I libri

Testo

Quinto Smirneo - I Paralipomeni d'Omero - Τά μεϑ' ῎Ομηρον

LIBRO QUATTORDICESIMO

Allor dall’Oceàn sul carro aurato

L’Aurora al cielo ascese; e in seno accolse

Il baratro la notte. E i Greci avendo

Troja distrutta dalle belle mura

A viva forza, di pregiate spoglie

Fecer gran preda: in guisa di torrenti,

Che nel cader dal ciel copiosa pioggia

Precipitan da’ monti, e strepitosi

Tiran le piante al basso, e con le piante

Portan l’istesse rupi in grembo al mare;

Cotal gli Argivi con le fiamme incensa,

E guasta avendo la città Trojana,

Tutte le sue ricchezze, e i suoi tesori

Conducean seco a’ fluttuanti legni.

Seco traeano ancor da questa, e quella

Parte le Teucre donne prigioniere,

Altre non maritate, ed inesperte

Delle nozze anco, altre novelle spose,

Altre varie la chioma, altre di loro

D’età più fresca, dal cui seno a forza

I bambin divellean, che con le labra

L’ultimo latte gìan bramando indarno,

Nel mezzo a questi Menelao la moglie

Seco adducea dalla città combusta,

Recata al fin grand’opra; ed in un punto

Nell’animo sentia vergogna, e gioja.

La divina Cassandra adducea seco

Agamennone il forte. Il prò figliuolo

Avea d’Achille Andromaca; ed Ulisse

Ecuba a forza traeva seco, a cui

Dagli occhi discorrea, come da fonti,

Di lacrime gran copia: avea tremanti

Le membra, e il cor da fiera tema afflitto;

Dal capo si svellea le bianche chiome,

Sovra cui molta cenere volando

Cadea, che con le mani ella spargea

Presa dal focolar, veduto avendo

Estinto Priamo, e la città combusta:

Altamente fra se piangea dolente,

Sebbene invan, la servitù, che a forza

La tenea oppressa. Ed altri altra angosciosa

Trojana conducea seco alle navi

Contro sua voglia; ed esse acute strida

Spargendo, fean compianto, e queste e quelle

Accozzate fra lor coi pargoletti

Destavan mesto e miserabil lutto;

Come allor, che de’ porci d’albe zanne

I piccioli figliuoli, entrando il verno

In altra stalla il lor pastor conduce,

Grunniscono le madri, e tra lor volte

Alzano lunghe, e dolorose strida:

Tal domite da’ Greci sospirando

Lagnavansi le Teucre; ed egual legge

Di servitute ivi premea l’ancella,

E in un la donna. Elena sol di pianto

Non spargea stilla, anzi di pianto invece

Vergogna le sedea su i negri lumi,

E facea sì, che di vermiglio tinte

N’eran le belle gote, e incerto il core

In sen le si scotea da tema oppresso,

Che nell’andar ver le cerulee navi

Non facesser di lei gli Argivi scempio:

Di ciò dunque temendo, il cor nel petto

Sentia tremarsi; onde di vel coperta

Il capo, già per l’orme il suo marito

Seguendo; e per vergogna avea le guancie

Di purpureo color, come Ciprigna,

Quando i Celesti apertamente in seno

A Marte la mirar ne’ folti lacci

Involta di Vulcan saggio, al cui letto

Facea vergogna; ed essa in lor giacea

(Tutti essendole intorno i Divi, ed anco

Vulcan) di doglia piena, e in se confusa:

Perocché alto dolor senton le donne,

Se avvien, che il lor marito in luogo aperto

Con gli occhi proprj in atto reo l’accoglia.

A costei dunque di beltà simile,

E di nobil vergogna Elena gìa

Con le Trojane prigioniere, anch’ella

Ver le ben corredate Argive navi.

La grazia della donna, e l’amorosa

Beltà di lei, cui nulla macchia offende,

Ammiravan le genti: onde fra loro

Alcun non fu, che o tacito, o palese

Co’ detti suoi d’ingiuriarla osasse,

Anzi qual Dea con gran piacer ciascuno

Lei vedeo, che bramata a tutti apparve:

Come color, che lungo tempo errando

Per lo mar se ne gir, ch’unqua non posa,

Se lor dopo molti anni, e molti preghi

La desiata patria alfin si scopre,

Dal mar campati, e dalla morte colmi

D’immenso gaudio a lei stendon le braccia,

Tal rallegrarsi i Greci tutti, estinta

Ogni memoria in lor delle crudei

Fatiche, e della guerra: e tale avea

Desto pensiero in lor Citerea solo

D’Elena in grazia da’ begli occhi, ed anco

Di Giove padre. Allor quando conobbe

La cara sua città posta in ruina,

Spirando ancor sanguigne zuffe, il Xanto

Con le Ninfe piangea del mal, che a Troja

Era caduto sopra, e la cittade

Dato di Priamo all’ultima ruina:

Qual se l’arida messe impetuosa

Grandine trita, e con furor crudele

Le spiche tronca, e in un la paglia atterra,

E inutilmente il frutto al suol disperge,

Misera doglia il suo signore assale:

Tal di Xanto nel cor cadeo rammarco,

Ilion desolato, e la sua doglia,

Ancorch’ei sia immortal, mal sempre dura.

Sospirò d’ogni intorno Ida sublime,

Sospirò Simoenta, e flebil suono,

Di Priamo la città mesti piangendo,

Tutti destaro insieme i fiumi Idei.

Gli Argivi d’altra parte alle lor navi

Baldanzosi sen gìan lieti cantando

Ora il prode vaalor, che la vittoria

Data aveo lor sì gloriosa, ed ora

La sacra stirpe de’ Celesti, ed anco

Di lei l’animo ardito: e in un d’ Epeo

L’opra immortale. E gìane intanto al cielo

Per l’aere il canto, e come suol la voce

De’ corvi lunga sollevarsi, quando,

Passato l’aspro tempo, in dì sereno

Volan, senz’alcun vento essendo il cielo.

In guisa tal presso alle navi questi

Alto piacer seotian nel core; e gioja

Ne prendean suso in ciel tutti que’ Dei,

Ch’ajutar pronti i bellicosi Argivi:

Gli altri, che i Teucri favoriano in guerra,

Doleansi gravemente in contemplando

Di Priamo la città giacer combusta.

Pur non fu lor commesso, incontro al Fato,

Ajutar lei, benché n’avesser voglia,

Perché non lice di Saturno al figlio

Stesso, come a lui par, contro il decreto

Di lui far nulle, oppur mutar le sorti,

Non lice a Giove stesso, il qual di stirpe

Gli altri Immortali avanza, e da cui solo

Pendon tutte le cose, ed, han principio.

Molte vittime ardean gli Argivi intanto

Di buoi sulle cataste, e diligenti

Intorno all’ara dolce vin libando

Gìan sopra l’ostie ardenti; e rendean grazie

A’ Divi, ond’essi avean così grand’opra

Al fin condotto. E nelle cene liete

Le glorie di color dicean, che in seno

Il gran caval di legno armati accolse.

Ammiravano ancor Sinone egregio,

Poiché forte ei sostenne il doloroso

Strazio degli avversarj: e tutti a lui

Davan lodi infinite, onori eterni

Cantando. E sofferente ei si godea

Della vittoria degli Argivi, e punto

Non s’affliggea del suo gravoso scempio:

Perché ad uom saggio, e d’animo prudente

Meglio è la gloria assai, che oro, terreno

O qual siasi altro ben, ch’aggiano, ovvero

Sian per aver giammai le umane genti.

Questi così fra lor di core invitti

Cenavan per le navi, con alterno

E lungo ragionar condian le mense,

E dicean: Grave guerra al fin condotto

Abbiamo, e guadagnata immensa gloria,

La grande ostil città distrutta avendo.

Restavi dunque sol, Giove, che a noi,

Che ciò da te chiediamo doni il ritorno.

In tal guisa pregaro, e pur non diede

Il far ritorno a tutti il sommo padre.

Allora alcun nel mezzo agli altri assiso

(Perché rimossa omai dell’aspre guerre

La tema, tutti della pace all’opre

S’erano dati, ed a’conviti allegri)

Dagli altri ricercato, a dir cantando

Primiero incominciò, come le genti

D’Aulide s’adunar nel sacro suolo:

Come il poter del gran Pelide invitto

Dodici in mar cittadi, undici in terra

Distrusse: indi seguì le cose, ch’egli

Oprò col rege Telefo, e col forte

Eezion: com’egli Cigno altero

Uccise: quel, che fervendo anco l’ira

Di lui, l’Argivo stuol fece pugnando:

Com’egli di sua patria al muro intorno

Strascinò Ettorre: come in guerra ancise

Pentesilea: com’anco egli diè morte

Al figlio di Titone. Indi cantando

Spiegò, come per man del forte Ajace

Cadeo Glauco guerriero: e come estinto

Giacque dal figlio del veloce Achille

Euripilo il campion chiaro, ed illustre:

Quinci narrò, come domar gli strali

Di Filottete Pari: e quanti eroi

Nell’ingannevol sen del gran cavallo

Entraro: e come alfin distrutta, e guasta

Del divin Priamo la città, sedeansi

Dall’aspre guerre lunge allegri a mensa.

Altri altre cose già cantando, come

Gli venia suggerendo il suo pensiero.

Ma poscia che cenando a mensa assisi

Lor sovraggiunse della notte il mezzo,

Lasciando i cibi, e il riempirsi omai

Più di vin puro, a ritrovare il letto

Sen gir, che a Lete suol donar le cure;

Perocché il faticar del giorno avanti

Tutti lasciati avea stanchi e dirotti:

Onde benché desio di starsi a mensa,

Quanto è lunga la notte, avesser grande,

Cessar però, vincendo lor del sonno

La forza, e sparsi in questa, e quella parte

A dormir si gittaro. E nelle tende

Sue con la bionda moglie ragionando

Stavasi intanto Atride, perché a loro

Ancor non avea il sonno oppressi i lumi,

Perché Ciprigna a’ lor pensieri intorno

Si raggirava, affin che dell’antico

Letto membrando, ogni passato duolo

Gittassero in disparte. Allor primiera

Cominciando in tal guisa Elena disse:

Non tener meco, Menelao, lo sdegno,

Perché già non lasciai per propria voglia

La tua reggia, e il tuo letto, anzi rapimmi

E di Alessandro, e de’ Trojan la forza

Essendo tu lontano: e me, che pure

Dolente i giorni miei finir volea

O con rigido ferro, o crudo laccio,

Ritenner negli alberghi, e con parole

Dolci racconsolaro, ahi! pur send’io,

Per tua cagione, e della giovinetta

Figlia, colma di duolo. Or io ti prego

Per gli dolci connubj e per te stesso,

Che tu lo sdegno incontro me concetto

Sì fiero, doni a sempiterno oblio.

Poich’ebbe detto in guisa tal, prudente

Menelao le rispose: Omai tralascia

Di queste cose la memoria: abbiamo

Altri dolor nell’alma avuti, e pure

Tutti nel fosco suo profondo albergo

Lete rinchiude: poiché alttrui disdice

La memoria serbar delle mal opre.

Così diss’egli ed alta gioja n’ebbe

La donna, e d’ogni tema il petto scarco,

Certa fra se, che il suo marito in tutto

Dato avesse all’oblio lo sdegno acerbo:

Onde lui con le braccia intorno cinse,

E intanto ad ambedue, che piangean dolce,

Lacrime giù piovean dalle palpebre.

Soavemente indi corcarsi insieme

Rinnovellando i consueti amplessi:

Come talor d’intorno ad alcun tronco

Implicansi cosi l’edra, e la vite,

Che fra lor separarle unqua non puote

Forza di vento; così questi insieme

Giacean congiunti, e di godersi vaghi.

Quando poscia quest’anco il dolce sonno

Oppresse, allor del coraggioso Achille

Fermossi l’ombra al figlio suo di sopra

Al capo, appunto tal, qual ei solea

Vivo in vista mostrarsi, allor ch’egli era

Doglia a’ Trojani, ed allegrezza a’ Greci.

Quindi con molto amor baciogli il collo,

E i lampeggianti lumi; e in questa guisa,

Lui consolando, a ragionar si diede:

Salve, mio figlio: non voler la mente

Affliggerti di duol per la mia morte:

Perocché già con gl’immortali Numi

Io mi soggiorno. Lascia dunque omai

Di tormentarti il cor per mia cagione,

Anzi del mio valor, di doglia invece,

L’alma t’adempj largamente, e sii

Fra gli Argivi il primier mai sempre a nullo

Di fortezza cedendo. Ove a consiglio

Si ragunan le genti, ognor ti accosta

Al parer de’ più vecchi, e in questa guisa

Tutti terranti saggio. Onora sempre.

Gli uomin d’onestà grande, e di giudicio

Fondato, e saldo; perché al buono il buono

Essere amico suole, e l’empio all’empio.

Così se saggj avrai i pensieri, e l’opre

Farai buone anco, perch’uom reo non puote,

E di sinistra mente il fin giammai

Conseguir di virtù: perché la pianta

Di lei dura a l’ascesa, e con gli eccelsi,

E luoghi rami infino al ciel s’estolle;

E sol coloro, a cui valor non manca,

E son nelle fatiche ognor più forti,

Della virtù d’alma corona cinta

Ascesi i rami gloriosi, il frutto

Indi mieton di lei dolce, e soave.

Sii dunque valoroso; e nella mente

Di consigli ripiena a ciò provvedi,

Che per avversità giammai soverchio

Tu non ti affligga, o per felice corso

Di cose, oltra l’onesto anco non t’erga.

Placido sempre sii, sempre benigno

Con gli amici, e compagni, e tal ti mostra

Co’ figli, e con le donne, avendo sempre

Nella memoria, che vicine ognora

Sono a’ mortai dell’infelice fato

Le porte, e degli estinti il negro albergo.

È la stirpe mortal sembiante a’ fiori

Dell’erba a primavera, onde una parte

S’avanza vigorosa, e l’altra pere.

Affabile sii dunque. Ed agli Argivi,

E d’Atreo sopra tutto al figlio, e insieme

Ad Agamennone anco (se memoria

Pur vive in lor di quel, ch’io feci intorno

Alla città di Priamo, e quanta preda

Meco portai, priachè venissi a Troja)

Di’ da mia parte, che per ciò bramando

Ardentemente, della preda tolta

A Priamo; Polissena aver leggiadra,

Sacrifichinla a me, tolto ogni indugio,

Perché d’ira maggior quinci il mio petto

Arderà incontro a lor, ch’egli non fece

Per cagion di Briseide: onde il marino

Flutto commoverò, tempesta sopra

Tempesta manderò, perché in ruina

Vadan pe’ lor misfatti; e in questo luogo

Dimoreran gran tempo, infin che vaghi

Pure una volta alfin di far ritorno

Spargano in me i libami. Or poiché avranno

Uccisa la donzella, se la tomba

Vorran darle in disparte, io ciò non vieto.

Detto così, veloce in guisa d’aura

Disparve, e ratto inver gli Elisj campi

Andonne, ove l’ascesa, e la discesa

È preparata agl’immortali Numi

Dal sommo cielo. Ed ei, poiché lasciollo

Il sonno, rimembrando il padre suo

Sentì di gioja empirsi il nobil petto.

Onde poiché nel ciel l’Aurora ascese

Dispergendo la notte, e del suo lume

Ornati si mostrar l’aere, e la terra,

Allor gli Achei del letto fuor saltaro

Cupidi del ritorno: inverso l’alto

Del mar traean le navi, allegri il core,

Se lor non ritenea sì pronti all’opra

D’Achille il figlio altero, il qual le genti

Chiamò a consiglio, e lor narrando, quanto

Gl’impose il padre, in questa guisa disse:

Udite me, de’ bellicosi Argivi

Amati figli, e narrerovvi, quanto

Il glorioso padre mio mi disse,

Mentre nel letto, la passata notte

Me ne Atavo dormendo. Egli narrommi

Di starsi in compagnia de’ Numi eterni:

A voi comandò poscià, ed agli Atridi,

Che prezioso di battaglia, premio

A lui donaste (conducendo sopra

L’oscura, e cava tomba sua) la bella

Polissena; e soggiunse, che svenata

Ivi, altrove da voi fosse sepolta:

E che se ciò voi non curando, il mare

A solcar vi poneste, egli minaccia

Di turbar l’onde, e sollevarle incontro

A voi nel mare, in guisa tal, che a forza

Voi con le vostre navi in questi lidi

Lunga stagion ne rimarrete chiusi.

Ubbidiro essi a’ questi detti, e preghi

A lui porgean, come altri a’ Divi porge.

Perocché già gonfiava infin dal fondo

Il mare, e la tempesta ognor più fiera

Crescea di giorno in giorno, e maggior forza

Già guadagnando il vento: alto sorgea

Dalle man di Nettuno il mar commosso:

Perocché onorando egli il forte Achille,

Fé sì, che tutte le procelle insieme

Nel pelago lanciarsi in un momento.

Onde gli Argivi tutti, e voti, e preghi

Porgeano al grande Achille, e in questa guisa

Ad una voce discorrean fra loro:

Veracemente del gran Giove stirpe

Erasi Achille; e quinci avvien, ch’egli ora

È Dio, sebben fra noi visse poc’anzi:

Perché l’età immortal mai non consuma,

Qual da’ beati il suo principio prende.

Detto così, d’Achille inver la tomba

N’andar, seco la vergine traendo,

Come altri suol condur giovenca seco,

Che dalla madre entro al frondoso bosco

Toglie a forza il pastor, perch’ella sia

Vittima a qualche Nume, ond’ella mesta

Con lunghe voci si lamenta, e geme,

In cotal guisa allor piangea la figlia

Di Priamo là fra le nemiche mani,

Cadendo a lei di lacrime gran copia.

Sì come allor che nel gelato verno

Rigate già dalle brumali stille

Fatte nere l’ulive, in larga copia

Versan liquor dentro lo sparto oppresse,

Mentre premendo i giovani robusti,

Destano acute strida i lunghi ordigni:

In cotal guisa alla dolente figlia

Dell’infelice Priamo, inver la tomba

Tratta del fero Achille, acerbo pianto

Cadea dalle palpebre a’ sospir misto,

Onde avea il sen di lacrime ripieno,

E il bel corpo irrigato, il qual parea

Veracemente un prezioso avorio.

Onde fra gli aspri affanni, un più pungente

Dolor, d’Ecuba mesta il cor trafisse:

E rimembrossi un infelice sogno,

Che avea veduto la passata notte.

Sembrava a lei di starsene piangendo

Sovra la tomba del divino Achille,

E che le chiome sue fino alla terra

Fosser dal capo sparse, e d’ambedue

Le poppe al suol cadesse oscuro sangue,

Onde il sepolcro era cosperso, e tinto.

Quinci temendo e contemplando il grave

Scempio, ululava misera, e le voci

Spesso iterava flebili, e dolenti:

Sì come cagna suol, ch’anzi l’ostello

Si duole, e lungo latra, ancor ripiene

Di latte le mammelle, avendo a lei,

Anzi ch’aggian del sol veduto il lume,

Tolto i suoi pargoletti, e via gittati

Ad esser degli augei trastullo, ed esca,

I suoi signor, ond’ella or co’ latrati

Piange, or d’urli nojosi ingombra il cielo:

Tal Ecuba dolente alto gemea

Alla sua figlia intorno: Ohimé, dicendo,

Qual piangerò primiera, o qual estrema

Di cotante miserie, ond’io son colma?

Piangerò forse i figli, o il mio marito,

Che a gravosi, e inaspettati mali

Hanno sofferto, o la cittade, oppure

L’infelici figliuole, ovver me stessa

Ridotta in dura servitude? poscia

Che le tremende Parche in tante angosce

Involta m’hanno. Ahi! figlia, anco a te gravi

Hanno elle ordito, e non pensati affanni:

Te dalle nozze han tolta, ancor che appresso

Già ti fosse Imeneo; né di ciò sazie,

Incomportabil, grave hansi sortita,

E indicibil ruina: e morto ancora

Incontro al nostre sangue Achille arrabbia.

Ed oh! piacesse al ciel, che in questo giorno

Aperto il suol pria m’inghiottisse teco,

Che il fatal caso tuo vedessi, o figlia.

Così dicendo, le scorrean da’ lumi

Lacrime senza fin: perocché in lei

Afflitta, al grave duol s’aggiungea doglia.

Ed essi poi, che del divino Achille

Giunti, furo al sepolcro, allor l’amato

Figlio di lui traendo fuor la spada

Fulminea, prese con la manca mano,

E fermò la donzella, e con la destra

Il sepolcro toccando, in questa guisa

Alzò la voce, ed invocandol disse:

Accogli, o padre, del tuo figlio, ed anco

Di tutti gli altri Argivi insieme i preghi,

Né più con noi sii crudelmente irato,

Poiché quanto bramava il tuo pensiero,

Tanto da noi s’è fatto. Or tu benigno

Siine, ed a noi, che ciò da te chiediamo

Spedito dona, e prospero il ritorno.

Ciò detto, alla donzella il ferro crudo

Per la gola sospinse, e da lei tosto

Partì la dolce età, che in flebil modo

Si dolse in sul lasciar l’estrema vita.

Col volto in giù cadd’ella a terra, e il collo

Tutto d’intorno le si fé vermiglio,

Di neve in guisa, che ne’ monti aspersa

Di sangue d’orso, o di cignal, che il dardo

Piagò, di rosso in un balen si tinge.

Ciò fatto, i Greci contentarsi, ch’essa

Alla magion nella città portata

D’Antenore divin fosse, perch’egli

In casa la nutria, già destinata

Al suo figliuolo Eurimaco consorte,

Diede ei sepolcro alla figliuola illustre

Di Priamo appresso il proprio albergo, al lato

Di Ganimede alla sacrata reggia,

E di Minerva incontro all’alto tempio.

Allor si placar l’onde, e addormentossi

La terribil procella, e la bonaccia

Acquetò i flutti, e rese piano il mare.

Senza dimorar punto essi imbarcarsi

Baldanzosi, ed allegri, ora cantando

La sacra stirpe de’ Celesti, ed ora

Achille stesso. Indi cenaro, ed anco

Le vittime de’ buoi diero agli Dei.

Per tutto si vedean conviti allegri,

Ove in coppe d’argento, e tazze d’oro

Largamente bevean soave il vino

Gioiosi, nel pensier securi omai

Di ritornar ciascuno al patrio lido.

Quando poi sazj fur di vino, e d’esca,

In cotal guisa a lor, che volentieri

Udianlo, disse il figlio di Neleo:

Udite, amici, o voi, che da sì lunga

Guerra sete campati, affinch’io possa

A voi bramosi dir cosa, che piaccia.

Già del dolce ritorno è giunto il tempo:

A che dunque tardar? placato è l’aspro

Disdegno, ond’ebbe Achille ingombro il core:

Il possente Nettuno i flutti affrena,

Spiran placidi i venti, e non s’inalza

Un’onda pure. Or via le navi all’acque

Dunque varando, al ritornar pensiamo.

Diss’egli a lor già per se pronti; ed essi

Al navigar s’apparecchiaro. E intanto

Alle genti mortai gran mostro apparve;

Perché di Priamo la dolente moglie,

L’umana forma già deposta, in cagna

Dolorosa cangiossi: onde le genti

S’ammirar congregate a lei d’intorno:

Indi le membra sue tutte converse

Da Giove in pietra fur, gran meraviglia

Poscia a ciascun ne’ secoli futuri.

Quindi costei sopra, una presta nave

(Così Calcante consigliando ) i Greci

Portar dell’Ellesponto all’altro lido

Ed ivi la locaro. Indi nell’onda

Con gran prestezza conducendo i legni

Posero sovra lor tutti i tesori,

Che anzi il giungere a Troja avean predato

Dalle vicine genti: e poi quelli anco

Carcar che d’Ilio stessa avean rapito.

Onde assai più si coimpiaceano, essendo

Questi più preziosi, e in maggior copia.

Con questi largo numero di schiave

Condussero anco flebili, e dolenti.

Alfine s’imbarcaron, Ma con loro,

Che fretta a lui facean, nel mar non volle

Entrar Calcante, anzi facea ogni sforzo

D’impedir dall’andata ogni altro Argivo:

Perocch’egli temea la gran ruina,

Che vedea preparata a’ Greci legni

Presso agli scogli Cafarei. Ma quelli

Non l’ubbidir, perocché il Fato reo

Gl’inganno lusingando: e sol col saggio

Calcante il pronto Amfiloco rimase

Figlio del buon Amfiarao, send’egli

De’ celesti secreti appieno esperto.

Perocch’era fatale ad ambedue

Giunger lontan dalla paterna terra

De’ Cilici, e Pamfilj alle cittadi:

Ma ciò poscia gli Dei recaro al fine.

Svolser dunque gli Achei delle lor navi

Le funi dalla spiaggia, e diligenti

Salparo i ferri . E intanto al presto moto

Di lor fremea dell’Ellesponto il lido:

Ondeggiavan nel mar le navi; a cui

Per le prore d’intorno a mille a mille

L’arme giacean, de’ lor nemici arnesi:

Né men di sopra lor pendean diverse

Ostili spoglie, e di vittoria segni:

Di trionfal corona indi le navi

Cinsero, e cinser gli elmi, e l’aste, ed anco

Gli scudi, onde pugnar con l’oste avversa.

Poscia libando il vin dall’alte prore

Entro al ceruleo mar, molte preghiere

Porgeano i regi a’ Divi, e chiedean loro

D’ogni infortunio libero il ritorno:

Pregaro i venti ancor, ma si mischiaro

Dalle navi lontani i preghi loro

Con le nubi, e con l’aere, errando indarno.

Le donne intanto prigioniere il guardo

Verso Ilio rivolgean colme di doglia,

E con sommessa voce, e bassi accenti

Piangean celate a’Greci, in mezzo al petto

Alto chiudendo, e nella mente il duolo:

Altre di lor con l’implicate mani

Teneansi le giuocchia, altre le fronti

Si cingean con le braccia, altre sospiri

E pianti non spargean per lor servaggio

Né della patria lor per la ruina,

Ma tutte con la mente eran converse

Alla mammella, ripensando ancora

Al faociullin, benché da lor lontano.

Tutte le chiome avean disciolte, e tutte

Con miserabil modo il petto guasto,

E lacero dall’ugne: alle mascelle

Di lacrime avean segni intorno asciutte,

Ed altre sovra lor venìan cadendo

Folte dalle palpebre. E l’infelice

Patria mirando gìano affatto incensa,

E il fumo, che copioso indi sorgea.

Ver la nobil Cassandra anco le luci

Rivolgean tutte, ed ammiravan lei

Membrando pure i vaticini orrendi;

Ch’ella spiegava; ed essa sorridea

Di lor dolenti, ancorché mesta ell’anco

Fosse, della sua patria ai gravi danni.

De’ Teucri poi, quanti campar dall’aspro

Conflitto, raunati entro alle mura

Attendeano agli uccisi, e davano opra

Di sotterrargli, tratto avendo seco

Antenore anco al lacrimoso ufficio.

E così pochi vivi a molti morti

Alzavan mesti una comune pira.

Gli Argivi d’altra parte oltra misura

Allegri, ora co’ remi il negro flutto

Gìan trapassando, or diligenti all’aure

Distendendo le vele. Onde veloce

Rimanea a tergo la Dardania tutta,

E il sepolcro d’Achille. Ed essi ancora

Che fosser lieti, pur fra lor pensando

A’ loro amici estinti, avean gran doglia.

Correano intanto, ed a straniera terra

Giungean, da’ legni via fuggir sembrando

Quella, onde essi partiano, e girsen lunge:

Della marina Tenedo alle spiaggie

Si trovan tosto: Crisa trapassaro,

D’Apollo Smintio il tempio, e Cilla sacra:

Lesbo ventosa apparve; e in un momento

Girar di Letto il promontorio, estremo

De’ monti d’Ida. Cigolar le vele

S’udian di vento colme, ed alle prore

Gorgogliava d’intorno il flutto oscuro:

Adombravansi l’onde, e biancheggianti

Sol di spume apparian del mar le vie.

E tutti foran certo al sacro lido

D’Ellade giunti, il mar solcando, i Greci

Securi, e salvi, se con loro irata

Non era Palla del gran Giove figlia:

Perocché allor che giunti fur vicini

Alla ventosa Eubea, crudele, e grave

Ruina preparando al re de’ Locri,

Fieramente alterata, a Giove appresso

Degli alti Divi imperatore assisa,

Irata sì, che non le capia in seno

L’ira concetta, in questa guisa a lui

Parlò dagli altri Dei sola in disparte:

O padre Giove, intollerabil cose

Commetton contro i Divi oggi i mortali;

Che te sprezzano insieme,e quanti siamo

Celesti: ed avvien ciò, perché non cade

Sovra gli empi il gastigo, anzi sovente

Fra pene il buon s’aggira) e viene oppresso

Da perpetui travagli; e quindi avviene,

Che vilipesa è la giustizia, e nulla

Riverenza si trova or fra mortali.

Io di ciel non mi curo, o d’esser detta

Tua figlia, se non vien, che degli Achei

Io vendichi il misfatto, onde m’ha offeso

Il figlio d’Oileo sì forte l’alma,

Il qual niun rispetto have a Cassandra

Portato, che sovente a me le mani

Distendeva infelice; e nulla tema

Ebbe, perch’io di tal sia nata, e nullo

Rispetto mi portò, bench’io sia Diva,

Ma recar volle al fin l’opra nefanda.

Il tuo petto divin dunque non vieti

A me di far, quanto il mio cor desia,

Acciocché quinci ogni mortale impari

A temer degli Dei lo sdegno, e l’ira.

Poiché si tacque, a lei con dolci detti

Così Giove rispose: O figlia, in quanto

Alla vendetta, che de’ Greci chiedi,

Non fia, ch’io ti resista, anzi a tua voglia

Date da me ti fian tutte quell’arme,

Che a mio servizio fabbricar le mani

Invitte de’ Ciclopi, indi tu stessa

Col coraggioso ardir, che in te si trova

Desta crudel contro gli Argivi il verno.

Ciò detto, il presto lampo, il folgor crudo,

E il sostiroso tuon d’avanti pose

All’intrepida vergine, che lieta

Ne divenne oltremodo: e tosto veste

L’Egida impetuosa rilucente,

Infrangibil, pesante, ed agli stessi

Immortai riguardevole, e stupenda:

Perch’era in lei dell’orrida Medusa

Effigiato il formidabil teschio,

Sovra cui fieri, inestinguibil fiamma

Largamente spiranti, eranvi i serpi.

Alto fremea così l’Egida scossa

Intorno al petto della vergin Diva,

Come il gran ciel, se balenando tuona.

L’arme paterne indi impugnò, che nullo

Degli Dei regger può fuor che il gran Giove.

Scosse indi l’ampio ciel, le nubi, e i nembi

Sparse: onde s’ingombrò la terra intorno

Di negra notte, ed adombrossi il mare.

Il che Giove mirando, alto diletto

Ne prese, il largo ciel sotto le piante

Della Dea si crollava, in quella guisa

Che suol tremare allor che Giove invitto

Si prepara a battaglia. Essa dal cielo

Ivi mandò sopra i cerulei campi

Del mar volando ad Eolo, affinché tutti

I venti insieme procellosi, e gravi

Congregati da lui presso agli alpestri

Cafarei scogli, incontro a’ Greci legni

Urtasser pertinaci, e furibondi,

Ed a’ gran colpi lor facesser alto

Gonfiar l’onde marine. Essa poich’ebbe

Udito, in un balen curva si mosse

Là per le nubi, sì che avresti detto,

Che fuoco fosse in lei con l’aere misto

Giuntavi l’onda scura. Ed all’Eolia

Giunse, ove i venti impetuosi gli antri

Hanno fra l’aspre, e ruinose pietre

Concavi, e risonanti, appresso a cui

D’Eolo gli alberghi son figlio d’Ippota.

Lui trovò dentro con la moglie insieme

Con dodici suoi figli, e disse a lui,

Quanto Minerva desiava intorno

Al viaggio de’ Greci. Egli ubbidilla:

E tosto uscito fuor dalla sua reggia,

Con le robuste man preso il tridente,

Percosse al monte il fianco, entro al cui vuoto

E cavernoso centro avean la stanza

Sonori i venti, e strepitosi; ed ove

Girasi intorno sempre orribil suono,

E terribil muggito. A forza aperse

Egli il monte, e spezzollo: onde repente

Si diffusero a stuolo: ed egli ad uno

Ad uno imponea lor, che a più potere

Spirasser tempestosi, e del mar l’onde

Commovesser così, che ricoperte

Fosser da lor di Cafareo le cime.

Ed essi fuori in un balen gittarsi,

Non bene udito ancor, quaut’ei dicea.

Al rapido lor moto orribil diede

Fremito il mare, e quinci e quindi spinte

L’onde inalzarsi agli alti monti eguali.

L’animo allor s’affranse in mezzo al petto

Degli Achei, perché i legni or spingean l’onde

All’aere in alto, ed or dal precipizio

Gli rispingea nel tenebroso fondo,

Da cui sospinta a forza ognor salia

(Aperto infin dall’imo il flutto ondoso)

Copia immensa d’arena. Ed essi fatti

Poveri d’argomento, e di consiglio

NON potean, di se fuori, dar la mano

A’ remi, o giù calar (benché desio

N’avesser grande) le cornute vele

Da’ venti lacerate, e non poteano

Raddrizzarsi al viaggio: in guisa fiero

Moveangli assalto, e turbini, e procelle:

E indarno omai chiedean con dotta mano

Gir temprando i nocchier pronti, e veloci

Delle navi il governo, poiché tutti

Gli avean dispersi le procelle orrende:

Tolta via di salute era ogni speme,

Poiché l’orribil notte, il crudo verno,

E grave degli Dei contro avean l’ira.

Nettuno fieramente il mar turbava

Per contentar la gloriosa figlia

Del frale. Ed essa d’alto acerbamente

Furiando sdegnata accendea i lampi;

E vago Giove d’onorar sua figlia

Dal ciel fremea tonando. E d’ogni intorno

Dell’adirato mar giacean sommerse

L’isole tutte, e i lidi insieme appresso

Eubea, dove crudele accumulava

Fortuna a’ Greci acerbi danni a danni.

Sospir s’udiano, e gemiti, e lamenti

Di color, che morian dentro alle navi.

E i legni intanto fracassati, e rotti

Facean strepito, e tuono: insieme urtando

Spezzavansi le navi e ne sorgea

Fatica senza fin: perocché mentre

Alcun chiedea co’ remi i legni lunge

Tener, che urtar volean co’ remi insieme

Infelici cadean nel cupo fondo,

Ove perian d’acerba morte, mentre

Delle spezzate navi i legni sparsi

E quinci e quindi gli ferìano il capo:

Dispersi i corpi in questa parte, e in quella

Sen gìan miseramente: e quei che dentro

Le navi eran caduti, a’ morti eguali

Giacean prostrati; altri da forza spinti

S’appigliavan nuotando a’ tersi remi,

A tavole altri e il mar fremea dall’imo

Bollendo in guisa tal, che in un commisti,

E confusi fra lor pareano in tutto

L’onda, la terra, e il cielo. E la fremente

Minerva intanto su dall’alto Olimpo

Non fea vergogna alla paterna forza.

L’aere d’intorno rimbombava: ed ella

Versando l’ira grave, e la ruina

Lanciò nel legno il folgore, e in un punto

Spezzollo in mille parti: e diè muggito.

La terra, il cielo, ed ondeggiò dispersa

D’ogni intorno Amfitrite. E quei, che dentro

Si trovaro alla nave, insieme tutti

Caddero: e intorno a lor si sparser l’onde.

E intanto il lampeggiar della reina

Ratto illustrava il tenebroso cielo.

Ed essi dopo aver del salso flutto

Molta copia bevuto, alfin morendo

Sovra l’onde sen gìan portati a nuoto:

Onde le prigioniere, ancorché preda

Fosser di morte, pur sentian diletto.

Intanto altre di lor perian sommerse

Avendo i fanciullin, misere, in collo:

Altre gittando agl’inimici capi

Le braccia intorno, di morir con loro

Facean forza infelici, in questa guisa

Cercando far contro gli Achei vendetta

De’ ricevuti oltraggi: il che mirando

Dall’alto ciel godea Minerva illustre.

Ajace sovra un legno or già nuotando

Di rotta nave, or con le man varcava

I salsi flutti, nell’invitta forza

Ad un Titane indomito sembiante:

E nuotava così, che l’onde salse

Dalle robuste man dell’uom superbo

Venian spezzate, e sparte. Onde gli Dei

La sua fortezza, e il suo valor vedendo

Restavano ammirati; e intanto l’onda

Spingea lui vasto or quasi ad alto monte

Per l’aere in cima, or di lassù nel basso

L’ascondea d’ima valle. E pure ancora

Non perdean forza le robuste mani.

Molti d’intorno a lui da questa, e quella

Parte stridean dentro all’ondoso flutto

Folgori estinti: perché ancor la figlia

Di Giove strepitoso a morte darlo

Non volea, benché irata, anziché molte

Percosse, e danni sostenuto avendo,

Ei fosse affatto stanco; e quindi solo

Così luogo penar nel cupo fondo

Non l’avean visto ancor gli aspri travagli,

Oltrachè molti mali avean le Parche

A lui prefisso: e lo rendea gagliardo

Necessitade. Anzi superbo egli ebbe

A dir, che quando tutti insieme uniti

Versassero i Celesti in lui lo sdegno,

E volgessero il mar tutto sossopra,

A lor dispetto egli campato fora.

Ma non poteo però fuggir meschino

Degli Dei l’ira, e le minacce orrende:

Perocché a sdegno contro lui l’altero

Scotitor della terra allor si mosse,

Che vide prender lui, stesa LA mano,

La Girea pietra, e di grand’ira acceso

Crollò l’immensa terra insieme, e l’onda,

Sì che di Cafareo gli scogli alpestri

Cadero al basso ruinosi, e i lidi

Orribilmente rimbombar percossi

Dall’onde, chè del re gran si avea l’ira.

Quindi il gran sasso, che afferrar con mano

Colui chiedea, divelse, e dentro all’acque

Del mar sommerse: e intanto a lui, che lungo

Tempo s’era affannato a’ scogli intorno,

Lacere eran le mani, e fuor dall’unghie

Stillava il sangue, e non cessava l’onda

Di’ fremer lui d’intorno, e molta spuma

Gl’imbiancò il capo, e le lanose gote:

E campato saria dal Fato reo,

Se la terra, spezzato un alto monte,

Alzando Palla, non gittava addosso

A lui, siccome allor, che già l’intera 

Isola di Sicilia incontro al vasto

Encelado lanciò, ch’arde mai sempre,

Mentre a lei sotto il gran gigante invitto

Fiato spira dall’imo, atro, e rovente.

In cotal guisa dunque il re de’ Locri

Misero ella coperse, un’alta cima

Cader facendo sovra lui d’un monte,

Onde aggravato il coraggioso eroe,

Fu dalla negra morte alfine oppresso

E nella terra, e nell’ondoso mare.

Degli altri Argivi alcun per l’onde vaste

Gìasene a nuoto, ed altri entro le navi

Stupidi a giaceano: altri caduti

Eran de’ legni fuori: e tutti oppressi

Da gravissimo danno. E delle navi

Altre gìan per lo mar pendenti, e chine:

Altre avean la carina in su rivolta:

Ad altre avea le vele il vento fiero

Dell’antenne squarciato all’alte corna:

Ad alcun’altra i legni avea disgiunti

La rapida procella: alcuna in fondo

Sen già sommersa dalla folta immensa 

Pioggia cadente, poiché non poteo

L’impeto sostenere, onde congiura

Fatto avea il mare, il vento, e l’acqua insieme,

Che discendea da Giove; perché l’aria

Senza tregua cadea di fiume in guisa,

E fremea il mar commosso infin dal fondo.

Onde alcun fu, che disse: Un tal, mi credo,

Verno il mondo sommerse, allor che vivo

Era Deucalion, quando infinita

Copia cadeo di pioggia, e mar divenne

La terra tutta, e il pelago profondo

Si diffuse sgorgando in ogni parte.

Così disse alcun Greco entro a se stesso

Stupito all’aspro, e procelloso verno,

Ove molti periro. Il largo flutto

Era di morti colmo, e tutti i lidi

Eran coperti a mucchio, perché molti

N’avea rispinti il pelago alla terra:

Da’ legni delle navi era Amfitrite

Sonante ingombra largamente, e in mezzo

Fra lor scopriasi l’onda. In guisa tale

Sorda per vie diverse il crudo Fato:

Altri nel mezzo al tempestoso mare

La vita lor lasciaro: altri le navi

Rompendo all’aspre, e disconnesse pietre

Miseramente si morir per l’arte

Di Nauplio, il qual terribilmente irato

Per cagion del suo figlio il mar vedendo

Da tempesta agitato, e in lui morirsi

Gli Achei, benché dolente, alto diletto

Sentia però, poiché gli avea Fortuna

Donato il vendicarsi; onde mirando

Entro all’acque perir lo stuolo avverso,

Al ciel preghi porgea, che tutti insieme

Gisser sommersi con le navi al fondo,

Avendo in guisa tal lui padre offeso.

Agli altri Argivi intanto or facea guerra

Nettuno impetuoso, ed altri seco

Del pelago rapian torbide l’onde.

Quand’ecco in alto sollevò la face

Ardente Nauplio, ed ingannò gli Achei,

Mentre pensando di trovar sicuro

Porto, e riposo alle taglienti pieche

Si dissiparo, e fracassar le navi:

E quel che rendea il mal viepiù crudele

Era l’avere in tenebrosa notte

Fatto naufragio alle spietate pietre.

Pochi scampar da morte, a cui salute

Favorevoli dier Fortuna, e Giove.

Minerva intanto s’allegrava parte,

Parte anco si dolea mercé del saggio

Ulisse, che devea dal minaccioso

Nettuno molte sostener ruine,

Il qual di sdegno incontro al muro acceso,

Ed alle torri, che i robusti Argivi

Scampo avean fatto a’ perigliosi assalti,

Tumido rese in un balen quel mare,

Che dall’Eussin nell’Ellesponto cade,

E lo spinse a inondar le Teucre spiaggie.

Piovea Giove dal ciel; di far bramando,

Cosa, che fosse al gran Nettuno a grado.

Né senza faticar stavasi ancora

Il sagittario Apollo, anzi da’ monti

Idei giù radunando in un sol luogo

I rivi, i fiumi, ricopriva d’onde

De’ Greci l’opra. E non lasciava il mare,

Che risuonanti, e rapidi i torrenti

Dalla pioggia di Giove orribilmente

Colmi, sgravasser se nell’onda oscura

D’Amfitrite sonante, anziché tutto

Crudelmente distrutto, e posto in terra

Fosse da lor l’Argolico riparo.

Dall’ime parti indi la terra aperse

Nettuno, e sgorgar fece immensa copia

D’arena, e d’onda, e di palustre limo:

Con molta violenza indi Sigeo

Crollò, talché gran suon ne diero i lidi,

E si scosse Dardania infin dal fondo:

Quinci abissossi, e in un momento sparve

L’ampio de’ Greci, e spazioso giro,

Nel baratro n’andò dentro la terra,

Che per lui divorar largo si aperse:

Talché partendo il mare, e i risuonanti

Fiumi dal lido, sol l’arena apparve.

Tanto dunque oprò qui la fera voglia

De’ Numi irati, E quegli Argivi intanto,

Che avea dispersi il tempestoso verno,

Del mar fuggita l’orrida procella,

Gìan navigando, ed arrivò ciascuno

Di loro ove guidarlo a Giove piacque.

Cantò Quinto sull’Ermo in Greci versi

Le Trojane battaglie al Greco stuolo;

Quinci dopo mill’anni in sul Metauro

All’Italiche genti in Tosche note

Colui le fece udir, che sparsa appena

De’ primi fior la giovanetta guancia

Primier cantò con le marine Muse:

Come industre nocchier quel legno formi,

Che de’ guidar per non segnate vie.