I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO SESTO

L’acque dell’Ocean lasciando a tergo

E ‘l letto di Titon, salìo l’Aurora

Ver l’ampio cielo, e si diffuse intorno

Splendida, e chiara sì che alla sua luce

Lieti rider parean l’aere e la terra,

Onde gl’infermi, e fragili mortali

S’accingean destri a questo, e quel lavoro.

Allor da Menelao chiamati i Greci

Raccoglieansi al consiglio, e poiché furo

Da questa, e quella parte insieme uniti,

Allora sì raunati in questa guisa,

Nel mezzo egli sedendo, a dir si pose:

Udite il mio parlar, divina stirpe,

Voi duci, e regi, e quel che dirvi intendo,

Perocché grave doglia il cor mi affligge

Perir vedendo i popoli, che solo

Venner per me nella spietata guerra.

Oggi mai lor non rivedrà l’albergo,

Non rivedrangli i padri, poiché tanti

Violenza fatal conduce a morte.

Or così avesse me prima assalito

Della morte crudel l’orrida forza,

Ch’io le genti adunassi in questi campi.

Ora a me adduce immedicabil doglia

Nel mirar tanti danni il fato acerbo.

E qual potrebbe mai la mente lieta

Aver, sì lunga, ed impossibile opra

Di guerra contemplando? Or via su dunque

Noi lutti che avanziam, sulle veloci

Navi ascendiamo, e ratto ognun si fugga

In suo proprio paese, or che son morti

Ajace insieme, e il poderoso Achille;

Cui mancati così, già non mi credo,

Che la ruina fuggiam noi; ma tutti

Da’ crudeli Trojan restiamo uccisi.

E ciò per mia cagion, per cagion solo

D’Elena svergognata, onde non tanto

Mi cal, quanto di voi; qualora avviene,

Che veggio perir voi nella battaglia.

Vadane essa in mal punto, e vada seco

Quel suo codardo, e timido marito:

Perocché allor le tolsero dal cuore

Ogni casto pensier gli Dei, che volle

Abbandonar la mia magione, e il letto.

Ma di queste opre sue perverse omai

Cura aggia Priamo pure, aggiansi i Teucri.

Noi più non indugiamo a far ritorno

A’ nostri alberghi, poiché molto è meglio

Fuggir da guerra strepitosa, e rea,

Che volendo restar perder la vita.

Così diss’egli per tentar le menti

De’ Greci. E d’altra parte il core, e l’alma

Da gelosi pensier commosso, già

Rivolgendo fra se, come ruina

A’ Trojani apportasse, e l’alte mura

Distruggesse dal fondo, e Marte sazio

Del sangue fesse d’Alessandro ucciso;

Poiché cosa non v’ha, che più crudele

Sia della gelosia ne’ petti altrui.

Ciò dunque rinchiudendo entro la mente

Tacque egli, e nel suo seggio indi si assise.

Levossi in piede allor nel mezzo a’ Greci

Buon oprator di lancia il gran Tidide,

E con agre parole il valoroso

Menelao, nel suo dir grave riprese:

Ah! vil germe d’Atreo, quale infelice

Timor t’assale, o che proponi a’ Greci

Qual pargoletto, o femmina, di cui

Languida è in tutto, e fievole la forza!

Ma non son persuasi a’ detti tuoi

De’ Greci, stimo, i più guerrieri figli,

Pria che tutte dall’ imo aggian le mura

Gettate al suoi della nemica Troja.

Perchè fortezza altrui gloria comparte,

E seco la viltà vergogna adduce.

E se pure alcun fia, ch’eseguir tenti

Quanto comandi, col ceruleo ferro

Il capo troncherogli, e farò lui

De’ volanti del ciel trastullo, ed esca.

Su dunque tutti, o voi che avete cura

Di risvegliar virtù ne’ petti altrui,

Tutti là per le navi ite eccitando

Le genti sparte ad aguzzar le lance,

A risarcir gli scudi, e l’altre cose

Tutte disporre, ed ordinare il cibo

Agli uomini, a’ destrier, che braman guerra,

E presto presto giudice sia Marte

Del valor di ciascun colà nel campo.

In guisa tal parlò di Tideo il figlio:

Indi s’assise, che primier sedea

Di Testore il figliuolo allor nel mezzo

Stando, che star quei che ragiona deve,

In questo modo incominciò dicendo:

Datemi orecchio, o de’ guerrieri Argivi

Diletto seme. Perocché v’è noto,

Com’io sappia del ciel spiegar gli arcani.

Già v’ho dett’io, che al fin del decim’anno

Desolata cadrà Troja superba;

Ed ecco eseguiran quant’io vi dissi

Or gl’Immortali, e la vittoria avanti

Giace a’ piè degli Argivi. Or non si tardi

A mandare Diomede, e il prode Ulisse

Nel cavo sen de’ negri legni a Sciro,

Che infiammando co’ detti il figlio altero

D’Achille il trarran seco, onde a noi tutti

Fia grande acquisto il suo venir di luce.

Così parlò di Testore il prudente

Figlio, e d’intorno i popoli fremendo

Segni mostrar di gioja, perchè il core

Ferma speme a lor dea, che fosse certo

Quanto Calcante lor predetto avea.

Levossi poscia di Laerte il figlio,

E così disse a’ congregati Achéi:

Amici, e’ non convien con voi dir molto

Oggi, perchè il dir lungo esser nojoso

Suole a chi per se stesso ai fatti è pronto;

So questo anch’io che a popolo già stanco

Non diletta orator, nè cantor piace,

Benché sia caro alle immortali Muse,

E che brevi parole aman le genti.

Dunque poiché ciò piace a tutti voi

Dell’esercito Argivi, e maggiormente

Poiché Tidide ancor meco sen viene,

L’opra commessa a noi trarremo a fine.

Ambedue noi del coraggioso Achille

Il figlio altier con le parole nostre

Piegando, condurremo, ancorchè molto

Sia per ritener lui dentro l’albergo

Lagrimando la madre; poiché essendo

Di forte padre nato fia per fermo,

Ch’egli esser debba intrepido, e guerriero.

E dian il far ritorno al Greco suolo,

L’inclita figlia mia farò di lui,

Ermione, consorte, e molte seco

Darogli liberal ricchezze, e doni.

Né già cred’io, che sia così superbo

Che moglie tale, e suocero ricusi:

Così diss’egli, e secondaro i detti

I Greci, e diessi a quel consiglio fine.

Si sparser per le navi essi, di cibo

Avidi, che a’ mortai portar suol forza,

Quindi poiché restò ben sazia d’essi

La fame, in compagnia l’astuto Ulisse,

E Diomede al vasto mar varcaro

La presta nave, e senza far dimora

La corredar di vettovaglia, e d’armi;

Poscia vi salìro essi, e in un con loro

Salir venti uomini anco esperti, e mastri

Del navigare, o fosse lor contraria

La torbida tempesta, od ispianasse

Quietissima bonaccia il largo flutto.

Poiché fur dunque nè’ ben fatti seggi

Assisi, del gran mar percosser l’onda,

Che destò nel bollir copiose spume.

Intanto spinto dagli abeti al corso,

Ratto il legno fendea l’umide vie,

Né deano essi sudando al vogar posa.

Siccome allor, che sotto al giogo i buoi

Con aspro faticar tirando avanti

Di legni il carro intesto, e per il carco

Stridente sotto al ritondato polo,

Gemono oppressi, e ad ambedue cadendo

Sudor dalla cervice, e dalle spalle

Scorre copioso ad irrigar la terra;

Tale i nocchieri allor sotto i pesanti

Remi prendean fatica, e trapassando

Velocissimi gìan del mar le strade,

Seguendo in tutto il lor voler col guardo

Gli altri Argivi rimasi allor sul lido.

Intanto i Teucri fra le mura chiusi

S’accingean pronti, ed animosi all’arme,

Ed aguzzando gìan le lance, e i dardi,

Che oprar soleano in guerra, e parte preghi

Porgeano agl’immortal, che desser fine

Una volta alle stragi, e qualche spazio

Di respirar dalle fatiche alquanto.

Onde commossi a’ preghi lor gli Dei,

Euripilo mandar dal forte Alcide

Sceso, agli affanni loro alto conforto.

Molti seguir lui popoli, nell’arme

Esperti, che abitar Dulichio appresso

Le rive di Caico, i quai nel forte

Forti ponean del guerreggiar la speme.

Nel contemplar costui, mirabil gioja

Sentian nell’alma de’ Trojani i figli:

Siccome l’anitrelle in chiuso giro

Mirando l’uom, che il cibo a lor comparte

Vezzi a lui fanno intorno, ed ei ne gode:

Tal nell’alma i Trojan tentian diletto

la contemplando Euripilo possente,

Né meno a lui fra lor così raccolti

Godea nel petto l’animoso core.

Dalle fenestre il divino uom mirando

Stupian le donne, ed ei seguìa le genti

Sovra gli altri maggior, come ne’ monti

Maggior sembra il leon misto a’ cervieri.

Paride lo raccolse, ed onorollo

Pur come Ettorre, perché a lui cugino

Egli era, ed ambedue nati di un sangue;

Perché di Priamo lui la Diva suora

Astioche partorì fra le robuste

Braccia accolta di Telefo: cui anco

Furtivamente mista Auge la bionda

Con l’intrepido Alcide, a’ genitori

Suoi celandone il fatto, al giorno espose;

Ed a lui picciol anco, e del materno

Latte bramoso, una leggiera cerva

Amando lui del suo cervietto in guisa

Le mamme offerse per voler di Giove.

Perché non convenìa, ch’egli perisse

Miseramente sì d’Ercole nato.

Dunque il costui famoso figlio Pari

Seco per la città larga, e potente

Condusse al proprio albergo, il qual vicino

Alla tomba d’Assaraco, era posto

Di Ettore appresso alla magion sublime.

Le stanze eran di Pallade, e non lunge

Indi di Giove Erceo stava l’altare.

Onorava costui Paride sopra

Parenti, e frati, e i genitori stessi

Di varie cose ragionando insieme

Gìano ambo, e motteggiando; e intanto il piede

Condusse loro alla felice, ed ampia

Reggia di Pari; ov’Elena sedea

Eguale a Dea celeste, e graziosa

Come le Grazie stesse, e intorno a lei

Quattro assistean donzelle: ed indi sparte

Nella camera stessa altre eran seco

Sedendo ed attendendo a quei lavori,

Che di far le donzelle hanno in costume.

In riguardando Euripilo ammirossi

Elena molto, ed egli in veder lei,

Ambo con detti alterni, entro l’ornata

Stanza fermarsi ragionando alquanto.

Poscia le damigelle alla reina

Poser due seggi appresso, e sovra l’uno

Alessandro s’assise, e l’altro prese

Euripilo vicino. Intanto i Greci

Incontro la città locato il campo

Aveano, ove le guardie eran disposte

Poderose de’ Teucri, e sulla terra

Ivi riposar l’arme, e non lontano

Alloggiaro i cavalli anco anelanti

Per la grave fatica, ed empir loro

Di quell’esca i presepi, onde nutrirsi

I veloci destrier soglion più dolce.

Sorse intanto la notte, ed adombrarsi

Per le tenebre sue la terra, e il cielo

Onde i Teucri, e i Cetei presso all’eccelse

Mura prendeano il cibo, e fra la cena

Vario s’udia di ragionar bisbiglio,

E d’ogni intorno ai padiglioni accesi

Ardeano i fuochi , e risuonar s’udiano

Canore trombe, e fistole conserte

D’argute canne, e dolce suono intorno

Si diffondea d’armoniose cetre.

D’altra parte stupian gli Argivi udendo

Il concento de’flauti, e delle lire,

Degli uomini il rumore, e de’ cavalli,

E il suon delle zampogne, che adattarsi

Posson di cene ad uso, e di pastori.

Onde ciascun nella sua tenda impose

Che con guardie scambievoli le navi

Fussero custodite infino al giorno:

Acciocché forse i Teucri, i quali allora

Cenavan presso all’elevate mura,

Non assalisser loro, e d’improvviso

Avventasservi dentro ardente fuoco.

Né meno allor nella magion di Pari

Co’ gloriosi re sedea cenando

Il buon figlio di Telefo, ed intanto

Molto mostravan Priamo, e molto i Teucri

Di mano in man desìo di ritrovarsi

Con gli Argivi alle man nell’aspra, guerra,

Ed egli secondando il voto loro,

Il tutto promettea di trarne al fine.

Rimosse indi le mense, ognun si accolse

Nel proprio albergo. Euripilo si giacque

Nel ricco appartamento, ove solea

Pari dormir con l’inclita consorte.

Perocché quel fra tutti gli altri egregio

Era, e con pompa più superba ornato.

Qui dunque coricossi, e gli altri il letto

Altrove procurarsi, e si posaro,

Finché l’Aurora in ricco seggio assisa

Mostrossi, al par di cui lasciò le piume

Di Telefo il figliuolo, e nell’aperto

Campo discese in un con gli altri regi

Tutti, ch’erano in Troia, e frettolosi

Con loro armarsi i popoli bramando

Tutti fra’ capitan d’oprarsi in guerra.

Euripil’anco alle gran membra intorno

L’arme adattossi, che pareano in vista

Simili in tutto a luminosi lampi.

E nel divin suo scudo apparian varie

Cose scolpite, ov’eran quante prove

Fatte d’Alcide avea l’ardita forza.

Due serpenti eran ivi, al giro; al moto

Simili a’ vivi, e dalle bocche orrende

Vibravan con furor le lingue tetre.

Ed egli a questo egual benché fanciullo.

Foss’anco, strangolava, ed avea l’alma

Intrepida, e il pensier, perché di forza

Fin da’ primi anni a Giove era sembiante,

E nulla al gran poter de’ Numi eterni

Difficile have, ed impossibil cose,

Ed egli fin nel ventre anco rinchiuso

Infinito valor raccogliea seco.

Vedeasi ivi anco il fier leon Nemeo

Dalla robusta man del forte Alcide

Gagliardamente oppresso, il qual di spume

Sanguigne intorno il muso orrendo asperso

Parca che fuor mandasse urli, e ruggiti.

Effigiata appresso era l’immane

Idra di molte teste, che lambendo

Già fieramente, e de’ nuocenti capi

Parte giacean nel suol troncati, e parte

Da picciolo principio a poco a poco

Ad immensa grandezza ivan crescendo:

Affaticavasi Ercole, e l’ardito

Iolao seco, perché entrambi essendo

Di forte cor, l’un d’essi i fieri capi

Con la ritorta spada iva troncando

Veloce, e l’altro con rovente ferro

Abbruciava di lei le incise parti:

Onde alla fiamma fervida, e cocente

Altamente fremea l’orrida fera.

In disparte incitata era la forza

Del feroce cignal, cui le mascelle

Spumoso, vivo a viva forza seco

Alcide il forte ad Euristeo traea.

Velocissima il piè bene espressa anco

V’era la cerva, che guastava tutte

Miseramente de’ vicin le biade.

Per le corna dell’oro il coraggioso

Eroe lei presa avea, che dalle fauci

Spirava fuor di foco orrida fiamma.

Le orribili Stinfalidi vicine

Vedeansi, altre di lor dalle quadrella

Trafitte, versar fuor là sulla rena,

Gli spirti, ed altre a fuga il pensier volto

Per lo candido ciel muover le piume.

Ercole irato incontro a lor parea

Or questa, or quella saettar, simile

In tutto ad uom, che nell’oprar si affretti

Con nobile artifizio er’ anche espressa

Nello scudo infrangibile l’imago

D’Augea divino, a cui l’invitto Alcide

Del vasto Alfeo condusse il cupo flutto:

Intorno eran le Ninfe, e meraviglia

Alta prendean della terribil opra.

Non molto indi lontan vedeasi il Tauro

Fuoco spirante, a cui, benché superbo

Ed intrattabil fosse, egli torcea

Il duro corno, e per la forza tesi

I tori avea delle robuste braccia:

E qui n’era il sembiante in guisa espresso,

Che diffonder parea grave muggito.

Presso a lui dello scudo era nel campo

Ippolita agli Dei sembiante in vista,

Cui bramando rapir l’ornato cinto,

Dal veloce destrier presa la chioma

Di lei traea con l’aspra mano a terra.

Ed in disparte immaginate quivi

Le Amazoni appariano. A terra vinte

Ivi di Diomede eran nel Tracio

Paese le feroci, e micidiali

Cavalle, e queste sbranava egli presso

Gli empii presepi col re lor maligno.

Immaginato ivi anco era il gran busto

Di Gerion non lungi a’ buoi conquiso,

E i tre capi di lui dall’aspra clava

Spezzati si vedean sopra l’arena

Sparti giacer di tetro sangue intrisi.

Ortro il suo can sovra tutt’altri fiero

E poderoso, a Cerbero tremendo

Simile, onde era frate, appresso a lui

Star vedevasi estinto, e non lontano

Tutto di molto sangue infetto, e lordo

Il suo bifolco Eurizion giacea.

Dell’Esperidi finto ivi anco il fabro

Pendenti avea dagl’incorrotti rami

Dell’oro i pomi splendidi, e lucenti;

E sovra il suol prostrato a loro intorno

Giacea di vita privo il drago orrendo.

Ed elle spaventate e quinci, e quindi

Del gran Giove fuggian l’ardito figlio.

Vedeasi ivi anco, agl’Immortali stessi

Tremendo a contemplar, Cerbero crudo;

Cui dentro ad aspro sen di speco alpestre

Presso alla negra notte, e l’infelici

Porte del cupo, e lacrimoso Inferno

All’immane Tifeo generò Echidna;

Cerbero, che guardando il morto stuolo

Nel baratro il ritien profondo, e tetro:

Da’ colpi della mazza oppresso in breve,

Ed istordito il gran figliuol di Giove

Traea di là, ‘ve d’alto avvalla Stige,

Contro suo grado, a vivo luogo e vero.

Alquanto indi lontan con molta cura

Di Caucaso scolpite eran le valli;

Ed ivi di Prometeo egli svellea

Dall’aspra rupe e le catene, e i membri,

Sciogliendo il gran Titano, e presso, a lui

Estinta si giacea l’aquila fera

Da mortifero stral trafitta il core.

I robusti Centauri ivi anco sculti

Eran d’intorno alla magion di Folo.

E questi mostri la discordia, e il vino

Eccitavan contro Ercole a battaglia;

Altri domi giacean da quelle tede,

Che brandian con le destre invece d’arme,

Altri con lunghi abeti ancor pugnando

Seguìan la dura, ed ostinata guerra:

Avean tutti di sangue i capi aspersi

Per le ferite del conflitto orrendo,

Ed eran di maniera al vivo espressi,

Che l’immagine altrui rendean del vero.

Meschiavasi col sangue il vino, e tutti

I cibi confondeansi, ed in un monte

Giaceano i vasi, e le pulite mense.

Nesso in disparte appresso al fiume Eveno,

Che fuga presa avea da quel conflitto

Per cagion dell’amata sua consorte

Sdegnato incontro lui con le volanti

Quadrella ancise. Istoriato era ivi

Anteo gagliardo ancor, che nella lotta

Facendo incontro lui duro contrasto,

Con le robuste braccia egli da terra

Levando in alto, e distringendo estinse.

Dell’ondoso Ellesponto in sulla riva

Trafitta si giacea la gran balena

Dall’aspre sue quadrella, ed egli i duri

Legami d’Esione indi sciogliea:

L’altre fatiche ancor d’Alcide invitto

Che narrar lungo fora, ad una ad una

D’Euripilo divin nell’ampio giro

Nobilmente scolpite avea lo scudo.

Simile appareva egli in vista a Marte,

Mentre movea per le guerriere squadre:

Seguianlo i Teucri lieti in contemplando

E l’arme, e l’uom, ch’un degli Dei parea.

Quinci incorando lui pari a battaglia

In questa guisa a lui rivolto disse:

Del tuo venir mirabilmente godo,

Perocché dentro il cor certo mi dice,

Che tu de’ Greci tutti, e delle navi

Farai misero scempio, e non invano

Cade in me tal pensier, posciachè mai

Infra i Teucri io non vidi, o fra’ guerrieri

Argivi, uom che a te fosse in vista eguale.

Perocché in tutto al grande, e forte Alcide

Di statura, di forze, e di bellezza

Simile assembri: or vien dunque di lui

Membrando, tu per l’animo rivolgi

Imprese di lui degne, ed alle afflitte

Fortune de’ Trojan da’ pronta aita,

Perché pur respiriam, poiché non altri

Puote che tu dalla città perduta

Il mal lunge cacciar, che sì l’opprime.

Sì disse in lui destando alto coraggio

Pari: ed egli al suo dir così rispose;

O di Priamo figliuol, d’animo grande,

E di beltà che le celesti agguaglia,

Queste cose, che dice, agl’Immortali

Ferme giacciono in grembo, a loro noto

È, qual ne’ dubbi assalti o pera o scampi.

Noi secondo il dovere, e il poter nostro

Farem pugnando alla città riparo.

Anzi giuro io di non lasciar l’impresa,

Prima che molti uccida, od io vi caggia.

Così disse animoso, e i detti suoi

Fur da’ Trojan con gran piacere accolti.

Quindi Alessandro, il valoroso Enea,

Polidamante il bellicoso, il divo

Pammone, e in compagnia giunti con loro

E Deifobo, ed Etico, il qual sovra

Tutti altri Paflagoni il vanto avea

Di stare a fronte all’inimico stuolo,

Fra gli altri elesse Euripilo, di guerra

Mastri, acciocché fra i primi agli avversarj

Ponesser se nella battaglia incontro.

Tosto si fero avanti, e i primi luoghi

Occupar nelle squadre; indi concordi

Tutti dalla città mossero il piede.

Gran turba lor della minuta gente

Seguia, come seguir suole suo rege

Dell’api industri il popolo, che move

Con grave susurrar dal chiuso albergo,

Nella stagion, che primavera adduce.

In guisa tal de’ capitan, che a guerra

Movean, l’orme seguia la Teucra plebe

Onde di lor sì mossi, e de’ cavalli

S’ergea grave tumulto inverso il cielo,

E si sentia delle molt’arme il suono.

Siccome allor, che la gagliarda forza

De’ venti, il mar dall’imo fondo scuote,

Alzansi l’onde torbide, e sen vanno

Con orribil rumor cozzando al lido,

E mentre il flutto impetuoso l’alga

Fervendo muove intorno alla deserta

Piaggia, roco si desta alto rimbombo:

Talmente essi muovean, sotto a’ lor piedi

Altamente gemea l’immensa terra.

In disparte gli Achèi fuor dalle mura

Al Divo Agamennon spargeansi intorno,

E si sentian de’ popoli le voci,

Che ad incontrar l’aspra battaglia allegri,

Né restar per timor presso alle navi,

Quando già tutto era nell’arme il campo

Accendeansi l’un l’altro; indi incontrare

I Teucri, che venian, siccome incontro

Sogliono ir le giovenche alle lor madri,

Che dal bosco venendo inver la valle

Lascian ne’ monti a primavera i paschi,

Quando vestiti son d’erbette i campi,

Quando è tutta di fior la terra sparsa;

E delle vacche e pecorelle il latte

Colma tepido, e dolce i larghi vasi;

Allor da questa, e quella parte nasce,

Nel mischiarsi fra lor, vario muggito,

Di cui sente piacer quei che gli pasce:

Cotal di lor, che s’affrontaro insieme

Sollevossi tumulto: poiché grave

Era di questa, e quella parte il grido.

Poscia venuti all’arme incominciaro

Lunga, e dura battaglia, e in mezzo il campo

Il tumulto fra lor volgeasi errando,

Con la crudele strage. E fatti appresso

Concorser sì, che orribilmente urtarsi

Scudo a scudo, asta ad asta, ed elmo ad elmo;

Uscian qual fuoco dal metallo i lampi;

E per molt’aste inorridia la guerra.

Sparsa tutta di sangue era l’oscura

Terra, d’eroi svenati, e di veloci

Destrier, che intorno a’ carri eran giacenti.

Palpitando, altri ancor trafitti d’asta,

Altri a lor sopra ruinando; e intanto

S’avvolgea per lo ciel tremendo fumo;

Perché la ferrea lite infra lor s’era

Gittata impetuosa, e pertinaci

Parte co’ sassi combatteano, e parte

Con l’aguzzate lancie, altri con l’aste,

Altri con le bipenni, alcuno oprava

Di doppio taglio scuri, ed altri poi

Le forti spade, e lance altri guerriere.

In guisa tal ciascun varj istrumenti

In mano avea per adoprargli in guerra.

Prima gli Argivi fur, che i Teucri alquanto

Rispinsero da se; ma quei di nuovo

Fatto contro loro impeto bagnaro

Di molto sangue Argivo il fero Marte.

Euripilo fra questi a negro turbo

Egual correa per tutto, ed animoso

Donava a’ Greci morte, e ciò perché alto

Valor Giove gli diede, affinché grata

Cosa facesse al glorioso Alcide.

Ivi Nireo, che di bellezza eguale

Era agli Dei, mentre pugnava incontro

A’ Teucri, urtò con la grand’asta sopra

Alquanto all’ombilico, onde cadea

Sovra il pian della terra, e il sangue fuori

Dalla piaga si sparse, onde irrigate

Fur le bell’arme, e maculati insieme

Il vago volto, e la leggiadra chioma.

Giacea nel sangue, e nella polve involto

Col volgo de’ cadaveri sembiante

A giovin tronco di felice oliva,

Cui l’impeto del fiume e la sonante

Onda in un con la ripa, il suo terreno

Dissipando, rapisce, e da radice

Svelto seco ne porta, ond’esso onusto

Di fior, negletto, e pien di foglie giace:

Tale allor di Nireo giacea il bel corpo

Sull’ampia terra, e l’amorosa grazia.

Sovra costui così da se conquiso

Alto vantossi Euripilo, dicendo:

Stattene or nella polve, poiché nulla,

Benché agognassi ciò, t’ha dato aita

La beltà dell’aspetto; io t’ho disciolto

Di vita, ancor che di campar bramoso.

Misero! non vedevi, a quale a fronte

Di te miglior venivi, e non sapevi,

Che al valor non è par beltade in guerra.

Detto così, con impeto si mosse

Per ispogliarlo delle nobili armi;

Ma a lui si oppose Macaone irato

Per cagion di Nireo, che appresso a lui

Sostenuto avea morte: indi ferillo

Con la rigida lancia entro la destra

Grande spalla di lui, talché ne scorse

Il sangue fuor, benché robusto ei fosse:

Ma né quinci lasciò l’aspra battaglia,

Anzi quasi leone, ovver ne’ monti

Cignal selvaggio furiando muove,

E nel mezzo si avventa, infin che uccide

Colui, che osò d’assalir lui primiero,

Ed imprimergli piaga; in guisa tale

L’alma disposto, Macaone assalse,

E con la lunga, e grave lancia lui

Ferì nel destro lombo. Egli non cesse,

Né punto ritirossi, ancorché il sangue

Sentisse uscir, né schivò lui, che incontro

Gli movea furioso, anzi prendendo

Repente con la man soverchia pietra

Di Telefo al figliuol percosse il capo:

Ma lui difese, e liberò da morte

La finezza dell’elmo: ond’egli d’ira

Contro il gagliardo eroe grave si accese,

E colmo di furor l’animo altero

Ismaniando, a Macaón trafisse

Con l’asta il petto, e la sanguigna punta

Fuori uscì dalle spalle, ed ei cadéo

A tauro egual, cui del leone il dente

Feroce abbatte, e nel cader l’ornate

Arme intorno al suo corpo alto sonaro.

Euripilo da lui così ferito

La dolorosa lancia indi ritrasse,

E nel ritrarla, in guisa tal vantando

Alzò la voce: Ah! misero, non era

Certo nella tua mente il senno fermo,

Perché essendo tu vil, di stare a fronte

Osasti ad uom di te migliore assai.

E quindi è nato poi, che sì t’ha preso

Mala fortuna, ed infelice Parca.

Per tuo conforto avrai, che di te ucciso

In battaglia da me, divoreranno

Gli augei le carni. Eh! tu credevi forse

Di schivare il mio sdegno, e la mia mano?

Medicante sei tu, molti salubri

Rimedj a te son noti, onde sperare,

Cred’io, fuggir quest’infelice giorno.

Ma né tuo padre stesso infin dall’ampio

Ciel, la tua vita involerebbe a morte,

No, se nettare, e ambrosia in te spargesse.

Così diss’egli; e quei, ripresi alquanto

Gli afflitti spirti, in guisa tal rispose:

Euripilo, nè a te prescrive il fato

Lungo tempo di vita: anzi vicino

Hai tu la fera morte in questi campi

Di Troja, ove or tante opre indegne fai.

Nel dir cosi, morissi, e l’alma scese

Tosto all’inferno; e il glorioso eroe

A lui, che non sentìa, che più non era,

Così disse parlando: Intanto giaci

In sulla terra, che io nulla mi curo

Di quel che avvenir deggia, ancorché a’ piedi

Mortale a me si giri oggi ruina.

Non vivon sempre gli uomini, ed a tutti

È prefissa nel ciel l’ora fatale.

Così diss’egli, e nel tacer con l’urto

Del piè spinse il cadavere giacente.

Alto gridò, quando s’accorse Teucro

Di Macaon sovra la polve steso;

Perché molto lontano era da lui

Pugnando, ove più folta era battaglia

Nel mezzo, e più feroce era il conflitto,

Ma non pertanto abbandonò l’illustre

Nireo caduto, ch’egli avea vicino.

Il divin Macaon vid’egli dopo

Estinto sull’arena; onde alle voci

Spargendo, in guisa tal chiamò gli Argivi:

Affrettatevi, o Greci, e non temete

Bell’inimico insulto, perché eterna

Fora vergogna a noi, se a noi rapiti

Di Macaone il saggio, e di Nireo

Divino i corpi, il piè volgessero indi

Alla cittade i Teucri. Or via si pugni

Di buon cor dunque, affinché riscattiamo

I nostri uccisi, o moriam loro intorno,

Perocché il giusto, e la ragione umana

Vuol, che gli difendiam, né lasciam loro

Trastullo, e scherzo all’arroganza altrui.

Animosi pugnam, poiché non senza

Sudor, s’accresce agli uomini la gloria.

Così dunque diss’egli; ed aspro duolo

Gli Achei trafisse: onde vermiglio fero

Molti da questa, e quella parte il piano,

Mentre fermati a guerreggiar d’intorno

Gli estinti, uccidea lor l’ira di Marte;

Non avea alma vantaggio, anzi la pugna

Era in tutto fra lor librata, e pari.

Tardi alfin Podalirio il caso acerbo

Del frate seppe, e che giacea ferito

Là sull’arena, e morto, e ciò perch’egli

Si trattenea presso alle ratte navi

A medicar le piaghe di coloro,

Che de’ nemici avean ferito l’aste.

Vestissi dunque tutte l’arme irato

Per la fraterna morte, e dentro al fiero

Petto di lui crescea valor, mentr’egli

Moveasi impetuoso al crudo assalto:

Bolliagli furioso intorno al core

Il negro sangue, onde avventossi ratto

Fra gli avversarj, con le man veloci

Di gran punta vibrando armato dardo,

Feroce dunque uccise al primo incontro

D’Agamestore figlio il divin Clito,

Cui bella Ninfa partono vicino

Di Partenio alle rive, il qual sen corre

Per lo terren, di placid’olio in guisa,

E l’acque chiare entro all’Eussin diffonde.

Altro avversario in quel medesmo punto

Sovra l’estinto frate uccise egli anco

Lasso, cui partorito avea Pronoe

Ad Anticheo, del fiume in sulle rive

Ninfeo, molto appresso all’antro vasto,

L’antro maraviglioso, il qual è fama

Di tutte quelle Ninfe esser delubro,

Che menan vita in sulle cime eccelse

De’ Paflagonii monti, e di quelle, anco

Tutte, che in Eraclea ricca di viti

Hanno l’albergo; e ben divina cosa

Rassembra quello speco, poiché fatto

Di pietra, è a riguardarsi smisurato;

Gelida per lo sasso un’acqua scorre

A cristallo sembiante, e ne’ più cupi

Recessi d’ogni intorno al duro scoglio

Coppe disposte SON nel vivo marmo

Simili al vero sì, che della mano

D’artefice mortal rassembrano opre.

Intorno a lor par di veder le amate

Ninfe, le tele, e le conocchie, e quante

Cose altre appo i mortal l’arte richiede.

Queste, ed altre simili a maraviglia

Movon cose color, che dentro il sacro

Speco sen vanno. Ha due discese questo,

Ed insieme due porte, ove altri ascende.

Luna di lor ver l’Aquilon sonante

Alpestre, ed erta, e l’altra all’Austro è volta,

Che umido spira, onde alla gran caverna

Facile è dato ad uman piede il varco.

Sen van per l’altra gl’immortal, né lieve

Fora ad uom camminarvi, in guisa cupo

Abisso indi si stende infino all’imo

Baratro, ove superbo alberga Pluto.

E quanto ivi si asconde, all’occhio solo

Degl’immortali Dei contemplar lice.

Or nella pugna, che si fea d’intorno

A Macaone, e al gran figlio d’Aglaja,

Da questa, e quella parte iva cadendo

Ferito, e morto numeroso stuolo.

Alfin dopo fatica e lunga e grave

Pur riscossergli i Greci, ed a’ compagni

Gli dier, che gli portaro alle lor navi.

Sopra molti cadea l’aspra ruina

Della gravosa guerra, e pure ancora

Della necessità la dura legge

Lor rinforzava a faticar nell’arme.

Ma quando poscia soverchiò la copia

Di quei, che nel sanguigno, e doloroso

Tumulto versar l’alma, ed adempiro

L’oscure Parche: allor tutti alle navi

Fuggian que’ Greci, sovra cui volgea

La gran tempesta Euripilo dell’arme.

Breve il numero fu di quei che saldi

Stero alla zuffa in compagnia d’Ajace,

E de’ potenti due figli d’Atrèo.

E senza dubbio alcun periti allora

Foran per man degl’inimici, tutti

Color, che s’avvolger per la battaglia,

Se il figlio d’Oileo non percotea

Sovra la manca spalla, e non lontano

Alla mammella con la lancia il saggio

Polidamante, ond’anche il sangue uscìo,

E fe’ lui forza di ritrarsi alquanto.

L’inclito Menelao presso alla destra

Mamma ferì Deifobo, che fuori

Dal conflitto fuggì con piè veloce.

Il divino Agamennone gran turba

Uccise anch’ei fra le nocenti squadre,

E furiando con la lancia, colse

Etico, ed esso a’ suoi compagni ratto,

Fuggendo per salvarsi il piè converse

Quando il conservator delle sue genti

Euripilo mirò dalla crudele

Pugna tutti ritrarsi, e dare il tergo,

I fugaci lasciò, ch’egli incalzando

Cacciati avea fino alle navi, e ratto

Passò colà, ‘ve i due gagliardi vidde

Figli d’Atreo pugnar con l’animoso

Figlio d’Oileo, che rapido nel corso,

Ed illustre nell’armi era guerriero.

In questi impetuoso urtò, vibrando

La lunga lancia. E in compagnia di lui

Vennervi pari, e il glorioso Enea,

Che in un balen con grande, e grave pietra

Nel durissimo elmetto Ajace colse,

Il qual bene istordito al suol cadeo

Steso: ma l’alma non versò morendo,

Perché a lui nel ritorno infra gli scogli

Cafarei prescritto era il dì fatale.

Gli animosi scudieri indi il rapiro

Fievolmente spirante, e sulle braccia

All’Argoliche navi il riportaro.

Soli, ed abbandonati allor nel mezzo

Restar gli Atridi regi, e intorno a loro

L’avversarie falangi, che da questa

E quella parte saettavan loro

Con ciò, che ritrovar potea la mano.

Perocché aspre quadrella altri spargea

Altri sassi, altri dardi; ed essi in mezzo

Volgeansi intorno di cignali in guisa,

O di leon dentro le reti, allora

Che radunati gli uomin da’ regnanti

Cingon lor d’aspro cerchio, in fabricando

Grave ruina alle feroci fiere;

Ed elle se mirando in chiuso giro,

Sbranano i servi, o quel di lor più audace,

Che osa di farsi al lor furor vicino.

Così costor nell’inimico cerchio

A quanti gli assalian tolgon la vita.

Ma né così benché n’avesser voglia

Potuto avrian campar, se non venia

Teucro in soccorso lor con l’onorato

Idomenéo con Merione, ed anco

Toante, e Trasimede a’ Divi eguale.

Questi temendo il valoroso ardire

D’Euripilo, fuggiti inver le navi

Foran per involarsi alla ruina,

Se il timor del periglio, ond’eran cinti

I figliuoli d’Atreo, lor mossi incontro

Non avesse ad Euripilo; onde poscia

Ebber pugna fra lor chiara, ed illustre.

Allor puntando il valoroso Teucro

Nello scudo d’Enea l’asta sospinse,

Ma non offese il delicato corpo,

Perché il colpo sostenne il grande scudo,

Cui ricoprian di quattro buoi le terga.

Ritirossi però temendo alquanto

Addietro. Ed indi Merione assalse

Il buon Laofoonte di Peone

Figliuol, cui partorì vicino all’acque

D’Assio la bella Cleomede; e venne

Del saggio Asteropeo questi compagno

In soccorso de’ Teucri. Ora costui

Con l’aspra lancia Merìon ferio

Di sopra alquanto a’ genitali, ed indi

Per quella via, che lor la punta aperse,

Le viscere ne usciro, e in un baleno

Sen gìo volando all’atra notte l’alma,

Quinci d’Ajace d’Oileo compagno

Il prudente Alcimede inver le schiere

De’ gagliardi Trojan distese il colpo,

E con la fionda lacrimosa pietra

Lanciò piegando, ove più densa, e grave

Era l’avversa turba. Onde le genti

Al grave rombo isbigottiro, ed anco

Tremaro al sasso, che venìa rotando,

Questo la cruda Parca al pronto auriga

Di Pammone gettò d’ Ippaso figlio,

Cui mentre fra le man la briglia avea

Nella tempia percosse, e giù dal carro

Tosto lo spinse avanti alle sue ruote.

E nel cader che l’infelice corpo

Fe’ su i ferrati giri, il presto carro

Urtato da’ destrier si mosse addietro;

Lui tosto oppresse l’aspra morte, ond’egli

In disparte lasciò redini, e sferza.

Pammone alto sen dolse, e fe’ la dura

Necessità, ch’egli medesmo fosse

Del lieve carro suo rege, ed auriga.

E ben veduto avrìa l’estremo giorno

Ess’anco, s’un de’ Teucri entro il sanguigno

Conflitto, con la man non prendea i freni,

E non salvava il rege omai, dall’aspre

Man de’ nemici travagliato, e vinto.

L’egregio, che movea contro, Acamante

Sovra il ginocchio con la lancia punse

Di Nestore il figliuol prode, e gagliardo.

Onde spasmando per l’acerba piaga

Dalla pugna arrestossi, e nel dolente

Tumulto (non curando omai di guerra)

Restar lasciò i compagni. Allor percosse

Uno scudier d’Euripilo famoso

Di Toante il compagno all’arme intento

Echemmone, alla spalla alquanto sotto,

E presso al cor passando il mortal ferro

Col sangue uscìo da’ membri il sudor freddo,

E mentre ei si volgea per ritirarsi

Addietro, diede a lui con la gran forza

Euripilo di piglio, e a lui recise

I pronti nervi, onde restaro i piedi

Immoti là, dove percossi furo,

E l’anima immortal da lui partìo.

Impetuoso indi ferì Toante

Pari con Fasta acuta entro la destra

Coscia; onde ritirossi alquanto, e corse

All’arco, che lasciato addietro avea.

Idomeneo con quanta avea di forza

Un sasso alzato, Euripilo percosse

Nel braccio, onde cadéo la cruda lancia

A terra, ed ei si ritirò repente,

Perché portata a lui fosse un’altr’asta,

Caduta quella al suoi, ch’egli avea in mano,

Onde i figli d’Atreo dalla fatica

Del guerreggiar si riposaro alquanto.

All’altro in un balen corsero i servi,

E fatti appresso lunga lancia integra

Gli dier, che a molti le ginocchia sciolse.

Cui poich’egli ebbe, il popolo assalìo

Furibondo, e gagliardo, e dando morte

A quanti egli giungea, gran gente uccise.

Fermi allor contro lui star non potero

Gli Atridi, ed altri fra i guerrieri Argivi;

Perché orribil timor tutti avea preso,

E non senza cagion: cotal da tergo

Versando sovra tutti alta ruina

Euripilo seguìa facendo strage,

E nel maggior furor così gridando

Disse a’ Trojani, ed a’ guerrieri amici:

Or via, compagni, una concorde voglia

Chiudiam nel petto, ed apportiamo a’ Greci

La morte insieme, e l’infelice Parca,

Or che fuggendo a pecore simili

Tornano a’ legni loro. Abbiam memoria

Tutti dell’aspre zuffe, onde noi siamo

Dalla tenera età dotti, ed esperti.

Così diss’egli: ed essi uniti insieme

Urtar gli Argivi, che da grave tema

Vinti fuggian dalla crudel battaglia.

Essi eran loro a tergo in quella guisa,

Che sogliono cacciar mordaci cani

In valle o bosco li selvaggi cervi.

Molti spargeano al suol, che avean pur voglia

Dall’aspra uccision del lacrimoso

Tumulto ritrovar salute, e scampo.

Estinse allora Euripilo il prudente

Bucolione, e Cromio, Antifo, e Neso,

Che la ricca Micene abitar parte,

E parte Lacedemona. E far questi

Quelli, a cui più famosi ei diede morte.

Degli altri poi della negletta plebe

Tanta copia atterrò, ch’io non potrei,

Bench’io bramassi ciò, spiegar cantando,

Se anco di ferro in petto avessi il core.

A Antimaco, e Ferete Enea diè morte

Cretesi entrambi, che seguìto aveano

Il duce Idomeneo. Privò di vita

Agenore il divin, Molo il perfetto,

Che con Stenelo re d’Argo sen venne.

Con un dardo costui ferì da tergo

Nuovamente arrotato, allor che fuga

Egli prendea dalla battaglia, e colse

Lui della destra gamba entro al più basso

Luogo, e la punta in trapassando acuta

Recise i larghi nervi, e l’ossa franse

Miseramente, onde al dolor la morte

Mischiossi in un momento, e l’uom perìo.

Pari Moniso uccise, e il generoso

Forci, ambo frati, che da Salamina

Sulle navi d’Ajace eran venuti

Per non far più nel patrio suol ritorno.

Presso a costor nella sinistra mamma

Il forte Cleolao ferendo estinse

Di Megete scudiero, onde infelice

Notte l’assalse, e gìo l’anima a volo.

A costui sul morir nel petto il core

Palpitava frequente, e nel suo moto

Muover seco facea l’alato dardo.

Spinse indi frettoloso altra saetta

Entro l’ardilo Eezione e il ferro

Tosto passò per l’una e l’altra gota.

Pianse quegli percosso, e si meschiaro

Le lacrime col sangue: altri ad altrui

Dea morte sì che la campagna piena

Era d’Argivi, che giacean prostrati

L’un sovra l’altro a monti. E certo allora

Arsi col fuoco i legni avriano i Teucri

Se non sopraggiungea la notte, seco

Profondo aere traendo. A cui diè luogo

Euripilo, con cui tutti i Trojani

Lieti ivi si allogar non lunge ai legni

Appresso a Simoenta. I Greci mesti

Piangean, gittati là sovra la rena

Presso alle navi, i lor compagni estinti;

Perché molti di lor quel giorno avea

Sopra la polve giunti il negro fato.