, e sempre

Ivi Giustizia in lor gli occhi tenea.

Altri ad altre opre distendean la mano.

I campi ivi apparean di frutti carchi,

E l’erbe partoria la negra terra.

Era nell’opra ancor, del Dio fattura,

Della sacra virtute espresso il monte

Altissimo ed alpestre; ed ella eccelsa

Stavasi in cima a un’elevata palma,

Giungendo infino al cielo: intorno sparsi

V’eran vari sentier da scogli chiusi,

Che fan duro il passaggio, onde all’indietro

Tornavan molli sbigottiti all’erta

Del cammin faticoso, e pochi al sommo

Del sacrato sentier giungean sudando.

Eranvi i mietitor, che con l’acuta

Falce troncando gìan per gli ampi solchi

Le biade, e presso a lor molti, che i fasci

Della recisa messe ivan legando,

Talché grand’opra ad ora, ad or crescea.

Erano buoi, che la cervice ognora

Gravata aveano di ferrato giogo,

Altri carri traean di fasci carchi

Di belle spighe, altri col ferro i campi

Fendeano, e dietro a lor parea la terra

Divenir fosca. A’ buoi seguian da tergo

Di punte armati gli aratori or l’una

Or l’altra mano: e grande apparia l’opra.

Alle Muse d’intorno ivi eran anco

E flauti, e cetre, ed alle donne appresso

Danzar vedeansi i giovanetti, e vive

Sembravano, e operanti all’alto, al moto:

Non lungi al ballo, ed al convito allegro,

Uscir parea dal mar Venere bella,

Spumosa ancor la chioma, e con le Grazie

Ornate il vago crin, dintorno a lei

Muover l’ale il Desìo dolce ridendo.

Eran ivi scolpite anco le figlie

Del superbo Nereo, che dall’aperto

Mare alle nozze di Peleo prudente

Conducean la sorella, e v’eran tutti

A mensa i Divi in cima a Pelio eccelso.

Freschi, e floridi prati il fabro espressi

Avea, di mille fior d’erbe cospersi:

Finti avea verdi boschi, e varie fonti,

Che onde in sen richiudean tranquille, e chiare,

E là fendere il mar parean le navi

Misere, altre di lor movendo oblique,

Altre per dritto calle, e l’onda intorno

Crescer lor perigliosa, e i marinari

E quinci, e quindi sbigottiti, l’onde

Paventar furiose, e come vivi

Calar le bianche vele, e da’ perigli

Fuggir di morte. Altri sedeano a’ remi

Affaticando, ed alla nave intorno,

Per lo spesso colpir, candido in vista

Del mar ne di venia l’oscuro flutto.

A questo effigiato era non lunge

Con le foche marine il Dio, che scuote

Col tridente la terra, e i suoi cavalli,

Qual se veracemente avesser moto

Rapidissimi, lui per le campagne

Traean dal mar, volando, ed egli intanto 

Lor percuotea con l’aurea verga il dorso;

Tranquillavansi l’onde al moto loro,

Ed ispianava il mar soave calma:

D’ogni intorno i delfin raccolti in schiere

Facean mirabil festa, ed ischerzando

Al lor rege applaudiano; eran d’argento

Questi, ed agli occhi altrui nuotar pareano

Colà del mar per lo ceruleo flutto.

Molte altre cose entro il mirabil giro

Figurate apparian dall’immortale

Man di Vulcan ne’ sui pensieri industre.

Ed a quanto chiudea dentro al suo mezzo

Il profondo Ocean facea corona,

Perocché circondava il giro estremo,

Ed in se raccogliea quasi legame

Quanto in se varie cose avea lo scudo.

Giaceagli appresso il poderoso, e grave

Elmo, sovra cui finse il fabro egregio

In vista Giove orribilmente irato

Al cielo asceso, e intorno a lui diffusi

Maneggiar l’arme gl’Immortali incontro

A’ guerrieri Titan, che furiosi

Moveano insieme uniti a Giove assalto.

Già circondava lor terribil fuoco,

E dal Ciel senza posa, e dalle nubi

(Cotal di Giove ognor crescea la forza)

Piovean folgori ardenti a mille a mille,

Ond’ essi apparian là quasi combusti

Fra le fiamme del ciel volar lo spirto.

Appoggiato ivi appresso il ricco usbergo

Giacea, che grave, e d’infrangibil tempra

Il figlio di Peleo capìa nel voto.

Ivi eran gli schinieri opra stupenda

Lievi ad Achille sol, benché di peso

Fossero in se soverchio. A lato a questi

Lampeggiando splendea la fiera spada

Ad aureo cinto appesa, e il fodro avea

Di finissimo argento, e l’elsa ornata,

E d’avorio distinta, onde fra l’arme

Divine fea di se pomposa mostra.

Pelia, con queste, poderosa lancia

Stesa in terra giacea simile in vista

Ad altissimo abete, e spirav’anco

Il sangue, onde irrigolla Ettorre anciso.

Allor dolente la cerulea Teti

Del figlio Achille in guisa tal movendo

Il divino parlar disse agli Argivi:

Ecco finiti omai tutti gli giuochi

Son, ch’io per mio figliuol mesta proposi.

Facciasi avanti or quei fra’ Greci eroi

Gagliardo più, che, alle nemiche mani

Il cadavere suo salvando, fosse;

E darò a lui vestir queste divine

Mirabili armi, che, agli stessi Divi

Potrebbono immortali anch’esser care.

Sì disse, e di Laerte in pie levossi

Il figlio, e quel di Telamon divino

Aiace, per aver parlando guerra,

Aiace, che vincea senza pareggio

Tutti gli Argivi, come suol l’ardente

Espero là per lo sereno cielo

Superar di splendor le chiare stelle:

Tal fra’ Greci splendea, mentre vicino

Stava d’Achille alle belle armi Ajace,

L’istesso Idomeneo di Neleo figlio

Ricercava egli a dirne aperto il vero,

E il prudente Agamennone, stimando

Che fosser lor senz’alcun dubbio conte

Di quella pugna sì famosa l’opre.

Rimetteasi anco in tutto a loro Ulisse,

Perchè erano fra’ Greci, e buoni, e saggi.

Inverso Idomeneo voltossi, e verso

Il Divo Atride allor Nestore, e loro,

Che di udire i suoi detti ardean di voglia,

Tratti in disparte, Ìa questa guisa disse:

Amici. oh! grave danno, e doloroso

In questo giorno a noi prepara il cielo,

Poscia che il grande Ajace,e il saggio Ulisse

Vengono a guerra impetuosa, e fiera,

Perchè a quale di lor sia che gli Dei

Concedan oggi il riportar la gloria,

Goderà quegli, e l’altro avrà gran doglia,

Cagion che tutti egli odierà gli Argivi,

E viepiù noi; nè sia che con noi serbi

Nella battaglia il solito costume,

E quinci grave danno avran gli Achei,

Qualsiasi che di lor grand’ira assaglia,

Poiché fra gli altri Eroi questi son prima,

In guerra chiaro l’un, l’altro in consiglio.

Dunque credete a me, poiché più vecchio

Sono di voi non poco, e per la molta

Età molto conosco, poiché varj

E beni, e mali in vita haggio sofferto.

Sempre suoi ne’ consigli il vecchio esperto

Esser miglior del giovane, poich’egli

Di mille, e mille cose have contezza.

Però lasciam che da’ Trojan prudenti

Infra il divino Ajace, e il forte Ulisse

Questa tenzon si termini, qual fosse

Che salvasse di lor dall’aspra guerra

Del figlio di Peleo l’estinte membra:

Nè ciò difficil sia, poiché fra noi

Molti abbiam Teucri prigionier, che nostri

La lancia fece, e la necessitate,

Che i giovani anco in servitute adduce;

Questi saran fra lor giudici giusti,

E non andran con alcun d’essi a grado,

Poiché tutti gli Achivi hanno egualmente

In odio, il mal sofferto ognor mostrando.

Poi ch’ebbe così detto, a lui rispose

Agamennone il frate in guisa tale:

O vecchio, alcun non v’ ha certo fra noi

Greco di te più saggio, o siasi antico,

O giovane ancor d’anni, e ben dicesti,

Che grandemente ascenderebbe in ira

Quell’uom contro gli Argivi, a cui gli Dei

Togliesser la vittoria, poiché lite

I due più forti Greci hanno tra loro.

Anzi l’animo mio fra se volgeva

Quel che pensavi tu, che noi lasciammo

A’ cattivi Trojan di questa gara

Dar la censura, onde allor fatto in ira

Quei che sia perditor, gran danno apporti

A’ bellicosi Teucri, e contro noi

Il concetto disdegno indi non dia.

Ciò disse, e quelli in un voler concordi

Apertamente il sentenziar negaro:

Onde lor ricusando, i figli illustri

De’ Teucri in mezzo assisi ancorché servi,

Di ministrar ragione, e retto alfine

Condur fra quelli il militar contrasto

Di comune consenso ebber l’incarco.

Gravemente adirato allor sedendo

Nel mezzo Ajace in questa guisa disse:

O d’animo perverso Ulisse, or quale

Dio t’ ha la mente in guisa tale offeso,

Che a me di forze, e di valore invitto

Pensi agguagliarti? e come vantar puoi

Tu l’inimico stuolo aver dal corpo

Discacciato d’Achille, il qual giacea

Ucciso nella polve, allor che i Teucri

Gli si gittaro intorno, ed io la morte

Portai lor dolorosa, e tu tremavi?

Tremavi tu, poiché sì vil tu sei,

Ed imbelle tua madre, e di me tanto

Minor, quant’ è del fier leon, che rugge

Ignobil can, perchè non hai nel petto

Guerriero il cor; ma folle audacia, ed opre

Scellerate, e nefande. Or non ti mostra,

Che ricusavi tu venire in guerra

A Troja sacra, allor ch’erano insieme

Le Greche squadre accolte, onde te vinto

Dalla paura, e renitente a forza

Condussero gli Atridi? Ah! così mai

Venuto non vi fossi, poiché a’ tuoi

Consigli di Peante il figlio illustre

Lasciammo noi nella sacrata Lenno

Gravemente doglioso, e non a lui

Sol macchinasti allor dannoso inganno,

Ma fosti al Divo Palamede ancora

Fabro tu di ruina, il qual di molto

Vincea te nella forza, e nel consiglio.

Ed or tu di venirmi ardisci a fronte

Nulla membrando i beneficj, e nulla

Curando chi di te molto è migliore.

Io te salvai nella battaglia mentre

Degli avversarj il guerreggiar temevi:

Quando lasciar te nella zuffa solo

In fra’ nemici gli altri, e tu con loro

Fuggivi insieme, ah! se l’ardita forza

Mia Giove spaventato in quell’assalto

In fin dal Cielo avesse, affin che i Teucri

Smembrando te con le taglienti spade,

T’avesser de’ lor can fatto esser cibo,

Che così ardir tu non avresti avuto

Nelle fraudi fidalo a me di opporti.

Misero! e se ti vanti esser di tutti

Gli altri il più forte, a che le navi tue

Nel mezzo all’altre collocasti? certo

L’animo non ti diè, da tema vinto,

Le tue, come fec’io, porre in disparte.

Non fosti tu che la vorace fiamma

Da’ legni rispingesti? io sì che l’alma

Intrepido alla fiamma in un mi opposi,

Ed ad Ettorre, il qual sempre fuggimmi

In tutte le battaglie, e tu di lui

Sempre temesti. Oh! stato fosse a noi

Nel menar delle man proposto il premio,

Quando ad Achille al suol caduto intorno

Inaspriva la pugna, affinché visto

Dal fierissimo assalto, e da’ nemici

Portar mi avessi al padiglion le belle

Arme col corpo in un del prode Achille.

Or nell’arte del dir fidato ardisci

Tentar gran cose, ed aspirar tropp’alto.

E pur forse non sai dell’arme invitte

D’Achille il peso sostenere, e l’asta

Di lui vibrare. A me s’adattan tutte,

A me portar convien quest’armi belle,

Poiché degno di lor non fia che oltraggio

Alcun del Dio ne segua al dono illustre.

Ma che stiam pur con le parole acerbe

Per l’arme a contrastar del buon Achille,

O qualsiasi di noi migliore in guerra?

Di valor premj pose, e non di feri

Detti l’arme guerriere in mezzo Teti.

Lasciarsi le parole a quei conviene,

Cui negli arringhi il ragionar fa d’uopo.

Ben conosch’io quanto di te più chiaro

E migliore io mi sia, poiché mia stirpe

Dal sangue vien del valoroso Achille.

Così diss’egli, e d’altra parte astuto

Pensier fra se volgendo, in guisa tale

Il figlio di Laerte a lui rispose:

Ajace, che in parlar null’hai ritegno,

A che fin tante cose invan mi conti?

Da nulla mi dicesti, imbelle, ed empio,

E pur di te molto miglior mi stimo

Ne’ consigli, e nel dir, che altrui dan forza; 

Solo in virtù di loro ingegno ponno

L’infrangibili pietre a’ monti in seno

Recider gli scultor senza fatica.

Con l’ingegno i nocchier quand’è più irato

Varcando vanno il mar largo, e sonante.

Con l’arte i cacciator vincono forti

Leon, pardi, cignali, ed altre fere.

Il consiglio dell’uom gl’impetuosi

Tauri domando sotto il giogo adduce;

Nè cosa v’ha, che il senno al fin non rechi:

Sempre dunque nell’opre uom di consiglio

Pronto, prevale a chi di mente è folle.

Nè per altra cagion, che perchè saggio

Mi vide elesse me l’ardito germe

D’Eneo fra tutti gli altri, affinché seco

Le guardie penetrassi, onde compagni

Ambo grand’opra conducemmo al fine.

Io fui che di Peleo l’inclito e forte

Figlio condussi meco a dare aita

Ad ambedue gli Atridi. Or se mestieri

D’un altro eroe simile avran gli Argivi,

Per forza non verrà della tua mano,

Nè per consiglio d’alcun altro Greco:

Ma sol io fra gli Argivi disponendo

Lui col mio dolce dir, conducerollo

Qua fra’ soldati in guerra; perchè grande

Giunge agli uomini forza il dir facondo

Di prudente condito: il poter solo

Per se null’opra adempie, e il corpo vasto

È vano, ove il pensier non è prudente.

A me la forza, e l’intelletto insieme

Commesso han gl’immortali, e gran soccorso

Fatto de’ Greci, e quel che tu poc’anzi

Dicevi, non è ver, che nel conflitto

Me tu salvasti, e timido, e fugace

Non rivolsi io le spalle, anzi sostenni

Il grave impeto sol di tutti i Teucri

Senza ceder d’un punto: ed essi sparsi

Portati dal furor faceanmi assalto:

Io con la forza sol della mia mano

Molti privai di vita. Onde son false

Le parole che dici, e non è vero

Che a me tu desti nella zuffa vita,

Ma te medesmo difendevi, e cura

Avevi che, mentre volgevi il tergo

Fuggendo alla battaglia, alcun con l’asta

Non t’uccidesse. Io poi dell’altre in mezzo

Le mie navi locai, non già temendo

Il nemico furor, ma perchè quinci

Meglio potessi a’ successor d’Atreo

Nell’occorrenze della guerra pronto

Sempre portare aita. Hai tu le navi

Tue bea dall’altre sì tratte in disparte:

Ma io scempiando me con aspre piaghe,

De’ Teucri penetrai dentro le mura

Per ispiar quai disegnasser cose

Appartenenti alla dannosa guerra.

Né d’Ettore la lancia unqua temei,

Ma desioso di provarmi seco

Fra’ primieri l’assalsi, allora ch’egli

Fidato in suo valor, tutti chiedea

Seco a battaglia. Ora ad Achille intorno

Uccisi più delle nemiche genti

Assai, che tu non festi, e in un con l’armi

Dall’impeto di lor salvai l’estinto,

Nè di te nulla al paragon dell’arme

Tem’io; ma troppo mi tormenta il duolo

Della grave ferita, ond’io percosso

Fui per quest’armi sol d’Achille ucciso.

Io poi non men di Giove illustre sangue

Mi son, di quel che di lui fosse Achille.

Così diss’egli, e rispondendo a lui

Soggiunse il forte Ajace: Ah! pien d’inganni

Ulisse, e il peggior uom di quanti han vita

Non te vid’io, là travagliar, nè vide

Te de’ Greci niun altri allor che i Teucri

Forzavan di rapir l’estinto Achille?

Io fui, che con la lancia, e con l’ardire

A molti in guerra le ginocchia sciolsi,

Io lor feci spavento, e ognor più fiero

Lor rincalzando; ed essi indegnamente

Fuggiano, ad anitrelle, e grui sembianti,

Cui sopraggiunge l’Aquila guerriera,

Mentre in florido pian stannosi al pasco.

Tale i Trojan la lancia mia temendo,

E la rapida spada in fuga volti

Schivando il grave mal, che lor seguia,

D’Ilion ricovrarsi entro le, mura.

Tu se ti sopraggiunse allor nel petto

Valor, con gli avversarj a me vicino

Già tu pugnavi, ma da me lontano

Contro ad altre falangi opravi l’arme,

Né del divino Achille eri tu appresso

Al cadavere allor, che a lui d’intorno

Surse più fiero, e s’inasprì l’assalto.

Così diss’egli, e tal risposta a lui

D’Ulisse diede allor l’astuto core:

Ajace, di te punto io non mi tengo

Minor, voglia di forza, e di consiglio;

Benché tu per valor molto risplenda.

Anzi di senno assai miglior son io.

Al giudizio de’ Greci, nella forza

O siam pari, o ti vinco, e bene il sanno

I Troian, che in vedermi, e pur da lunge,

Hanno di me gran tema, anco tu il sai,

E gli altri il san, che spesse volle meco

Venati in prova son nell’aspra lotta:

Siccome allor, che di Patroclo ucciso

Nelle funebri pompe, illustri premj

Propose Achille al gran sepolcro intorno,

Così del buon Laerte il chiaro figlio

Disse parlando, e terminaro i Teucri

Allor de’ due guerrier l’aspro litigio,

E la vittoria, e in un l’arme immortali

Dieron concordi al valoroso Ulisse,

Che infinito piacer sentì nell’alma,

Sospiraron le genti, e il forte Ajace

Dal duol rimase oppresso, e in un baleno

Ruinò sopra lui dannoso affanno,

Nelle viscere sue tutto bollìa

Il negro sangue, e ne sorgea fervendo

Grave la bile, e si turbar commiste

Le interiora tutte, e intorno al core

Fero duol gli s’affisse, e già serpendo

Acerbissimo là, dove principio

Del cerebro ha l’invoglio, e versò fuori

Quanto d’uomo avea senno, e i lumi fissi

A terra si fermò simile in vista

Ad uom di vita privo. I suoi compagni

Dolenti a lui d’intorno inver le navi

Lo venian conducendo, e in varj modi

Cercavan consolarlo, ed egli a forza

Movendo se ne gìa gli estremi passi,

Poiché non lunge a lui seguìa la Parca.

Quando poscia alle navi, ed all’immenso

Mare ei fu giunto, s’apprestar gli Argivi

Alla cena, ed al sonno, e Teti allora

Con l’altre figlie di Nereo, che seco

Eran, del vasto mar calò fra l’onde.

Intorno a cui sen gìan nuotando a schiera

Le balene, che nutre il salso flutto.

Allor grave destossi in lor lo sdegno

Contro Prometeo il consiglier prudente,

In rimembrar, che a’ vaticinii suoi

Il figlio di Saturno a forza Teti

A Peleo diè, cui non volea consorte.

Onde fra lor soverchiamente irata

Così Cimotoe disse: Oh! come degna

Pena sofferse l’empio, a’ sassi avvinto

Con rigide catene; allor che a lui

Aperto il sen grand’Aquila rodendo

Venìa mai sempre il rinascente core.

Così Cimotoe di cerulea chioma

Disse parlando alle marine suore.

Intanto il Sol tuffossi, e s’adombraro

Al venir della notte i larghi campi,

E di lucide stelle ornossi il cielo;

Onde colà per le rostrate navi

Da sonno vinti placido, e quieto

Dormian gli Argivi, e da quel vin, che dolce

Da Creta conducean per l’ondeggiante

Flutto i nocchier d’Idomeneo famoso.

Ma contro i Greci d’alto sdegno ardendo

Ajace, non di cibo altrui soave,

Né di dormir nel padiglion curossi,

Anzi dell’armi sue, colmo di rabbia,

Vestito, e tratta fuor l’acuta spada

Fra se pensando già senza riposo,

Se dovesse col fuoco arder le navi,

E strage far di tutti i Greci insieme,

O se squarciar dovesse pur col brando

A membro a membro il traditore Ulisse.

Mentre ciò rivolgea; tosto avria tutto

Recato a fin ciò, ch’egli avea in pensiero,

Se fierissima rabbia entro la mente

Non gli avesse Minerva allor diffuso.

Già pensando ella al faticoso Ulisse

In mente le venian que’ sacrifizj,

Che per fermo costume ei le facea.

Quinci la grave forza essa del figlio

Di Telamon da’ Greci altrove torse:

Ed ei rapido i pie movea simili

A spaventosa, e rapida procella,

Che di turbine carca ai naviganti

Freddo timore apporta, allorché accoglie

Dall’Ocean l’infaticabil flutto

La figlia di Pleon, la qual fuggendo

Lo splendido Orion l’aere conturba,

E rende fero, e tempestoso il mare.

Così correa costui senza ritegno,

Ovunque lui già conducendo il piede

Sembiante in tutto ad iraconda fera,

Che trascorrendo va profonda valle

Con le zanne spumose, e molte offese

Di portar pensa a’ cani, e cacciatori,

Che le rubar dalla caverna tratti

I pargoletti figli, ed arrotando

Le zanne mira se i bramati pegni

Fra questo ella pur veggia, o quel virgulto,

Nè può chi lei così rabbiosa incontra

Schivar della sua vita il giorno estremo.

Così ferocemente impetuoso

Moveasi questi, e tenebroso a lui

II cor bollìa di tetra bile asperso.

Com’entro cavo rame in sulla sede

Di Vulcan, mentre il fuoco al ventre cavo

Molta, ed arida selva abbrucia intorno

Per opra di costui, che vuol di sete

Entro l’onda spogliar grasso cignale,

Con alto mormorìo s’aggira l’onda,

Così nel costui petto orribilmente

Bollìa la rabbia, come suole il mare

Fremere immenso, o il turbine, o la forza

Del fuoco impetuoso, allor che suole

Da gran vento commosso a’ monti in cima

Con insano furor nell’ampie selve

Urtando, avventar la vorace fiamma.

Tal contro Ulisse Ajace, il forte core

Dall’aspro duol trafitto, alto fremea,

E in molta copia dalla bocca a lui

Scorrea la spuma, e si sentìa d’intorno

Strider co’ denti, e intorno alle sue spalle

Grandissimo rumor destavan l’armi.

Tutti quei, che il vedean, temeano insieme

Alle minacce, all’impeto di un solo.

Allor dall’Ocean l’aurora ascese,

Che regge i suoi corsier con briglie d’oro:

E il sonno all’ampio ciel, simile ad aura

Lieve saliane, ed incontrò Giunone,

Che fea ritorno al Ciel da Teti sacra,

Ov’era andata il precedente giorno.

Con mano ella a se il trasse, indi baciollo

Perchè era di lei genero fido

Dal dì che Giove incontro a’ Greci irato

Dormir lo feo nell’alte cime d’Ida.

Nell’albergo di Giove essa veloce

Andonne, ed ei di Pasitea nel letto,

Onde svegliarsi i popoli mortali.

Ajace intanto ad Orion feroce

Egual sen già d’insana rabbia carco,

E sembiante al leon, cui furioso

L’aspra fame tormenta il cor superbo,

Fra la gregge avventossi, e nella rena

L’una sull’altra egli spargea frequenti,

Come scuote le frondi al suol la forza

Di Borea furioso, allor che al fine

Giunta è la state, e s’avvicina il verno.

In guisa tal le pecorelle assalse

Ajace impetuoso in se stimando

D’apportare agli Argivi orrido incontro.

Onde allor Menelao fatto vicino

Al frate, e dagli Achei tratto in disparte

A lui segreto in questa guisa disse.

Certo oggi fia l’universal ruina

Di tutti, poiché Ajace in furia è volto.

Perocché forse egli arderà le navi,

E forsennato per cagion dell’arme

Fin negli alloggiamenti a tutti noi

Donerà morte. Ah! non avesse mai

Sì dannosa tenzon proposta Teti!

Né pazzamente il figlio di Laerte

Ad uom di se miglior foss’ito incontro.

Or grave è il nostro danno, e qualche fato

A noi maligno nuoce, poiché essendo

Caduto il figlio di Peleo, che speme

Era di questa guerra, in piede ancora

Pur vi rimanea solo il forte Ajace.

Ed ecco pur quest’anco a noi disperso

Vien dagli Dei, che in noi versano il male

Per condur tutti ignobilmente a morte.

Così diss’egli, e in guisa tal rispose

Agamennone il forte. Eh non ti offenda

Tanto l’animo il duol, nè cotant’ira

S’annidi in te contro il prudente duce

De’ Cefaleni, poiché ciò da lui

Non vien, che sempre a noi gran giovamento

Apporta, e insieme agli avversarj doglia.

Così costor del mal de’ Greci afflitti

Ragionavan fra loro, ed in disparte

Delle greggie i pastor presso alle rive

Del Xanto per fuggir l’orrendo danno

Timidi ascondean se sotto i virgulti.

Siccome allor che l’aquila veloce

Con l’ali tese or quinci or quindi vola

Stridendo acuto, infra’ più folti rami

Appiattan se le timidette lepri;

Tale i pastori in questa, e in quella parte

Dall’uom precipitoso ivan fuggendo.

Ed egli alfine ad un agnello ucciso

Fermossi a lato, e misero ridendo

Proruppe in queste voci: Or via ti giaci

Nella polve, di can cibo, e d’augelli.

Perchè te liberato or non han l’arme

Gloriose di Achille, onde tu insano

Con uom di te miglior pugnare osasti.

Stattene, cane. Ora non fia che intorno

Prostrata a te la moglie tua ti pianga,

Che per te col figliuol gran doglia prende,

Nemmeno i genitor, con cui giammai

Non sarai più, che te di lor vecchiezza

Sperar dolce conforto, poiché lunge

Te dalla patria tua caduto estinto

Voraci squarceranno augelli, e cani:

Così parlò quel misero stimando

Pur, che l’astuto Ulisse infra gli estinti

Fosse di molto sangue infetto, e lordo.

Pallade allor dagli occhi, e dalla mente

Il vel disgombrò a lui dell’aspra rabbia,

Che veloce discese a’ Stigii fiumi,

Ove le Furie rapide si stanno,

Che soglion sempre a’ miseri, e superbi

Mortali esser cagion d’acerbo duolo.

Ajace, poiché al suol guizzar morendo

Vide la greggia, isbigottissi in tutto

Dentro la mente, perchè fermo tenne,

Che il passato furor versato in lui

Degli Esseri celesti avesse l’ira.

Quindi in lui tutte indebolir le membra,

Trafitto dal dolor l’alma virile,

Talché o indietro, o d’avanti ei non potea

Formar, d’angoscia colmo, un picciol passo.

Onde fermossi a saldo scoglio eguale,

Che sovra tutti gli altri il più sublime

Fisse ne’ monti ha le radici eterne;

E poiché tutto il suo vigor raccolto

Nel petto egli ebbe, sospirò profondo,

E in questo flebil suon la voce sciolse.

Ahimé! che tanto sono in odio a’ Divi,

Che mi han la mente offeso, e tanta rabbia

Diffuso in me, che n’ho le greggi ucciso,

Onde cagion d’irarmi unqua non ebbi.

Sì, punito avess’io con questa mano

Dell’empio Ulisse il fraudolente core,

Poiché pessimo essendo, egli m’ha involto

In gravissimo affanno. Io prego il cielo

Che egli soffra quel mal, ch’ a’ scellerati

Uomini preparar soglion l’Erinni.

Così dian le medesme agli altri Argivi

Fere discordie, e lacrimosi affanni:

Diangli anco ad Agamennone d’Atreo,

Sì che non torni, ancor che molto il brami

Senza ruine al suo paterno ostello.

Ma che far io pur di bontade amico

Fra cotanti malvagi ? Or via sen vada

In mal punto de’ Greci il crudo stuolo,

Pera quest’ empio secolo, in cui nulla

Premio have il buono, e sovra gli altri è caro

E pregiato colui, che peggio adopra.

Ecco onorato è fra gli Argivi Ulisse,

Né di me stima fassi, anzi all’oblìo

Date le cose son, che per cagione

Già del pubblico ben seco soffersi.

Poich’ebbe così detto, il buon figliuolo

Del forte Telamon l’Ettorea spada

Per la gola cacciossi; e il sangue fuori

Ne sgorgò mormorando in larga copia.

Cadd’egli steso nella polve, in guisa

Di Tifon, cui di Giove il folgore arse;

E nel Cader di lui, grave gemendo

Ne sospirò la tenebrosa terra.

Trasser frequenti i Greci, allor che lui

Steso vidder giacer là sull’arena,

Trassero allor, perocché avanti nullo

Oso era d’appressarlo, in guisa tema

Pur sul sol rimirarlo avean di lui.

Ma poi send’egli ucciso, intorno accolti

Tutti a terra gittarsi, e il capo chini

Folta piangendo a lui facean corona;

E mentre gemean questi in guisa tale,

Verso il divino ciel salinne il pianto.

Siccome allor, che i pargoletti nati

Alle lanose pecorelle tolti

Dagli uomini son per prepararsi il cibo,

Le mestissime madri orbe de’ figli

Fanno con luoghi, e flebili lamenti

Suonar d’intorno il desolalo ovile,

Così diffuse al morto Ajace in giro

Le Greche squadre alto gemean quel giorno,

Talch’indi grave rimbombar s’udiano

Ida de’ boschi ombroso, il piano, ed anco

Le navi d’ogn’intorno, e il vasto flutto.

Teucro vicino a lui volea di vita

Privarsi in tutto, e dar se stesso in preda

Alle crudeli Parche; e l’avria fatto

Se altri non togliea lui la grande spada.

Simile ad un fanciul, che al fuoco appresso

Di cenere d’intorno il tergo asperso,

E di polve rapita al freddo busto

Altamente sen piange il giorno, ch’egli

Orfano si restò morta la madre,

Che lui nutrito avea del padre privo.

Così plorava questi, al morto frate

Raccogliendosi intorno, e in questa guisa

Mandò fuori il parlar misto di pianto:

Ajace coraggioso, or qual cagione

L’alma ti offese sì, che a te medesmo

Danno portasti, e dolorosa morte?

Forse ciò fu, perchè i Trojani alquanto

Respirasser da’ mali, e fatti audaci

Per la tua morte, osassero all’assalto

Muoversi poscia, e desolar gli Argivi,

Che ruinati omai dalle battaglie

Più non avranno il consueto ardire,

Poiché te sol ne’ mali avean conforto?

Omai più non mi cal, poiché in estinto

Qui giaci, del ritorno, anzi son fermo

Anch’io qui di morir, perchè me teco

In un ricopra la benigna terra.

Perchè non tanto ho de’ parenti cura,

Se pur son anco al mondo, e se fra’ vivi

Abitatori suoi gli ha Salamina,

Quanto di te, che morto giaci; poscia

Che tu solo eri a me cagion di glorie.

Così diss’egli accompagnando i detti

Con profondi sospiri; indi la Diva

Tecmessa pianse pur del buon Ajace

Moglie, cui di cattiva egli consorte

Fatta l’avea; ponendola signora

Di tutto ciò, che per la casa fanno

A’ lor mariti le dotate spose.

Costei raccolta entro le forti braccia,

Eurisace di lui generò figlio

Simile in tutto alla paterna imago.

Questi era fanciullino, onde lasciollo

Delle piume a’ riposi, e della culla.

Ed essa con sospir gravi, e frequenti

Si gittò sopra il morto corpo amato,

E nella polve, in cui giacea, sommersa

Le belle membra sue bruttossi, e mesta

Tocca da doglia il cor, gridò piangendo:

Ahimé! infelice, ahimè! poiché moristi

Non già per man degli avversarj in guerra

Ma da te stesso ucciso; onde mi apprende

Acerbo affanno, e intollerabil doglia.

Perchè già non pensai di veder mai,

Ucciso te, sì doloroso giorno

In Troja. Or tutti, ahimé! dispersi al vento

I miei pensieri han le crudeli Parche.

Ahi! prima avesse me sì l’alma terra

Inghiottita nel sen, che mai vedessi

Di te dolce marito il fato acerbo,

Perchè giammai non mi trafisse l’alma

Doglia maggior di quella, onde mi affliggo,

Non quando me dalla mia patria lunge

E da’ miei genitor con l’altre serve

Lacrimosa traesti, poiché essendo

Onorata poc’anzi, e gran Reina

Giunto m’avea di servitute il giorno.

Ma della dolce patria, e de’ parenti

Che mi periro, a me tanto non cale,

Quanto di te, che mi ti mostri ucciso,

Poscia che tu nell’animo volgevi

Sempre cose piacenti a me meschina,

Tu me, d’un sol voler sempre mai meco,

Facesti esser tua moglie, e mi affermasti,

Troja lasciando, ancor reina farmi

Della ben fabbricata Salamina.

Ma ciò non mi han concesso, ahimé! gli Dei.

Or tu lasciando tua memoria oscura

Quinci partendo, non curasti nulla

Di me, del figlio, il qual non sia, che porga

Al padre omai diletto, e non fia erede

Del paterno dominio, anzi d’altrui

Fatto sia servo, perchè morti i padri

Soglion sovente i pargoletti infanti

A peggiori di se viver soggetti;

Perocché dura, ed infelice vita

Quella è, che vivon gli orfanelli in cui

Oltraggio sovra oltraggio altri riversa.

Misera, e tosto anch’io fia che diventi

Serva, morto anzi me tu, che solei

Esser mai sempre a me di nume in vece.

Poiché ebbe così detto, a lei rispose

Agamennone allor con voce amica

Benignamente inverso lei disposto:

Donna non fia, che alcun serva ti faccia,

Il buon Teucro vivendo, e vivend’io,

Anzi onorerem te con mille illustri

Presenti, a Dea simile, e il figlio tuo,

Non altramente, che se vivo ancora

Fosse il divino Ajace, il qual vivendo

Esser solea de’ Greci ardire, e forza.

Ed oh! non avess’egli a Grecia tutta

Apportato dolor, sendosi morte

Dato con la sua man; perocché lui

Uccider non potea stuolo infinito

Di gente avversa, che pugnar suol Marte.

Così diss’egli il cor dentro a se mesto.

E pietose d’intorno alzar le genti

Strida, talché rimbombo al pianto loro

L’Ellesponto ne diede, e sovra tutti

Si distese volando il duolo acerbo.

Anzi e l’istesso consigliere Ulisse,

Mirando estinto, la gran doglia assalse,

E dalla passion tradito l’alma,

Disse in tal guisa a’ lacrimosi Achei:

Amici, oh! come ben quindi potiamo

Veder, che peggior mal non v’ha dell’ira,

Che a dannose tenzon gli uomini accende.

Ed ecco il grande, e valoroso Ajace

Meco adirato ha convertito in rabbia.

Oh! non avesser mai de’ Teucri i figli

Gloriosa vittoria a me concessa

Degli arnesi d’Achille, onde dal duolo

Del forte Telamon vinto il buon figlio

Hassi con le sue man donato morte.

Nè già dell’ira sua cagione io fui;

Ma qualche strano fato, ond’ei fu vinto.

Perchè, se il cor dentro al mio petto avesse

Potuto pur pensar, che tal corruccio

Sentito egli n’avesse entro la mente,

Giammai per guadagnar vittoria seco

Non avrei contrastato, anzi sofferto

Mai non avrei, che di tenzon bramoso

Tentato avesse ciò null’altro Greco.

Io medesm’io con questa mano avrei

Prese l’arme divine, e date a lui

Di prontissima voglia, o se altra cosa

Desiata avess’anco il suo pensiero.

Né mai pensato avrei, che tanto affanno

Preso n’avesse dopo, e con ragione,

Perchè fra noi non fu gara, e contrasti

Per cagion di mogliera, o di cittade,

O di largo tesoro; io pet virtude

Contrastai sol che alle più saggie menti

Sembrar fa dilettoso ogni litigio.

Ned ei che di gran senno era, e prudente

Peccato avria, se non avesse lui

Condotto nell’error maligno fato.

Perocché non devea sì gravemente

Per sì lieve cagion turbarsi l’alma.

Perchè ad uomo convien grave, e maturo

L’impeto del dolor, che soprabbonda,

Forte soffrir, nè dar vittoria al duolo.

In guisa tal parlò del buon Laerte

L’inclito figlio. E poi che sazj furo

Del pianto i Greci, e dell’acerbo lutto,

Sì disse mesto il figlio di Neleo:

Amici, ahimé, come le fere Parche

In un balen congiunto han doglia a doglia

Crudele, ucciso Ajace, il forte Achille,

E cotanti altri Greci, e con loro anco

Il nostro figlio Antiloco. Ma pure

Non già convien, che per gli uccisi in guerra

Si faccia eterno, e inconsolabil lutto,

E s’abbandoni l’alma al duolo in preda;

Dunque del pianto immoderato omai

Oblìo vi prenda, poiché viemigliore

È quelle cose far che altrui conviene

Di far co’ morti, il fabbricar la pira,

L’alzar la tomba, e il dar sepolcro alle ossa:

Non risorge uom per pianto, e non ragiona

Poiché il rapir le immansuete Parche.

Ciò disse consolando; e tosto folti

Si ragunar gemendo i Divi regi.

E lui benché di membra immani, e vaste,

Date molti di lor le spalle al peso,

Portar da terra alzato inver le navi,

E della vesta il ricoprir funebre,

Sorbito il sangue altri, che polveroso

Rese immonde gli avea le membra, e l’arme,

Quindi portar dalla montagna Idea

I soldati di legna immensa copia,

E fabbricato al morto corpo il rogo,

In giro il circondar, poscia locarvi

Sopra copiose greggi, e ricche vesti

Di buoi nobili armenti, e in un con loro

Destrier, cui face allegri il piè veloce.

Poservi oro lucente, e molti arnesi,

Onde il famoso eroe spogliato avea

Molti, in guerra, da lui campioni uccisi,

Locarvi insieme il trasparente elettro,

Che per quanto altri dice è delle figlie

Dello scorgente Sol lacrima, ch’elle

Sparser piangendo già sopra Fetonte,

Che in riva del gran Po giaceasi anciso.

Questa a gloria immortal del figlio estinto

Elettro il Sol divenir fece, e volle,

Che fosse in mollo pregio appo i mortali.

Questo dunque gittar sull’ampio rogo

I Greci allor per onorarne Ajace

Il gran baron, che su giaceavi ucciso.

Sospirando anche a lui poser d’intorno

Ceruleo argento prezioso avorio,

Ed anfore d’unguenti, ed altre cose

Pregiate più fra le ricchezze illustri.

Del fuoco alfin la violente forza

Entro al rogo lanciaro, e soffio in mezzo,

Che dal mar venir feo la Diva Teti,

Perchè ardesse d’Ajace il vasto corpo.

Tutta la notte dunque, e il giorno integro

Presso a’ legni abbruciò soffiando il vento;

Qual già dall’aspro folgore di Giove

Nell’inquieto mar domito giacque

Sotto Sicilia Encelado superbo,

Onde l’isola poscia, e fumo, e fuoco

Alle stelle mandò dal seno ardente.

O qual mentre vivendo al fuoco diede

Le membra Alcide, all’ingannevol arte

Tormentato di Nesso, allor ch’egli oso

Fu di tentar grand’opre, onde gemea

Eta d’intorno, alle sonanti grida

Di lui, che vivo ardea, finché commista

L’anima al ciel lasciò le illustri membra,

Ond’ei divenne un Dio, poscia che grave

Di lui la terra faticosa accolse.

Tale apparìa giacendo al fuoco in seno

Con l’arme Ajace, a sempiterno oblìo

Date omai le battaglie, e intorno a’ lidi

Molta gente per lui mesta piangea,

E godendo i Trojan, gemean gli Argivi.

Ma poiché il nobil corpo ebbe vorace

Consumata la fiamma, allor col vino

Estinsero la pira, e l’ossa accolte

Posero in urna d’oro, e intorno a quelle

Diffuser poscia di terreno immensa

Copia: non molto lunge al Reteo lido

Si sparser quindi alle agitate navi

Dolenti i Greci, poiché lui non meno

Onoravan d’Achille. Intanto apparve

La tenebrosa notte, il sonno seco

Agli uomini portando. Essi la cena

Apprestaro, e cibati attendean l’alba,

Poco nel lor dormir lasciando al sonno

Dolce gravar le deboli palpebre;

Sì temean dentro a se, che morto il figlio

Di Telamon, lor non movesser contro

Notturno i Teucri, e repentino assalto.