I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO SECONDO

Dal sommo già di risonanti colli

Dell’indomito sol la luce uscia,

E nelle tende i poderosi figli

De’ Greci erano lieti, e gloria grande

Davano al forte e valoroso Achille.

D’altra parte i Troian nella cittate

Piangean dolenti, e su le torri intorno

Sedendo, alle custodie erano intenti.

Imperocché timor tutti avean preso

Che sormontando il feroce uom le mura

Loro uccidesse, e l’altre cose tutte

Donasse in preda alla vorace fiamma.

A costor dunque in cotal guisa mesti

Così il vecchio Timete a parlar ebbe:

Amici, quanto io col pensier penetro,

Veder non so qual deggia aver rimedio

Questa esecrabil guerra, or che caduto

È il valoroso Ettorre, il qual fu dianzi

Forte sponda a’ Troiani, e pur le Parche

Evitar non potéo, ma vinto giacque

Dalle mani di Achille, onde io mi stimo

Che se in battaglia l’incontrasse un Dio

Fora da lui nella battaglia vinto.

Vedete qual domata ha combattendo

Pentesilea, la forte, avanti a cui

Ciascun fuga prendea degli altri Greci.

Però che era tremenda, e tosto ch’io

La vidi, mi stimai che fin dal cielo

Fosse disceso a noi qualche immortale

Per aiutarne, e pur ciò ver non fue.

Or poniam mente ben quel che sia il meglio,

O di pugnar coll’inimico acerbo;

O di fuggir dalle perdute mura.

Or mai più non potiam, or che si mesce

Nelle battaglie il dispietato Achille,

Star noi del par con l’avversario a fronte.

Così diss’egli, e in questa guisa a lui

Rispose allor di Laomedonte il figlio:

Amico, e voi Troiani, e tutti insieme

Voi che forti moveste a nostra aita;

Parmi che non sia ben per tema vile

La nostra patria abbandonar, Né meno

Dalla città lontan con l’inimico

Venir a pugna, ma sì ben dal giro

Combatter delle mura, e dalle torri,

Finché a noi giunga Memnone il gagliardo

Conducitor d’ innumerabil turba,

Di quei che negra l’Etiopia alberga.

E già cred’io che dalla nostra terra

Poco si trovi lunge, poiché fresca

Non ho di lui fra’ miei dolor novella.

Ben so che prontamente egli promise

Il tutto di spedir, venendo a Troia,

Ond’io deggio sperar che sia vicino.

Soffrite, prego, dunque ancora alquanto.

Poiché molto è miglior quai valorosi

Combattendo morir, che presa fuga

Viver fra gli stranier, d’obbrobrio carchi.

Ciò disse il vecchio, e non piaceva al saggio

Polidamante il prolungar la guerra.

Onde queste parlò voci prudenti:

Se apertamente Memnone promise

Liberar noi dalla crudel ruina

Già non so ricusar, che non si attenda

Nella città, da noi, quest’uom divino.

Ma ben teme dubbioso il mio pensiero

Che venendo costui con le sue genti

Non vi rimanga ucciso, e di noi molti

Nella ruina sua tiri ed invelva,

Né deggio non temer; così cresciuta

È, come appar, de’ Greci oggi la forza.

Or via su dunque, ne fuggiam lontano

Della nostra città, né per viltate

Noi sopponiamo alle vergogne, all’onte,

Passando erranti a popolo straniero;

Né men per non lasciar la patria nostra

Uccider ci lasciam da’ Greci in guerra.

Ma, sebben tardi, è però il meglio a’ Greci

Render Elena bella, e insieme quante

E ricchezze e tesor da Sparta addusse.

Anzi ancor più dar loro onde salviamo

La città nostra e noi, Né, sì, fra loro

Partano i nostri ben, le crude genti,

E strugga la città vorace fiamma.

Credetemi, vi prego, perchè certo

Veder non so qual ritrovar si possa

Altro miglior per li Troian consiglio.

Piacesse a Dio che a’ detti miei creduto

Ettorre avesse, allor ch’io mi sforzava

Di tener lui nella sua patria chiuso.

Così parlò Polidamante, e piacque

A’ Troian nell’interno il suo consiglio;

Ma fuor non lo mostrar da tema vinti

Del re, cui riverenza aveano, e insieme

D’Elena, ancor ch’estinti omai per lei.

A costui benché grande in questa guisa

Con acerbo parlar s’oppose Pari:

Polidamante, or tu fugace e vile

Sei; Né chiudi nel sen guerriero il core,

Ma sol timore e fuga; esser ti vanti

Ne’ consigli perfetto, e pur mai sempre

In sentenza peggior ti avvolgi e cadi.

Or via tu sol dalla battaglia lunge

Stanne, e in casa ti siedi; e intanto gli altri

Meco per la città vestiran l’arme,

Infin che ritroviam qualche rimedio

A questa lunga e disperata guerra.

Piacciono ad uom viril la gloria, e l’opre;

A’ fanciulli, alle donne il fuggir piace:

A cui ben tu rassenabri: Io certo in guerra

Mai non seguirò te così, di tutti

Intepidisci tu l’ardita forza.

Tal con gravi rampogne ei disse, e d’ira

Arse Polidamante, e non si astenne

Di dar risposta a lui benché presente;

Perocché vano ed odioso ed empio

È quei che dolce in faccia altrui ragiona,

E nel profondo petto altro chiudendo,

L’assente amico occultamente aggrava:

Quinci col gran signor garrìo palese:

Oimè nocente più che altr’uom terreno

Tuo ardir n’apportò doglia, e l’ostinato

Animo tuo sostien la guerra, e tanto

La sosterrà finché tu veggia estinta

Con tutto il popol tuo la patria mesta.

Tal ardir me non prenda, assai migliore

Parmi timor, che mi assicuri, e faccia

Che salva mia magion s’avanzi e cresca.

Così diss’egli, e non rispose Pari,

Poiché narrò quanti per lei soffriro

Danni i Troiani, e quanti ancor per lei

Dovean soffrir, perocché acceso il core

Bramava di morir, pria che lontano

Viver d’Elena bella, a’ Divi eguale;

D’Elena, onde i Troiani alto la guardia

Facendo gian, dalla città sublime

Attendendo gli Argivi, e dalla stirpe

D’Eaco sceso il poderoso Achille.

Venne indi a poco Memnone guerriero,

Memnone il re degli Etiopi adusti,

Seco traendo innumerabil gente.

Si allegraro i Troian, vedendo lui

Nella cittate a guisa di nocchieri,

Che nell’atre tempeste afflitti e stanchi

Veggion mostrarsi in fra le nubi in cielo

Di Elice rotante il chiaro lume.

Tal sentiro piacer. Ma sovra tutti

Di Laomedonte il figlio, perchè certo

Speme egli avea, che dalle negre genti

Fosser combuste le nemiche navi.

Tal era smisurato il rege loro,

Tanti eran essi, e di pugnar bramosi.

Quinci giammai non si sentiva sazio

Di onorar lui con preziosi doni

Con allegre accoglienze, e feste liete,

E fra le mense e i delicati cibi

Venian partendo il ragionar fra loro.

Questi narrava lui gli argivi eroi,

Quanto contro lor fe, quanto sofferse.

Questi del padre e della madre Aurora

Ambo immortai dicea, gl’immensi

Flutti di Teti, l’onda sacra insieme

Dell’Oceán profondo, e della terra

Alle fatiche invitta il lido estremo.

Dicea del Sole i nascimenti, e quanta

Via scorso avea dell’Oceán, venendo

Di Priamo alla cittate, a’ monti Idei.

Raccontando venia come con forte

Mano gli avea da’ Solimi superbi

Domato il sacro stuolo, onde impedito

Ei fu venendo, e quinci apportò loro

Incomparabil danno, alta ruina.

Così parlava ed aggiungea com’egli

Mille veduti avea popoli e genti.

Giubbilava al suo dir di Priamo il petto,

Presa a lui la man con dolci moti

Queste piene di onor parole disse:

O Memnone agli Dei piaciuto fu ch’io

Te veggia, e le tue squadre entro al mio albergo:

Or facciam sì ch’io vegga anco gli Argivi

Tutti uccider, cader dalla tua lancia,

Però che agli Dei tu del cielo invitti

Alteramente assembri, e sì, che nullo

Altro terreno eroe più non somiglia.

E quinci avvien, che feramente io speri,

Che tu col tuo poter gli aversi uccida.

Ma godi pur di cibi oggi a tua voglia,

Poi quando fia dover tratterem l’arme.

Ciò detto ad ambe man capace coppa

Sollevando invitò cortese, e pronto

Memnone, con la coppa aurea pesante,

Che del zoppo Vulcan fabro ingegnoso

Fattura illustre, in dono a Giove diede

Potente, ed ei donolla indi al divino

Dardano suo figliuolo, ed egli al figlio

Erittonio la diede, ed Erittonio

Al magnanimo Troe, quinci esso ad Ilo

La lasciò co’ tesori, ed ei la diede

A Laomedonte, e Laomedonte a Priamo,

Che poscia al figlio suo dovea lasciarla,

Ma ciò compir lui non concesse il fato.

Nel contemplar la riguardevol tazza

Restò Memnone attonito, e trattando

Lei con la mano, in guisa tal soggiunse:

E’ non convien mentre uom sedesi a desco

Molto vantarsi, e temerarie altrui

Far le promesse, ma tacito e cheto

Starsi in casa mangiando, e con la mente

Fabricarsi pensier sani e modesti.

S’io sia prode e valente, o sia codardo

Conoscerai nella battaglia, dove

Dell’altrui gagliardìa fassi la prova.

Or pensiamo al riposo, e fra la notte

Più non beviam; perchè il soverchio vino

E il vigilar sono a colui dannosi

Che si prepara al faticar nell’arme.

Così diss’egli, ed ammirò i suoi detti

II vecchio, indi riprese: e ‘l vino e ‘l cibo

Prendi come a te par, siasi a tua voglia,

Ch’ io sforzarti non voglio, e non conviene

Uom ritener che parte, e che rimane

Dall’albergo cacciar: ma vuole il giusto

Che altri faccia di se ciò che gli piace.

Così diss’egli, e dalla mensa l’altro

Levossi, e trovò il letto ove dovea

Dormir l’ultimo sonno; e i convitati

Sen giro anch’essi a procurar le piume;

E lor indi soave il sonno assalse.

Di Giove intanto, adunator de’ lampi,

Sedeansi i Divi entro gli alberghi a mensa;

E il gran padre Saturnio a loro in mezzo

Assiso, al cui pensier nulla s’asconde,

L’opre dicea della infelice guerra;

Ben a voi, Divi, è manifesto, disse,

Qual si apparecchi miseranda strage

Diman nella battaglia, ove vedrete

I feroci destrier laceri e guasti,

Caduti a’carri appresso, e in un con loro

Monti giacer de’cavalieri estinti.

Or se alcun di voi fia cui ciò dispiaccia,

Rimanga a dietro pur, Né per pregarmi

Le mie ginocchia ad abbracciar sen venga;

Imperocché severe anco a noi sono

Le Parche. Sì disse egli in mezzo a loro

Che ben sapeano ciò, ma dir lo volle

A fin che pensieroso alcun di loro

Girando a’ figli ed agli amici intorno

Lasciata la battaglia, indarno poscia

Tornasse dentro al non passibil cielo.

Udito ciò da Giove altitonante

Pazienti soffrir, Né contro al rege

Mosser parola, perchè avean di lui

Timor immenso, ma dolenti andaro

Ciascun la’ v’era il proprio albergo al letto.

Intanto a lor benché immortali Numi

Del dolce sonno il placido conforto

Sovra si stese all’umide palpebre.

Quando le cime degli eccelsi monti

Salendo all’alto ciel lucea l’ardente

Stella del dì, che i mietitor sommersi

In dolce sonno al faticar richiama.

Dal figlio allor della lucente Aurora

Partì l’ultimo sonno, ed ei la mente

Colma d’alto valor già desiava

Di trovar se con gli avversarj a fronte.

A forza in verso il ciel salía la madre

Aurora intanto, e i Teucri a’ membri intorno

Adattandosi gian l’armi guerriere

Con gli altri Etiopi insieme; e quante genti

Avea Priamo d’intorno, e in un congiunti

I popoli adunati in suo soccorso.

Precipitosamente indi n’usciro

Fuor delle mura all’atre nubi eguali,

Che Giove suol con abbondante copia

Per lo cielo adunar surgendo il verno.

Fu ripien tutto in un momento il campo,

Perché si diffondean quasi locuste

In larghe schiere accolte, che volando

Di nebbia in guisa, o di copiosa pioggia

Sovra gl’immensi pian dell’ampia terra,

Voracemente ingorde, apportan seco

A’ miseri mortal l’orrida fame.

Tanti eran questi, e così audaci. Angusta

Rassembrava la via per la gran calca,

Mentre moveansi impetuosi, e folta

Sorgea sotto a’ lor piè copia di polve.

Meravigliarsi d’altra parte i Greci

Quando videro lor pronti e veloci

Venir avanti, e senza far dimora

Si vestiron di ferro. Alto sperando

Nel gran valor del figlio di Peleo,

Il quale in mezzo a lor se ne venìa

A’ gagliardi Titan simile in vista,

Del carro, e de’ corsier lieto e superbo:

D’ogni intorno spargean le lucid’arme

Splendor sembiante a luminosi lampi:

Come là da’ confin dell’Oceano,

Che con le braccia sue la terra cinge

Con l’immortal sua luce ascende il sole

Inverso il ciel, lucente sì, che lieti

Ne ridon l’aere, e la ferace terra:

Cotal movendo infra le Argive schiere

Di se mostra facea di Peleo il figlio.

Memnone anch’esso e coraggioso e forte

Era all’audace Marte in tutto eguale.

Pronti i popoli intorno ivan seguendo

L’impeto del lor duce, indi ordinarsi

De’ Greci e de’ Troian le lunghe schiere,

E tenner gli Etiopi il primo luogo.

Con orribile suon quinci incontrarsi

Pur come onde di mar fremendo intorno

Gli aversi venti, e la stagion del verno:

Uccideansi fra lor vibrando l’aste

Di frassino pulito, e ne sorgea

Un confuso rumor misto di pianto:

Siccome allor che due sonanti fiumi

Mentre Giove dal ciel versa gran pioggia,

Corron con alto suon gemendo al mare

L’un con l’altro cozzando il gran rimbombo

Mandan fin alle nubi e innanzi a loro

Spingon soffiando impetuoso tuono;

Tal pugnando costor, sotto le piante

Di lor alto gemea pressa la terra;

E per l’immenso ciel fremito e fiato

Terribil si avvolgea, sì quinci e quindi

Destavan grande e furioso tuono.

A Talio allor diè morte, al saggio Mente

Achille, ambo famosi, e in un con loro

Molti e molti altri combattendo uccise.

Come se nelle cupe ime caverne

Rinchiuso dalla terra il vento freme

Impetuoso, gli edificj intorno

Caggion da’ fondamenti insieme al piano;

Tal grave trema e si sommuove il suolo;

Così ratto cadean le genti a terra

Per la lancia d’Achille, in guisa tale

Furiato fremea l’altero petto.

Né men dall’Altro lato il nobil figlio

Distruggea dell’Aurora, il greco stuolo;

Al fato ugual che a’ miseri mortali

Acerbissime pesti, e mali adduce.

Prima uccise Teron, trafisse il petto

A lui con la crud’asta, e presso a lui

Ad Ereuto il divin tolse la vita,

Ambo di guerre e d’aspre zuffe vaghi.

Questi abitar Tiro d’Alfeo vicini

Al corso, e il duce Nestore seguiro,

D’Ilio venendo alle sacrate mura.

Questi uccisi così di nuovo assalse

Il figlio di Peleo per dargli morte;

Ma lo prevenne Antiloco divino,

E lanciò l’asta lunga e non lo colse,

Perchè alquanto piegossi, e pur ancise

Etope di Pirrasio, ed egli irato

Per la morte di lui, scagliossi avanti,

Qual feroce leon verso il cignale,

Che ripieno egli ancor d’invitta forza

Pugnar fa incontro agli uomini e alle fere.

Tal veloce l’assalse, ed egli incontro

Lanciogli grave sasso, e non l’uccise,

Perocché lui da lagrimosa morte

La dura tempra liberò dell’elmo.

Quando percosso e’ si sentì dal colpo

Di altissimo furor nel cuor si accese;

Rimbombavagli l’elmo al capo intorno,

E più e più s’incrudelía rabbioso

Ad Antiloco incontro, e dentro al petto

Robustissima in lui bollía la forza,

Quinci benché guerrier sopra la poppa

Di Nestore il figliuol percosse, e l’asta

Il cor passogli poderosa, dove

Velocissima agli uomini è la morte.

Al cader di costui gran doglia assalse

Tutto l’Argivo stuol, ma sovra tutti

A Nestore il dolor trafisse l’alma

Padre di lui, quando ammazzar si vide

Avanti agli occhi proprj il caro figlio.

Perchè dolor più acerbo in fra’ mortali

Non vi ha di quel che il genitore offende

Quando vedente lui vien morto il figlio.

Quinci nel forte cuor chiusa la rabbia

Doleasi del figliuol che giacea vinto

Dall’infelice fato, e con gran voce

Trasimede chiamò, ch’era lontano:

Corri deh corri, o Trasimede caro,

Acciocché del tuo frate e mio figliuolo

Dal corpo discacciam quei che l’uccise.

E se ciò non potrem, da noi si adempia

Sovra cadendo a lui l’acerbo caso.

Perchè se nel tuo sen viltade alberga,

Già con sei tu mio figlio, e della stirpe

Non tu di Periclimeno, che ardito

Fu di affrontar nella battaglia Alcide.

Or via dunque pugniam, perchè sovente

Necessità dà forza anco ai men forti.

Ciò disse e nell’udir di lui nel petto

Meschiossi al grave duol feroce rabbia.

Fereo n’accorse anch’egli, il qual sentito

Dell’ucciso Signore avea gran doglia,

E tutti insieme uniti a pugnar contro

Memnone gian nel sanguinoso assalto.

Come talor nelle selvose falde

Degli alti monti i cacciator di preda

Bramosi, ad affrontar cignale od orso

Sen van per atterrarlo, ed ei con ambe

Le branche oprando la fierezza audace

Se dal valor degli uomini difende.

Così Memnone allor d’alta virtute

Colmossi, e intanto appresso a lui si fero

Essi, ma non potero a lui con l’aste

Lunghe dar morte, perchè errar le punte

Né coglier lo poter, perocché i colpi

Altrove cauta rivolgea l’Aurora.

Non però a vuoto andar le lance a terra,

Perchè il forte Fereo ratto movendo

Polinnio uccise di Megete figlio,

E per la morte del fratello irato,

Cui Memnone poc’anzi in guerra uccise

Di Nestore il figliuol prode e gagliardo

Laomedonte fuor trasse di vita;

Ma Né quinci restò, che dall’ucciso

Con le feroci infaticabil mani

Memnone non sciogliesse il ferreo arnese

Di Trasimede e di Fereo gagliardo

Non curando la forza, perciocch’egli

Lor vincea di gran lunga, ed essi in guisa

Di due cervier, che ad assalire il cervo

Sen vanno, il gran leon temendo il piede

Fermano, e passar oltra ardir non hanno.

Così que’ due restaro; il che d’appresso

Nestore contemplando, alto ne pianse

E gli altri suoi compagni a chiamar ebbe

Incontro gli avversarii, e s’accingeva

Dal carro a pugna anch’esso, perchè sovra

La forza dea lui forza alla battaglia

L’ardente amor del suo figliuolo estinto.

E ben col figlio suo caduto egli anco

Fora, non dissimile agli altri uccisi,

Se a lui, vedendo Memnone feroce

Lui spinger nel, conflitto in guisa tale

(Onorando fra se lui che l’etade

Era all’antico suo padre sembiante)

Detto così parlando ei non avesse:

Vecchio, a me non convien di pugnar teco,

Di me d’assai più antico, e so ben io

Distinguer ciò ch’io deggia, e s’io vedessi

Te giovane e robusto agl’inimici

In guerra mover contro, il mio pensiero

Fermo saria di aver trovato impresa

E di mia lancia degna e di mia mano.

Or via vanne lontan dalla battaglia,

Lascia l’orride morti acciocché forse

Necessità, non volendo io, mi sforzi

A drizzare in te colpo, onde tu caggia

Con più forte di te pugnar volendo

Sovra il tuo figlio, a te dican le genti

Poscia non saggio, che disdice altrui

Uomo affrontar che è più di se gagliardo.

Ciò disse; e il vecchio in guisa tal rispose:

O Memnone,i tuoi detti indarno hai sparsi,

Perchè giammai non fia che stimi folle

Qual per il figlio suo combatte, e in guerra

Dal cadavere suo tenta lontano

Combattendo cacciar l’empio omicida.

Oh! fosse in me la consueta forza,

Perchè dell’asta mia tu festi il saggio.

Or tu soverchio hai vanti, e m’è cagione

La nova età, che altrui fa l’alma audace

E ventosa la mente, e quinci avviene

Che altero pensi, e follemente parli:

Se allor venuto a me tu fosti avanti,

Che la mia gioventude in me fioria,

Certo di te gli amici ancor che forte

Fossi non foran lungo tempo allegri.

Ma or quasi leon dall’infelice

Vecchiezza oppresso mi ritrovo, cui

Audacemente in sen dalla copiosa

Mandra discaccia, ed esso, ancorché voglia

N’aggia se stesso non difende, poscia

Che saldi egli non have e denti e forza,

E il valoroso cuor per gli anni langue.

Tal io nel petto mio l’usata possa

Non aggio, e pur così son più gagliardo

Di molti uomini e molti, e questa mia

Prosperosa vecchiezza a pochi cede.

Detto ch’ebbe così, scostossi alquanto,

E nella polve il suo figliuol disteso

Lasciò, perché più ne’ suoi curvi membri

Intiera non avea l’antica forza,

Sì la vecchiezza faticosa e dura

Premeva a lui col grave fascio il tergo.

Né men da lui buon oprator di lancia

Scostossi Trasimede, e l’animoso

Ferro con gli altri suoi compagni insieme

Temendo. In guisa tal l’uom ruinoso

Lor nel grave conflitto iva incalzando,

Come dagli alti monti ondoso fiume

Con orribil rumor mormora e cade,

Mentre gran verno e nubilosi giorni

Manda agli uomini Giove, e d’ogni parte

Fra lor cozzando le copiose nubi

Destano e tuono e lampi, e con noioso

Croscio folta cadendo e scura pioggia

Inonda i campi, e d’ogni monte al basso

Scendon mugghiando i rapidi torrenti;

Tal per le rive là dell’Ellesponto

Fugava i Greci Memnone, e premendo

Uccidea lor dal tergo, e molti l’alma

Fra il sangue ivan lasciando e fra la polve

Per man degli Etiopi: al suolo intriso

E fra se colmo era d’Argivo il sangue.

D’alta letizia Memnone. passando

Già fra le avverse squadre, e il suol Troiano

S’ingombrava di morti, ed ei pur anco

Non prendea combattendo alcun riposo;

Perocché sperava egli essere a’ Teucri

Luce, e ruina a’ Greci: ma ingannollo

Dolorosa la Parca che a lui presso

Stando, lo rincorava alla battaglia.

A lui d’intorno combatteano i forti

Compagni Alcioneo, Nichio, l’illustre

Asiade, Meneclo n bellicoso

Cladonte, ed Elasippo, ed altri seco

Di pugnar vaghi, e s’incitava in loro

La guerriera virtù: tal gli rendea

Securi il proprio rege, onde Meneclo

Che animoso assalia le Greche schiere

Achille uccise, e quindi acceso d’ira

Per l’estinto compagno il valoroso

Memnone molta gente a morte diede;

Come allor che seguendo i cervi snello

Ne’ monti il cacciator, e in un raccolti

De’ giovani alle grida entro le nere

Reti, e in turme gli spinge ultimo inganno

In caccia, e in tanto i can mosso lo stormo

Latran frequenti, ed egli il dardo spinto

Dona alle damme lievi acerba morte.

Così Memnone allor gran gente uccise

Nella battaglia, onde i compagni allegri

Erano, e d’altra parte i Greci fuga

Prendean temendo il celebre guerriero.

Come se d’alto monte al pian ruina

Immensa pietra, che l’invitto Giove

Coll’affocato folgore divelle

Dalla scoscesa cima; ella divelta

Per l’alte selve, e per le lunghe valli

Scende precipitosa, e gran rimbombo

Per le spelonche desta, e se ne’ boschi

Sotto colà, dove rotando cade,

Pascan gregge ed armenti ed altro tale;

Fuggon da lei, che a salti giù declina

L’impeto periglioso il grave rombo,

Così gli Achei dalla robusta lancia

Di Memnone feroce ivan fuggendo.

Allor fattosi appresso al forte Achille

Nestore per lo figlio alto gemendo

Così gli disse: o de’ gagliardi Greci

Saldo riparo, ecco l’amato figlio

Mio giace estinto, e di lui morto l’arme

Memnone usurpa, ed ho timor che sia

De’ can trastullo; or via tosto m’aita,

Perchè amico è colui che dell’amico

Morto ha memoria, e del perduto ha doglia.

Disse, e grave dolor di lui che udio

L’anima assalse, e poscia che s’avvide.

Memnone là nella battaglia acerba

Strage con l’asta far de’ Greci a schiera,

Repente de’ Troian ch’egli uccidea

Le misere falangi a lasciar ebbe,

E desioso di battaglia incontro

A Memnone si fe, l’animo acceso

D’ira, mercè d’Antiloco e degli altri

Ch’egli avea uccisi; e quei la man distese

A sasso, che avean già di fertil campo

Termine posto gli uomini, e con quello

D’Achille invitto ne ferì lo scudo.

Ed ei senza temer la vasta pietra,

Tosto a lui si fe presso, e la gran lancia

A piè com’era, avanti a se vibrando

(Perocché egli era a piè fuor della calca

Lasciati avendo a tergo i suoi destrieri)

L’omero destro a lui sopra lo scudo

Percosse; ed ei colpito a maggior rabbia

Destò l’animo intrepido, e d’Achille

Con l’asta poderosa impiagò il braccio,

E sangue uscinne, onde allegrato invano

L’eroe così parlò con dir superbo.

Or cred’io ben, che l’infelice fato

Ucciso empirai tu dalla mia mano;

Né scampo omai dalla battaglia avrai.

Misero, perchè tu cotanto crudo

Strage facei dei Teucri e ti vantavi

Di esser di tutti gli uomini il più forte,

E di madre immortal Nereide nato?

Ma giunta eccoti omai l’ora fatale,

Poscia che dagli Dei scende mia stirpe.

Io dell’Aurora valoroso figlio,

Cui già lontan dall’abitabil terra

Lungo le rive là dell’Oceano

Le graziose Nesperidi nutriro.

E quinci avvien che di te nulla io curi,

Né dell’ aspra battaglia, essendo certo,

Quanto la Diva madre mia più degna

Della Nereide sia, di cui ti glori

Tu d’esser nato: agli uomini, agli Dei

La mia risplende, e col suo mezzo in cielo

Tutte guidansi al fin l’inclite e buone

Opre, onde giovamento hanno i mortali.

Colei del mar l’infruttuoso fondo

Con le orche alberga, solitaria e lieta

De’ pesci sol vive oziosa e ride,

Onde lei nulla stimo, ed agli Dei

Celesti ed immortal non l’assomiglio.

Così diss’egli, e sì rispose a lui

L’ardito Achille: o Memnone qual voglia

Sinistra ha te commosso ad incontrarmi,

E venir meco a pareggiarsi in guerra?

Meco di te miglior, voglia di stirpe

Di statura e di forze, perchè il sangue

Famoso mio dal sommo Giove scende,

E da Nereo potente, il qual produsse

Le Nereidi sue marine figlie

Dagli Dei tutte riverite in cielo,

E sovra l’altre consigliera illustre

Teti, perocché Bacco entro l’albergo

Ricevé allor che di Licurgo il fero

Gìa furiando incontro lui la forza:

Né men Vulcan fabro di ferro industre

Dal ciel ridente in sua magione accolse,

Anzi il fulminator medesmo scevro

Fece da’ lacci, in che giaceasi involto:

Ciò membrando i celesti, alle cui luci

Nulla si asconde, alla mia madre Teti

Portano onor su nel divino cielo.

E ben conoscerai ch’ella sia Dea,

Quando ferito a te dalla mia forza

Trapasserà l’asta ferrata il core.

Per cagion di Patroclo Ettorre uccisi,

Or per cagion di Antiloco a te sopra

Verserò la vendetta, e sì vedrai

Di non aver d’uom pauroso e vile

Dato il compagno a morte. Ma che stiamo

Cianciando noi da fanciulletti in guisa

Delle madri di noi narrando l’opre,

E di noi stessi? Al paragon veniamo:

Ecco Marte presente, ecco la forza.

Detto così, con man la lunga spada

Prese, e lo stesso ancor Memnone feo.

Quinci pronti incontrarsi, e con superba

Mente senza posar ferian gli scudi,

Che formò di Vulcan l’arte ingegnosa,

Replicando gli assalti, onde i cimieri

Si troncavan fra lor, mentre fra loro

E di questi e di quei cozzavan gli elmi.

Giove verso ambedue pensieri amici

Avendo, dea lor forza, ed ambedue,

Rendeva infaticabili e maggiori

Dell’uso, e non ad uomini simili,

Ma sembianti agli Dei. Né meno intanto

La Discordia ambedue rendea superbi,

Ed essi desiando il ferro acuto

Fra lo scudo cacciarsi e l’elevato

Elmo dentro la carne ivan drizzando

Colà spesso la forza, e sovent’anco

Impeto ambedue fean di sopra alquanto

Agli schinier sotto l’ornato usbergo

Che lor copria le valorose membra;

Risonavano allor d’intorno al tergo

L’armi divine. Intanto al ciel salía

De’ Troian, degli Etiopi, e degli Argivi

Feroci il suon che altronde iva fra loro

Mescendo la battaglia; e sotto a’ piedi

Alzavasi la polve, infino all’ampio

Ciel, poiché grande il moto era dell’opra.

Come ne’ monti in cominciar la pioggia

Nebbia s’inalza allor che le sonore

Valli colmansi d’acque impetuose,

E con alto rimbombo ogni pendice

Freme, e tutti i pastori empion di tema

Il torrente, e la nebbia amica al lupo,

Ed agli altri animai che il bosco alberga.

Tal da’ piè di coloro alto salía

Orrida polve, che ascondea la luce

Chiara del Sole, e il ciel ricopría d’ombra.

Il travaglio crudel struggea le genti

Là fra la polve, e l’infelice zuffa,

Onde alcun de’ celesti a soffiar l’ebbe

Fuor del conflitto; e le crudeli Parche

E quinci e quindi le veloci schiere

Spingeano a faticar senza riposo

Nell’acerbo tumulto; e non cessava

Dall’orribile strage il fero Marte;

E d’ogni intorno si tingea la terra

Di sangue sparso, onde godea la negra

Morte, e carco d’uccisi era il gran piano,

Che fra il corso del Xanto in mezzo è chiuso

E Simoenta, che discesi d’ida

Entro al sacro Ellesponto a cader vanno.

Ma quando già de’ due guerrier pugnanti

Si allungava il conflitto, e non v’avea

Fra lor due di fortezza alcun vantaggio,

Gli Dei mirando lor tratti in disparte

Altri si compiacea del fiero Achille,

Dell’Aurora altri e di Titon pendea

Verso il divino figlio; e intanto il vasto

Ciel d’alto rimbombava, e’ il mare intorno

Fremea sonante, e si scotea la negra

Terra d’ambedue lor sotto le piante.

Tremavan paventose intorno a Teti

Del ‘superbo Nereo tutte le figlie,

E per cagion d’Achille il poderoso

Altissimo timor chiudean nell’alma.

Per l’amato figliuol l’Aurora ess’anco

Temea, per l’aere i destrier movendo;

E le figlie del Sol non lunge a lei

Stavan meravigliando intorno al grande

Cerchio, che Giove al Sol giammai non stanco

Di faticar, concesse, ov’egli il corso

Rivolgesse dell’anno, onde ciascuna

Cosa ha vita, e vien men di giorno in giorno

Col rivolger degli anni intorno il tempo.

E certo fra gli Dei nato sarebbe

Contrasto allor, se per voler di Giove

Altitonante e quinci e quindi appresso

Non si fossero a lor poste repente

Due tenebrose Parche, la pia fosca

Di Memnone alla vita, e la più chiara

Presso il prudente Achille, il che mirando

Gli Dei gran voce alzaro, e questi assalse

Alto dolor, quegli ebber gaudio e gioia.

Senza posar nella sanguigna guerra

Fra loro intanto combattean gli Eroi,

Né del venir delle due Parche accorti

Con gran valor si movean contro, e rabbia.

Detto avresti quel dì nel crudo assalto

Pugnar fra lor gl’indomiti giganti,

O i Titani robusti. Aspra battaglia

Destavasi fra lor, qualor co’ brandi

Moveansi incontro, o se veloci e pronti

Giansi avventando smisurate pietre.

Né però alcun di lor punto cedea

Alle percosse; e non temean, ma quasi

Scogli stavano immobili, e vestiti

Di valorosa forza, perocché ambo

Gloriavansi il suo sangue aver da Giove.

Quinci il conflitto loro, e de’ compagni

Resistenti ostinati in quella guerra

Trasse Bellona lungo tempo eguale,

De’ lor compagni intrepidi, che l’arme

Pertinace movean co’ proprii regi;

Finché le punte omai di ferir sazie

Si ritorcean sopra i ferrati scudi,

Né v’era alcun da questa parte o quella

De’ combattenti di ferite scarco;

Onde crescendo ognor la dura mischia

Dalle membra di lor scorreano a terra

Di sangue e di sudor copiosi fiumi,

E ben di morti era la terra carca;

Com’è di nubi il ciclo allor che il Sole

Gira col capro, e il mar fugge il nocchiero:

De’ morti, che i destrieri alto annitrando

Spinti al corso da’ popoli, col piede

Così premean, come altri premer suole

Copia di foglie, che da’ rami a terra

Caggion del bosco alla stagion che apporta

Fine all’Autunno, e dà principio al verno.

Intanto degli Dei gl’illustri figli

Fra il sangue combattendo e fra gli estinti,

Non ponean meta all’impeto dell’ira.

Quinci Discordia le bilancie orrende

Librò della battaglia; ed ecco omai

Non eran più fra lor, com’anzi, eguali.

Onde colà ‘ve fondamento ha il petto

Achille il divin Memnone ferío,

E trapassò la tenebrosa spada

Dall’altra parte, e la fiorita e lieta

Gioventute di lui repente sciolse,

Cadea nell’atro sangue egli, e destaro

Nel suo cader grave rimbombo l’arme,

Onde SONÒ la terra, e di spavento

Si colmaro i compagni, ed a spogliarlo

I Mirmidon si diero; e d’ogni parte

Fuggiano i Teucri; ed egli impetuoso

Perseguìa lor, qual turbine o procella.

Pianse cinta di nubi allor l’Aurora,

E la terra oscurossi; indi all’impero

Materno, con grand’impeto concorso

Tutti i rapidi venti in mezzo al campo

Fecer di Priamo, ed all’estinto eroe

Si diffusero intorno, e con veloce

Forza rapito dell’Aurora il figlio

Seco portar per lo ceruleo cielo,

E dell’estinto frate acerba doglia

Sentian nell’alma; e diffondea sospiri

L’aere d’intorno, ed indi quante a terra

Cadder da’ membri suoi sanguigne stille

Prestar gran segno alle future genti.

Perocché quinci e quindi in un raccolte

Quelle gli Dei, ne fer sonoro fiume.

Che Paflagonio detto vien da quanti

Abitan sotto a’ lunghi colli d’Ida.

Questo sanguigno la ferace terra

Suol irrigar quando il dolente giorno

Di Memnone sen viene in cui morìo:

Allor grave e noioso odor dall’acque

Manda tal che diresti esser simile

A quel, che suol da putrida e corrotta

Piaga fuori esalar, l’uom la percote.

Così per lo voler de’ Divi avvenne.

Intanto i venti rapidi volando

Portavan dell’Aurora il figlio altero,

Sovra la terra breve spazio, involto

Entro caliginoso e scaro velo.

Né gli Etìopi già gran tempo lunge

Errando gian dal lor signore ucciso;

Perocché Giove lor diè ratto il moto,

Ed al pronto voler prestezza giunse;

Poiché doveano in breve esser rapiti

Dall’aere nubiloso: e quinci i venti

Seguir facendo il lutto al rege loro;

Come di cacciator, cui nelle selve

Di leone o cignal la fera zanna

Di vita sciolse, i dolorosi amici

Raccolti lagrimando il corpo estinto

Riportan sulle braccia, e intanto i cani

Bramando il lor signor, che restò ucciso

Nella infelice caccia, il van seguendo

Con doloroso e flebile latrato.

Tal questi; e dietro la crudel battaglia

Lasciando, con sospiri alti e frequenti

Da caligine cinti oscura ed atra

Gian de’ venti seguendo il presto volo.

Meravigliansi in un Troiani e Greci,

Quando col rege lor tutti spariro:

D’incredibil stupor colmi la mente

Gl’infaticabil venti indi posaro

Con grave sospirar l’estinte membra

Del valoroso Memnone, vicino

Del fiume Esepo all’ondeggiante corso,

Colà ‘ve delle ninfe il crine ornate

Bosco verdeggia, che d’Esepo intorno 

Sparser le figlie alla sublime tomba

D’ogni sorte di piante adorno e vago.

Ivi altamente lacrimar le Dee

Per onorar col mesto pianto, il figlio

Dell’Aurora che asside in trono ornato.

Cadea del Sol la luce, e giù dal cielo

Piangendo il caro suo figliuol discese

L’Aurora, a cui facean d’intorno cerchio

Dodici giovanette il crin leggiadre;

Alla cura di cui commesto è l’alto

Corso d’Iperion, la notte, l’alba,

E quanto avvien per lo voler di Giove:

Al cui palagio, alle cui salde porte

Sempre girando, e quinci e quindi intorno

L’anno soglion portar di frutti pieno.

Mentre l’orrido verno in cerchio gira

La primavera florida, la state

Amata e di molt’uve autunno carco.

Queste poscia che fur dall’aere eccelso

Discese a terra, a Memnone dintorno

Grave destar compianto, e in un con loro

Le Pleiadi ploraro, e il suono intorno

Dagli alti monti rimbombava ed anco

Dall’onda dell’Esepo, e ne sorgea

In un confuso inconsolabil lutto;

Ed essa al figlio suo prostrata sopra

A tutte l’altre in mezzo, in questa guisa

Cominciò sospirosa il lungo pianto:

Figlio, dolce mio figlio, ecco moristi

Lasciando a me tua madre acerba doglia.

Ahi! già non fia che tu giacendo estinto

Io doni il lume agl’immortali in cielo,

Ma scenderommi entro i dolenti alberghi

Delle infernali genti, ove lontano

L’alma dal tuo mortal scese volando

Ov’è diffuso il tenebroso abisso

E l’informe caligine ed orrenda,

Per far che Giove stesso anche si doglia;

Perocché non son io d’onor men degna

Della Nereide, o dell’istesso Giove,

Io che il tutto pur veggio, ed al suo fine

Il tutto scorgo, ahimè! sebbene indarno

E non fia più che alcun mia luce sprezzi.

Quindi scendo alle tenebre. Conduca

Dunque egli Teti sua dal mare al cielo,

Perchè agli uomini splenda, ed agli Dei.

E ben viepiù che il ciel sarammi cara

La dolorosa notte, poiché quinci

Almen non darò luce a chi ti uccise.

Detto così per le divine gote

Le distillò pianto a fiume eguale,

Onde all’estinto corpo era dintorno

Di lacrime irrigato il negro suolo.

Piangea compagna alla sua cara figlia

Anco l’immortal notte e il ciel copria,

E tutti i lumi suoi di nube e d’ombra

Per onorar la, di se nata, Aurora.

I Teucri entro alle mura avean la mente

Per Memnone dogliosa, e desiando

Giano i compagni insieme al rege loro.

Ma Né grande allegrezza anco gli Argivi

Avean colà nel pian presso agli uccisi

Pernottando alloggiati, e lieti e mesti

Erano insieme; perchè in un festosi

Donavan lodi al valoroso Achille,

Parte piangeano Antiloco, tal che era

Mista insieme fra lor la gioia e il pianto.

L’intera notte d’atro vel coperta

Fece l’Aurora inconsolabil lutto,

Né punto cura avea la mente offesa

Di apparir là nell’oriente, odiando

Lo spazioso cielo a lei vicino.

I presti suoi corsier gravi e frequenti

Versavano sospiri, e gìan co’ piedi

Prendendo inculto e non fiorito suolo,

E la reina lor mesta vedendo

Attendean desiosi il suo ritorno.

Giove quinci adirato in guisa orrenda

Tonò, e tutta ne tremò la terra,

Ed orribil terror n’ebbe l’Aurora.

Intanto a lui con gran prestezza diero

Mesti sepolcro gli Etiopi oscuri.

Lui mentre largamente ivan piangendo

Del poderoso figlio al marmo intorno

Augelli feo la bella Aurora, e diede .

Lor per lo cielo ir dispiegando il volo.

Questi or nomar le numerose genti

Sogliono de’ mortal, Mennoni, e questi

Versan del rege loro eterno pianto

Sovra la tomba, e lei spargon di polve.

Quinci ad onor di Memnone fra loro

Vanno guerra mescendo; ed egli intanto

La negli alberghi di Plutone, o sia

Pur de’ Beati, entro gli Elisi campi,

Giubbila; e ciò mirando anco nell’alma

Surge piacer dell’immortale Aurora.

Combatton questi poscia infin che stanchi

Di pugnar, non più ch’un rimane in vita,

O se vi restan due d’intorno al rege

Guerreggiando fra lor si donan morte.

Ciò dunque per voler della lucente

Aurora sempre fan gli angei veloci,

Ed essa allor volando al ciel salìo

In compagnia delle dissimil ore,

Che lei benché malgrado al suol di Giove

Consolando guidar con dolci detti,

Con detti, lei dolente, a cui la grave

Doglia dà luogo, e cede, e non la prese

Dal consueto suo viaggio oblìo:

Sì l’alto minacciar temea di Giove,

Da cui tutto ha principio, e quanto in seno

Stringon dell’Ocean l’acque, la terra,

E delle ardenti stelle i sommi campi.

Innanzi a lei le Pleiadi appariro,

Quindi essa lo splendor vibrando intorno

L’eteree porte luminosa aperse.